Re: Il dilemma: ambiente/salute o lavoro?
Inviato: 27/11/2012, 14:24
INVECE CONCITA
di Concita De Gregorio
27NOV2012
Rettili e minerali
Anche a non essere lombrosiani, e diventa ogni giorno più difficile, lo spettacolo dei volti dei Riva padre e figlio e del loro ufficiale pagatore Girolamo Archinà dice della vicenda Ilva almeno quanto, forse più delle parole. Che l’erede di una fortuna costruita sulla morte per cancro di centinaia di operai dica al telefono ‘Due tumori in piú? Una michiata’ e’ un’enormità non tanto aggravata quanto illustrata dalla sua faccia. Rettili, questo sembrano i tre affiancati in foto. Archinà, l’equivalente del ragionier Spinelli, come ciascuno in città sa aveva a libro paga non Olgettine ma arcivescovi e cardinali.
Che per 52 anni la chiesa tarantina si sia lasciata zittire con una mancia mensile é della storia il dettaglio più indecente. Con una mano si avvelenavano i lavoratori e con l’altra si costruiva, nel quartiere della morte – i Tamburi – la chiesa di Gesù divin lavoratore con un mosaico in stile socialismo reale dove i dirigenti della fabbrica e gli operai, i pescatori e i padroni, tutti insieme, rendono omaggio al dono del lavoro portato dal Cristo. All’ombra di quel mosaico e in cambio dei denari avuti per altre magnificenti opere di carità i preti hanno per anni consolato le vedove e le orfane, che vuoi ragazza mia, e’ il volere del Signore. Se gli uomini morivano a 40 anni, se i bambini nascevano con la leucemia. Una fatalità, preghiamo.
Saggi, intanto, gli amministratori e i politici che si sono succeduti nelle decadi si sono ben guardati dall’aprire a Taranto un centro pubblico di oncologia pediatrica: i bimbi malati meglio mandarli a curarsi e a morire fuori ,così non entrano nel conto in carico alla città e non fanno statistica. I bambini: gli stessi che nei loro disegni dipingono la fabbrica che sputa ‘ minerale’ come un drago. I bambini che tornano da scuola con la faccia che luccica di polvere, i ‘minori’ che secondo l’ordinanza del sindaco è meglio non far giocare per strada, ai Tamburi. Teneteli a casa.
Come al solito le parole sulla tragedia della chiusura dello stabilimento e della perdita del lavoro per una città intera sono fuori luogo. Pare trattarsi di una catasofe naturale: un terremoto, uno tsunami improvviso, la mano di un giudice dissennato, un imprevedibile accidente. Ma che a Taranto si muore di cancro e che la fabbrica che dà da vivere è la stessa che stermina famiglie intere lo sanno tutti da decenni e lo sopportano: gli ultimi perché non hanno alternative, tutti gli altri perchè gli conviene. Chiunque ti spiega il ‘peccato originale’ quale sia stato: aver deciso di collocare la zona di stoccaggio e di lavorazione a caldo a ridosso della città e non dal lato opposto come sarebbe stato logico. Perché? Per risparmiare qualche metro di nastro trasportatore dei materiali dal porto. Per spendere meno, insomma, e pazienza se le fornaci che sputano veleno minerale stanno a ridosso delle case. Quando? 52 anni fa, nel 1960. Mezzo secolo.
Ce ne sarebbe stato di tempo per chiedere ai padroni dell’acciaio, da ultimo ai Riva, interventi di bonifica drastici, per obbligarli con le leggi, per evitare di lasciarsi comprare e per denunciare i corrotti. Per evitare che si arrivasse al punto in cui a pagare sono come sempre quelli che hanno da vendere soltano il loro lavoro, la vita compresa nel prezzo, e di entrambi restano senza. Le lacrime di coccodrillo, parlando di rettili, sono una pratica ignobile e in tempi come i nostri insopportabile. Suscitano rabbia e furore, legittimi. Se fossi un candidato premier oggi sarei all’Ilva a parlare con gli operai che la occupano: soprattutto sarei lì ad ascoltarli e pazienza se insultano. Hanno ragione loro e bisogna dirglielo. Assumersi le proprie responsabilita, scusarsi senza dar le colpe ad altri che le colpe politiche si ereditano e si scontano, ascoltarli e dire: avete ragione.
di Concita De Gregorio
27NOV2012
Rettili e minerali
Anche a non essere lombrosiani, e diventa ogni giorno più difficile, lo spettacolo dei volti dei Riva padre e figlio e del loro ufficiale pagatore Girolamo Archinà dice della vicenda Ilva almeno quanto, forse più delle parole. Che l’erede di una fortuna costruita sulla morte per cancro di centinaia di operai dica al telefono ‘Due tumori in piú? Una michiata’ e’ un’enormità non tanto aggravata quanto illustrata dalla sua faccia. Rettili, questo sembrano i tre affiancati in foto. Archinà, l’equivalente del ragionier Spinelli, come ciascuno in città sa aveva a libro paga non Olgettine ma arcivescovi e cardinali.
Che per 52 anni la chiesa tarantina si sia lasciata zittire con una mancia mensile é della storia il dettaglio più indecente. Con una mano si avvelenavano i lavoratori e con l’altra si costruiva, nel quartiere della morte – i Tamburi – la chiesa di Gesù divin lavoratore con un mosaico in stile socialismo reale dove i dirigenti della fabbrica e gli operai, i pescatori e i padroni, tutti insieme, rendono omaggio al dono del lavoro portato dal Cristo. All’ombra di quel mosaico e in cambio dei denari avuti per altre magnificenti opere di carità i preti hanno per anni consolato le vedove e le orfane, che vuoi ragazza mia, e’ il volere del Signore. Se gli uomini morivano a 40 anni, se i bambini nascevano con la leucemia. Una fatalità, preghiamo.
Saggi, intanto, gli amministratori e i politici che si sono succeduti nelle decadi si sono ben guardati dall’aprire a Taranto un centro pubblico di oncologia pediatrica: i bimbi malati meglio mandarli a curarsi e a morire fuori ,così non entrano nel conto in carico alla città e non fanno statistica. I bambini: gli stessi che nei loro disegni dipingono la fabbrica che sputa ‘ minerale’ come un drago. I bambini che tornano da scuola con la faccia che luccica di polvere, i ‘minori’ che secondo l’ordinanza del sindaco è meglio non far giocare per strada, ai Tamburi. Teneteli a casa.
Come al solito le parole sulla tragedia della chiusura dello stabilimento e della perdita del lavoro per una città intera sono fuori luogo. Pare trattarsi di una catasofe naturale: un terremoto, uno tsunami improvviso, la mano di un giudice dissennato, un imprevedibile accidente. Ma che a Taranto si muore di cancro e che la fabbrica che dà da vivere è la stessa che stermina famiglie intere lo sanno tutti da decenni e lo sopportano: gli ultimi perché non hanno alternative, tutti gli altri perchè gli conviene. Chiunque ti spiega il ‘peccato originale’ quale sia stato: aver deciso di collocare la zona di stoccaggio e di lavorazione a caldo a ridosso della città e non dal lato opposto come sarebbe stato logico. Perché? Per risparmiare qualche metro di nastro trasportatore dei materiali dal porto. Per spendere meno, insomma, e pazienza se le fornaci che sputano veleno minerale stanno a ridosso delle case. Quando? 52 anni fa, nel 1960. Mezzo secolo.
Ce ne sarebbe stato di tempo per chiedere ai padroni dell’acciaio, da ultimo ai Riva, interventi di bonifica drastici, per obbligarli con le leggi, per evitare di lasciarsi comprare e per denunciare i corrotti. Per evitare che si arrivasse al punto in cui a pagare sono come sempre quelli che hanno da vendere soltano il loro lavoro, la vita compresa nel prezzo, e di entrambi restano senza. Le lacrime di coccodrillo, parlando di rettili, sono una pratica ignobile e in tempi come i nostri insopportabile. Suscitano rabbia e furore, legittimi. Se fossi un candidato premier oggi sarei all’Ilva a parlare con gli operai che la occupano: soprattutto sarei lì ad ascoltarli e pazienza se insultano. Hanno ragione loro e bisogna dirglielo. Assumersi le proprie responsabilita, scusarsi senza dar le colpe ad altri che le colpe politiche si ereditano e si scontano, ascoltarli e dire: avete ragione.