Re: Non è cosa vostra
Inviato: 16/10/2013, 19:55
il Fatto 16.10.13
Così i Saggi costituenti pilotavano i concorsi
La “rete criminale” dei professoroni
di Antonio Massari
Le carte dell’indagine di Bari sulle manovre per favorire amici e parenti in università. Barbera sponsorizza Pizzetti, De Vergottini segnala due “protette”. Pressioni a favore della Bernini (Pdl), ma poi il concorso salta
Poco importa che quel concorso, che vedeva favoriti la senatrice Anna Maria Bernini e Federico Pizzetti, figlio dell’ex garante della privacy, si sia concluso con un nulla di fatto. Vedremo perché. Quel che importa è conoscere le pressioni, gli scambi, il sistema che ha pervaso un concorso universitario nel 2010, con la riforma Gelmini in vigore. Ed è ancora più importante scoprire che, a esercitare queste pressioni, queste “pesanti interferenze”, siano stati anche due autorevoli giuristi: Augusto Barbera e Giuseppe de Vergottini, tre anni dopo assurti al rango di saggi, su nomina del premier Enrico Letta e benedizione del presidente Napolitano. A Barbera e De Vergottini è stato affidato il compito di riformare la nostra Costituzione. Sono gli stessi che tartassavano di telefonate il commissario Silvio Gambino. Il futuro saggio Augusto Barbera, definito negli atti “sponsor” di Pizzetti, chiede a Gambino: “Per (l’università, ndr) Europea c’è il ragazzo che m’interessa? ”. “Sì”, gli risponde Gambino, “è un ragazzo molto preparato”. De Vergottini invece contatta Gambino per chiedergli se, sempre all’Europea, il professor Giuseppe Ferrari intenda agevolare due candidate milanesi. Poi chiama lo stesso Ferrari e anch’egli s’informa su Pizzetti.
La “rete criminale” dei professoroni
Il sistema della cooptazione non è certo una novità. Ma lo scenario disegnato dall’inchiesta “do ut des”, condotta dal pm barese Renato Nitti in collaborazione con la Guardia di finanza, supera le peggiori fantasie: tradimenti, scambi, pressioni. La preoccupazione del sistema – secondo gli investigatori – non è garantire un futuro alla ricerca scientifica ma reclutare “burattini” che, nei futuri concorsi, asseconderanno gli interessi dei baroni. Non manca nulla: neanche il “testamento” orale di Giorgio Lombardi, professore di Diritto pubblico comparato all’Università di Torino, scomparso tre anni fa e drammaticamente raccolto nelle intercettazioni. L’inchiesta riguarda gli esami di prima e seconda fascia nei rami di Diritto costituzionale, pubblico comparato, canonico ed ecclesiastico: l’esito finale – è l’accusa – non ha avuto nulla a che vedere con il merito. Gli inquirenti parlano di una “rete criminale”, che coinvolge alcuni tra i docenti più autorevoli, e mira a far prevalere la logica del “favore” su quella del “merito” e della “giustizia”. Barbera e De Vergottini, insieme con altri tre saggi – Beniamino Caravita di Toritto, Carmela Salazar e Lorenza Violini – e 35 professori ordinari sono stati denunciati dalla Guardia di finanza: accuse che, a vario titolo, spaziano dall’associazione per delinquere alla corruzione, dal falso alla truffa aggravata. La riforma Gelmini, con il sorteggio dei commissari, doveva eliminare le “raccomandazioni” ma il “sistema” si attrezza immediatamente per neutralizzarla: orienta la formazione della rosa, affinché siano sorteggiati commissari “arrendevoli”. Quella rosa, secondo l’accusa, non s’è trasformata nella “libera elezione” di “giudici” che devono valutare il candidato “più meritevole”. E per chi non s’adeguava c’erano minacce e intimidazioni. Il sorteggio delle commissioni giudicatrici avviene nel gennaio 2010. E subito parte la sfida tra i due rivali del diritto pubblico comparato: Lombardi e Giuseppe Franco Ferrari.
Il testamento del “capo di tutti”
“È il decano, è il capo di tutti”: così viene ricordato in un’intercettazione Giorgio Lombardi, morto da pochi giorni, nel maggio 2010. Pochi mesi prima, al telefono, sostiene: la riforma Gelmini ha delle norme complicate che però non daranno troppo fastidio. E con Ferrari – collega alla Bocconi di Milano – ingaggia la corsa per recuperare i voti dei docenti che, di lì a poco, avrebbero formato la rosa dei sorteggiabili. Ferrari si rivolge al collega Pier Giuseppe Monateri, che può agire sugli eleggibili del gruppo di diritto privato comparato. E nell’estate 2009 Monateri gli invia una lista di 20 nomi affidabili. Una seconda mail elenca i probabili vincitori di concorso: 8 su 11 ce la faranno. E quindi: più voti ci si accaparra, nella rosa del sorteggio, più è possibile manipolare le future maggioranze nelle commissioni. Gli altri professori intercettati commentano: Ferrari ha vinto le elezioni ma Lombardi è in maggioranza nei concorsi che gl’interessano e, in fondo, è lui che ha vinto l’estrazione. De Vergottini dopo il sorteggio parla di “tragedia”: hanno vinto i lombardiani. C’è chi sostiene: a Lombardi basta scrivere su un foglietto i suoi nomi e la partita è già vinta a tavolino. Ma l’obiettivo di Lombardi qual è? Eccolo: Anna Maria Bernini e Federico Gustavo Pizzetti devono diventare professori di Diritto pubblico comparato. La prima, professoressa associata di Diritto pubblico comparato a Bologna, in quel periodo era parlamentare del Pdl e ministro del governo Berlusconi. Il secondo è figlio di Francesco Pizzetti, ordinario di Diritto costituzionale a Torino, all’epoca dei fatti presidente dell’Autorità garante per la privacy. Per l’accusa, la Bernini, in passato aveva aiutato il figlio di Lombardi per la sua carriera diplomatica e gli aveva anche promesso un sostegno per l’eventuale elezione a giudice costituzionale. A maggio si consuma il dramma personale di Lombardi che, ammalato, è sul punto di morire: dieci giorni prima di spirare, parla al telefono con il collega Luca Mezzetti, al quale dice parole che suonano come una sorta di testamento.
Le promesse dell’ex garante per la carriera del figlio
“Ora sei tu il padrone”, gli dice, consapevole che dovrà abbandonare l’impegno per il concorso. E gli affida Bernini e Pizzetti, pregando Mezzetti di non affossare le candidature, spiegandogli che può contare sui commissari Gambino, Ganino e Giovanni Cordini. Lo invita alla prudenza con il rivale Ferrari. Dieci giorni dopo Lombardi muore. E in poche ore si consuma il tradimento: Mezzetti contatta Ferrari parlandogli di “interessi comuni”. Nell’estate 2010 gli investigatori si concentrano sul concorso che riguarda Pizzetti e Bernini, nell’Università cattolica romana dei Legionari di Cristo, e si convincono che il rettore, padre Paolo Scarafoni, al centro delle indagini, è consapevole degli illeciti. Lombardi lascia il ruolo di commissario a Mezzetti, che a sua volta lo cede a Ferrari, anche lui dimissionario. Il concorso finisce nel nulla: ma gli investigatori, dalle intercettazioni, apprendono delle pressioni di Pizzetti senior che, in cambio della nomina di suo figlio, s’impegna a premere sui colleghi torinesi, commissari nell’Università Roma Tre, per favorire un’allieva di Ferrari.
l’Unità 16.10.13
Modifiche funzionali per salvare la Costituzione
di Marco Olivetti
«Al procedere delle riforme io ho legato il mio impegno all’atto di una non ricercata rielezione a presidente. Impegno che porterò avanti finché sarò in grado di reggerlo e a quel fine». Queste parole pronunciate ieri dal presidente della Repubblica hanno ricordato la necessità che siano realizzate, fra l’altro, le riforme «politiche e istituzionali da tempo riconosciute necessarie», le quali includono la riforma elettorale e la revisione della seconda parte della Costituzione. Esse, ovviamente, sollevano un interrogativo: può il «tutore della Costituzione» pronunciarsi in favore delle riforme costituzionali?
A questa domanda è possibile rispondere non solo ricordando che la stessa Costituzione prevede la possibilità della sua riforma e che i Padri costituenti non aspiravano certo a produrre un testo immodificabile e sottratto al decorso del tempo. Ma occorre soprattutto muovere da una distinzione di fondo fra la Costituzione cui Giorgio Napolitano ha giurato fedeltà e di cui è il garante e le singole disposizioni costituzionali che la compongono.
Certo, ciascuna di queste è valida ed efficace sino a quando non venga modificata, ma il presidente non ha ovviamente prestato giuramento di fedeltà a ciascun meccanismo previsto dalla Costituzione del 1947 nel senso di impegnarsi a difenderlo da qualsiasi revisione. La Costituzione cui Napolitano ha prestato giuramento è l’insieme delle scelte fondamentali compiute nel 1947, le quali come ha sostenuto Valerio Onida hanno collocato l’Italia nell’alveo della tradizione costituzionale occidentale e conservano piena validità anche oggi. Esse non riguardano solo la prima parte della Costituzione (che talora si tende superficialmente a ritenere immodificabile, magari pensando che della seconda si possa invece disporre a piacimento), ma coinvolgono la scelta per una democrazia rappresentativa di tipo europeo, al tempo stesso funzionale e limitata. È proprio l’esigenza di garantire la funzionalità della Costituzione che ne impone oggi la riforma.
Per spiegare come conservatorismo e riformismo in materia costituzionale debbano andare assieme, si può forse ricorrere a una breve periodizzazione della storia costituzionale post-bellica. Dal 1948 all’inizio degli anni 90 la Costituzione è stata la base della Repubblica dei partiti che l’aveva prodotta: certo, dalla fine degli anni 70 erano iniziati i primi dibattiti sulle riforme, ma, a par-
te i progetti socialisti di una «grande riforma» e le velleità delle forze tradizionalmente anticostituzionali, il consenso sulla Costituzione rimaneva solido. La riforma era ipotizzata come qualcosa che doveva avvenire dentro lo spirito della legge fondamentale, come fisiologicamente accade negli Stati contemporanei.
Tutto ciò è radicalmente cambiato dopo la crisi della Repubblica dei partiti. Il punto di partenza di questa seconda stagione di vera e propria messa in discussione della Costituzione, non di singole disposizioni di essa è stata la dichiarazione con cui, all’indomani della vittoria elettorale del 1994, Berlusconi, Fini e Bossi si schierarono in favore di una Seconda Repubblica, caratterizzata dal binomio fra presidenzialismo e federalismo. Si è così aperta una battaglia sull’essenza stessa della Costituzione del 1947, che andava ben al di là della distinzione fra prima e seconda parte. È allora iniziata la lotta a difesa della Costituzione inaugurata da Giuseppe Dossetti, che condusse su questo tema la sua ultima battaglia politica. Questa stagione ha attraversato gli anni 90 e buona parte del decennio seguente ed è culminata nella riforma approvata in solitudine dal centrodestra nel 2005. Ma tale progetto che aveva il significato di una nuova Costituzione dei vincitori, che avrebbe rovesciato il senso della decisione costituente del 1947 venne sconfitto nel referendum costituzionale del 25 e 26 giugno 2006.
Da allora, anche se ciò non è parso subito chiaro, si è aperta una nuova fase, che ha riportato il dibattito sulle riforme all’interno della Costituzione. Non è un caso che il centrodestra non abbia più tentato una riforma unilaterale e che si siano delineati, negli scorsi anni, vari tentativi di aggiornamento della Costituzione, concordati dai due principali schieramenti politici: il più importante di essi è stato la bozza Violante della XV legislatura, nella quale si è delineato il minimo comune denominatore delle esigenze di aggiornamento (in materia di bicameralismo, forma di governo, sistema delle autonomie) su cui vi è un consenso relativamente ampio fra gli studiosi e almeno a parole nella classe politica.
Il pericoloso stallo istituzionale con cui si è aperta l’attuale legislatura ha ricordato ancora una volta che esiste una questione costituzionale aperta. Ma essa si colloca oltre la stagione che vedeva contrapposti conservatori e innovatori radicali. Oggi essere conservatori dal punto di vista costituzionale significa essere favorevoli ad un incisivo programma di riforme che restituiscano funzionalità alla Carta del 1947, anche intervenendo sulla legislazione ad essa immediatamente connessa (come il sistema elettorale). È per questo che il ruolo del custode della Costituzione è cambiato: abbiamo oggi un presidente eletto anche in relazione a un programma di riforme costituzionali e un governo che ha ottenuto su questo tema la fiducia parlamentare. Perché solo in quel modo è possibile «salvare la Costituzione», cioè perseguire l’obiettivo su cui si svolsero la battaglia di Dossetti e il referendum costituzionale del 2006.
Corriere 16.10.13
La bandiera della Costituzione e il ruolo di Togliatti
Macaluso: la nostra Carta fu essenzialmente opera dei «socialcomunisti» e della Dc
di Emanuele Macaluso
Partito rivoluzionario o forza istituzionale orientata al riformismo? Cosa è stato il Pci? In Comunisti e riformisti Macaluso riflette sulle diverse anime della sinistra italiana: la «doppiezza di Togliatti» coincideva con una strategia politica, rimasta viva fino a Berlinguer e rimossa nell’89. Qui uno stralcio del libro.
In questi anni tutte le forze della sinistra europea hanno rivisto i loro programmi, adeguandoli ai mutamenti verificatisi nel capitalismo globale. Soprattutto dopo il crollo dell’Urss e i processi di mondializzazione di cui tanto si è parlato. Sappiamo che questa ricerca ha conosciuto successi e sconfitte. Solo in Italia non c’è stato uno sforzo politico-culturale e organizzativo per ridefinire il ruolo che storicamente ha sempre avuto la sinistra. Senza dubbio occorreva un serio impegno d’innovazione, comprese delle cesure, rispetto a quella storia, segnata anche dalla presenza del Pci di Togliatti, ma non la si doveva certo cancellare, come invece è accaduto. Il grande e antico albero del socialismo italiano poteva dare ancora frutti. Altro che quercia!
Nel maggio 2010, è uscito per Donzelli un libro interessante, ricco di spunti, riflessioni, e documentazioni, scritto da Enrico Morando, Riformisti e comunisti? , in cui racconta una storia dei «miglioristi» nel Pci, nel Pds, nei Ds e nel Pd. Fra tante cose questo libro contiene una critica di «continuismo» e di «richiamo alla tradizione» verso i più anziani esponenti dell’area riformista: Bufalini (in modo particolare), Napolitano, Macaluso, Chiaromonte. [...] Almeno a mio avviso, una delle ragioni per cui la sinistra, dopo il 1989, non ha avuto più identità è proprio il fatto che questa è stata ricercata nella più «netta discontinuità». Morando critica una mia valutazione frutto di una mia ferma convinzione, quando dopo la Bolognina affermai che occorreva «recuperare il nucleo vitale della nostra storia» in un partito che poteva e doveva fare propria la storia e tradizione socialista, con tutto ciò che di positivo e di negativo, di successi e di sconfitte, essa ha espresso in Italia e in Europa.
Può darsi anche che quel giudizio fosse sbagliato e comunque non realistico dato che le cose a sinistra sono andate in tutt’altra direzione. Su questo ho scritto molto e non mi ripeto. Dico solo che queste pagine dedicate all’opera di Togliatti non sono frutto di nostalgie o di «continuismo», ma del convincimento che nella storia della sinistra italiana c’è anche questa. So bene che capire ciò che è vivo e ciò che è morto, per l’oggi e per il futuro, e metterlo in evidenza è opera difficile e rischiosa proprio perché sembra che si stia con la testa rivolta al passato e non al futuro. E più facile azzerare tutto. A questo proposito Morando cita una frase di Vittorio Foa: «Si guarda al futuro pensando al presente e guardando al passato, come una mera ripetizione di cose vissute. Nei dirigenti della nostra sinistra [...] manca tuttavia l’idea che il futuro è un’altra cosa, che va guardato con altri occhi, con una testa nuova». Ma attenzione alla «testa nuova». A volte quelle teste pensano al nuovo, anzi al nuovissimo e trovano il vecchio, anzi, il vecchissimo. Il futuro è un’altra cosa, dice giustamente Foa, ma per individuarlo e capirlo servono anche il presente e il passato.
Tanti anni fa Gerardo Chiaromonte partecipò a un congresso dell’Spd. Al suo ritorno gli chiesi notizie sui lavori. Gerardo mi rispose che quel che più d’ogni altra cosa l’aveva colpito era l’addobbo della sala in cui si svolgeva il congresso. Tanti drappi rossi con tante foto: Marx ed Engels, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, Kautsky, Bernstein e altri. Un partito che da tempo aveva fatto la grande svolta di Bad Godesberg non cancellava il suo passato e il suo a volte drammatico cammino.
Un’ultima nota. Nei giorni in cui scrivo, da più parti si fa riferimento alla Costituzione sulla quale in mo¬menti particolarmente difficili ha fondato il proprio agire il presidente della Repubblica. La «più bella del mondo», l’ha definita Roberto Benigni [...]. Un giudizio condiviso dai più valenti costituzionalisti e studiosi di diritto, come dagli uomini politici che hanno servito il nostro Paese.
La Costituzione in passato ha rappresentato per tanti italiani il terreno su cui condurre la battaglia democratica per avanzare lungo la via italiana al socialismo. Quella prospettiva sembra oggi solo una vecchia illusione ideologica. In parte è così. Tuttavia lo scontro sociale, politico e culturale sui temi che costituiscono l’ossatura della Costituzione è più che attuale. Oggi come allora, essa è la barriera per difendere democrazia e diritti, il riferimento imprescindibile per mantenere l’unità e la coesione nazionale, anche se appare ormai necessario adeguarne alcuni articoli concernenti il funzionamento delle istituzioni.
Osservo che alcuni che ne hanno fatto la loro bandiera — penso a Libertà e Giustizia, l’associazione presieduta dal professor Zagrebelsky — hanno come riferimento il vecchio Partito d’Azione. Senza dubbio una forza di grande rilievo nell’antifascismo, nella Resistenza e nell’immediato dopoguerra. Un partito in cui militarono personalità di valore, combattenti di tante battaglie politiche e morali. Tuttavia la Costituzione fu essenzialmente opera dei «socialcomunisti» e della Dc. Togliatti svolse un ruolo determinante.
Ribadisco. Tutti i movimenti e tutti gli uomini che dettero un contributo sostanziale nel creare le condizioni per fare dell’Italia una Repubblica democratica e dotarla di questa Costituzione debbono essere ricordati come meritano e possono stare nel Pantheon di ogni forza che abbia la Carta nel proprio Dna. Fra questi, piaccia o meno, c’è il Partito comunista italiano e c’è Palmiro Togliatti.
Un proverbio cinese dice: «Chi prende l’acqua da un pozzo non dovrebbe dimenticare chi l’ha scavato».
Così i Saggi costituenti pilotavano i concorsi
La “rete criminale” dei professoroni
di Antonio Massari
Le carte dell’indagine di Bari sulle manovre per favorire amici e parenti in università. Barbera sponsorizza Pizzetti, De Vergottini segnala due “protette”. Pressioni a favore della Bernini (Pdl), ma poi il concorso salta
Poco importa che quel concorso, che vedeva favoriti la senatrice Anna Maria Bernini e Federico Pizzetti, figlio dell’ex garante della privacy, si sia concluso con un nulla di fatto. Vedremo perché. Quel che importa è conoscere le pressioni, gli scambi, il sistema che ha pervaso un concorso universitario nel 2010, con la riforma Gelmini in vigore. Ed è ancora più importante scoprire che, a esercitare queste pressioni, queste “pesanti interferenze”, siano stati anche due autorevoli giuristi: Augusto Barbera e Giuseppe de Vergottini, tre anni dopo assurti al rango di saggi, su nomina del premier Enrico Letta e benedizione del presidente Napolitano. A Barbera e De Vergottini è stato affidato il compito di riformare la nostra Costituzione. Sono gli stessi che tartassavano di telefonate il commissario Silvio Gambino. Il futuro saggio Augusto Barbera, definito negli atti “sponsor” di Pizzetti, chiede a Gambino: “Per (l’università, ndr) Europea c’è il ragazzo che m’interessa? ”. “Sì”, gli risponde Gambino, “è un ragazzo molto preparato”. De Vergottini invece contatta Gambino per chiedergli se, sempre all’Europea, il professor Giuseppe Ferrari intenda agevolare due candidate milanesi. Poi chiama lo stesso Ferrari e anch’egli s’informa su Pizzetti.
La “rete criminale” dei professoroni
Il sistema della cooptazione non è certo una novità. Ma lo scenario disegnato dall’inchiesta “do ut des”, condotta dal pm barese Renato Nitti in collaborazione con la Guardia di finanza, supera le peggiori fantasie: tradimenti, scambi, pressioni. La preoccupazione del sistema – secondo gli investigatori – non è garantire un futuro alla ricerca scientifica ma reclutare “burattini” che, nei futuri concorsi, asseconderanno gli interessi dei baroni. Non manca nulla: neanche il “testamento” orale di Giorgio Lombardi, professore di Diritto pubblico comparato all’Università di Torino, scomparso tre anni fa e drammaticamente raccolto nelle intercettazioni. L’inchiesta riguarda gli esami di prima e seconda fascia nei rami di Diritto costituzionale, pubblico comparato, canonico ed ecclesiastico: l’esito finale – è l’accusa – non ha avuto nulla a che vedere con il merito. Gli inquirenti parlano di una “rete criminale”, che coinvolge alcuni tra i docenti più autorevoli, e mira a far prevalere la logica del “favore” su quella del “merito” e della “giustizia”. Barbera e De Vergottini, insieme con altri tre saggi – Beniamino Caravita di Toritto, Carmela Salazar e Lorenza Violini – e 35 professori ordinari sono stati denunciati dalla Guardia di finanza: accuse che, a vario titolo, spaziano dall’associazione per delinquere alla corruzione, dal falso alla truffa aggravata. La riforma Gelmini, con il sorteggio dei commissari, doveva eliminare le “raccomandazioni” ma il “sistema” si attrezza immediatamente per neutralizzarla: orienta la formazione della rosa, affinché siano sorteggiati commissari “arrendevoli”. Quella rosa, secondo l’accusa, non s’è trasformata nella “libera elezione” di “giudici” che devono valutare il candidato “più meritevole”. E per chi non s’adeguava c’erano minacce e intimidazioni. Il sorteggio delle commissioni giudicatrici avviene nel gennaio 2010. E subito parte la sfida tra i due rivali del diritto pubblico comparato: Lombardi e Giuseppe Franco Ferrari.
Il testamento del “capo di tutti”
“È il decano, è il capo di tutti”: così viene ricordato in un’intercettazione Giorgio Lombardi, morto da pochi giorni, nel maggio 2010. Pochi mesi prima, al telefono, sostiene: la riforma Gelmini ha delle norme complicate che però non daranno troppo fastidio. E con Ferrari – collega alla Bocconi di Milano – ingaggia la corsa per recuperare i voti dei docenti che, di lì a poco, avrebbero formato la rosa dei sorteggiabili. Ferrari si rivolge al collega Pier Giuseppe Monateri, che può agire sugli eleggibili del gruppo di diritto privato comparato. E nell’estate 2009 Monateri gli invia una lista di 20 nomi affidabili. Una seconda mail elenca i probabili vincitori di concorso: 8 su 11 ce la faranno. E quindi: più voti ci si accaparra, nella rosa del sorteggio, più è possibile manipolare le future maggioranze nelle commissioni. Gli altri professori intercettati commentano: Ferrari ha vinto le elezioni ma Lombardi è in maggioranza nei concorsi che gl’interessano e, in fondo, è lui che ha vinto l’estrazione. De Vergottini dopo il sorteggio parla di “tragedia”: hanno vinto i lombardiani. C’è chi sostiene: a Lombardi basta scrivere su un foglietto i suoi nomi e la partita è già vinta a tavolino. Ma l’obiettivo di Lombardi qual è? Eccolo: Anna Maria Bernini e Federico Gustavo Pizzetti devono diventare professori di Diritto pubblico comparato. La prima, professoressa associata di Diritto pubblico comparato a Bologna, in quel periodo era parlamentare del Pdl e ministro del governo Berlusconi. Il secondo è figlio di Francesco Pizzetti, ordinario di Diritto costituzionale a Torino, all’epoca dei fatti presidente dell’Autorità garante per la privacy. Per l’accusa, la Bernini, in passato aveva aiutato il figlio di Lombardi per la sua carriera diplomatica e gli aveva anche promesso un sostegno per l’eventuale elezione a giudice costituzionale. A maggio si consuma il dramma personale di Lombardi che, ammalato, è sul punto di morire: dieci giorni prima di spirare, parla al telefono con il collega Luca Mezzetti, al quale dice parole che suonano come una sorta di testamento.
Le promesse dell’ex garante per la carriera del figlio
“Ora sei tu il padrone”, gli dice, consapevole che dovrà abbandonare l’impegno per il concorso. E gli affida Bernini e Pizzetti, pregando Mezzetti di non affossare le candidature, spiegandogli che può contare sui commissari Gambino, Ganino e Giovanni Cordini. Lo invita alla prudenza con il rivale Ferrari. Dieci giorni dopo Lombardi muore. E in poche ore si consuma il tradimento: Mezzetti contatta Ferrari parlandogli di “interessi comuni”. Nell’estate 2010 gli investigatori si concentrano sul concorso che riguarda Pizzetti e Bernini, nell’Università cattolica romana dei Legionari di Cristo, e si convincono che il rettore, padre Paolo Scarafoni, al centro delle indagini, è consapevole degli illeciti. Lombardi lascia il ruolo di commissario a Mezzetti, che a sua volta lo cede a Ferrari, anche lui dimissionario. Il concorso finisce nel nulla: ma gli investigatori, dalle intercettazioni, apprendono delle pressioni di Pizzetti senior che, in cambio della nomina di suo figlio, s’impegna a premere sui colleghi torinesi, commissari nell’Università Roma Tre, per favorire un’allieva di Ferrari.
l’Unità 16.10.13
Modifiche funzionali per salvare la Costituzione
di Marco Olivetti
«Al procedere delle riforme io ho legato il mio impegno all’atto di una non ricercata rielezione a presidente. Impegno che porterò avanti finché sarò in grado di reggerlo e a quel fine». Queste parole pronunciate ieri dal presidente della Repubblica hanno ricordato la necessità che siano realizzate, fra l’altro, le riforme «politiche e istituzionali da tempo riconosciute necessarie», le quali includono la riforma elettorale e la revisione della seconda parte della Costituzione. Esse, ovviamente, sollevano un interrogativo: può il «tutore della Costituzione» pronunciarsi in favore delle riforme costituzionali?
A questa domanda è possibile rispondere non solo ricordando che la stessa Costituzione prevede la possibilità della sua riforma e che i Padri costituenti non aspiravano certo a produrre un testo immodificabile e sottratto al decorso del tempo. Ma occorre soprattutto muovere da una distinzione di fondo fra la Costituzione cui Giorgio Napolitano ha giurato fedeltà e di cui è il garante e le singole disposizioni costituzionali che la compongono.
Certo, ciascuna di queste è valida ed efficace sino a quando non venga modificata, ma il presidente non ha ovviamente prestato giuramento di fedeltà a ciascun meccanismo previsto dalla Costituzione del 1947 nel senso di impegnarsi a difenderlo da qualsiasi revisione. La Costituzione cui Napolitano ha prestato giuramento è l’insieme delle scelte fondamentali compiute nel 1947, le quali come ha sostenuto Valerio Onida hanno collocato l’Italia nell’alveo della tradizione costituzionale occidentale e conservano piena validità anche oggi. Esse non riguardano solo la prima parte della Costituzione (che talora si tende superficialmente a ritenere immodificabile, magari pensando che della seconda si possa invece disporre a piacimento), ma coinvolgono la scelta per una democrazia rappresentativa di tipo europeo, al tempo stesso funzionale e limitata. È proprio l’esigenza di garantire la funzionalità della Costituzione che ne impone oggi la riforma.
Per spiegare come conservatorismo e riformismo in materia costituzionale debbano andare assieme, si può forse ricorrere a una breve periodizzazione della storia costituzionale post-bellica. Dal 1948 all’inizio degli anni 90 la Costituzione è stata la base della Repubblica dei partiti che l’aveva prodotta: certo, dalla fine degli anni 70 erano iniziati i primi dibattiti sulle riforme, ma, a par-
te i progetti socialisti di una «grande riforma» e le velleità delle forze tradizionalmente anticostituzionali, il consenso sulla Costituzione rimaneva solido. La riforma era ipotizzata come qualcosa che doveva avvenire dentro lo spirito della legge fondamentale, come fisiologicamente accade negli Stati contemporanei.
Tutto ciò è radicalmente cambiato dopo la crisi della Repubblica dei partiti. Il punto di partenza di questa seconda stagione di vera e propria messa in discussione della Costituzione, non di singole disposizioni di essa è stata la dichiarazione con cui, all’indomani della vittoria elettorale del 1994, Berlusconi, Fini e Bossi si schierarono in favore di una Seconda Repubblica, caratterizzata dal binomio fra presidenzialismo e federalismo. Si è così aperta una battaglia sull’essenza stessa della Costituzione del 1947, che andava ben al di là della distinzione fra prima e seconda parte. È allora iniziata la lotta a difesa della Costituzione inaugurata da Giuseppe Dossetti, che condusse su questo tema la sua ultima battaglia politica. Questa stagione ha attraversato gli anni 90 e buona parte del decennio seguente ed è culminata nella riforma approvata in solitudine dal centrodestra nel 2005. Ma tale progetto che aveva il significato di una nuova Costituzione dei vincitori, che avrebbe rovesciato il senso della decisione costituente del 1947 venne sconfitto nel referendum costituzionale del 25 e 26 giugno 2006.
Da allora, anche se ciò non è parso subito chiaro, si è aperta una nuova fase, che ha riportato il dibattito sulle riforme all’interno della Costituzione. Non è un caso che il centrodestra non abbia più tentato una riforma unilaterale e che si siano delineati, negli scorsi anni, vari tentativi di aggiornamento della Costituzione, concordati dai due principali schieramenti politici: il più importante di essi è stato la bozza Violante della XV legislatura, nella quale si è delineato il minimo comune denominatore delle esigenze di aggiornamento (in materia di bicameralismo, forma di governo, sistema delle autonomie) su cui vi è un consenso relativamente ampio fra gli studiosi e almeno a parole nella classe politica.
Il pericoloso stallo istituzionale con cui si è aperta l’attuale legislatura ha ricordato ancora una volta che esiste una questione costituzionale aperta. Ma essa si colloca oltre la stagione che vedeva contrapposti conservatori e innovatori radicali. Oggi essere conservatori dal punto di vista costituzionale significa essere favorevoli ad un incisivo programma di riforme che restituiscano funzionalità alla Carta del 1947, anche intervenendo sulla legislazione ad essa immediatamente connessa (come il sistema elettorale). È per questo che il ruolo del custode della Costituzione è cambiato: abbiamo oggi un presidente eletto anche in relazione a un programma di riforme costituzionali e un governo che ha ottenuto su questo tema la fiducia parlamentare. Perché solo in quel modo è possibile «salvare la Costituzione», cioè perseguire l’obiettivo su cui si svolsero la battaglia di Dossetti e il referendum costituzionale del 2006.
Corriere 16.10.13
La bandiera della Costituzione e il ruolo di Togliatti
Macaluso: la nostra Carta fu essenzialmente opera dei «socialcomunisti» e della Dc
di Emanuele Macaluso
Partito rivoluzionario o forza istituzionale orientata al riformismo? Cosa è stato il Pci? In Comunisti e riformisti Macaluso riflette sulle diverse anime della sinistra italiana: la «doppiezza di Togliatti» coincideva con una strategia politica, rimasta viva fino a Berlinguer e rimossa nell’89. Qui uno stralcio del libro.
In questi anni tutte le forze della sinistra europea hanno rivisto i loro programmi, adeguandoli ai mutamenti verificatisi nel capitalismo globale. Soprattutto dopo il crollo dell’Urss e i processi di mondializzazione di cui tanto si è parlato. Sappiamo che questa ricerca ha conosciuto successi e sconfitte. Solo in Italia non c’è stato uno sforzo politico-culturale e organizzativo per ridefinire il ruolo che storicamente ha sempre avuto la sinistra. Senza dubbio occorreva un serio impegno d’innovazione, comprese delle cesure, rispetto a quella storia, segnata anche dalla presenza del Pci di Togliatti, ma non la si doveva certo cancellare, come invece è accaduto. Il grande e antico albero del socialismo italiano poteva dare ancora frutti. Altro che quercia!
Nel maggio 2010, è uscito per Donzelli un libro interessante, ricco di spunti, riflessioni, e documentazioni, scritto da Enrico Morando, Riformisti e comunisti? , in cui racconta una storia dei «miglioristi» nel Pci, nel Pds, nei Ds e nel Pd. Fra tante cose questo libro contiene una critica di «continuismo» e di «richiamo alla tradizione» verso i più anziani esponenti dell’area riformista: Bufalini (in modo particolare), Napolitano, Macaluso, Chiaromonte. [...] Almeno a mio avviso, una delle ragioni per cui la sinistra, dopo il 1989, non ha avuto più identità è proprio il fatto che questa è stata ricercata nella più «netta discontinuità». Morando critica una mia valutazione frutto di una mia ferma convinzione, quando dopo la Bolognina affermai che occorreva «recuperare il nucleo vitale della nostra storia» in un partito che poteva e doveva fare propria la storia e tradizione socialista, con tutto ciò che di positivo e di negativo, di successi e di sconfitte, essa ha espresso in Italia e in Europa.
Può darsi anche che quel giudizio fosse sbagliato e comunque non realistico dato che le cose a sinistra sono andate in tutt’altra direzione. Su questo ho scritto molto e non mi ripeto. Dico solo che queste pagine dedicate all’opera di Togliatti non sono frutto di nostalgie o di «continuismo», ma del convincimento che nella storia della sinistra italiana c’è anche questa. So bene che capire ciò che è vivo e ciò che è morto, per l’oggi e per il futuro, e metterlo in evidenza è opera difficile e rischiosa proprio perché sembra che si stia con la testa rivolta al passato e non al futuro. E più facile azzerare tutto. A questo proposito Morando cita una frase di Vittorio Foa: «Si guarda al futuro pensando al presente e guardando al passato, come una mera ripetizione di cose vissute. Nei dirigenti della nostra sinistra [...] manca tuttavia l’idea che il futuro è un’altra cosa, che va guardato con altri occhi, con una testa nuova». Ma attenzione alla «testa nuova». A volte quelle teste pensano al nuovo, anzi al nuovissimo e trovano il vecchio, anzi, il vecchissimo. Il futuro è un’altra cosa, dice giustamente Foa, ma per individuarlo e capirlo servono anche il presente e il passato.
Tanti anni fa Gerardo Chiaromonte partecipò a un congresso dell’Spd. Al suo ritorno gli chiesi notizie sui lavori. Gerardo mi rispose che quel che più d’ogni altra cosa l’aveva colpito era l’addobbo della sala in cui si svolgeva il congresso. Tanti drappi rossi con tante foto: Marx ed Engels, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, Kautsky, Bernstein e altri. Un partito che da tempo aveva fatto la grande svolta di Bad Godesberg non cancellava il suo passato e il suo a volte drammatico cammino.
Un’ultima nota. Nei giorni in cui scrivo, da più parti si fa riferimento alla Costituzione sulla quale in mo¬menti particolarmente difficili ha fondato il proprio agire il presidente della Repubblica. La «più bella del mondo», l’ha definita Roberto Benigni [...]. Un giudizio condiviso dai più valenti costituzionalisti e studiosi di diritto, come dagli uomini politici che hanno servito il nostro Paese.
La Costituzione in passato ha rappresentato per tanti italiani il terreno su cui condurre la battaglia democratica per avanzare lungo la via italiana al socialismo. Quella prospettiva sembra oggi solo una vecchia illusione ideologica. In parte è così. Tuttavia lo scontro sociale, politico e culturale sui temi che costituiscono l’ossatura della Costituzione è più che attuale. Oggi come allora, essa è la barriera per difendere democrazia e diritti, il riferimento imprescindibile per mantenere l’unità e la coesione nazionale, anche se appare ormai necessario adeguarne alcuni articoli concernenti il funzionamento delle istituzioni.
Osservo che alcuni che ne hanno fatto la loro bandiera — penso a Libertà e Giustizia, l’associazione presieduta dal professor Zagrebelsky — hanno come riferimento il vecchio Partito d’Azione. Senza dubbio una forza di grande rilievo nell’antifascismo, nella Resistenza e nell’immediato dopoguerra. Un partito in cui militarono personalità di valore, combattenti di tante battaglie politiche e morali. Tuttavia la Costituzione fu essenzialmente opera dei «socialcomunisti» e della Dc. Togliatti svolse un ruolo determinante.
Ribadisco. Tutti i movimenti e tutti gli uomini che dettero un contributo sostanziale nel creare le condizioni per fare dell’Italia una Repubblica democratica e dotarla di questa Costituzione debbono essere ricordati come meritano e possono stare nel Pantheon di ogni forza che abbia la Carta nel proprio Dna. Fra questi, piaccia o meno, c’è il Partito comunista italiano e c’è Palmiro Togliatti.
Un proverbio cinese dice: «Chi prende l’acqua da un pozzo non dovrebbe dimenticare chi l’ha scavato».