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La guerra in corso con l’Occidente è una guerra asimmetrica. Le forze armate del nascente Califfato stanno a zero. Mentre le forze armate dell’Occidente stanno a 100.
Ragion per cui, l’unica guerra praticabile da parte del Califfato è quella del terrorismo.
Si sono impegnati anche nel terrorismo mediatico. E a detta di molti lo stanno facendo molto bene.
Forse non è così perché se sono in possesso di parte delle armi di Gheddafi, e forse di armi di sterminio , non vanno sottostimati, comunque la risposta più valida va data sui media , su internet, vanno combattuti sul loro falso credo con l'aiuto fondamentale dell'Islam moderato, vanno bombardati sulle loro false credenze, vanno messi di fronte alla loro realtà , alla loro crudeltà, al fatto che sono imbottiti di droga e di viagra per combattere.
Detto questo, sostenere le forze militari dell'Islam moderato, quello riconosciuto, e gli stati confinanti Giordania, Egitto, partecipare poi con carabinieri per restaurare l'ordine, ritirare l'enorme massa di ARMI, E INFINE distribuire ,
come voleva Gheddaffi, la ricchezza notevole del paese ai cittadini (dopo che hanno consegnato le armi).
Hathor Pentalpha e Isis, il romanzo criminale che ci attende
Scritto il 02/1/15 • nella Categoria: Recensioni • (5)
Globalizzazione violenta, a mano armata.
Un progetto criminale, deviato, spietato. Coltivato e attuato da criminali. Attorno a loro, una corte di politici, capi di Stato, economisti, giornalisti.
Tutti a ripetere la canzoncina bugiarda del neoliberismo: lo Stato non conta più, è roba vecchia, a regolare il mondo basta e avanza il “libero mercato”.
Peccato che il paradiso golpista dell’élite non possa prescindere dallo Stato, l’ingombrante monopolista della moneta e delle tasse.
Lo Stato va quindi conquistato, occupato militarmente per via elettorale.
Deve capitolare, rinnegare la sua funzione storica, servire le multinazionali e non più i cittadini, che devono semplicemente ridiventare sudditi, pagare sempre più tasse, veder sparire i diritti conquistati in due secoli, elemosinare un lavoro precario e sottopagato.
Le menti del commissariamento mondiale sono state chiamate oligarchia, impero, tecnocrati, destra economica, finanza, banche, neo-capitalismo.
Gioele Magaldi chiama costoro con un altro nome: “Massoni”, come il titolo del suo libro esplosivo.
E mette sul piatto 650 pagine di rivelazioni, che stanno scalando le classifiche editoriali nell’assordante silenzio dei media mainstream.
Si tratta di massoni speciali, potentissimi, interconnessi fra loro nel super-network segreto delle Ur-Lodges.
Uomini del massimo potere, abituati da sempre a influire nelle grandi decisioni geopolitiche, condizionando istituzioni che – in Occidente, a partire dagli Usa – vengono considerate esse stesse una sorta di emanazione massonica: senza il secolare impegno laico della “libera muratoria” europea nella lotta contro l’oscurantismo vaticano e l’assolutismo monarchico, non avremmo avuto gli Stati moderni, la scienza moderna, la cultura moderna.
Erano massoni i maggiori scienziati – da Newton a Einstein – così come i maggiori letterati e musicisti. Massoni anche i padri fondatori degli Stati Uniti. Massone l’americano Roosevelt, spettacolare campione della spesa pubblica vocata allo sviluppo della piena occupazione, secondo il credo del più grande economista del ‘900, il massone inglese John Maynard Keynes, su cui si basa tutta la sinistra europea marxista e post-marxista che ha messo in piedi il grandioso sistema di protezione sociale del welfare, fondato sulla sovranità democratica e monetaria per mitigare gli appetiti antisociali del “libero mercato”.
La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, promossa dalla “libera muratrice” Eleanor Roosevelt alle Nazioni Unite, l’assemblea planetaria eretta sulle rovine della Seconda Guerra Mondiale, prefigura un’umanità redenta, liberata, globalizzata nei diritti e nelle aspirazioni al futuro.
Esattamente il contrario dell’attuale globalizzazione neo-schiavistica, aristocratica, mercantilista, neo-feudale. Un disegno cinico e reazionario, oggi chiamato semplicemente “crisi”, sviluppato negli anni ‘70 dai ristrettissimi circoli elitari internazionali preoccupati dall’avanzata del loro grande nemico: la democrazia.
Da qui il famigerato memorandum di Lewis Powell per stroncare la sinistra in tutto l’Occidente e il manifesto “La crisi della democrazia” promosso dalla Commissione Trilaterale sempre con lo stesso obiettivo: collocare i propri uomini (Thatcher, Reagan, Kohl, Mitterrand) alla guida dei paesi-chiave, per occupare lo Stato e traviarlo, in modo che non servisse più l’interesse pubblico, ma obbedisse ai diktat delle grandi lobby, l’industria delle armi, le grandi multinazionali invadenti e totalitarie.Una storia già raccontata?
Sì, anche, da diversi analisti “eretici”. Ma mai, finora, dallo sconcertante punto di osservazione del massone Magaldi, che fornisce dettagli inediti e spiegazioni spiazzanti, partendo da una rivelazione capitale: tutti gli uomini del massimo potere, nel ‘900, sono sempre stati accomunati dall’iniziazione esoterica. Questo fa di loro gli esponenti privilegiati di un circuito cosmopolita autoreferenziale e invisibile, protetto, ma al tempo stesso profondamente dialettico, non sempre concorde.
Anzi, proprio alla guerra sotterranea che ha dilaniato il “terzo livello” del super-potere è dedicata la straordinaria contro-lettura di Magaldi: che nel golpe in Cile, ad esempio, non vede solo il noto complotto delle multinazionali americane per colpire il governo socialista, pericolosamente amico dei lavoratori e dei loro salari, ma anche – e soprattutto, in questo caso – il ruolo decisivo del massone Kissinger nel colpo di Stato promosso dalla Cia contro il massone Allende, come monito all’intera America Latina, da ridurre a periferia coloniale, e anche alla stessa Europa, dove le stesse “menti raffinatissime” hanno organizzato il “golpe dei colonnelli” in Grecia e i tre tentativi di colpo di Stato in Italia, affidati a Borghese e Sogno ma supervisionati da Licio Gelli, emissario della potentissima superloggia “Three Eyes”, quella di Kissinger.
Sul fronte opposto, si è mossa nell’ombra la “fratellanza bianca” delle superlogge progressiste, per tentare di rintuzzare i colpi dei “grembiulini” oligarchici. Come in un romanzo di Dan Brown, in un film di Harry Potter? Non a caso, sostiene Magaldi: proprio nel cinema e nella letteratura, negli ultimi anni, si è concentrata l’azione delle Ur-Lodges democratiche, in attesa di una grande riscossa – pace contro guerra, diritti contro privilegi – di cui lo stesso libro del “gran maestro” del Grande Oriente Democratico, affiliato alla superloggia progressista “Thomas Paine”, è parte integrante. Per credere a Magaldi, all’inizio della lettura, occorre accettare di indossare i suoi occhiali.
Poi, però, già dopo poche pagine, diventa impossibile togliergli: quelli che aggiunge, infatti, sono preziosi tasselli che spiegano ancor meglio i passaggi-chiave della storia del “secolo breve”, senza mai discostarsi dalla verità accertata, dalla storiografia corrente. Solo (si fa per dire) Magaldi aggiunge nomi e cognomi. Completa la storia che già conosciamo integrandola con indizi inequivocabili, che illuminano retroscena finora rimasti in ombra.
I riflessi della “grande guerra” che Magaldi racconta li stiamo pagando oggi: la crescita delle masse in Occidente è finita, e il mondo è sull’orlo della Terza Guerra Mondiale. Tutto è cominciato alla fine degli anni ‘60, prima con la morte di Giovanni XXIII e John Fitzgerald Kennedy, poi con il doppio omicidio di Bob Kennedy e Martin Luther King, che le Ur-Lodges progressiste volevano entrambi alla Casa Bianca. Nessuno si stupisca, dice Magaldi, se da allora la sinistra è stata sconfitta in modo sistematico: hanno vinto “loro”, i padreterni neo-feudali che volevano confiscare i diritti democratici e le garanzie del lavoro, retrocedendo i cittadini occidentali al rango di sudditi impauriti dal futuro e assediati dal bisogno.
Sempre “loro”, gli egemoni, si sarebbero persino abbandonati a un clamoroso regolamento di conti: il clan che voleva George Bush alla Casa Bianca avrebbe fatto sparare a Reagan, e i sostenitori occulti di Reagan, per rappresaglia, di lì a poco avrebbero promosso l’attentato simmetrico a Wojtyla, eletto Papa anche col sostegno occulto degli amici di Bush.Poi, su tutto, è calato l’ambiguo sudario della pax massonica, suggellato nello storico patto “United Freemasons for Globalization”, sottoscritto nel 1981 non solo dalle superlogge occidentali di destra e di sinistra, ma anche dai “confratelli” sovietici alla vigilia della Perestrojka di Gorbaciov e dagli stessi cinesi, in vista delle grandiose riforme del “fratello” Deng Xiaoping. Peccato che però qualcuno abbia “esagerato”, riconosce il super-massone oligarchico che si firma “Frater Kronos”, nella sconcertante appendice del libro di Magaldi, in cui quattro pesi massimi delle Ur-Lodges si confrontano sulla trattazione, dopo aver aiutato il massone italiano a mettere in piazza tanti segreti di famiglia. “Frater Kronos”, su cui si lesinano le informazioni personali per mascherarne l’identità, dimostra l’autorevolezza del grande vecchio del potere occidentale. «No, non sono il fratello Kissinger», scherza, quasi a suggerire che potrebbe trattarsi di un pari grado, del calibro di Zbigniew Brzezinski.
Anche “Frater Kronos” – chiunque egli sia in realtà – conferma l’allarme: qualcosa è andato storto, qualcuno è andato oltre il perimetro concordato. Un nome su tutti: quello del “fratello” George Bush senior, che sarebbe “impazzito di rabbia” dopo la bruciante sconfitta inflittagli dai sostenitori di Reagan. Da allora, ancor prima di diventare a sua volta presidente, Bush avrebbe dato vita a una superloggia definita inquietante, pericolosa e sanguinaria, denominata “Athor Pentalpha”, che avrebbe reclutato il gotha neocon del Pnac, il piano per il Nuovo Secolo Americano, da Cheney a Rumsfeld, nonché fondamentali alleati europei, da Blair a Sarkozy. Missione del clan: destabilizzare il pianeta, anche col terrorismo, a partire dall’11 Settembre.Per questa missione, si legge nel libro di Magaldi, è stato riciclato il “fratello” Osama Bin Laden, arruolato dallo stesso Brzezinski ai tempi dell’invasione sovietica in Afghanistan.
Risultato, dopo l’attentato alle Torri: una serie di guerre, in sequenza, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria, anche dietro lo schermo della “primavera araba”. Il nuovo bersaglio è la Russia di Putin? C’è una precisa geopolitica del caos: e i golpisti occidentali puntano sempre sulla loro creatura più grottesca, il fondamentalismo islamico. Ci stanno lavorando dal lontano 2009, quando i militari americani del centro iracheno di detenzione di Camp Bucca si videro recapitare l’ordine di rilascio dell’allora oscuro Abu Bakr Al-Baghdadi, l’attuale “califfo” dell’Isis. Regista dell’operazione? Sempre loro: la famiglia Bush. Per la precisione il fratello di George Walker, Jeb Bush, che vorrebbe fare di Al-Baghdadi il nuovo Bin Laden, da spendere per le presidenziali 2016. Dietrologia? Anche qui, “Massoni” fornisce chiavi inedite, partendo dall’attitudine esoterica degli iniziati: Isis non è solo il nome dell’orda terroristica messa in piedi da segmenti della Cia, è anche quello della divinità egizia Iside, vedova di Osiride, carissima ai massoni che si definiscono anche “figli della vedova”. In alcuni testi antichi, Isis è chiamata anche con un altro nome, Athor. Proprio come la superloggia di Bush e Blair. Il Medio Oriente sta bruciando, è tornato lo spettacolo dell’orrore dei tagliatori di teste. “Frater Kronos” è preoccupato, il 2015 comincia male. Sicuri che non sia il caso di indossarli ancora, gli occhiali di Gioele Magaldi?(Il libro: Gioele Magaldi, “Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges”, Chiarelettere, 656 pagine, 19 euro).
Globalizzazione violenta, a mano armata. Un progetto criminale, deviato, spietato. Coltivato e attuato da criminali. Attorno a loro, una corte di politici, capi di Stato, economisti, giornalisti. Tutti a ripetere la canzoncina bugiarda del neoliberismo: lo Stato non conta più, è roba vecchia, a regolare il mondo basta e avanza il “libero mercato”.
Peccato che il paradiso golpista dell’élite non possa prescindere dallo Stato, l’ingombrante monopolista della moneta e delle tasse. Lo Stato va quindi conquistato, occupato militarmente per via elettorale. Deve capitolare, rinnegare la sua funzione storica, servire le multinazionali e non più i cittadini, che devono semplicemente ridiventare sudditi, pagare sempre più tasse, veder sparire i diritti conquistati in due secoli, elemosinare un lavoro precario e sottopagato. Le menti del commissariamento mondiale sono state chiamate oligarchia, impero, tecnocrati, destra economica, finanza, banche, neo-capitalismo.
Gioele Magaldi chiama costoro con un altro nome: “Massoni”, come il titolo del suo libro esplosivo. E mette sul piatto 650 pagine di rivelazioni, che stanno scalando le classifiche editoriali nell’assordante silenzio dei media mainstream.
Ieri sera a Piazzapulita.Hanno intervistato persone libiche e altri.Hanno ripetuto l'occidente ne stia fuori.Questa è una cosa che riguarda noi musulmani.
Ciao
Paolo11
Se c'è qualcuno che crede idi guidare la storia dei popoli si sbaglia.
C'è sempre una mano invisibile che alla fine porta in altre direzioni.
Certo in Libia è bene che l'occidente ne stia fuori, è una cosa che riguarda noi musulmani.
Detto questo l'occidente ha il grave torto di aver invaso l'Africa vendendo armi in quantità spaventose pur di far soldi.
Per rimediare si dovrebbe bloccare la vendita di armi a tutti i paesi africani, dare cibo e assistenza in cambio di armi.
Fondamentale contrastare nei media la violenza , bombardare con messaggi le menzogne della propaganda della violenza, l'odio genera odio, contrastare le menzogne di una religione , di un Dio che ti premia se uccidi.
Il 72% degli italiani teme l'Isis ma non vuole la guerra
Il sondaggio Ixè spiega la paura per lo Stato Islamico ma la gente è contraria a un intervento in Libia
Isis, nuove minacce all’Italia: “Non entrate in guerra”. Appello ai lupi solitari
Mondo Secondo Site, in un nuovo messaggio apparso in rete uno jihadista mette in guardia il governo italiano dall'intraprendere un'azione militare per evitare che il Mediterraneo sia "colorato dal sangue dei suoi cittadini". Si fa quindi riferimento - riporta ancora il sito di monitoraggio Usa - all’azione di potenziali "lone wolf" italiani
di F. Q. | 23 febbraio 2015 COMMENTI
L’Italia torna nel mirino dei fondamentalisti su internet. Dopo le minacce apparse su Twitter il 22 febbraio, gli jihadisti mettono mette in guardia l’Italia dall’entrare in guerra contro l’Isis. “L’Italia non entri in guerra contro lo Stato islamico” o il Mediterraneo “si colorerà del sangue dei suoi cittadini” e dovrà aspettarsi “potenziali lupi solitari italiani”.
E’ la nuova minaccia dell’Isis nei confronti del nostro Paese, dopo giorni di dibattito politico interno sull’opportunità o meno di intervenire in Libia.
A darne notizia anche stavolta è il Site, che cita le parole di un jihadista e posta una foto siglata “Khelafa media”, lo stesso che due settimane fa pubblicò un documento sui lupi solitari rilanciato anche nelle ultime ore. Nell’immagine anche una lapide con un’altra foto, ripresa dal video della decapitazione degli egiziani copti su una spiaggia libica, con il boia che brandisce un coltello.
Secondo gli 007 e l’antiterrorismo italiano, il susseguirsi di minacce è una vera e propria “campagna di guerra psicologica“, ma l’evocazione dei “lupi solitari” è un pericolo imprevedibile, da non sottovalutare, per cui resta la massima attenzione.
Difficile distinguere tra vere notizie e messaggi di propaganda, sottolineano ancora le stesse fonti. Quello che è certo, spiegano, è che si è intensificata la campagna mediatica contro l’Italia in un momento in cui il governo italiano si propone di assumere un ruolo di primo piano in Libia.
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Si tratta del secondo appello a “lupi solitari italiani”, foreign fighter tornati dai campi di addestramento del “Califfato” per compiere attentati in stile Parigi o Copenaghen (dove a sparare sono stati tuttavia cittadini francesi e danesi che hanno abbracciato il jihadismo).
La nuova minaccia si rivolge direttamente all’Italia e non come di consueto alla città di Roma, che nella retorica jihadista rappresenta la Cristianità e di conseguenza l’Occidente.
E’ stato il caso dell’immagine della bandiera nera sul Vaticano o di quando i tagliagole neri avvertivano di essere ormai “a sud di Roma”, cioè a sud dell’Europa.
Il governo libico di Tobruk, riconosciuto dalla comunità internazionale, ha intanto assicurato di avere “sotto controllo” il sito di Ruwagha con le residue armi chimiche (le meno pericolose) dell’arsenale di Muammar Gheddafi, che secondo il quotidiano Asharq Al-Awsat sarebbero finite nelle mani delle milizie, con il rischio che l’Isis possa prenderne il possesso.
Non è chiaro tuttavia se in Libia ci siano ancora agenti chimici proibiti mai dichiarati all’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche. O se si tratti di un altro messaggio per mettere pressione sulla comunità internazionale.
E da oggi la Coalizione anti-Isis a guida Usa, che da settembre compie raid contro le postazioni del Califfato in Siria e Iraq, si è arricchita della portaerei francese Charles De Gaulle. Il ministro della Difesa, Jean-Yves Le Drian, si è recato stamani a bordo del fiore all’occhiello della Marina militare francese nelle acque del Golfo Persico settentrionale per dare personalmente il via alle nuove operazioni aeree contro l’Isis, che si aggiungono ai raid lanciati dalle basi di Abu Dhabi e Giordania.
“Sei mesi di impegno ci ha permesso di fermare la conquista territoriale di Daesh e stabilizzare le linee del fronte – ha detto il ministro secondo quanto riferisce Le Figaro – ma la minaccia continua e le ragioni della nostra azione permangono”.
ANALISI Guerra in Libia, così si può estirpare l'Is Sembra arrivato il tempo delle decisioni per la politica estera italiana. Ecco quali sono le opzioni per rendere davvero efficace un intervento occidentale e la partecipazione del nostro Paese
DI MATTIA TOALDO
23 febbraio 2015
L’Europa si è finalmente accorta della Libia. Eppure a 350 km dalle coste italiane c’è una guerra civile in corso fin dal maggio scorso che ha fatto già tremila vittime (in proporzione, molte di più dell’Ucraina) e allontanato dalle proprie case più di 400 mila persone.
Sebbene in ritardo, sembra arrivato il tempo delle decisioni per la politica estera italiana, soprattutto alla luce del Consiglio di Sicurezza Onu al quale l’Egitto ha chiesto la creazione di una missione militare internazionale che legittimi la sua battaglia contro lo Stato Islamico in Libia. Una richiesta che sembra non essere stata accettata dagli Stati Uniti e dagli europei che nella serata di martedì hanno pubblicato un comunicato congiunto che pone al primo posto la creazione di un governo di unità nazionale in Libia.
L'antiterrorismo li ritiene «soggetti islamici pericolosi». Individuati quando hanno tentato di comprare armi sul mercato nero della Capitale. Li stanno cercando sulla base di un identikit nel centro della città
Sebbene il dibattito in Italia sia stato su “intervento sí o no”, non esiste una politica univoca, prendere o lasciare. Ci sono diverse sfumature di grigio e alcune davvero notevoli come evidenziato dalle differenze tra l’Egitto e i suoi alleati occidentali. Semplificando, siamo di fronte a due opzioni che forniscono una combinazione diversa tra due priorità: far cessare la guerra civile e combattere lo Stato Islamico.
La prima opzione, che emerge dal comunicato congiunto occidentale, prevede di lavorare per far cessare la guerra civile per meglio combattere l’Isis. Secondo questo piano, serve prima un governo di unità nazionale, accompagnato da un cessate il fuoco tra le diverse milizie e poi, semmai, da un intervento internazionale di peacekeeping per garantire la sicurezza del governo unitario. Per arrivare a ciò, bisognerebbe che l’attuale percorso coordinato dall’inviato speciale Onu Bernardino Leon avesse successo.
"L'Isis va combatutto, ma non con le modalità usate nei Balcani o in Afghanistan che si sono dimostrate fallimentari. Gli aerei non bastano: servono almeno 50mila uomini sul territorio". Parla Fabio Mini, ex generale della Nato
In realtà, i colloqui tra le diverse fazioni libiche iniziati la scorsa estate si sono rivelati molto complicati perché la guerra libica è solo un episodio di una più vasta guerra regionale tra l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti da un lato e la Fratellanza Mussulmana, la Turchia ed il Qatar dall’altro. Non a caso, la Libia ha ora due governi: il primo, riconosciuto anche dall’Occidente, con sede a Tobruk, sostenuto ed armato da Egitto ed Emirati. Il secondo, senza alcun riconoscimento internazionale, che fa riferimento al fronte più islamista.
La guerra civile in Libia ha già visto un significativo intervento esterno sotto forma di raid aerei attribuiti sia agli Emirati che all’Egitto e con forniture di armi sia al governo di Tobruk sia ad alcune milizie del fronte opposto. È questa tendenza che verrebbe accentuata se si avvallasse la richiesta egiziana al Consiglio di Sicurezza.
La seconda opzione in campo, sostenuta appunto dall’Egitto che aveva trovato inizialmente una convergenza con la Francia, prevede che l’Occidente si schieri con piú decisione a favore del governo di Tobruk, di fatto rinunciando per il momento alla formazione di un esecutivo più inclusivo e schierandosi nella guerra civile libica con l’obiettivo di combattere l’Isis. L’intervento Onu, ammesso che il Consiglio di Sicurezza dia il via libera, si svolgerebbe su richiesta del governo di Tobruk e vedrebbe molto probabilmente l’ostilità di tutte le altre fazioni.
Da mesi l'osservatorio indipendente Libya Body Count tiene il conto delle vittime dei conflitti nel paese africano. Nelle nostre mappe e grafici, ecco come si è evoluta la situazione dall'altra parte del Mediterraneo
Il ministro Pinotti, nella sua intervista al “Messaggero” di sabato, ha detto che l’Italia dovrebbe avere la guida della missione, «come in Libano». Il problema è che, se si scegliesse la seconda opzione, la guerra di Libia del 2015 assomiglierebbe sí al Libano, ma a quello del 1982 quando gli italiani per la prima volta dopo gli anni Sessanta mandarono i loro soldati in una missione di peacekeeping per trovarsi poi intrappolati in una guerra civile senza esito certo, costretti a proteggere se stessi piuttosto che a portare la pace.
Non a caso, dopo le prime dichiarazioni battagliere dei nostri ministri, è arrivata una correzione di rotta prima con l’intervista di Renzi al TG5 di lunedì e poi con le dichiarazioni di Gentiloni alla Camera di mercoledì, con in mezzo il comunicato congiunto dei maggiori governi occidentali.
Rimane ovviamente aperta la domanda di come è quindi meglio combattere l’avanzata dello Stato Islamico in Libia.
La battaglia contro l’Isis è tanto fondamentale quanto lunga. Daesh, com’è conosciuto dal suo acronimo arabo, è infatti come un cancro maligno che, se male operato, rischia di estendersi. È un fenomeno che si nutre di guerre civili e di comunità politiche non inclusive e che usa la comunicazione per “chiamare” sul suo terreno le forze esterne, a partire dagli occidentali e dai regimi arabi a loro alleati.
È importante quindi saper scegliere l’opzione giusta, evitando di entrare in Libia pensando di fare il peace-keeping per poi ritrovarsi in una guerra civile, lasciandosi entusiasmare da un ruolo di “guida della missione Onu” che finora l’Italia sembra essersi autoattribuita.
Questo non vuol dire che non serva anche l’uso della forza contro Isis. Sarebbe come dire che la mafia si combatte a mani nude. Ma questa dev’essere in primo luogo una battaglia delle forze libiche anti-jihadiste. Una possibilità concreta, come dimostrato dalla riconquista di Sirte da parte delle milizie di Misurata. La battaglia militare, che è necessaria, è solo una componente di una strategia più ampia contro le organizzazioni islamiste violente.
Il secondo elemento é l’inclusività politica. Serve davvero che si formino governi e istituzioni che rappresentano tutti i cittadini e non siano l’espressione di una minoranza. È vero in Libia ma anche in Siria e in Iraq.
Il terzo elemento, é la lotta all’ “economia criminale” dello Stato Islamico: il contrabbando di petrolio e altri prodotti, l’assalto alle banche, i rapimenti, le estorsioni, la riduzione in schiavitù ma anche l’ “Isis dei colletti bianchi” composto da tutti quei ricchi finanziatori del jihadismo che si muovono ancora con troppa disinvoltura tra il Golfo Persico e l’Europa. Davvero l’Italia non ha competenze da spendere in questo campo?
Infine, servono “patti chiari e amicizia lunga” con le potenze regionali. Forse le connivenze con il jihadismo da parte di certi governi sono finite, ma non sono cessate le politiche di esclusione di alcune minoranze e di restrizione degli spazi politici che alimentano il terrorismo. Come indicano le indagini globali sul terrorismo, questo é un fenomeno che nel 90 per cento dei casi ha luogo in Paesi dove ci sono restrizioni alle libertà fondamentali. Bisogna affrontare il problema senza subalternità ma anche senza avere l’aria di chi sta dando lezioni agli altri. È l’Europa per prima che, con la scusa della lotta al terrorismo, é diventata meno aperta e meno democratica. Così i terroristi hanno già vinto.
ANALISI Chi gioca con la Libia Gli appetiti egiziani. Gli interessi francesi. La lotta tra islamici per la supremazia. E l’Italia che non sa perché dovrebbe intervenire
DI LUCIO CARACCIOLO
23 febbraio 2015
Tornare in Libia, stavolta contro lo Stato Islamico? L’opzione è sul tavolo. A più di cent’anni dal primo sbarco a Tripoli della “grande proletaria”, per un’operazione coloniale contro il morente impero ottomano nelle sue province libiche, e ad appena quattro anni dalla poco sentita compartecipazione alla missione anti-Gheddafi sponsorizzata da Parigi e da Londra, l’Italia deve decidere se e come riaffacciarsi sulla quarta sponda.
Una scelta difficile, sull’onda della paura e delle emozioni suscitate nella nostra opinione pubblica dall’emergere dello Stato Islamico sulla scena internazionale e di recente in ciò che resta della Libia. Sicché stavolta l’invasione, nel quadro di una “missione di pace” (leggi: guerra) promossa da Egitto e Francia con il timbro del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, e con l’eventuale partecipazione di alcuni Paesi arabi, africani ed europei, si vestirebbe da capitolo bellico della “lotta al terrorismo”.
Milizie padrone e in lotta tra loro. Blogger e attivisti dei diritti umani uccisi. E scarseggia anche l’unica risorsa: il greggio
Nell’attesa che le diplomazie internazionali dipanino - o meno - la complessa matassa dei passaggi al Palazzo di Vetro, uno sguardo al terreno libico e alle forze che vi agiscono direttamente o indirettamente può rivelarsi utile.
Anzitutto: lo spazio che nei nostri atlanti e nelle carte ufficiali continuiamo a rappresentare come Libia non esiste più. Il fenomeno della dissoluzione istituzionale, per la verità, è diffuso in tutta la regione, e non solo. Le frontiere ereditate dall’esperienza coloniale, un tempo trattate come intangibili dall’Unione Africana, stanno mutando rapidamente, più spesso scomparendo.
Non più barriere né ponti, solo tracce pro forma, con qualche residua “dogana” ufficiale che si somma alle decine di check points gestiti da formazioni informali e dalle tribù o etnie di riferimento. Ciò che conta, tra Sahara e Sahel, sono infatti i corridoi dei traffici - droga, esseri umani, armi e quant’altro - e l’accesso alle risorse minerarie, vegliato di norma da mercenari al servizio delle aziende che vi attingono.
Nell’immenso spazio libico - sei volte l’Italia, per un decimo della nostra popolazione, in massima parte concentrata lungo la facciata mediterranea - le vestigia dello Stato autoritario sono scomparse con il suo padre padrone, il colonnello Gheddafi. Non v’è più traccia del monopolio della violenza, più o meno garantito dal dittatore fino al 2011, per quarantadue lunghi anni, grazie alla sua sperimentata abilità nel giocare di sponda fra le tribù e i poteri informali radicati nelle tre macroregioni: Cirenaica, Tripolitania e Fezzan.
Nel febbraio 2011 il paese africano, sul'onda della primavera araba, si liberava del dittatore. Ma l'esaltazione di quei giorni è ormai un ricordo. E ora l'occidente deve prepararsi a reagire
Nelle sabbie, fra i rilievi, nei quartieri urbani o lungo la litoranea si affrontano decine di milizie, armate anche grazie alla disponibilità del ricco arsenale gheddafiano, finito fuori controllo dopo l’uccisione del colonnello.
Si usa oggi ricondurle a due schieramenti principali, imperniati su Tobruk e su Misurata, oltre a una quantità di formazioni che agiscono nella “Libia profonda”, in pieno deserto. A Tobruk vegeta un governo che si vorrebbe “libico”. Il quale poggia su un parlamento eletto da una minima parte degli aventi diritto, ma gode del riconoscimento della “comunità internazionale” - le maggiori potenze mondiali e regionali. L’esecutivo locale, che si pretende nazionale, è guidato dal pallido premier al-Thinni, insediato a Beida.
Qui in Cirenaica, a ridosso del poroso confine con l’Egitto - o meglio con il suo deserto occidentale, da sempre segnato dalle scorrerie dei beduini più che dal controllo del Cairo - si concentrano le milizie afferenti all’”uomo forte” che vorrebbe prendere il controllo di tutta la regione, se non dell’intero spazio (già) libico: il generale Khalifa Heftar. Il quale si è intestato la “guerra al terrorismo” - battezzata Operazione Dignità - con il decisivo appoggio dei paesi del Golfo e dell’Egitto.
Fra i suoi principali alleati, all’Ovest, le milizie di Zintan e del retroterra berbero. Molti degli orfani di Gheddafi fanno riferimento a Tobruk, che tiene peraltro a presentarsi all’Occidente come rifugio dei “laici” e di tutti i sinceri avversari dell’islamismo radicale. In quest’area operano anche le milizie “federaliste” delle Forze di Difesa della Cirenaica, che rivendicano l’autonomia/indipendenza da Tripoli e usano il blocco dei porti e dei terminali energetici come arma di ricatto.
A Tripoli è rimasto un altro spezzone di poteri locali e regionali, il Congresso nazionale libico, anch’esso reclamante il proprio buon diritto a rappresentare la Libia. Il capo di queste forze, pro forma, è Omar al-Hassi. In punto di fatto, questo schieramento è incardinato sulle truppe della città mercantile di Misurata. Al comando dei leader di questo porto strategico si attribuiscono circa quarantamila uomini. È la sedicente “Alba Libica”, variegato fronte in cui si segnala un tono islamista, in parte legato ai Fratelli Musulmani, ma alleato anche con formazioni jihadiste che si giurano aderenti ad Ansar al-Sharia. Accanto a queste forze, unità militari come la Brigata dei martiri del 17 febbraio, accanto a gruppi armati di varia tendenza, interessati anzitutto - come d’altronde tutti i loro rivali - al controllo delle risorse energetiche, dell’acqua, dei porti e dei traffici.
Alla guerra (in)civile libica si sono iscritte negli ultimi mesi alcune milizie che si proclamano fedeli al “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi. Non si è trattato però di un’espansione a macchia d’olio dello Stato Islamico, dalla Mesopotamia al deserto libico. Alcuni gruppi jihadisti, storicamente incardinati nella cittadina cirenaica di Derna, si sono impadroniti del marchio “Stato Islamico”, di notevole richiamo nella galassia dell’islamismo radicale e non solo. Per ora non siamo di fronte a gruppi armati particolarmente rilevanti. In buona misura, i militanti che oggi alzano il vessillo “califfale” sono schegge di Ansar al-Sharia, operanti soprattutto in Cirenaica ma che di recente sono state capaci di colpire anche a Tripoli e stanno espandendo la loro area di influenza anche allo strategico porto di Sirte, oltre che a Bengasi.
Obiettivo principale loro e di tutti gli altri protagonisti della guerra, il controllo dei traffici e delle risorse energetiche - la cui produzione, in questo caos, si è peraltro ridotta a poche centinaia di migliaia di barili al giorno e tende ulteriormente a calare.
Più rilevante il contesto regionale e internazionale. Lo schieramento interventista è infatti guidato da Egitto e Francia, due Paesi con precise mire geopolitiche. Al Cairo si sogna di prendere finalmente il controllo dei giacimenti di idrocarburi e dei terminali petroliferi della Cirenaica, a titolo di compensazione della sfortunata geologia che riduce la terra del Nilo a entità minore in un contesto di ricchi produttori arabi, a est (sauditi), come a ovest (libici e algerini). Parigi è dai tempi coloniali interessata soprattutto al Fezzan, cerniera verso la fascia sahariana e saheliana su cui resta incardinata la sua sfera d’interesse africana, estesa verso sud e verso ovest, fondamentale per l’aspetto energetico (si pensi all’uranio nigerino) e per coltivare il rango di potenza mondiale, sia pure in scala ridotta, cui i francesi non intendono abdicare.
Nelle retrovie del fronte interventista troviamo le monarchie del Golfo, a cominciare dall’Arabia Saudita, con gli Emirati Arabi Uniti buoni secondi. Sono i grandi sponsor del golpe militare con cui il generale al-Sisi ha liquidato il governo dei Fratelli musulmani in Egitto, appoggiati dal Qatar. Una lotta fratricida nel campo arabo-sunnita, con i wahhabiti di Riyad decisi a stroncare ogni esperimento di islam politico, quale quello tentato, molto malamente, da Morsi e associati nell’Egitto post-“rivoluzionario”. Per le monarchie del Golfo, la “guerra al terrorismo” è essenzialmente votata a riaffermare la propria egemonia regionale a scapito della Fratellanza e dei suoi sostenitori, ma soprattutto dell’Iran sciita, arabofobo e decisamente troppo “democratico” per i gusti di quegli assolutismi a sfondo religioso.
Se l’Italia intervenisse in tale ginepraio, con l’intenzione di colpire lo Stato Islamico, si troverebbe quindi associata al raggruppamento a guida egiziano-saudita, con francesi e altri europei. E la benevola assistenza americana (ma no boots on the ground). Resta da chiarire il nostro interesse a partecipare di tale compagnia. Con mezzi militari e finanziari non all’altezza di una missione di combattimento di durata probabilmente non breve e certamente assai sanguinosa. Ma non sarebbe la prima volta che ci gettiamo nella mischia senza aver ben capito perché. O senza avere il coraggio di volercelo dire.
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Isis, rapiti 150 cristiani in nord della Siria. Cnn: “In un video Is minaccia di ucciderli”
La Chiesa siriana: decine di caldei presi in ostaggio dagli jihadisti nella regione del Khabour. Diverse chiese date alle fiamme. I terroristi avrebbero scelto di attaccare la regione del Khabour perché sconfitti sul fronte di Kobane dai combattenti curdi. Jacques Behnan Hindo, arcivescovo siro-cattolico di Hassaké-Nisibi: "Ci sentiamo abbandonati dall'Occidente". Iraq, sequestrate 118 persone vicino a Tikrit
di F. Q. | 24 febbraio 2015 COMMENTI
Sono stati rapiti dagli uomini dello Stato Islamico e ora rischiano la vita. Sono i cristiani di trentacinque villaggi della Siria, presi in ostaggio dagli jihadisti nella regione del Khabour, forse per eventuali scambi di prigionieri. L’allarme arriva dalla Chiesa siriana che denuncia anche un “abbandono” da parte di chi sarebbe potuto intervenire e invece non lo ha fatto. Si conta già un morto: un ragazzo di 17 anni, Milad, che è stato martirizzato. Diverse chiese sono state date alle fiamme. Tra i villaggi colpiti ci sono quelli di Tal Hermez, Tal Shamiram, Tal Riman, Tal Nasra, Al Agibash, Toma Yalda e Al Haooz, nella zona di Al Hasaka, nell’estrempo nord-est della Siria.
Secondo la Cnn, che cital’Assyrian Human Rights Network, gli jihadisti stanno per diffondere un video messaggio – indirizzato al presidente Usa Barack Obama e ad altri leader della Coalizione anti Isis – in cui minacciano di uccidere gli ostaggi, che sarebbero in totale 150. Secondo l’agenzia governativa siriana Sana, almeno una parte degli ostaggi sarebbe stata trasferita nella cittadina di Al Shaddadi, “roccaforte dello Stato islamico nella provincia di Al Hasakah”. Secondo la stessa fonte i prigionieri sarebbero 89, di cui 56 rapiti nei villaggi di Tal Hermez e Tal Shamiram, e altri 33 in quello di Tal al Jazira. Altre fonti parlano di un numero variabile dai 70 ai 150 ostaggi.
Secondo un familiare di alcuni rapiti, alcuni dei cristiani sequestrati sarebbero stati uccisi.”Oggi (martedì, ndr) hanno ucciso a colpi di arma da fuoco due delle persone rapite a Tal Hurmuz, tra cui un mio cugino di 65 anni”, ha detto all’agenzia Efe Abdel Abdel, un ingegnere fuggito cinque mesi fa a Beirut assieme alla moglie e ai due figli. L’uomo è in contatto con i parenti rimasti nella provincia di Al Hasaka. I jihadisti, ha raccontato Abdel, sono entrati a Tal Hurmuz all’alba di ieri e hanno sequestrato cinque persone.
Gli altri abitanti sono fuggiti nelle vicine città di Qameshli e Al Hasaka. Martedì, ha detto l’uomo, gli estremisti hanno fatto esplodere una chiesa di Tal Hurmuz, una località strategica situata in cima a una collina. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, i militanti dell’Isis hanno sequestrato 90 civili della minoranza assira a Tal Hurmuz y Tal Shamiram, ma Abdel ha indicato che le persone rapite potrebbero essere più di 100. Un mese fa, ha riferito, i combattenti cristiani avevano catturato nella zona sei membri del gruppo estremista e il rapimento dei civili potrebbe essere un atto di vendetta per quell’operazione.
Il presidente del Movimento patriottico di Assiria, Ashur Girwargis, ha fatto sapere a Efe che gli jihadisti hanno separato le donne e i bambini dagli uomini, i quali sono stati portati nella zona di Yabal Abdelazi, dove l’Isis ha una base. Nessuno sa con certezza quante persone siano state rapite, ha detto l’uomo, aggiungendo che secondo alcune fonti i militanti avrebbero preso in ostaggio 70 persone a Tal Shamiran; altre 15, fra cui 3 ragazze, a Tal Hurmuz; 12 a Tal Goran e circa 40 a Tal Yazira.
L’archimandrita Emanuel Youkhana ha spiegato, all’associazione “Aiuto alla Chiesa che soffre”, che i terroristi avrebbero scelto di attaccare la regione del Khabour perché sconfitti sull’altro fronte caldo, quello di Kobane, dai combattenti del Pyd (Democratic Union Kurdish Party). La battaglia è iniziata il 23 febbraio e in breve tempo i miliziani sono riusciti a penetrare nei primi due villaggi, facendo prigioniere decine di persone. “Fortunatamente circa 600 famiglie sono riuscite a fuggire verso Qamishly – riferisce Youkhana – ma siamo preoccupati per la sorte di coloro che sono tenuti in ostaggio. Conosciamo bene i metodi barbari dell’Is: ciò che più conta per noi, adesso, è che queste persone siano liberate il prima possibile”.
Una accusa pesante nei confronti di chi non è intervenuto per tempo arriva invece da monsignor Jacques Behnan Hindo, arcivescovo siro-cattolico di Hassaké-Nisibi. “Voglio dire chiaramente – riferisce l’arcivescovo a Fides – che abbiamo la sensazione di essere stati abbandonati nelle mani di quelli del Daesh (Isis, ndr). I bombardieri americani hanno sorvolato più volte l’area, ma non sono intervenuti. Abbiamo cento famiglie assire che hanno trovato rifugio ad Hassakè, ma non hanno ricevuto nessun aiuto dalla Mezzaluna Rossa e dagli organismi governativi siriani di assistenza, forse perché sono cristiani. Anche l’organismo per i rifugiati dell’Onu è latitante“.
La regione del Khabour conta 35 villaggi Cristiani. Sono abitati dagli Assiri che nell’agosto 1933 fuggirono dal massacro di Simele, commesso dalle forze armate dell’allora Regno d’Iraq e che provocò la morte di circa tremila persone. La speranza di queste famiglie era quella di tornare un giorno nella loro Patria, in Iraq.
Iraq, rapite 127 persone vicino a Tikrit
In Iraq 118 uomini e 9 bambini sono stati rapiti dai combattenti dello Stato islamico vicino Tikrit. Lo riferisce Al Jazeera citando una fonte locale. L’emittente riferisce che il gruppo è stato rapito tre giorni fa dal villaggio di Rubaitha, a est di Tikrit, ma che 21 uomini sono poi stati rilasciati mentre i bambini risultano ancora sequestrati insieme agli altri uomini in una località sconosciuta. Secondo Al Jazeera, la maggior parte delle persone catturate avevano parenti che combattevano contro lo Stato islamico.
da Il Fatto Q Isis: l’ultima minaccia all’Italia? Di un perfetto sconosciuto e in lingua spagnola
Ad aver scandito la nuova minaccia dello Stato Islamico all’Italia: “Non scenda in guerra, altrimenti il Mediterraneo sarà colorato dal sangue dei suoi cittadini“ che Negli ultimi due giorni tutti i quotidiani del Paese hanno riportato nelle prime pagine, pare infatti essere stato un utente, tale Hamel Bochra, vale a dire mister nessuno: un perfetto sconosciuto, che attraverso un sito web altrettanto sconosciuto si è sentito, anche lui, leader dello Stato Islamico per un giorno. Evviva!
http://www.tzetze.it/redazione/2015/03/ ... index.html
Di Battista a Servizio Pubblico: 'Togliamo i finanziamenti al terrorismo. Napolitano uomo della CIA!'
Il deputato 5 Stelle Alessandro Di Battista, ospite ieri a Servizio pubblico, trasmissione condotta da Michele Santoro su La7, ha parlato di terrorismo, dicendo finalmente che esiste anche un altro problema legato a questo fenomeno: quello dei finanziamenti e degli interessi occidentali.
Di Battista ha così esordito: "Il terrorismo è come una macchina. Senza benzina non si muove. La benzina sono gli aiuti finanziari degli Stati. E le armi. L'Italia è il primo partner con i sauditi per quanto riguarda la vendita di armi. Il mondo arabo ce l'ha con l'Occidente. Per colpa della mancata risoluzione del conflitto israelo-palestinese".
Poi l'affondo sul precedente Governo: "La Meloni accusa di aver destabilizzato la Libia? Ma lei era ministro del governo Berlusconi". Ed ancora: "Napolitano è stato un uomo della Cia all'interno del partito comunista. L'intervento in Libia dell'Italia è stato imposto".
Il deputato 5 Stelle ha poi concluso: "Prima di comprare gli F35 ci sarebbe da bonificare la terra dei fuochi. Domani mattina possiamo votare per la rottura dei rapporti commerciali con i Paesi che finanziano il terrorismo".
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Ciao
Paolo11