Re: Economia
Inviato: 17/01/2015, 11:23
DA REPUBBLICA.IT
Ora anche Bruxelles vede la macelleria sociale della crisi Ue
di MAURIZIO RICCI
Ora anche Bruxelles vede la macelleria sociale della crisi Ue
Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea
ROMA -"La crisi ha accresciuto il disagio finanziario e i livelli di debito delle famiglie, esacerbato la povertà e l'esclusione sociale, indebolito i legami sociali e spinto molte famiglie e molte persone ad affidarsi a un sostegno informale". Ed ecco i responsabili: "Il deterioramento della situazione sociale per un prolungato periodo di tempo ha avuto un impatto negativo sulla fiducia e sulla credibilità di governi e istituzioni e della loro capacità di farvi fronte".
Syriza? Podemos? Tsipras che chiude la campagna elettorale? I populisti di sinistra in genere? Niente affatto. Chi parla così è la Commissione di Bruxelles, in un documento ufficiale: il rapporto annuale sulla situazione sociale europea, appena uscito. Vi si racconta di un continente devastato dalla crisi e non si riesce a nascondere la macelleria sociale imposta dalle ricette scelte per affrontare la crisi. Un fallimento racchiuso in due numeri. Il Pil degli Stati Uniti, dove la crisi è nata, è oggi più alto dell'8 per cento rispetto al 2007, mentre quello europeo è ancora inferiore al livello di sette anni fa.
La Banca centrale europea si appresta, con ogni probabilità, a varare misure inedite e rivoluzionarie nei prossimi giorni, ma, per quanto coraggiosi, gli interventi di politica monetaria non possono, da soli, ribaltare il collasso della struttura sociale europea. Il mercato del lavoro, teatro in questi anni di drastici e, occasionalmente, brutali esperimenti che avrebbero dovuto
renderlo più fluido ed efficiente continua a mandare segnali di allarme. La disoccupazione è al 10 per cento e, secondo il rapporto, ci vorranno anni, prima che si torni alla situazione precrisi.
L'Italia ha perso 1 milione 200 mila posti di lavoro, la Spagna 3,4 milioni, la Grecia (su una popolazione di 10 milioni di abitanti) un milione. Le riforme non hanno impedito che i disoccupati a lungo termine raddoppiassero, in particolare fra i giovani. E la qualità del lavoro, anche quando c'è, continua a peggiorare.
In Europa, ci sono oltre 3 milioni di posti part time in più (una crescita dell'8 per cento) contro un crollo di nove milioni e mezzo nel conto dei contratti a tempo indeterminato (meno 5,2 per cento). In Spagna, la percentuale di part time sul totale dei contratti è aumentata di oltre un terzo, dall'11,6 per cento del 2007 al 15,8 per cento del 2013, mentre i contratti a tempo pieno perdevano dieci punti: dal 31,6 per cento del totale al 23,1 per cento. In Italia, il part time è salito dal 13,6 per cento del totale fino a sfiorare il 18 per cento. E il lavoro precario e instabile non sembra mantenere le promesse di assestamento. In Italia, il tasso di trasformazione di contratti part time in contratti a tempo pieno, dicono i dati Ue, oscilla fra il 20-25 per cento. E anche in Germania non siamo sopra il 40-45 per cento.
In ossequio all'ortodossia dominante, la Commissione non può fare a meno di mostrare apprezzamento per il progressivo spostamento della protezione sociale dalla difesa del posto di lavoro alla difesa di una vita di lavoro, attraverso il sostegno nella riqualificazione professionale. Ma, anche qui, molte sono le promesse tradite. La più ovvia: in circa metà degli Stati Ue la spesa in scuola ed educazione non è aumentata, è diminuita. Il risultato complessivo è, nei paesi più colpiti dalla crisi, un aggravarsi degli squilibri sociali.
In Italia, in Spagna, in Grecia, il 20 per cento più ricco della popolazione guadagna oggi sei-sette volte di più del restante 80 per cento. In ogni caso, neanche l'impegno riformatore può bastare, neppure coniugato con la politica monetaria, a rialzare l'Europa dal baratro della crisi. Il rapporto della Commissione riconosce, tra le righe, quanto molti economisti sostengono da tempo: c'è bisogno di margini più ampi nella politica di bilancio. L'ammodernamento delle istituzioni, la fluidificazione del mercato del lavoro, le liberalizzazioni dei mercati sono importanti, ma, dice il rapporto, "c'è da aspettarsi che abbiano un impatto limitato in un contesto di domanda debole".
(17 gennaio 2015)
Ora anche Bruxelles vede la macelleria sociale della crisi Ue
di MAURIZIO RICCI
Ora anche Bruxelles vede la macelleria sociale della crisi Ue
Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea
ROMA -"La crisi ha accresciuto il disagio finanziario e i livelli di debito delle famiglie, esacerbato la povertà e l'esclusione sociale, indebolito i legami sociali e spinto molte famiglie e molte persone ad affidarsi a un sostegno informale". Ed ecco i responsabili: "Il deterioramento della situazione sociale per un prolungato periodo di tempo ha avuto un impatto negativo sulla fiducia e sulla credibilità di governi e istituzioni e della loro capacità di farvi fronte".
Syriza? Podemos? Tsipras che chiude la campagna elettorale? I populisti di sinistra in genere? Niente affatto. Chi parla così è la Commissione di Bruxelles, in un documento ufficiale: il rapporto annuale sulla situazione sociale europea, appena uscito. Vi si racconta di un continente devastato dalla crisi e non si riesce a nascondere la macelleria sociale imposta dalle ricette scelte per affrontare la crisi. Un fallimento racchiuso in due numeri. Il Pil degli Stati Uniti, dove la crisi è nata, è oggi più alto dell'8 per cento rispetto al 2007, mentre quello europeo è ancora inferiore al livello di sette anni fa.
La Banca centrale europea si appresta, con ogni probabilità, a varare misure inedite e rivoluzionarie nei prossimi giorni, ma, per quanto coraggiosi, gli interventi di politica monetaria non possono, da soli, ribaltare il collasso della struttura sociale europea. Il mercato del lavoro, teatro in questi anni di drastici e, occasionalmente, brutali esperimenti che avrebbero dovuto
renderlo più fluido ed efficiente continua a mandare segnali di allarme. La disoccupazione è al 10 per cento e, secondo il rapporto, ci vorranno anni, prima che si torni alla situazione precrisi.
L'Italia ha perso 1 milione 200 mila posti di lavoro, la Spagna 3,4 milioni, la Grecia (su una popolazione di 10 milioni di abitanti) un milione. Le riforme non hanno impedito che i disoccupati a lungo termine raddoppiassero, in particolare fra i giovani. E la qualità del lavoro, anche quando c'è, continua a peggiorare.
In Europa, ci sono oltre 3 milioni di posti part time in più (una crescita dell'8 per cento) contro un crollo di nove milioni e mezzo nel conto dei contratti a tempo indeterminato (meno 5,2 per cento). In Spagna, la percentuale di part time sul totale dei contratti è aumentata di oltre un terzo, dall'11,6 per cento del 2007 al 15,8 per cento del 2013, mentre i contratti a tempo pieno perdevano dieci punti: dal 31,6 per cento del totale al 23,1 per cento. In Italia, il part time è salito dal 13,6 per cento del totale fino a sfiorare il 18 per cento. E il lavoro precario e instabile non sembra mantenere le promesse di assestamento. In Italia, il tasso di trasformazione di contratti part time in contratti a tempo pieno, dicono i dati Ue, oscilla fra il 20-25 per cento. E anche in Germania non siamo sopra il 40-45 per cento.
In ossequio all'ortodossia dominante, la Commissione non può fare a meno di mostrare apprezzamento per il progressivo spostamento della protezione sociale dalla difesa del posto di lavoro alla difesa di una vita di lavoro, attraverso il sostegno nella riqualificazione professionale. Ma, anche qui, molte sono le promesse tradite. La più ovvia: in circa metà degli Stati Ue la spesa in scuola ed educazione non è aumentata, è diminuita. Il risultato complessivo è, nei paesi più colpiti dalla crisi, un aggravarsi degli squilibri sociali.
In Italia, in Spagna, in Grecia, il 20 per cento più ricco della popolazione guadagna oggi sei-sette volte di più del restante 80 per cento. In ogni caso, neanche l'impegno riformatore può bastare, neppure coniugato con la politica monetaria, a rialzare l'Europa dal baratro della crisi. Il rapporto della Commissione riconosce, tra le righe, quanto molti economisti sostengono da tempo: c'è bisogno di margini più ampi nella politica di bilancio. L'ammodernamento delle istituzioni, la fluidificazione del mercato del lavoro, le liberalizzazioni dei mercati sono importanti, ma, dice il rapporto, "c'è da aspettarsi che abbiano un impatto limitato in un contesto di domanda debole".
(17 gennaio 2015)