La Terza Guerra Mondiale
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
Gli occhi della guerra
Libia, la guerra segreta di Hollande
Feb 24, 2016
Punti di vista Marco Vassallo
“Agire con discrezione”: sembra essere questa la politica francese sul fronte libico. Dichiarazione riportate su Le Monde e fatte da un alto responsabile della Difesa francese.
Solo pochi giorni l’intelligence americana ha reso noto il pericolo che la Libia possa diventare una nuova base fissa per lo Stato Islamico. Ora dalla Francia arriva la notizia di operazioni segrete proprio in quello che è stato per anni il territorio di Muammar Gheddafi. E pare proprio che quella “struttura” che l’Isis starebbe plasmando con l’aiuto di giovani jihadisti africani sia l’obiettivo dell’esercito francese. Non si vuole vincere una guerra, si vuole eliminare il rischio di una più profonda radicalizzazione dei tagliagole. E come? Sicuramente, come conferma una fonte de Le Monde, “evitando qualsiasi impegno di tipo militare aperto”.
Attacchi mirati, precisi e soprattutto segreti condotti, sempre secondo le fonti de Le Monde, dal Servizio d’azione della direzione generale per la sicurezza esterna (Dgse). Alle azioni militari prendono parte sia militari in divisa e quindi di tipo convenzionale e dichiarato, e una parte formata da quelli che vengono chiamati “precursori” che rimangono in incognito. Le missioni sono portate avanti nella più completa segretezza e spesso le informazioni vengono passata agli alleati.
Un esempio di queste operazioni degli 007 francesi è l’uccisione a Sabrata per mano dell’Air Force statunitense del terrorista tunisino Noureddine Chouchane, considerato membro più anziano dell’Isis sul territorio libico. Operazione simile a quella che nel novembre 2015 ha portato alla morte di Abou Nabil, jihadista iracheno. In entrambi i casi, pare abbiamo agito gli agenti segreti francesi, che opererebbero in stretta cooperazione tra i servizi americani, britannici e francesi. A rivelarlo al quotidiano francese sono degli analisti esterni che affermano che la Dgse è tanto mobilitata in Siria quanto lo è in Libia.
L’importanza e l’impiego di questo servizio d’azione all’interno della guerra contro l’Isis è sottolineato dall’estensione del ruolo del capo della Dgse, il diplomatico Bernard Bajolet. Francois Hollande ha prolungato il mandato fino al 2017, oltre il limite di età, sperando di costruire un “piano strategico” per il futuro. Una mossa che comporta anche un forte aumento del personale (850 assunzioni entro il 2019 per raggiungere 7 000 persone), partnership con gli alleati e l’aumento dell’intelligence.
Le voci su una guerra segreta in Libia rimbalzano sui media mondiali e così il ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian ha lanciato un’indagine per compromissione di segreto militare, dopo la pubblicazione dell’articolo de Le Monde. Questa sarà condotta dalla Direzione per la Protezione e Sicurezza della Difesa (DPSD), un organo del Ministero. L’entourage di Jean-Yves Le Drian non ha commentato la pubblicazione, ma ha comunque rilasciato un comunicato in cui si legge “quando operazioni segrete hanno luogo, l’obiettivo è quello che di tutelare la sicurezza delle persone e dell’operazione”.
http://www.occhidellaguerra.it/la-guerr ... -in-libia/
Gli occhi della guerra
Libia, la guerra segreta di Hollande
Feb 24, 2016
Punti di vista Marco Vassallo
“Agire con discrezione”: sembra essere questa la politica francese sul fronte libico. Dichiarazione riportate su Le Monde e fatte da un alto responsabile della Difesa francese.
Solo pochi giorni l’intelligence americana ha reso noto il pericolo che la Libia possa diventare una nuova base fissa per lo Stato Islamico. Ora dalla Francia arriva la notizia di operazioni segrete proprio in quello che è stato per anni il territorio di Muammar Gheddafi. E pare proprio che quella “struttura” che l’Isis starebbe plasmando con l’aiuto di giovani jihadisti africani sia l’obiettivo dell’esercito francese. Non si vuole vincere una guerra, si vuole eliminare il rischio di una più profonda radicalizzazione dei tagliagole. E come? Sicuramente, come conferma una fonte de Le Monde, “evitando qualsiasi impegno di tipo militare aperto”.
Attacchi mirati, precisi e soprattutto segreti condotti, sempre secondo le fonti de Le Monde, dal Servizio d’azione della direzione generale per la sicurezza esterna (Dgse). Alle azioni militari prendono parte sia militari in divisa e quindi di tipo convenzionale e dichiarato, e una parte formata da quelli che vengono chiamati “precursori” che rimangono in incognito. Le missioni sono portate avanti nella più completa segretezza e spesso le informazioni vengono passata agli alleati.
Un esempio di queste operazioni degli 007 francesi è l’uccisione a Sabrata per mano dell’Air Force statunitense del terrorista tunisino Noureddine Chouchane, considerato membro più anziano dell’Isis sul territorio libico. Operazione simile a quella che nel novembre 2015 ha portato alla morte di Abou Nabil, jihadista iracheno. In entrambi i casi, pare abbiamo agito gli agenti segreti francesi, che opererebbero in stretta cooperazione tra i servizi americani, britannici e francesi. A rivelarlo al quotidiano francese sono degli analisti esterni che affermano che la Dgse è tanto mobilitata in Siria quanto lo è in Libia.
L’importanza e l’impiego di questo servizio d’azione all’interno della guerra contro l’Isis è sottolineato dall’estensione del ruolo del capo della Dgse, il diplomatico Bernard Bajolet. Francois Hollande ha prolungato il mandato fino al 2017, oltre il limite di età, sperando di costruire un “piano strategico” per il futuro. Una mossa che comporta anche un forte aumento del personale (850 assunzioni entro il 2019 per raggiungere 7 000 persone), partnership con gli alleati e l’aumento dell’intelligence.
Le voci su una guerra segreta in Libia rimbalzano sui media mondiali e così il ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian ha lanciato un’indagine per compromissione di segreto militare, dopo la pubblicazione dell’articolo de Le Monde. Questa sarà condotta dalla Direzione per la Protezione e Sicurezza della Difesa (DPSD), un organo del Ministero. L’entourage di Jean-Yves Le Drian non ha commentato la pubblicazione, ma ha comunque rilasciato un comunicato in cui si legge “quando operazioni segrete hanno luogo, l’obiettivo è quello che di tutelare la sicurezza delle persone e dell’operazione”.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
Il Sole 24.2.16
Libia. Renzi rassicura: missioni «caso per caso»
Droni da Sigonella, scoppia la polemica
di Ge.P.
Si sta trasformando in un caso politico-diplomatico l’autorizzazione al decollo dalla base siciliana di Sigonella di droni americani armati per neutralizzare postazioni Isis in Libia. Non convincerebbero infatti del tutto le garanzie e i “caveat” sull’operazione che anche ieri il premier, Matteo Renzi e il capo della diplomazia, Paolo Gentiloni hanno esplicitato per spiegare i termini della questione. Il “si” del Governo è infatti condizionato a missioni anti Isis da valutare «caso per caso». Ma le opposizioni compatte lamentano di non essere state informate adeguatamente dai ministri degli Esteri e della Difesa. La Casa Bianca ha manifestato «particolare preoccupazione» per la presenza dell’Isis in Libia e per la sua capacità di attrarre - come in Iraq e Siria - sempre più foreign fighter, ed è determinata ad «agire se emergeranno minacce dirette». L’amministrazione Obama si aspetta perciò la cooperazione dei partner europei, Roma compresa. «L’Italia fa la sua parte come tutti gli altri», ha assicurato Renzi ma del caso si parlerà domani al Quirinale nel Consiglio supremo di Difesa convocato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Nessuna decisione operativa è attesa per domani ma solo delle linee guida cui adeguarsi nei confronti degli alleati della coalizione anti Isis.
Sul caso è intervenuto il presidente del Consiglio secondo il quale «sono ore decisive per il governo in Libia: la priorità è diplomatica» e le autorizzazioni al decollo dei droni «sono caso per caso». Se si tratta di fare operazioni contro terroristi e potenziali attentatori «Isis c’è uno stretto rapporto con i nostri alleati e siamo in grande sintonia». Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, ha sottolineato che l’Italia ha ottenuto di ricevere «una richiesta puntuale degli americani al nostro governo tutte le volte che dev’essere utilizzato un mezzo in partenza da Sigonella». «Noi – ha insistito la Pinotti - non siamo solo un Paese che ospita. I droni armati americani sono pensati non solo in funzione della Libia, ma per la protezione degli assetti e del personale americano e della coalizione in tutta l’area. Non è una decisione legata a un’accelerazione sulla Libia».
La Lega Nord con il senatore Roberto Calderoli ha parlato però di un atto di «guerra» verso la Libia mentre Sinistra italiana in un’interrogazione ha chiesto al governo di riferire in Parlamento tanto più che, con un’operazione del genere «l’Italia sarà ancora di più un bersaglio sensibile».
Sul piede di guerra anche il Movimento cinque stelle che ha preparato un’interrogazione per il prossimo question time. Dalla maggioranza Scelta civica difende la Iinea dell’esecutivo con Mariano Rabino, deputato della commissione Esteri.
Nel frattempo si allungano i tempi per una soluzione politico-diplomatica. La Camera dei rappresentanti (il parlamento libico) basata a Tobruk ha infatti di nuovo rinviato alla settimana prossima il voto sul governo di unità. Nella seduta di ieri non è stato raggiunto il quorum necessario per il voto secondo quanto riferito dalla deputata Eissa El Oraby.
Il Sole 24.2.16
Libia. Renzi rassicura: missioni «caso per caso»
Droni da Sigonella, scoppia la polemica
di Ge.P.
Si sta trasformando in un caso politico-diplomatico l’autorizzazione al decollo dalla base siciliana di Sigonella di droni americani armati per neutralizzare postazioni Isis in Libia. Non convincerebbero infatti del tutto le garanzie e i “caveat” sull’operazione che anche ieri il premier, Matteo Renzi e il capo della diplomazia, Paolo Gentiloni hanno esplicitato per spiegare i termini della questione. Il “si” del Governo è infatti condizionato a missioni anti Isis da valutare «caso per caso». Ma le opposizioni compatte lamentano di non essere state informate adeguatamente dai ministri degli Esteri e della Difesa. La Casa Bianca ha manifestato «particolare preoccupazione» per la presenza dell’Isis in Libia e per la sua capacità di attrarre - come in Iraq e Siria - sempre più foreign fighter, ed è determinata ad «agire se emergeranno minacce dirette». L’amministrazione Obama si aspetta perciò la cooperazione dei partner europei, Roma compresa. «L’Italia fa la sua parte come tutti gli altri», ha assicurato Renzi ma del caso si parlerà domani al Quirinale nel Consiglio supremo di Difesa convocato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Nessuna decisione operativa è attesa per domani ma solo delle linee guida cui adeguarsi nei confronti degli alleati della coalizione anti Isis.
Sul caso è intervenuto il presidente del Consiglio secondo il quale «sono ore decisive per il governo in Libia: la priorità è diplomatica» e le autorizzazioni al decollo dei droni «sono caso per caso». Se si tratta di fare operazioni contro terroristi e potenziali attentatori «Isis c’è uno stretto rapporto con i nostri alleati e siamo in grande sintonia». Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, ha sottolineato che l’Italia ha ottenuto di ricevere «una richiesta puntuale degli americani al nostro governo tutte le volte che dev’essere utilizzato un mezzo in partenza da Sigonella». «Noi – ha insistito la Pinotti - non siamo solo un Paese che ospita. I droni armati americani sono pensati non solo in funzione della Libia, ma per la protezione degli assetti e del personale americano e della coalizione in tutta l’area. Non è una decisione legata a un’accelerazione sulla Libia».
La Lega Nord con il senatore Roberto Calderoli ha parlato però di un atto di «guerra» verso la Libia mentre Sinistra italiana in un’interrogazione ha chiesto al governo di riferire in Parlamento tanto più che, con un’operazione del genere «l’Italia sarà ancora di più un bersaglio sensibile».
Sul piede di guerra anche il Movimento cinque stelle che ha preparato un’interrogazione per il prossimo question time. Dalla maggioranza Scelta civica difende la Iinea dell’esecutivo con Mariano Rabino, deputato della commissione Esteri.
Nel frattempo si allungano i tempi per una soluzione politico-diplomatica. La Camera dei rappresentanti (il parlamento libico) basata a Tobruk ha infatti di nuovo rinviato alla settimana prossima il voto sul governo di unità. Nella seduta di ieri non è stato raggiunto il quorum necessario per il voto secondo quanto riferito dalla deputata Eissa El Oraby.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
il manifesto 24.2.16
Libia
Ma quale «difesa», i droni a Sigonella sono da attacco
MQ-1 Predator e MQ-9 Reaper sono armi letali da «first strike»
di Antonio Mazzeo
Droni killer a Sigonella per bombardare le postazioni Isis in Nord Africa. La notizia, ancora una volta, arriva dall’altra parte dell’oceano. The Wall Street Journal, citando una fonte ufficiale delle forze armate Usa, ha rivelato che da circa un mese il governo italiano ha autorizzato il decollo di droni armati statunitensi dalla stazione aereonavale di Sigonella in Sicilia per effettuare «operazioni militari contro lo Stato islamico in Libia e attraverso il Nord Africa».
Sempre secondo il quotidiano, il via libera da parte del governo Renzi sarebbe giunto «dopo più di un anno di negoziati» e con una alcune limitazioni alle regole d’ingaggio. «Il permesso sarà dato dal governo italiano ogni volta caso per caso e i droni potranno decollare da Sigonella per proteggere il personale militare in pericolo durante le operazioni anti-Isis in Libia e in altre parti del Nord Africa», scrive il Wsj.
L’amministrazione Obama avrebbe tuttavia richiesto l’autorizzazione a operare dalla Sicilia anche per missioni offensive, dato «che sino al mese scorso i droni Usa schierati a Sigonella erano solo per scopi di sorveglianza».
Le autorità italiane hanno confermato le rivelazioni Usa ma la versione soft-difensiva sui velivoli senza pilota è assai poco credibile; inoltre è tutt’altro che vero che i droni-killer operino da Sigonella solo da un mese a questa parte. I sistemi di volo automatizzati in mano alle forze armate Usa sono i famigerati MQ-1 Predator e MQ-9 Reaper, armi letali da first strike, in grado d’individuare, inseguire ed eliminare gli obiettivi «nemici» grazie ai due missili aria-terra a guida laser AGM-114 «Helfire».
Questi droni sono stati impiegati negli ultimi dieci anni per più di 500 attacchi in Afghanistan, Pakistan, Iraq, Siria, Yemen e Libia con oltre 4.200 vittime. L’ultimo strike con i droni-killler è stato effettuato la settimana scorsa contro un presunto «campo d’addestramento» delle milizie filo-Isis a Sabratha, in Tripolitania, vicino al confine con la Tunisia.
Secondo Washington, il raid avrebbe causato la morte di una trentina di jihadisti tra cui il tunisino Noureddine Chouchane, ritenuto uno dei responsabili degli attentati effettuati lo scorso anno al Museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse. Il campo di Sabratha (ad una ventina di chilometri dal terminal gas di Melitha gestito dall’Eni) è stato colpito da missili aria-terra lanciati da alcuni bombardieri Usa decollati dalla Gran Bretagna e da Predator o Reaper presumibilmente di stanza proprio a Sigonella, come riferito da alcuni organi di stampa internazionali.
I Predator Usa erano stati impiegati da Sigonella per le operazioni di guerra in Libia nella primavera-estate 2011. Un rapporto dell’International Institute for Strategic Studies di Londra sulle unità alleate impegnate nell’operazione «Unified Protector», aveva documentato come a partire della metà dell’aprile 2011 due squadroni dell’Us Air Force con droni-killer erano stati trasferiti nella base siciliana. I primi raid furono effettuati il 23 aprile contro una batteria di missili libici nei pressi del porto di Misurata; un secondo raid fu sferrato invece a Tripoli il giorno seguente contro un sistema anti-aereo «SA-8».
Da allora l’uso della base di Sigonella come piattaforma di lancio dei droni Usa non ha conosciuto interruzioni e le operazioni sono state estese a tutta l’Africa sub-sahariana, alla Somalia, allo Yemen e più recentemente anche alla Siria.
Nel maggio 2013, l’Osservatorio di Politica Internazionale, un progetto di collaborazione tra il CeSI (Centro Studi Internazionali), il Senato della Repubblica, la Camera dei Deputati e il Ministero degli Affari Esteri, pubblicò uno studio sui velivoli senza pilota statunitensi a Sigonella in cui si documentò la presenza di «non meno di sei Predator Usa da ricognizione e attacco». «I droni temporaneamente basati a Sigonella hanno fondamentalmente lo scopo di permettere alle autorità americane il dispiegamento di questi determinati dispositivi qualora si presentassero delle situazioni di crisi nell’area nordafricana e del Sahel», scriveva l’Osservatorio.
«Ai tumulti della Primavera Araba che hanno portato alla caduta dei regimi di Tunisia, Egitto e Libia ha fatto seguito un deterioramento della situazione di sicurezza culminato nel sanguinoso attacco al consolato di Bengasi e nella recente crisi in Mali, dove la Francia ha lanciato l’Operazione Serval. In considerazione di tale situazione, la Difesa Italiana ha concesso un’autorizzazione temporanea allo schieramento di ulteriori assetti americani a Sigonella».
Anche allora si tentò comunque di edulcorare la pillola dei droni-killer con il Parlamento e l’opinione pubblica. «Concedendo le autorizzazioni, le autorità italiane hanno fissato precisi limiti e vincoli alle missioni di queste specifiche piattaforme», aggiungeva il rapporto. «Ogni operazione che abbia origine dal territorio italiano dovrà essere condotta come stabilito dagli accordi bilaterali in vigore e nei termini approvati nelle comunicazioni 135/11/4a Sez. del 15 settembre 2012 e 135/10063 del 17 gennaio 2013».
Nello specifico, si potevano autorizzare solo le sortite di volo volte all’«evacuazione di personale civile, e più in generale non combattente, da zone di guerra e operazioni di recupero di ostaggi» e quelle di «supporto» al governo del Mali «secondo quanto previsto nella Risoluzione n. 2085 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite». Le forze armate Usa sarebbero state tenute ad informare le autorità italiane prima dell’effettuazione di qualsiasi attività. Mistero fitto però sul modo in cui si potrà mai impedire a Washington di utilizzare Sigonella per operazioni contrarie alla Costituzione o agli interessi strategici nazionali.
Libia
Ma quale «difesa», i droni a Sigonella sono da attacco
MQ-1 Predator e MQ-9 Reaper sono armi letali da «first strike»
di Antonio Mazzeo
Droni killer a Sigonella per bombardare le postazioni Isis in Nord Africa. La notizia, ancora una volta, arriva dall’altra parte dell’oceano. The Wall Street Journal, citando una fonte ufficiale delle forze armate Usa, ha rivelato che da circa un mese il governo italiano ha autorizzato il decollo di droni armati statunitensi dalla stazione aereonavale di Sigonella in Sicilia per effettuare «operazioni militari contro lo Stato islamico in Libia e attraverso il Nord Africa».
Sempre secondo il quotidiano, il via libera da parte del governo Renzi sarebbe giunto «dopo più di un anno di negoziati» e con una alcune limitazioni alle regole d’ingaggio. «Il permesso sarà dato dal governo italiano ogni volta caso per caso e i droni potranno decollare da Sigonella per proteggere il personale militare in pericolo durante le operazioni anti-Isis in Libia e in altre parti del Nord Africa», scrive il Wsj.
L’amministrazione Obama avrebbe tuttavia richiesto l’autorizzazione a operare dalla Sicilia anche per missioni offensive, dato «che sino al mese scorso i droni Usa schierati a Sigonella erano solo per scopi di sorveglianza».
Le autorità italiane hanno confermato le rivelazioni Usa ma la versione soft-difensiva sui velivoli senza pilota è assai poco credibile; inoltre è tutt’altro che vero che i droni-killer operino da Sigonella solo da un mese a questa parte. I sistemi di volo automatizzati in mano alle forze armate Usa sono i famigerati MQ-1 Predator e MQ-9 Reaper, armi letali da first strike, in grado d’individuare, inseguire ed eliminare gli obiettivi «nemici» grazie ai due missili aria-terra a guida laser AGM-114 «Helfire».
Questi droni sono stati impiegati negli ultimi dieci anni per più di 500 attacchi in Afghanistan, Pakistan, Iraq, Siria, Yemen e Libia con oltre 4.200 vittime. L’ultimo strike con i droni-killler è stato effettuato la settimana scorsa contro un presunto «campo d’addestramento» delle milizie filo-Isis a Sabratha, in Tripolitania, vicino al confine con la Tunisia.
Secondo Washington, il raid avrebbe causato la morte di una trentina di jihadisti tra cui il tunisino Noureddine Chouchane, ritenuto uno dei responsabili degli attentati effettuati lo scorso anno al Museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse. Il campo di Sabratha (ad una ventina di chilometri dal terminal gas di Melitha gestito dall’Eni) è stato colpito da missili aria-terra lanciati da alcuni bombardieri Usa decollati dalla Gran Bretagna e da Predator o Reaper presumibilmente di stanza proprio a Sigonella, come riferito da alcuni organi di stampa internazionali.
I Predator Usa erano stati impiegati da Sigonella per le operazioni di guerra in Libia nella primavera-estate 2011. Un rapporto dell’International Institute for Strategic Studies di Londra sulle unità alleate impegnate nell’operazione «Unified Protector», aveva documentato come a partire della metà dell’aprile 2011 due squadroni dell’Us Air Force con droni-killer erano stati trasferiti nella base siciliana. I primi raid furono effettuati il 23 aprile contro una batteria di missili libici nei pressi del porto di Misurata; un secondo raid fu sferrato invece a Tripoli il giorno seguente contro un sistema anti-aereo «SA-8».
Da allora l’uso della base di Sigonella come piattaforma di lancio dei droni Usa non ha conosciuto interruzioni e le operazioni sono state estese a tutta l’Africa sub-sahariana, alla Somalia, allo Yemen e più recentemente anche alla Siria.
Nel maggio 2013, l’Osservatorio di Politica Internazionale, un progetto di collaborazione tra il CeSI (Centro Studi Internazionali), il Senato della Repubblica, la Camera dei Deputati e il Ministero degli Affari Esteri, pubblicò uno studio sui velivoli senza pilota statunitensi a Sigonella in cui si documentò la presenza di «non meno di sei Predator Usa da ricognizione e attacco». «I droni temporaneamente basati a Sigonella hanno fondamentalmente lo scopo di permettere alle autorità americane il dispiegamento di questi determinati dispositivi qualora si presentassero delle situazioni di crisi nell’area nordafricana e del Sahel», scriveva l’Osservatorio.
«Ai tumulti della Primavera Araba che hanno portato alla caduta dei regimi di Tunisia, Egitto e Libia ha fatto seguito un deterioramento della situazione di sicurezza culminato nel sanguinoso attacco al consolato di Bengasi e nella recente crisi in Mali, dove la Francia ha lanciato l’Operazione Serval. In considerazione di tale situazione, la Difesa Italiana ha concesso un’autorizzazione temporanea allo schieramento di ulteriori assetti americani a Sigonella».
Anche allora si tentò comunque di edulcorare la pillola dei droni-killer con il Parlamento e l’opinione pubblica. «Concedendo le autorizzazioni, le autorità italiane hanno fissato precisi limiti e vincoli alle missioni di queste specifiche piattaforme», aggiungeva il rapporto. «Ogni operazione che abbia origine dal territorio italiano dovrà essere condotta come stabilito dagli accordi bilaterali in vigore e nei termini approvati nelle comunicazioni 135/11/4a Sez. del 15 settembre 2012 e 135/10063 del 17 gennaio 2013».
Nello specifico, si potevano autorizzare solo le sortite di volo volte all’«evacuazione di personale civile, e più in generale non combattente, da zone di guerra e operazioni di recupero di ostaggi» e quelle di «supporto» al governo del Mali «secondo quanto previsto nella Risoluzione n. 2085 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite». Le forze armate Usa sarebbero state tenute ad informare le autorità italiane prima dell’effettuazione di qualsiasi attività. Mistero fitto però sul modo in cui si potrà mai impedire a Washington di utilizzare Sigonella per operazioni contrarie alla Costituzione o agli interessi strategici nazionali.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Repubblica 24.2.16
L’allarme.
La Casa Bianca: “Agiremo ogni volta che verrà individuata una minaccia diretta” Renzi: “Roma farà la sua parte con gli alleati” Si affaccia la prospettiva della partizione del paese
Libia, sfuma il piano Onu pronto l’intervento l’Italia prepara la missione servono 5mila soldati
di Gianluca Di Feo
ROMA NELLA STESSA giornata in cui Italia e Stati Uniti si confrontano sullo spionaggio del governo di Silvio Berlusconi, ponendo la questione di principio sul rispetto della sovranità nazionale, i due paesi cercano insieme una difficile intesa sul modo di affrontare la più grave minaccia terrorista mai sorta nel Mediterraneo: il radicamento del Califfato in Libia.
Il tempo per la diplomazia si sta rapidamente consumando. Anche ieri il parlamento di Tobruk ha rinviato il voto sull’esecutivo unitario nato dalla mediazione delle Nazioni Unite e ormai nelle capitali occidentali si spegne la fiducia nel successo dell’iniziativa benedetta dall’Onu. Così Washington, Roma, Parigi e Londra stanno lavorando freneticamente a una soluzione alternativa, un piano B con un solo punto certo: l’espansione del feudo jihadista in Libia va fermata, anche a costo di rassegnarsi a una divisione sostanziale del paese. Brett McGurk, l’uomo a cui Barack Obama ha affidato la lotta contro lo Stato Islamico, è tornato a sottolineare la preoccupazione della Casa Bianca. Gli americani non sono disposti ad assistere alla crescita delle brigate libiche con la bandiera nera, che «tentano di attrarre quanti più combattenti stranieri» dal Maghreb e dall’Africa centrale. Per niente intimoriti dal bombardamento statunitense della scorsa settimana, i miliziani islamici hanno attaccato di nuovo le installazioni petrolifere distruggendo due grandi depositi di greggio a Sida. L’obiettivo di queste incursioni è chiaro: azzerare l’unica risorsa che finanzia le istituzioni libiche rivali e le formazioni locali che si oppongono al Daesh. La premessa per costruire il caos totale e imporre il dominio del Califfato.
Così gli alleati europei si stanno allineando alla nuova posizione della Casa Bianca: «Agiremo ogni volta che verrà individuata una minaccia diretta». Una dichiarazione che in pratica permette di attaccare qualunque base dell’Is. E alla quale per la prima volta sembra avvicinarsi anche Matteo Renzi, che ieri ha detto «se ci sono iniziative contro terroristi e potenziali attentatori dell’Is, l’Italia farà la sua parte insieme con gli alleati ».
Dal punto di vista militare, la macchina dei raid è già in azione. C’è una ricognizione aerea continua, condotta dai droni americani e italiani che decollano da Sigonella; da quelli francesi che perlustrano l’area desertica del Fezzan e da quelli britannici che partono da Cipro. Altri velivoli spia, inclusi i nostri Amx schierati a Trapani, scattano foto e monitorano le comunicazioni radio grazie ad apparati a lungo raggio, che gli permettono di restare fuori dallo spazio aereo libico. Una sorveglianza che avrebbe permesso di selezionare circa duecento potenziali bersagli.
Ma l’Italia al momento resta ancorata alla sua posizione iniziale: non è disposta a partecipare ad azioni su larga scala senza una cornice legale, ossia la richiesta di un governo riconosciuto a livello internazionale. E senza i nostri aeroporti, non è possibile una campagna aerea su vasta scala. La scorsa settimana, gli F-15 statunitensi che hanno raso al suolo il comando di Sabratha sono decollati dalla Gran Bretagna: una missione che richiede almeno sei rifornimenti in volo di carburante per arrivare sull’obiettivo e tornare indietro. Per questo il Pentagono ha dovuto accettare il diritto di veto della Difesa italiana pur di utilizzare la pista di Sigonella per i pattugliamenti dei droni armati durante i raid delle forze speciali. I blitz di Navy Seal e Delta Force richiedono una sorta di scorta volante, pronta a proteggere la ritirata, che può partire solo dalla Sicilia. In questo modo, però, il nostro governo avrà la certezza di essere informato di ogni attacco condotto dagli incursori statunitensi e potrà pronunciarsi sui bersagli da colpi- re o meno. L’unica garanzia per evitare di venire spiazzati dall’iniziativa di altre nazioni, come accadde nel 2011 con l’operazione franco-britannica contro Gheddafi.
Ma nessuno si illude: una manciata di bombardamenti e colpi di mano isolati non riuscirà a fermare la crescita del Califfato. Per sconfiggerlo servono truppe di terra: soldati libici con un sostegno occidentale. E bisogna trovare un governo riconosciuto che legittimi questo “sostegno”. Ed ecco materializzarsi il “piano B”: l’ipotesi che sta rapidamente prendendo piede tra Roma e Washington è quella di abbandonare il parlamento di Tobruk e l’armata del generale Haftar — che stanno soffocando anche il secondo tentativo dell’Onu — per puntare sull’altra compagine, quella di Tripoli. Al momento è una sorta di “ultima minaccia”, per cercare di sbloccare le resistenze di Tobruk ma potrebbe trasformarsi in fretta in un’opzione concreta. Con un ribaltamento di fronti: mentre a Tripoli il potere è in mano a formazioni islamiche più o meno moderate, il governo rivale aveva ispirazione laica e supporto occidentale. E con la prospettiva di dividere il paese in tre entità principali, che ricalcano l’antica organizzazione amministrativa ottomana: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Una soluzione che potrebbe placare anche le potenze regionali, come Egitto, Turchia, Qatar ed Emirati.
Nella storica capitale verrebbero concentrati gli sforzi per debellare lo Stato islamico. Mobilitando le altre milizie più combattive, come lo schieramento di Misurata. E schierando in Tripolitania un contingente occidentale che contribuisca a difendere le infrastrutture chiave per la sicurezza e la ripresa economica: porti, aeroporti, oleodotti, terminal petroliferi. Una missione rischiosa, che verrebbe affidata all’Italia: il piano elaborato da oltre un anno che prevede «fino a cinquemila soldati». Se ne è parlato tante volte, ma adesso la macchina militare e diplomatica sta accelerando. Perché lo Stato islamico avanza ogni giorno: ieri sera ci sono stati combattimenti proprio alle porte di Tripoli.
L’allarme.
La Casa Bianca: “Agiremo ogni volta che verrà individuata una minaccia diretta” Renzi: “Roma farà la sua parte con gli alleati” Si affaccia la prospettiva della partizione del paese
Libia, sfuma il piano Onu pronto l’intervento l’Italia prepara la missione servono 5mila soldati
di Gianluca Di Feo
ROMA NELLA STESSA giornata in cui Italia e Stati Uniti si confrontano sullo spionaggio del governo di Silvio Berlusconi, ponendo la questione di principio sul rispetto della sovranità nazionale, i due paesi cercano insieme una difficile intesa sul modo di affrontare la più grave minaccia terrorista mai sorta nel Mediterraneo: il radicamento del Califfato in Libia.
Il tempo per la diplomazia si sta rapidamente consumando. Anche ieri il parlamento di Tobruk ha rinviato il voto sull’esecutivo unitario nato dalla mediazione delle Nazioni Unite e ormai nelle capitali occidentali si spegne la fiducia nel successo dell’iniziativa benedetta dall’Onu. Così Washington, Roma, Parigi e Londra stanno lavorando freneticamente a una soluzione alternativa, un piano B con un solo punto certo: l’espansione del feudo jihadista in Libia va fermata, anche a costo di rassegnarsi a una divisione sostanziale del paese. Brett McGurk, l’uomo a cui Barack Obama ha affidato la lotta contro lo Stato Islamico, è tornato a sottolineare la preoccupazione della Casa Bianca. Gli americani non sono disposti ad assistere alla crescita delle brigate libiche con la bandiera nera, che «tentano di attrarre quanti più combattenti stranieri» dal Maghreb e dall’Africa centrale. Per niente intimoriti dal bombardamento statunitense della scorsa settimana, i miliziani islamici hanno attaccato di nuovo le installazioni petrolifere distruggendo due grandi depositi di greggio a Sida. L’obiettivo di queste incursioni è chiaro: azzerare l’unica risorsa che finanzia le istituzioni libiche rivali e le formazioni locali che si oppongono al Daesh. La premessa per costruire il caos totale e imporre il dominio del Califfato.
Così gli alleati europei si stanno allineando alla nuova posizione della Casa Bianca: «Agiremo ogni volta che verrà individuata una minaccia diretta». Una dichiarazione che in pratica permette di attaccare qualunque base dell’Is. E alla quale per la prima volta sembra avvicinarsi anche Matteo Renzi, che ieri ha detto «se ci sono iniziative contro terroristi e potenziali attentatori dell’Is, l’Italia farà la sua parte insieme con gli alleati ».
Dal punto di vista militare, la macchina dei raid è già in azione. C’è una ricognizione aerea continua, condotta dai droni americani e italiani che decollano da Sigonella; da quelli francesi che perlustrano l’area desertica del Fezzan e da quelli britannici che partono da Cipro. Altri velivoli spia, inclusi i nostri Amx schierati a Trapani, scattano foto e monitorano le comunicazioni radio grazie ad apparati a lungo raggio, che gli permettono di restare fuori dallo spazio aereo libico. Una sorveglianza che avrebbe permesso di selezionare circa duecento potenziali bersagli.
Ma l’Italia al momento resta ancorata alla sua posizione iniziale: non è disposta a partecipare ad azioni su larga scala senza una cornice legale, ossia la richiesta di un governo riconosciuto a livello internazionale. E senza i nostri aeroporti, non è possibile una campagna aerea su vasta scala. La scorsa settimana, gli F-15 statunitensi che hanno raso al suolo il comando di Sabratha sono decollati dalla Gran Bretagna: una missione che richiede almeno sei rifornimenti in volo di carburante per arrivare sull’obiettivo e tornare indietro. Per questo il Pentagono ha dovuto accettare il diritto di veto della Difesa italiana pur di utilizzare la pista di Sigonella per i pattugliamenti dei droni armati durante i raid delle forze speciali. I blitz di Navy Seal e Delta Force richiedono una sorta di scorta volante, pronta a proteggere la ritirata, che può partire solo dalla Sicilia. In questo modo, però, il nostro governo avrà la certezza di essere informato di ogni attacco condotto dagli incursori statunitensi e potrà pronunciarsi sui bersagli da colpi- re o meno. L’unica garanzia per evitare di venire spiazzati dall’iniziativa di altre nazioni, come accadde nel 2011 con l’operazione franco-britannica contro Gheddafi.
Ma nessuno si illude: una manciata di bombardamenti e colpi di mano isolati non riuscirà a fermare la crescita del Califfato. Per sconfiggerlo servono truppe di terra: soldati libici con un sostegno occidentale. E bisogna trovare un governo riconosciuto che legittimi questo “sostegno”. Ed ecco materializzarsi il “piano B”: l’ipotesi che sta rapidamente prendendo piede tra Roma e Washington è quella di abbandonare il parlamento di Tobruk e l’armata del generale Haftar — che stanno soffocando anche il secondo tentativo dell’Onu — per puntare sull’altra compagine, quella di Tripoli. Al momento è una sorta di “ultima minaccia”, per cercare di sbloccare le resistenze di Tobruk ma potrebbe trasformarsi in fretta in un’opzione concreta. Con un ribaltamento di fronti: mentre a Tripoli il potere è in mano a formazioni islamiche più o meno moderate, il governo rivale aveva ispirazione laica e supporto occidentale. E con la prospettiva di dividere il paese in tre entità principali, che ricalcano l’antica organizzazione amministrativa ottomana: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Una soluzione che potrebbe placare anche le potenze regionali, come Egitto, Turchia, Qatar ed Emirati.
Nella storica capitale verrebbero concentrati gli sforzi per debellare lo Stato islamico. Mobilitando le altre milizie più combattive, come lo schieramento di Misurata. E schierando in Tripolitania un contingente occidentale che contribuisca a difendere le infrastrutture chiave per la sicurezza e la ripresa economica: porti, aeroporti, oleodotti, terminal petroliferi. Una missione rischiosa, che verrebbe affidata all’Italia: il piano elaborato da oltre un anno che prevede «fino a cinquemila soldati». Se ne è parlato tante volte, ma adesso la macchina militare e diplomatica sta accelerando. Perché lo Stato islamico avanza ogni giorno: ieri sera ci sono stati combattimenti proprio alle porte di Tripoli.
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
Anche questa é guerra.
Privatizzare la Russia: assalto a Putin, da Usa e oligarchi
Scritto il 25/2/16 • nella Categoria: segnalazioni
Assalto al Cremlino, usando il grimaldello delle privatizzazioni per ingolosire gli oligarchi: domani, quando l’economia russa dovesse riprendersi (archiviate le sanzioni Usa-Ue), i ricchi saranno ricchissimi, e lo Stato avrà perso il suo potere.
E’ la tesi avanzata dall’economista democratico statunitense Michael Hudson e da Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan.
La notizia: alcuni funzionari russi stanno discutendo, da ormai due anni, un piano per la maxi-privatizzazione di grandi imprese strategiche statali, tra cui la compagnia petrolifera Rosneft, la Vtb Bank, le Ferrovie Russe e la compagnia aerea di bandiera, l’Aeroflot. Obiettivo dichiarato: ottimizzare il management, oltre che indurre gli oligarchi a invertire la ventennale emorragia di capitali dal paese per tornare a investire nell’economia di Mosca.
Ma le prospettive economiche russe sono peggiorate dal momento in cui gli Stati Uniti hanno spinto l’Occidente a imporre sanzioni economiche contro il paese, e anche per il crollo del prezzo del petrolio.
Ciò ha reso l’economia russa meno attraente per gli investitori esteri.
Così, la vendita di queste compagnie avverrà oggi a prezzi verosimilmente molto più bassi rispetto a quelli che sarebbero stati nel 2014.
Nel frattempo, scrivono Hudson e Craig Robert in un’analisi su “Counterpunch” tradotta da “Come Don Chisciotte”, la combinazione fra debito in crescita e deficit della bilancia dei pagamenti ha fornito ai sostenitori delle privatizzazioni un ulteriore argomento per insistere con le dismissioni.
Motivo addotto: la Russia non potrebbe monetizzare il proprio deficit, ma deve vendere le sue risorse migliori per sopravvivere.
«Noi vogliamo mettere in guardia la Russia dall’accettare questa nefasta argomentazione neoliberista», scrivono i due economisti.
«Le privatizzazioni non aiuteranno a re-industrializzare la Russia, ma ne aggraverebbero la trasformazione in una “economia di rendita” nella quale i profitti vanno a beneficio di proprietari stranieri».
Per cautelarsi, Putin ha posto una serie di condizioni per scongiurare che le nuove privatizzazioni avvengano come le disastrose svendite dell’era Eltsin: stavolta gli asset non verrebbero venduti a prezzo di saldo, ma rispecchierebbero l’eventuale valore reale.
E le aziende cedute resterebbero sotto la giurisdizione russa: gli investitori stranieri potranno partecipare, ma non scavalcare le regole russe, tra cui i vincoli per mantenere i capitali nel paese.
«Putin ha saggiamente evitato la vendita della maggiore banca russa, la Sberbank, che detiene gran parte dei depositi privati nazionali: l’attività bancaria evidentemente resta un servizio principalmente pubblico – come dovrebbe – vista la capacità di creare moneta-credito, che la rende un monopolio naturale e intrinsecamente pubblica nel carattere».
Nonostante queste precauzioni, però, «vi sono serie ragioni per non procedere con le privatizzazioni appena annunciate», che avverrebbero «in condizioni di recessione economica dovuta ai bassi prezzi del petrolio e alle sanzioni occidentali».
L’alibi sarebbe la copertura del deficit di bilancio nazionale?
«Questa scusa mostra come la Russia non si sia ancora ripresa dal disastroso mito, occidentale e atlanticista, che essa debba dipendere dalle banche estere e dai detentori di bond per creare moneta, come se la banca centrale russa non possa fare ciò da sé, tramite la monetizzazione del disavanzo di bilancio», obiettano Hudson e Craig Roberts.
«La monetizzazione del deficit di bilancio è esattamente quello che ha fatto il governo degli Stati Uniti e ciò che si faceva presso le banche centrali occidentali nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale».
La monetizzazione del debito è una pratica comune in Occidente: i governi possono agevolare la ripresa economica creando moneta.
Molto meglio che far indebitare il paese verso creditori privati, che poi «prosciugano il finanziamento del settore pubblico attraverso l’emorragia del pagamento di interessi a creditori privati».
Perché mai ricorrere alla finanza privata, quando può essere la banca centrale a creare finanziamento pubblico?
«Gli economisti russi, tuttavia, sono stati indottrinati dal credo occidentale che solo le banche commerciali possano creare denaro, e che i governi per procurarsi le risorse debbano emettere dei buoni sui quali alla scadenza pagheranno degli interessi».
Questa deformazione della finanza pubblica “privatizzata” «sta portando la Russia sullo stesso sentiero che ha portato l’Europa ad un’economia in stato comatoso».
Attraverso la privatizzazione della creazione del credito, infatti, «l’Europa ha trasferito la propria pianificazione economica dai governi democraticamente eletti al settore bancario».
La Russia? «Non ha bisogno di accettare questa filosofia economica orientata alla rendita, che può mandare in dissesto le finanze pubbliche di una nazione».
Infatti, i neoliberisti non la promuovono certo per aiutare la Russia, «ma per metterla in ginocchio».
Essenzialmente, spiegano i due analisti, quei russi cosiddetti “integrazionisti atlantici”, cioè alleati dell’Occidente, «puntano a sacrificare la sovranità della Russia per integrarla nell’impero occidentale», e così «utilizzano il neoliberismo per “intrappolare” Putin e annientare il controllo della Russia sulla propria economia, un elemento che Putin aveva ripristinato dopo gli anni di Eltsin nei quali la Russia era stata depredata da interessi stranieri».
Nonostante il Cremlino sia riuscito a ridurre il potere degli oligarchi creato dalle privatizzazioni di Eltsin, il governo ha comunque bisogno di mantenere importanti imprese statali, proprio per controbilanciare il potere economico degli oligarchi.
«La ragione per cui i governi costruiscono ferrovie e altre infrastrutture di base è quella di abbassare i costi basilari per vivere e lavorare.
Lo scopo delle “corporation private” – di contro – è invece quello di aumentare tali costi quanto più possibile».
Questa viene definita “estrazione di rendita”: «I proprietari privati impongono dazi per aumentare il costo del servizio di un’infrastruttura che viene privatizzata». Di fatto, «è l’opposto di quello che gli economisti classici definiscono come “libero mercato”».
In base a un accordo di cui si parla, gli oligarchi «acquisiranno delle quote di compagnie statali con il denaro delle precedenti privatizzazioni nascosto all’estero, e faranno un altro “affare del secolo” quando l’economia russa si riprenderà abbastanza da consentire profitti corposi».
Problema: «Quanto più potere economico si sposta dalle mani pubbliche al privato, minore è il potere del governo di controbilanciare gli interessi privati».
Per questo, «nessuna privatizzazione dovrebbe essere consentita, in questa fase», e ancor meno si dovrebbe consentire «l’acquisizione di asset nazionali russi da parte di stranieri».
Ma il rischio esiste: «Al fine di guadagnare un pagamento immediato in valuta estera, il governo russo cederà agli stranieri il flusso dei futuri guadagni che verranno ricavati in Russia e mandati all’estero».
Attenzione: «Vendere degli asset pubblici in cambio di un pagamento in un’unica soluzione è quello che ha fatto l’amministrazione della città di Chicago quando ha ceduto per 75 anni la gestione dei parcheggi pubblici in cambio di una cifra corrisposta immediatamente.
Sacrificando le entrate pubbliche, l’amministrazione di Chicago ha risparmiato le proprietà immobiliari e le ricchezze private dalla tassazione e ha inoltre consentito alle banche di investimento di Wall Street di fare una fortuna», spingendo però la città verso la bancarotta.
«Nessuna sorpresa che gli atlantisti auspichino una sorte simile alla Russia», scrivono Hudson e Craig Roberts. «Usare le privatizzazioni per coprire un problema di bilancio di breve termine, ne porta invece uno di lungo termine.
I profitti delle compagnie russe fluirebbero fuori dal paese, riducendo il tasso di cambio del rublo.
Se i profitti vengono generati in rubli, questi possono essere cambiati in dollari nel mercato dei cambi.
Ciò deprimerà il tasso di cambio del rublo aumentando il valore relativo del dollaro.
In sostanza, consentire a degli stranieri di acquisire delle risorse statali della Russia, li aiuterebbe a speculare contro il rublo». Inoltre, anche i nuovi proprietari russi degli asset privatizzati potrebbero mandare all’estero i loro profitti.
«Almeno, il governo russo si rende conto che dei proprietari soggetti alla giurisdizione russa vengono disciplinati più facilmente rispetto a dei proprietari in grado di controllare le aziende dall’estero e di tenere il loro capitale attivo a Londra o in altri centri finanziari (tutti soggetti alla pressione diplomatica Usa e alle sanzioni della Nuova Guerra Fredda)».
A monte, comunque, il governo russo dovrebbe finanziare i propri deficit di bilancio semplicemente attraverso «la banca centrale che crea il denaro necessario, così come fanno gli Usa e la Gran Bretagna».
Al contrario, «alienare per sempre dei flussi di ricavi futuri per coprire solo il deficit di un anno», secondo Hudson e Craig Roberts, «è la strada per l’impoverimento e la perdita dell’indipendenza politica ed economica».
La globalizzazione? «E’ stata inventata come uno strumento dell’impero americano». La Russia se ne dovrebbe difendere, piuttosto che aprirvisi.
E le privatizzazioni «sono il mezzo per minare la sovranità economica e accrescere i profitti tramite l’aumento delle tariffe».
Che se ne rendano conto o meno, concludono i due analisti, gli economisti neoliberisti di Mosca si comportano «come le Ong finanziate dall’Occidente», che «agiscono in Russia come una quinta colonna contro l’interesse nazionale».
In altre parole, «la Russia non sarà al riparo dalla manipolazione occidentale fino a quando la propria economia non sarà impermeabile ai tentativi da parte dell’Occidente di piegarla ai propri interessi piuttosto che a quelli nazionali».
Anche questa é guerra.
Privatizzare la Russia: assalto a Putin, da Usa e oligarchi
Scritto il 25/2/16 • nella Categoria: segnalazioni
Assalto al Cremlino, usando il grimaldello delle privatizzazioni per ingolosire gli oligarchi: domani, quando l’economia russa dovesse riprendersi (archiviate le sanzioni Usa-Ue), i ricchi saranno ricchissimi, e lo Stato avrà perso il suo potere.
E’ la tesi avanzata dall’economista democratico statunitense Michael Hudson e da Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan.
La notizia: alcuni funzionari russi stanno discutendo, da ormai due anni, un piano per la maxi-privatizzazione di grandi imprese strategiche statali, tra cui la compagnia petrolifera Rosneft, la Vtb Bank, le Ferrovie Russe e la compagnia aerea di bandiera, l’Aeroflot. Obiettivo dichiarato: ottimizzare il management, oltre che indurre gli oligarchi a invertire la ventennale emorragia di capitali dal paese per tornare a investire nell’economia di Mosca.
Ma le prospettive economiche russe sono peggiorate dal momento in cui gli Stati Uniti hanno spinto l’Occidente a imporre sanzioni economiche contro il paese, e anche per il crollo del prezzo del petrolio.
Ciò ha reso l’economia russa meno attraente per gli investitori esteri.
Così, la vendita di queste compagnie avverrà oggi a prezzi verosimilmente molto più bassi rispetto a quelli che sarebbero stati nel 2014.
Nel frattempo, scrivono Hudson e Craig Robert in un’analisi su “Counterpunch” tradotta da “Come Don Chisciotte”, la combinazione fra debito in crescita e deficit della bilancia dei pagamenti ha fornito ai sostenitori delle privatizzazioni un ulteriore argomento per insistere con le dismissioni.
Motivo addotto: la Russia non potrebbe monetizzare il proprio deficit, ma deve vendere le sue risorse migliori per sopravvivere.
«Noi vogliamo mettere in guardia la Russia dall’accettare questa nefasta argomentazione neoliberista», scrivono i due economisti.
«Le privatizzazioni non aiuteranno a re-industrializzare la Russia, ma ne aggraverebbero la trasformazione in una “economia di rendita” nella quale i profitti vanno a beneficio di proprietari stranieri».
Per cautelarsi, Putin ha posto una serie di condizioni per scongiurare che le nuove privatizzazioni avvengano come le disastrose svendite dell’era Eltsin: stavolta gli asset non verrebbero venduti a prezzo di saldo, ma rispecchierebbero l’eventuale valore reale.
E le aziende cedute resterebbero sotto la giurisdizione russa: gli investitori stranieri potranno partecipare, ma non scavalcare le regole russe, tra cui i vincoli per mantenere i capitali nel paese.
«Putin ha saggiamente evitato la vendita della maggiore banca russa, la Sberbank, che detiene gran parte dei depositi privati nazionali: l’attività bancaria evidentemente resta un servizio principalmente pubblico – come dovrebbe – vista la capacità di creare moneta-credito, che la rende un monopolio naturale e intrinsecamente pubblica nel carattere».
Nonostante queste precauzioni, però, «vi sono serie ragioni per non procedere con le privatizzazioni appena annunciate», che avverrebbero «in condizioni di recessione economica dovuta ai bassi prezzi del petrolio e alle sanzioni occidentali».
L’alibi sarebbe la copertura del deficit di bilancio nazionale?
«Questa scusa mostra come la Russia non si sia ancora ripresa dal disastroso mito, occidentale e atlanticista, che essa debba dipendere dalle banche estere e dai detentori di bond per creare moneta, come se la banca centrale russa non possa fare ciò da sé, tramite la monetizzazione del disavanzo di bilancio», obiettano Hudson e Craig Roberts.
«La monetizzazione del deficit di bilancio è esattamente quello che ha fatto il governo degli Stati Uniti e ciò che si faceva presso le banche centrali occidentali nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale».
La monetizzazione del debito è una pratica comune in Occidente: i governi possono agevolare la ripresa economica creando moneta.
Molto meglio che far indebitare il paese verso creditori privati, che poi «prosciugano il finanziamento del settore pubblico attraverso l’emorragia del pagamento di interessi a creditori privati».
Perché mai ricorrere alla finanza privata, quando può essere la banca centrale a creare finanziamento pubblico?
«Gli economisti russi, tuttavia, sono stati indottrinati dal credo occidentale che solo le banche commerciali possano creare denaro, e che i governi per procurarsi le risorse debbano emettere dei buoni sui quali alla scadenza pagheranno degli interessi».
Questa deformazione della finanza pubblica “privatizzata” «sta portando la Russia sullo stesso sentiero che ha portato l’Europa ad un’economia in stato comatoso».
Attraverso la privatizzazione della creazione del credito, infatti, «l’Europa ha trasferito la propria pianificazione economica dai governi democraticamente eletti al settore bancario».
La Russia? «Non ha bisogno di accettare questa filosofia economica orientata alla rendita, che può mandare in dissesto le finanze pubbliche di una nazione».
Infatti, i neoliberisti non la promuovono certo per aiutare la Russia, «ma per metterla in ginocchio».
Essenzialmente, spiegano i due analisti, quei russi cosiddetti “integrazionisti atlantici”, cioè alleati dell’Occidente, «puntano a sacrificare la sovranità della Russia per integrarla nell’impero occidentale», e così «utilizzano il neoliberismo per “intrappolare” Putin e annientare il controllo della Russia sulla propria economia, un elemento che Putin aveva ripristinato dopo gli anni di Eltsin nei quali la Russia era stata depredata da interessi stranieri».
Nonostante il Cremlino sia riuscito a ridurre il potere degli oligarchi creato dalle privatizzazioni di Eltsin, il governo ha comunque bisogno di mantenere importanti imprese statali, proprio per controbilanciare il potere economico degli oligarchi.
«La ragione per cui i governi costruiscono ferrovie e altre infrastrutture di base è quella di abbassare i costi basilari per vivere e lavorare.
Lo scopo delle “corporation private” – di contro – è invece quello di aumentare tali costi quanto più possibile».
Questa viene definita “estrazione di rendita”: «I proprietari privati impongono dazi per aumentare il costo del servizio di un’infrastruttura che viene privatizzata». Di fatto, «è l’opposto di quello che gli economisti classici definiscono come “libero mercato”».
In base a un accordo di cui si parla, gli oligarchi «acquisiranno delle quote di compagnie statali con il denaro delle precedenti privatizzazioni nascosto all’estero, e faranno un altro “affare del secolo” quando l’economia russa si riprenderà abbastanza da consentire profitti corposi».
Problema: «Quanto più potere economico si sposta dalle mani pubbliche al privato, minore è il potere del governo di controbilanciare gli interessi privati».
Per questo, «nessuna privatizzazione dovrebbe essere consentita, in questa fase», e ancor meno si dovrebbe consentire «l’acquisizione di asset nazionali russi da parte di stranieri».
Ma il rischio esiste: «Al fine di guadagnare un pagamento immediato in valuta estera, il governo russo cederà agli stranieri il flusso dei futuri guadagni che verranno ricavati in Russia e mandati all’estero».
Attenzione: «Vendere degli asset pubblici in cambio di un pagamento in un’unica soluzione è quello che ha fatto l’amministrazione della città di Chicago quando ha ceduto per 75 anni la gestione dei parcheggi pubblici in cambio di una cifra corrisposta immediatamente.
Sacrificando le entrate pubbliche, l’amministrazione di Chicago ha risparmiato le proprietà immobiliari e le ricchezze private dalla tassazione e ha inoltre consentito alle banche di investimento di Wall Street di fare una fortuna», spingendo però la città verso la bancarotta.
«Nessuna sorpresa che gli atlantisti auspichino una sorte simile alla Russia», scrivono Hudson e Craig Roberts. «Usare le privatizzazioni per coprire un problema di bilancio di breve termine, ne porta invece uno di lungo termine.
I profitti delle compagnie russe fluirebbero fuori dal paese, riducendo il tasso di cambio del rublo.
Se i profitti vengono generati in rubli, questi possono essere cambiati in dollari nel mercato dei cambi.
Ciò deprimerà il tasso di cambio del rublo aumentando il valore relativo del dollaro.
In sostanza, consentire a degli stranieri di acquisire delle risorse statali della Russia, li aiuterebbe a speculare contro il rublo». Inoltre, anche i nuovi proprietari russi degli asset privatizzati potrebbero mandare all’estero i loro profitti.
«Almeno, il governo russo si rende conto che dei proprietari soggetti alla giurisdizione russa vengono disciplinati più facilmente rispetto a dei proprietari in grado di controllare le aziende dall’estero e di tenere il loro capitale attivo a Londra o in altri centri finanziari (tutti soggetti alla pressione diplomatica Usa e alle sanzioni della Nuova Guerra Fredda)».
A monte, comunque, il governo russo dovrebbe finanziare i propri deficit di bilancio semplicemente attraverso «la banca centrale che crea il denaro necessario, così come fanno gli Usa e la Gran Bretagna».
Al contrario, «alienare per sempre dei flussi di ricavi futuri per coprire solo il deficit di un anno», secondo Hudson e Craig Roberts, «è la strada per l’impoverimento e la perdita dell’indipendenza politica ed economica».
La globalizzazione? «E’ stata inventata come uno strumento dell’impero americano». La Russia se ne dovrebbe difendere, piuttosto che aprirvisi.
E le privatizzazioni «sono il mezzo per minare la sovranità economica e accrescere i profitti tramite l’aumento delle tariffe».
Che se ne rendano conto o meno, concludono i due analisti, gli economisti neoliberisti di Mosca si comportano «come le Ong finanziate dall’Occidente», che «agiscono in Russia come una quinta colonna contro l’interesse nazionale».
In altre parole, «la Russia non sarà al riparo dalla manipolazione occidentale fino a quando la propria economia non sarà impermeabile ai tentativi da parte dell’Occidente di piegarla ai propri interessi piuttosto che a quelli nazionali».
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
GIOCARE ALLA GUERRA
Isis userà sciami di droni esplosivi
E chiedersi:
1) L'Isis non ha industria per l'armamento. Chi gli fornisce queste armi?
2) Piuttosto che fare la guerra non è preferibile bloccare le aziende che li armano?
3) I soldi che provengono dal petrolio da soli bastano a sostenere l'ambaradan????
Volendo affrontare il problema si comprende che finirebbero subito i giochi di guerra. Ma sono in tantissimi a non volerlo.
Isis userà sciami di droni esplosivi
Feb 25, 2016 4 Commenti Punti di vista Franco Iacch
“È solo una questione di tempo: i terroristi utilizzeranno dei droni per colpire i grandi eventi sportivi in Europa e negli Stati Uniti”. Anche il think tank Open Briefing lancia ritiene plausibile l’impiego di uno o più droni per colpire i civili o figure di alto profilo. È senza dubbio un’ipotesi reale per una tecnologia fino a poco tempo fa di esclusiva pertinenza delle superpotenze mondiali. Il punto è proprio questo: soltanto Usa, Russia e Cina, ad esempio, hanno le risorse per costruire sistemi a bassa osservabilità, ma letteralmente chiunque può acquistare un piccolo drone. Quello che preoccupa è la capacità di adattamento dei terroristi, perché si ipotizza anche l’impiego di droni a sciami contro cui non ci sarebbe difesa.
Sappiamo già da tempo che lo Stato islamico impiega droni commerciali per la raccolta delle informazioni sia in Iraq che in Siria. La “naturale” evoluzione di una tale esperienza acquisita sul campo, potrebbe essere messa in pratica contro obiettivi occidentali come gli stadi. Questi ultimi ben si prestano per un “attacco” dal cielo. Gli stadi ospitano decine di migliaia di persone: alcune strutture sono in grado di contenere anche 90 mila tifosi. Non si prestano a tutti gli attacchi, perché a differenza della metropolitana, per esempio, attaccare con il gas uno stadio non avrebbe senso per il fatto che si trova in una condizione ottimale sotto il profilo del riciclo dell’aria.
Ma lo stadio in sé ha un fattore determinante: ospita una folla che potrebbe, in pochissimo tempo, diventare ingestibile. Lo stadio ha una caratteristica particolare: la diretta televisiva. Sappiamo che lo Stato islamico è, almeno ufficialmente, in lotta con al-Qaeda. Quest’ultima non riconosce la sovranità del Califfato. E’ in atto una sorta di guerra interna tra i due movimenti fondamentalisti.
Nonostante l’Isis abbia superato in tutto al-Qaeda (per numero di affiliati, creazione di uno stato geograficamente localizzato, etc…etc…), manca ancora del suo “spot” mondiale come quello indelebile dell’11 settembre. Ed è questo che cercano quelli dell’Isis: un “promo” del terrore in diretta mondiale per il califfo. Le decapitazioni e le torture pubblicate su youtube, possono essere viste da milioni di persone, ma tale raggio d’azione non è lontanamente paragonabile ad una diretta televisiva di una partita di calcio, seconda forse ad una partita di football americano. Un drone equipaggiato con una granata a frammentazione farebbe una strage. Il caos che seguirebbe ad un attentato del genere, farebbe il resto. Quei droni lanciati contro uno stadio che ospita un evento sportivo, sarebbero sicuramente dotati di telecamere che riprenderebbero gli attacchi per spot mondiali che resterebbero indelebili nella memoria degli occidentali. E ad oggi, contro un drone commerciale (o peggio uno sciame), non esiste contromisura, considerando che quelle standard, qualora venissero impiegate e rilevassero la minaccia, potrebbero avere anche effetti collaterali.
Nel 2013, un drone gestito dal German Pirate Party, riuscì ad atterrare vicino il cancelliere tedesco Angela Merkel, durante un evento sportivo a Dresda. Lo scorso aprile, un drone che trasportava sabbia radioattiva proveniente dalla centrale nucleare di Fukushima è atterrato sul tetto degli uffici del primo ministro giapponese a Tokyo.
Secondo gli analisti di Open Briefing, l’immediata contromisura per arginare un attacco terroristico sarebbe quella di raccogliere informazioni sulle persone sospette che hanno acquistato dei droni.
La tecnologia dei droni non è da tempo esclusiva pertinenza dei militari. Con poche centinaia di euro, chiunque può acquistare un drone stabilizzato dotato di telecamera HD e GPS. La pronta disponibilità di questo tipo di tecnologia offusca la linea tra elettronica militare e commerciale. La stessa tecnologia, ad esempio quella utilizzata nei cellulari, è già implementata nei droni. Senza considerare, infine, che un drone commerciale non deve essere necessariamente dotato di una testata esplosiva per creare un potenziale disastro. Sarebbe da stupidi, infatti, non temere la “remota” possibilità che qualcuno possa dirigere un piccolo drone acquistato pochi minuti prima al duty free, contro una turbina di un aereo in fase di rullaggio o decollo. Il fatto che sia un’ipotesi così “stupida”, non significa che non sia fattibile e potenzialmente disastrosa. L’implementazione degli esplosivi su dispositivi a basso costo, in alcuni casi rappresenta soltanto un dettaglio. L’Improvised Air Threat non deve essere necessariamente armata.
About Franco Iacch
Analista accreditato con il Ministero della Difesa e con la NATO, ho collaborato con i contingenti militari dell'Alleanza, approfondendo i principali sistemi d'arma in dotazione. Collaboro con svariati enti in tema di sicurezza internazionale.
http://www.occhidellaguerra.it/isis-use ... esplosivi/
GIOCARE ALLA GUERRA
Isis userà sciami di droni esplosivi
E chiedersi:
1) L'Isis non ha industria per l'armamento. Chi gli fornisce queste armi?
2) Piuttosto che fare la guerra non è preferibile bloccare le aziende che li armano?
3) I soldi che provengono dal petrolio da soli bastano a sostenere l'ambaradan????
Volendo affrontare il problema si comprende che finirebbero subito i giochi di guerra. Ma sono in tantissimi a non volerlo.
Isis userà sciami di droni esplosivi
Feb 25, 2016 4 Commenti Punti di vista Franco Iacch
“È solo una questione di tempo: i terroristi utilizzeranno dei droni per colpire i grandi eventi sportivi in Europa e negli Stati Uniti”. Anche il think tank Open Briefing lancia ritiene plausibile l’impiego di uno o più droni per colpire i civili o figure di alto profilo. È senza dubbio un’ipotesi reale per una tecnologia fino a poco tempo fa di esclusiva pertinenza delle superpotenze mondiali. Il punto è proprio questo: soltanto Usa, Russia e Cina, ad esempio, hanno le risorse per costruire sistemi a bassa osservabilità, ma letteralmente chiunque può acquistare un piccolo drone. Quello che preoccupa è la capacità di adattamento dei terroristi, perché si ipotizza anche l’impiego di droni a sciami contro cui non ci sarebbe difesa.
Sappiamo già da tempo che lo Stato islamico impiega droni commerciali per la raccolta delle informazioni sia in Iraq che in Siria. La “naturale” evoluzione di una tale esperienza acquisita sul campo, potrebbe essere messa in pratica contro obiettivi occidentali come gli stadi. Questi ultimi ben si prestano per un “attacco” dal cielo. Gli stadi ospitano decine di migliaia di persone: alcune strutture sono in grado di contenere anche 90 mila tifosi. Non si prestano a tutti gli attacchi, perché a differenza della metropolitana, per esempio, attaccare con il gas uno stadio non avrebbe senso per il fatto che si trova in una condizione ottimale sotto il profilo del riciclo dell’aria.
Ma lo stadio in sé ha un fattore determinante: ospita una folla che potrebbe, in pochissimo tempo, diventare ingestibile. Lo stadio ha una caratteristica particolare: la diretta televisiva. Sappiamo che lo Stato islamico è, almeno ufficialmente, in lotta con al-Qaeda. Quest’ultima non riconosce la sovranità del Califfato. E’ in atto una sorta di guerra interna tra i due movimenti fondamentalisti.
Nonostante l’Isis abbia superato in tutto al-Qaeda (per numero di affiliati, creazione di uno stato geograficamente localizzato, etc…etc…), manca ancora del suo “spot” mondiale come quello indelebile dell’11 settembre. Ed è questo che cercano quelli dell’Isis: un “promo” del terrore in diretta mondiale per il califfo. Le decapitazioni e le torture pubblicate su youtube, possono essere viste da milioni di persone, ma tale raggio d’azione non è lontanamente paragonabile ad una diretta televisiva di una partita di calcio, seconda forse ad una partita di football americano. Un drone equipaggiato con una granata a frammentazione farebbe una strage. Il caos che seguirebbe ad un attentato del genere, farebbe il resto. Quei droni lanciati contro uno stadio che ospita un evento sportivo, sarebbero sicuramente dotati di telecamere che riprenderebbero gli attacchi per spot mondiali che resterebbero indelebili nella memoria degli occidentali. E ad oggi, contro un drone commerciale (o peggio uno sciame), non esiste contromisura, considerando che quelle standard, qualora venissero impiegate e rilevassero la minaccia, potrebbero avere anche effetti collaterali.
Nel 2013, un drone gestito dal German Pirate Party, riuscì ad atterrare vicino il cancelliere tedesco Angela Merkel, durante un evento sportivo a Dresda. Lo scorso aprile, un drone che trasportava sabbia radioattiva proveniente dalla centrale nucleare di Fukushima è atterrato sul tetto degli uffici del primo ministro giapponese a Tokyo.
Secondo gli analisti di Open Briefing, l’immediata contromisura per arginare un attacco terroristico sarebbe quella di raccogliere informazioni sulle persone sospette che hanno acquistato dei droni.
La tecnologia dei droni non è da tempo esclusiva pertinenza dei militari. Con poche centinaia di euro, chiunque può acquistare un drone stabilizzato dotato di telecamera HD e GPS. La pronta disponibilità di questo tipo di tecnologia offusca la linea tra elettronica militare e commerciale. La stessa tecnologia, ad esempio quella utilizzata nei cellulari, è già implementata nei droni. Senza considerare, infine, che un drone commerciale non deve essere necessariamente dotato di una testata esplosiva per creare un potenziale disastro. Sarebbe da stupidi, infatti, non temere la “remota” possibilità che qualcuno possa dirigere un piccolo drone acquistato pochi minuti prima al duty free, contro una turbina di un aereo in fase di rullaggio o decollo. Il fatto che sia un’ipotesi così “stupida”, non significa che non sia fattibile e potenzialmente disastrosa. L’implementazione degli esplosivi su dispositivi a basso costo, in alcuni casi rappresenta soltanto un dettaglio. L’Improvised Air Threat non deve essere necessariamente armata.
About Franco Iacch
Analista accreditato con il Ministero della Difesa e con la NATO, ho collaborato con i contingenti militari dell'Alleanza, approfondendo i principali sistemi d'arma in dotazione. Collaboro con svariati enti in tema di sicurezza internazionale.
http://www.occhidellaguerra.it/isis-use ... esplosivi/
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
QUANDO IL POTERE E' IN MANO AI BOYS SCOUT
Libia, Pinotti: "Impensabile un intervento militare di occupazione"
Il ministro della Difesa Roberta Pinotti: "La Libia può essere stabilizzata solo con l’intervento delle forze locali"
Raffaello Binelli - Gio, 25/02/2016 - 15:34
commenta
Mentre si va delineando un intervento militare in Libia, con Stati Uniti e Francia che sono già presenti sul territorio con le proprie forze speciali, molti si chiedono quale sia la posizione dell'Italia.
Questo anche alla luce della notizia del via libera ai droni armati Usa (sia pure con alcuni distinguo) dalla base Nato di Sigonella. A fare il punto della situazione è il ministro della Difesa Roberta Pinotti, che al programma "La telefonata" di Belpietro (Canale 5) osserva che "la Libia può essere stabilizzata solo con l’intervento delle forze locali. Un intervento militare di occupazione del paese sarebbe impensabile".
Il primo piano da affrontare, spiega il ministro, "è la stabilizzazione, che è difficile da immaginare senza una interlocuzione con i libici stessi. Per questo aspetto - riconosce la Pinotti - è un segnale negativo la fumata nera per il voto al governo di unità nazionale e siamo preoccupati per i continui rinvii". "Quando il governo libico si sarà insediato - prosegue il ministro - ci sarà bisogno di dare una mano per la sicurezza con addestratori e anche forze di protezione e a questo stanno lavorando 19 nazioni con il coordinamento dell’Italia".
Un altro tema da tenere in seria considerazione, prosegue il ministro, è la lotta al terrorismo: "Negli ultimi mesi si è registrata un’avanzata della presenza dell’Isis e quindi si sta lavorando con gli alleati al tema dell’antiterrorismo. Bisognerà vedere - aggiunge - se da parte dell’Onu ci sarà un invito ad impedire l’avanzata dell’Isis, ma senza la Libia che collabora anche questo tema risulta difficile da affrontare".
Il ministro interviene anche sulle notizie di stampa che ieri hanno dato conto della presenza di forze speciali francesi in Libia: "Non commento le vicende che riguardano un altro paese, ma in passato accelerazioni unilaterali non hanno aiutato la Libia. Nelle riunioni ufficiali - prosegue la responsabile della Difesa - il ministro francese ha sempre riconosciuto all’Italia il ruolo di coordinamento per quanto riguarda la situazione in Libia".
QUANDO IL POTERE E' IN MANO AI BOYS SCOUT
Libia, Pinotti: "Impensabile un intervento militare di occupazione"
Il ministro della Difesa Roberta Pinotti: "La Libia può essere stabilizzata solo con l’intervento delle forze locali"
Raffaello Binelli - Gio, 25/02/2016 - 15:34
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Mentre si va delineando un intervento militare in Libia, con Stati Uniti e Francia che sono già presenti sul territorio con le proprie forze speciali, molti si chiedono quale sia la posizione dell'Italia.
Questo anche alla luce della notizia del via libera ai droni armati Usa (sia pure con alcuni distinguo) dalla base Nato di Sigonella. A fare il punto della situazione è il ministro della Difesa Roberta Pinotti, che al programma "La telefonata" di Belpietro (Canale 5) osserva che "la Libia può essere stabilizzata solo con l’intervento delle forze locali. Un intervento militare di occupazione del paese sarebbe impensabile".
Il primo piano da affrontare, spiega il ministro, "è la stabilizzazione, che è difficile da immaginare senza una interlocuzione con i libici stessi. Per questo aspetto - riconosce la Pinotti - è un segnale negativo la fumata nera per il voto al governo di unità nazionale e siamo preoccupati per i continui rinvii". "Quando il governo libico si sarà insediato - prosegue il ministro - ci sarà bisogno di dare una mano per la sicurezza con addestratori e anche forze di protezione e a questo stanno lavorando 19 nazioni con il coordinamento dell’Italia".
Un altro tema da tenere in seria considerazione, prosegue il ministro, è la lotta al terrorismo: "Negli ultimi mesi si è registrata un’avanzata della presenza dell’Isis e quindi si sta lavorando con gli alleati al tema dell’antiterrorismo. Bisognerà vedere - aggiunge - se da parte dell’Onu ci sarà un invito ad impedire l’avanzata dell’Isis, ma senza la Libia che collabora anche questo tema risulta difficile da affrontare".
Il ministro interviene anche sulle notizie di stampa che ieri hanno dato conto della presenza di forze speciali francesi in Libia: "Non commento le vicende che riguardano un altro paese, ma in passato accelerazioni unilaterali non hanno aiutato la Libia. Nelle riunioni ufficiali - prosegue la responsabile della Difesa - il ministro francese ha sempre riconosciuto all’Italia il ruolo di coordinamento per quanto riguarda la situazione in Libia".
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
Entriamo in guerra con il personale politico più scadente della storia d'Italia.
Ritornano in mente le parole di Giovanni Sartori di due anni fa, sul Corriere della Sera:
"QUESTO E' UN GOVERNO DI INCAPACI GUIDATO DA UN INCAPACE"
Drammaticamente vero allora, tragicamente vero oggi che stiamo entrando in guerra.
Ci risiamo.
Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L'ora delle decisioni irrevocabili.
Il consiglio della Difesa: “Pronti al supporto in Libia se ce lo chiedono”
ANSA
Un momento della riunione del Consiglio Supremo di Difesa con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il presidente del Consiglio Matteo Renzi e alcuni ministri al Palazzo del Quirinale, Roma, 25 febbraio 2016
25/02/2016
L’Italia è pronta ad una missione militare di supporto in Libia, nel momento in cui le autorità libiche dovessero avanzare la richiesta. Sarà un contingente con numeri bassi, con il compito essenzialmente di addestrare le forze locali e sorvegliare siti sensibili come ambasciate e palazzi istituzionali. Gli scenari sono stati discussi nel pomeriggio al Quirinale, nella riunione del Consiglio supremo di Difesa, presieduto dal capo dello Stato, Sergio Mattarella.
L’organismo, si legge nella nota finale, ha «attentamente valutata la situazione in Libia, con riferimento sia al travagliato percorso di formazione del Governo di accordo nazionale sia alle predisposizioni per una eventuale missione militare di supporto su richiesta delle autorità libiche». La posizione italiana, dunque, non cambia, come ha spiegato il ministro della Difesa, Roberta Pinotti. «La Libia - ha sottolineato - può essere stabilizzata solo con l’intervento delle forze locali. Un intervento militare di occupazione del paese sarebbe impensabile».
L’attesa è dunque per le faticose trattative che dovrebbero portare alla formazione del Governo di accordo nazionale, sul quale l’Italia continua a scommettere. Lunedì il Parlamento di Tobruk dovrebbe pronunciarsi. Se ci sarà l’ok e l’esecutivo di unità nazionale si insedierà, partirà la richiesta di assistenza alla comunità internazionale cui risponderà anche l’Italia. Il numero di militari di vari Paesi ipotizzato è sui 5mila ma su questo niente è stato ancora deciso. Il contingente internazionale non dovrà essere vissuto dai libici come “forza di occupazione” e per questo i militari agiranno insieme alle forze di sicurezza locali.
L’altro fronte aperto in Libia è quello del contrasto all’Isis, diventato una priorità. E su questo la comunità internazionale viaggia in ordine sparso, con gli Stati Uniti che fanno raid aerei e le forze speciali francesi che agiscono da tempo dell’Est del Paese. Il ministro Pinotti non ha nascosto il suo disappunto. «Non commento le vicende che riguardano un altro paese - ha detto - ma in passato accelerazioni unilaterali non hanno aiutato la Libia. Nelle riunioni ufficiali - ha aggiunto - il ministro francese ha sempre riconosciuto all’Italia il ruolo di coordinamento per quanto riguarda la situazione in Libia». Anche su questo versante Roma attende la richiesta di aiuto dei libici ed anche un’indicazione da parte dell’Onu. L’Italia è comunque pronta a tutti gli scenari, anche in caso di accelerazioni improvvise, con la cautela però di non prestare il fianco a possibili ritorsioni terroristiche che la vedrebbero in prima linea.
Ma non c’è solo la Libia a preoccupare. Il Consiglio Supremo ha esaminato anche gli sviluppi in Siria e Iraq, dove saranno presto inviati rinforzi: 130 militari ad Erbil con il compito di recuperare i feriti e circa 500 a protezione dei lavori della ristrutturazione della diga di Mosul. È stato poi analizzato con preoccupazione l’andamento dei flussi migratori nell’area balcanica. Ad allarmare sono le possibili infiltrazioni terroristiche, visto che nei Paesi balcanici (dal Kosovo all’Albania, alla Macedonia) sono segnalati covi jihadisti. La vigilanza è dunque alta alle frontiere del Nord-Est, dove potrebbero essere inviati ulteriori rinforzi di polizia. Infine, nella riunione è stato registrato anche il fatto che il decreto missioni è da tempo scaduto e dunque serve al più presto approvare il nuovo provvedimento di rifinanziamento.
https://www.lastampa.it/2016/02/25/este ... agina.html
Entriamo in guerra con il personale politico più scadente della storia d'Italia.
Ritornano in mente le parole di Giovanni Sartori di due anni fa, sul Corriere della Sera:
"QUESTO E' UN GOVERNO DI INCAPACI GUIDATO DA UN INCAPACE"
Drammaticamente vero allora, tragicamente vero oggi che stiamo entrando in guerra.
Ci risiamo.
Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L'ora delle decisioni irrevocabili.
Il consiglio della Difesa: “Pronti al supporto in Libia se ce lo chiedono”
ANSA
Un momento della riunione del Consiglio Supremo di Difesa con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il presidente del Consiglio Matteo Renzi e alcuni ministri al Palazzo del Quirinale, Roma, 25 febbraio 2016
25/02/2016
L’Italia è pronta ad una missione militare di supporto in Libia, nel momento in cui le autorità libiche dovessero avanzare la richiesta. Sarà un contingente con numeri bassi, con il compito essenzialmente di addestrare le forze locali e sorvegliare siti sensibili come ambasciate e palazzi istituzionali. Gli scenari sono stati discussi nel pomeriggio al Quirinale, nella riunione del Consiglio supremo di Difesa, presieduto dal capo dello Stato, Sergio Mattarella.
L’organismo, si legge nella nota finale, ha «attentamente valutata la situazione in Libia, con riferimento sia al travagliato percorso di formazione del Governo di accordo nazionale sia alle predisposizioni per una eventuale missione militare di supporto su richiesta delle autorità libiche». La posizione italiana, dunque, non cambia, come ha spiegato il ministro della Difesa, Roberta Pinotti. «La Libia - ha sottolineato - può essere stabilizzata solo con l’intervento delle forze locali. Un intervento militare di occupazione del paese sarebbe impensabile».
L’attesa è dunque per le faticose trattative che dovrebbero portare alla formazione del Governo di accordo nazionale, sul quale l’Italia continua a scommettere. Lunedì il Parlamento di Tobruk dovrebbe pronunciarsi. Se ci sarà l’ok e l’esecutivo di unità nazionale si insedierà, partirà la richiesta di assistenza alla comunità internazionale cui risponderà anche l’Italia. Il numero di militari di vari Paesi ipotizzato è sui 5mila ma su questo niente è stato ancora deciso. Il contingente internazionale non dovrà essere vissuto dai libici come “forza di occupazione” e per questo i militari agiranno insieme alle forze di sicurezza locali.
L’altro fronte aperto in Libia è quello del contrasto all’Isis, diventato una priorità. E su questo la comunità internazionale viaggia in ordine sparso, con gli Stati Uniti che fanno raid aerei e le forze speciali francesi che agiscono da tempo dell’Est del Paese. Il ministro Pinotti non ha nascosto il suo disappunto. «Non commento le vicende che riguardano un altro paese - ha detto - ma in passato accelerazioni unilaterali non hanno aiutato la Libia. Nelle riunioni ufficiali - ha aggiunto - il ministro francese ha sempre riconosciuto all’Italia il ruolo di coordinamento per quanto riguarda la situazione in Libia». Anche su questo versante Roma attende la richiesta di aiuto dei libici ed anche un’indicazione da parte dell’Onu. L’Italia è comunque pronta a tutti gli scenari, anche in caso di accelerazioni improvvise, con la cautela però di non prestare il fianco a possibili ritorsioni terroristiche che la vedrebbero in prima linea.
Ma non c’è solo la Libia a preoccupare. Il Consiglio Supremo ha esaminato anche gli sviluppi in Siria e Iraq, dove saranno presto inviati rinforzi: 130 militari ad Erbil con il compito di recuperare i feriti e circa 500 a protezione dei lavori della ristrutturazione della diga di Mosul. È stato poi analizzato con preoccupazione l’andamento dei flussi migratori nell’area balcanica. Ad allarmare sono le possibili infiltrazioni terroristiche, visto che nei Paesi balcanici (dal Kosovo all’Albania, alla Macedonia) sono segnalati covi jihadisti. La vigilanza è dunque alta alle frontiere del Nord-Est, dove potrebbero essere inviati ulteriori rinforzi di polizia. Infine, nella riunione è stato registrato anche il fatto che il decreto missioni è da tempo scaduto e dunque serve al più presto approvare il nuovo provvedimento di rifinanziamento.
https://www.lastampa.it/2016/02/25/este ... agina.html
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Re: La Terza Guerra Mondiale
Nessuno parla più dell'Afganistan.Abbiamo immigrati che vengono da lì.
Quindi dopo 15 anni non abbiamo risolto nulla di quella nazione.
Bravi soldi buttati al vento.
Ciao
Paolo11
Quindi dopo 15 anni non abbiamo risolto nulla di quella nazione.
Bravi soldi buttati al vento.
Ciao
Paolo11
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Re: La Terza Guerra Mondiale
I GIORNI DEL KAOS
Stiamo per entrare in guerra oppure è solo per l’incremento dell’invasione degli immigrati, che è sempre una guerra.
Guerra tra i poveri. Come è stata progettata da Soros e dalla CIA.
Nei mesi scorsi il pifferaio di Rignano ha messo in campo la STEPCHILD ADOPTION per distogliere l’attenzione dai temi principali. Guerra compresa.
Adesso ripropongono un DDL sulle adozioni. Perché?
La NATO ha dato l’ordine di concentrare gli immigrati in Italia.
Da ieri è allarme in Puglia per il cambiamento della rotta balcanica.
La Grecia è scoppiata.
Ora tocca a noi.
Oppure la guerra in Libia è dietro l’angolo?
Francesco fa il Suo mestiere e ha ragione nel dire quanto ha dichiarato all’Angelus.
Ma nella realtà della guerra promossa da Soros e dalla CIA, NON BASTA.
Migranti, Papa Francesco all’Europa: “Subito negoziati per risposta corale: bisogna distribuire equamente”
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/02 ... e/2503504/
Stiamo per entrare in guerra oppure è solo per l’incremento dell’invasione degli immigrati, che è sempre una guerra.
Guerra tra i poveri. Come è stata progettata da Soros e dalla CIA.
Nei mesi scorsi il pifferaio di Rignano ha messo in campo la STEPCHILD ADOPTION per distogliere l’attenzione dai temi principali. Guerra compresa.
Adesso ripropongono un DDL sulle adozioni. Perché?
La NATO ha dato l’ordine di concentrare gli immigrati in Italia.
Da ieri è allarme in Puglia per il cambiamento della rotta balcanica.
La Grecia è scoppiata.
Ora tocca a noi.
Oppure la guerra in Libia è dietro l’angolo?
Francesco fa il Suo mestiere e ha ragione nel dire quanto ha dichiarato all’Angelus.
Ma nella realtà della guerra promossa da Soros e dalla CIA, NON BASTA.
Migranti, Papa Francesco all’Europa: “Subito negoziati per risposta corale: bisogna distribuire equamente”
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/02 ... e/2503504/
Chi c’è in linea
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