Forum per un "Congresso della Sinistra" ... sempre aperto
La libertà è il diritto dell’anima a respirare. E noi, partecipando malgrado tutto, vogliamo continuare a respirare.Lo facciamo nel modo più opportuno possibile all’interno di questo forum che offre spazio a tutti coloro che credono nella democrazia
camillobenso ha scritto:Tu pensi che si possa ripetere l'esperienza fascista partendo dalla Marcia su Roma e poi sottomettere tutti con l'olio di ricino ed il santo manganello???
Veramente no, né so da cosa questo si possa dedurre.
A prescindere che Mussolini alla marcia non partecipò, preferendo rimanere a Milano per poter fuggire se le cose andavano male.
Altrove ho pure scritto "Non credo che una modifica della Costituzione in senso autoritario possa consentire l'avvento di un nuovo Mussolini."
Lo so pure io che il tweet, che martella il cervello, fa lo stesso danno del manganello che martellava la carne.
Così come so di essere molto più povero della città di Cardiff. Infatti ho una 'f' sola
cardif
Ultima modifica di cardif il 04/03/2015, 23:53, modificato 1 volta in totale.
La Stampa 3.3.15 Volare basso
di Massimo Gramellini
Un atterraggio d’emergenza imposto dal maltempo ha rivelato improvvisamente agli italiani che per andare da Firenze a Roma il granduca Matteo usa l’elicottero di Stato.
Lui, il campione dell’Anti Casta che da sindaco impazzava per la città gigliata al volante di una macchinina elettrica e da segretario del Pd si faceva immortalare sul Frecciarossa come un Draghi qualunque.
L’opinione pubblica si è subito spaccata.
La maggioranza, composta da pendolari e sardine d’auto o di metrò, invoca per Messer Renzi un mezzo di trasporto più sobrio ed economico (non sottovaluterei il baldacchino, è ecologico e in Italia i portatori non mancano mai).
Ma esiste anche una minoranza, fiera della propria impopolarità, convinta che fare viaggiare il capo del governo tra i cittadini significherebbe esporlo alla mercé del primo squilibrato e che la sua scorta sarebbe fonte di disagio per gli altri passeggeri.
L’elicottero rimane una scelta infelice perché è lo scooter dei miliardari e la metafora di una distanza abissale dalla gente comune. E comunque in democrazia il problema è sempre la trasparenza. Obama sale e scende dagli elicotteri senza dare scandalo, dato che in America tutti sanno che quei velivoli fanno parte del corredo presidenziale.
Che Renzi ne usasse uno, invece, noi lo abbiamo scoperto ieri
per caso.
Come ogni caduta di stile, anche questa fa girare le eliche. Ma sostenere un condannato in primo grado alla presidenza della Regione Campania le fa girare ancora di più.
camillobenso ha scritto:L’elicottero rimane una scelta infelice perché è lo scooter dei miliardari e la metafora di una distanza abissale dalla gente comune. ...
Che Renzi ne usasse uno, invece, noi lo abbiamo scoperto ieri
per caso.
Come ogni caduta di stile, anche questa fa girare le eliche. Ma sostenere un condannato in primo grado alla presidenza della Regione Campania le fa girare ancora di più.
Anche per il nostro "capo-marmotta" è il caso di dire: "Con quella bocca e con quella testa può dire e fare quel che vuole" ... (tanto le orecchie e le teste della succitata maggioranza – "pendolari e sardine d'auto o di metrò", disoccupati e pensionati - ascoltano e pensano in totale libertà)
VOLI DI STATO, TUTTI A BORDO RENZI VOLA COME BERLUSCONI
(Emiliano Liuzzi).
04/03/2015 di triskel182
L’EX CAPO DI STATO MAGGIORE TRICARICO: “LA SICUREZZA È SOLO UN PRETESTO”.
Tranne una breve parentesi, la passione per il volo, ministri e presidenti del Consiglio, negli ultimi vent’anni l’hanno sempre avuta.
Verranno ricordati, nell’Olimpo dei virtuosi, solo Romano Prodi, il primo a dare un regolamento a quello che col tempo è diventato l’ufficio sprechi, e il giovane Enrico Letta, che nel 2013 fece precipitare le ore di volo della flotta degli aerei di Stato a sole 1877 ore di volo, quando il 2014 si è chiuso sulla media di berlusconiana memoria: 6000 ore di volo.
Un’enormità, e non c’è da stupirsi visto l’uso che ne fa Matteo Renzi.
Seimila ore di volo vuol dire che 16 ore e mezzo al giorno c’è un aereo che scorrazza per i cieli del mondo o con lui, o con qualche ministro.
Non c’era bisogno che il presidente del Consiglio si facesse sorprendere da un temporale sull’elicottero: nel corso della campagna elettorale, prima delle Europee, fece coincidere a ogni visita un comizio elettorale. Per non parlare di Courmayeur e delle vacanze di Natale Vanzina style.
LA CIFRA ARRIVA da una fonte più che autorevole: il generale Leonardo Tricarico che, tra gli innumerevoli ruoli, ha ricoperto anche quello di capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, consigliere per la Difesa a palazzo Chigi ai tempi del governo Prodi e oggi guida un think tank (Icsa) che si occupa di difesa, intelligence e strategie militari.
“Le seimila ore di volo sono troppe.
Nel 2010, giusto per fare un confronto , furono 7000, ma parliamo di un periodo diverso da quello che viviamo oggi.
Purtroppo, a parte brevi parentesi, non c’è mai stata una trasparenza: il riserbo sull’uso degli aerei è storicamente impenetrabile.
E i nostri studi, come Icsa, sono sempre stati complessi.
Purtroppo nascondersi dietro alle ragioni di sicurezza non basta.
Non ci sono le ragioni di sicurezza che tutti vanno in giro a sbandierare, e non sono io a dirlo, ma i rapporti che i nostri servizi segreti consegnano al governo e alle autorità competenti ogni sei mesi”.
SEIMILA ORE di volo vuol dire un costo che si aggira attorno ai 50 milioni di euro ogni anno, e solo un quarto viene pagato dalla presidenza del Consiglio all’Aeronautica nei tempi stabiliti.
“Nel 2012”, spiega ancora Tricarico, “l’Aeronautica vantava un credito di 250 milioni di euro e con il tempo lo Stato ha iniziato a pagare, ma sono soldi sottratti alle ragioni per le quali l’Aeronautica è nata: un obiettivo di difesa e non gestire i voli di Stato”.
Il servizio è gestito da anni attraverso la Presidenza del Consiglio dei ministri.
L’hangar di Ciampino del 31esimo stormo, il reparto dell’Aeronautica che mantiene e fa volare gli aerei blu, si è allargato per far fronte “all’andamento crescente delle richieste”.
Il risultato è una bella flotta vip a disposizione di Palazzo Chigi: otto velivoli ad ala fissa e due elicotteri, cui si aggiungono due jet in pool appartenenti all’amministrazione Difesa.
Tre Airbus (1 da 48 posti e 2 da 36), sette Falcon (da 9, 12 e 16 posti), due elicotteri Agusta AW 139.
Tutti moderni, con allestimenti di lusso, televisori al plasma, poltrone in pelle, tavoli in radica da lavoro, letti per il riposino, e toilette che non sono uguali a quelle degli aerei di linea.
Per le solite ragioni di sicurezza (ma su questo punto Tricarico è drastico: “Oggi al massimo i politici rischiano lancio di uova o pomodori”) non è possibile conoscere gli spostamenti del presidente del Consiglio, quello della Repubblica, del presidente della Corte costituzionale e quello di Camera e Senato, il ministro degli Interni, ma i voli restano, in teoria, grazie a un provvedimento firmato da Berlusconi dopo che sugli aerei erano stati fotografati olgettine e canzonettisti di corte, trasparenti.
E questo vuol dire che ogni tanto il sito della Presidenza del Consiglio pubblica, dopo un paio di mesi, il volo e le motivazioni.
Ma anche a leggere quello non ci sarebbero sempre particolari urgenze.
Sappiamo, per esempio, che il 12 gennaio il ministro Pier Carlo Padoan è volato a Strasburgo, ma poteva farlo con un volo di linea, e non sulla base di una concessione, ma perché l’aereo di Stato è previsto per i luoghi che non vengono raggiunti dai collegamenti di linea.
Come il Roma-Londra sul quale è salito il ministro Paolo Gentiloni poche settimane fa, il 22 gennaio: il collegamento tra Fiumicino e la Capitale inglese è abbondantemente coperto.
Il 22 dicembre, sempre a Londra, è volato il sottosegretario Sandro Gozi. Ampiamente coperta è anche la linea Roma-Washington dove a settembre si è recata il ministro della Sanità Beatrice Lorenzin.
Quel che oggi sta portando a compimento il governo Renzi ha le sue radici nella politica economica e sociale dei governi di centrosinistra degli anni novanta.
Privatizzazioni, riforma del sistema previdenziale, precarizzazione del mercato del lavoro, riforme istituzionali, interventi militari all'estero...
Renzi rappresenta la conclusione di una metamorfosi della sinistra italiana che ebbe inizio in quegli anni.
D'Alema e il gruppo dirigente del centro-sinistra sono stati un disastro sul piano politico proprio perché lo sono stati anche su quello intellettuale.
Poi si può anche continuare a pensare che "mediaset è una risorsa per il paese" o che "è meglio un salario ridotto oggi che un disoccupato domani",
ma a quel punto si dovrebbe anche spiegare che queste affermazioni le fece D'Alema e non Brunetta come invece, a una prima lettura, potrebbe sembrare.
shiloh ha scritto:Quel che oggi sta portando a compimento il governo Renzi ha le sue radici nella politica economica e sociale dei governi di centrosinistra degli anni novanta.
...Renzi rappresenta la conclusione di una metamorfosi della sinistra italiana che ebbe inizio in quegli anni.
D'Alema e il gruppo dirigente del centro-sinistra sono stati un disastro sul piano politico proprio perché lo sono stati anche su quello intellettuale.
In poche righe hai sintetizzato una storia.
Io però sposterei l'inizio agli anni '80, nei quali il craxismo appare come una causa, sebbene anch'esso fu in realtà una conseguenza.
L'effetto trainante del craxismo, sul PSI e sul PCI, fu amplificato dal vuoto creato a sinistra dalla scomparsa di Berlinguer, che lasciò un partito comunista debole, più di quanto fosse giustificato dalle omissioni ideologiche pregresse.
Il colpo di grazia lo diede, poi, la "ricchezza delle diversità" dell'invenzone ulivista, che di fatto segnò la confluenza in massa dentro la "sinistra" di uomini e idee provenienti dal PSDI, dalla DC e da fronde sparse del vecchio pentapartito: poco di buono e molto di mediocre, e di pessimo, e certamente quasi niente che servisse a sanare le omissioni ideologiche - il tuo "disastro intellettuale".
Anzi, fu la svolta definitiva che segnò il trionfo dell'ideologia della "fine delle ideologie", cioè di fatto la dismissione volontaria di quanto di buono poteva essere ricavato dalle "diversità": il solidarismo cattolico e il recupero della "questione morale" berlingueriana, che insieme avrebbero potuto fornire una guida per il "riformismo" del centro-sinistra, forse non sufficiente per raggiungere grandi traguardi, ma adeguato a fronteggiare la deriva aziendalistica e affaristica simboleggiata dal berlusconismo.
Renzi rappresenta, come dici tu, l'approdo di questa storia, sia come prodotto di quello stesso centro-sinistra che lui ha facile gioco a definire degno di rottamazione, sia come riproposizione del vecchio pentapartito, nel quale Renzi stesso appare come una riedizione in sedicesimo di Bettino Craxi - completo di una versione quasi parodistica del "decisionismo" di allora.
il Fatto 29.3.15
Memorie Craxi e il format dell’uomo solo al comando
di Antonio Padellaro
L’ASCESA RAPACE TRA PARTITO E GOVERNO, SENZA FARE PRIGIONIERI, SOTTO L’INSEGNA SPLENDENTE DEL “CAMBIAMENTO”. IL DISPREZZO PER IL PARLAMENTO, L’INSOFFERENZA PER I GIORNALISTI, LA CADUTA. E ORA LA CARRIERA “PARALLELA” DI RENZI: DUE STORIE E LO SPECCHIO DI UN’ITALIA MALATA
L’ultima volta che parlai con Bettino Craxi era il 1998 e lavoravo all’Espresso.
Gli telefonai ad Hammamet, fu gentile e alla domanda su cosa si rimproverasse dopo Mani Pulite disse soltanto: “Ho sottovalutato ciò che stava accadendo”.
Mi è tornato in mente guardando martedì scorso la prima puntata di 1992, la fiction che va in onda su Sky, quando l’attore che interpreta Antonio Di Pietro sfoglia un giornale che parla di un cinghiale selvatico fotografato alla periferia di Milano e ci fa capire che il vero cinghiale da catturare, anzi il “cinghialone”, come se ne parlava nei giornali, era proprio lui, Bettino.
Anche se adesso il Di Pietro autentico nega e dice che “nell’inchiesta quel nome non esisteva”, la verità è che oltre le indagini del pool milanese (e le successive condanne definitive per corruzione e finanziamento illecito) quello stesso nome, in quegli anni, in quella crisi economica e morale devastante fu il principale bersaglio della protesta collettiva, la calamita dell’insofferenza, il capro espiatorio della frustrazione nazionale.
Lemonetine che gli tirarono addosso il 30aprile 1993 a Roma, davanti all’hotel Raphael, furono la colonna sonora di un’esecuzione: Bettino Craxi era l’uomo più odiato d’Italia.
Lui che non molti anni prima, nel 1984, dopo la firma del Concordato con la Chiesa, all’apice della presidenza socialista veniva acclamato come il nuovo uomo della Provvidenza. Come era potuto accadere?
Nani, ballerine, garofani e la calca delle tv
“Si vedono uomini cadere da un’alta fortuna a causa degli stessi difetti che li avevano fatti salire”.
L’aforisma di La Bruyere apre il libro Processo a Craxi che nel 1993 scrissi con Giuseppe Tamburrano, dividendoci i ruoli.
Io che già dai tempi del Corriere della Sera avevo seguito passo dopo passo l’ascesa del leader socialista esponevo le ragioni dell’accusa, quella politica e quella giudiziaria.
Tamburrano, politologo socialista che conosceva come pochi la storia del Psi, esponeva le ragioni della difesa anche se nella foga del dialogo ci afferrava il sentimento comune della delusione.
Giuseppe ricordava i tempi dell’ascesa e del trionfo, il congresso dell’acclamazione, la piramide quasi divina dell’architetto Panseca, l’esibizione del potere, la calca dei cortigiani, la ressa dei postulanti, il “partito nuovo” degli emergenti e del made in Italy, le Thema e le Mercedes, i Cartier d’oro e le cene al Savini.
Ciò che restava dell’antico socialismo dei valori e della testimonianze fu bruscamente emarginato.
Riconosceva anche i meriti del primo politico italiano di spicco che aveva capito le tendenze delle democrazie occidentali, nelle quali il confronto non è tra partiti ma tra leader.
Ero presente al famoso congresso di Rimini del 1982 quando Craxi dopo aver lanciato lo slogan “Cambiamento” (ma guarda un po’), nell’apoteosi degli applausi, dei garofani agitati al cielo, nella calca delle televisioni impazzite, stretto tra mille fans, invocato da nani e ballerine viene avvicinato da un signore anziano che timidamente prova a mormorargli: “Bettino sono un vecchio compagno... ”.
E lui sarcastico e tra le risate della corte: “Che sei vecchio lo vedo”. Forse fu lì che cominciò la discesa.
La storia si ripete: dal Caf al Patto del Nazareno
Fateci caso, nel 1976 al Midas di Roma, superhotel all’americana appena inaugurato sulla via Aurelia, un giovanotto corpulento in jeans approfitta delle ruggini tra i capicorrente e di qualche fortunata carambola per farsi eleggere segretario del Psi reduce da un mediocre 9,6 nelle stesse elezioni politiche del Pci trionfante al 34,4%.
Prende il posto di Francesco De Martino, laconico buddha napoletano che non intende smacchiare il giaguaro comunista e che anzi teorizza l’unificazione Psi-Pci: il che per il partito di Pietro Nenni significa farsi annettere punto e basta. Fate caso alla situazione dei socialisti italiani: federazioni paralizzate dalla lotta fra le correnti, dirigenti in guerra perenne; sezioni degradate a terminali di questo o di quel boss; un corpo di militanti ridotti a servi della gleba dei signori delle tessere; una struttura chiusa, burocratica, polverosa.
Vi ricorda per caso il Pd di Bersani? E poi la stessa parola d’ordine sul Cambiamento che non è ancora la Rottamazione che verrà ma il senso è quello.
La stessa presa di potere del partito con un blitz che non farà prigionieri. Lo stesso scontro interno con una sinistra interessata unicamente alle proprie rendite di posizione e che il giovanotto prima divide e quindi incamera grazie a qualche strategica poltrona come le Partecipazioni statali a Gianni De Michelis e i Trasporti a Claudio Signorile (e il giovane Incalza).
La stessa immagine di un partito ringiovanito, di una forza nuova, rinnovatrice che entra in campo sgomitando e scalciando.
Poi, la stessa rapida conquista di Palazzo Chigi. Lo stesso disprezzo per il Parlamento retrocesso a ente inutile.
La stessa corsa a salire sul carro del vincitore.
La stessa sudditanza dei giornaloni. Lo stesso disegno per mettere sotto controllo la Rai.
La stessa guerra alla Cgil.
Lo stesso spirito d’intesa con la Confindustria.
Allora, il taglio di 4 punti della Scala mobile.
Oggi, la modifica dell’art. 18.
Lo stesso asse di potere con la destra.
C’è molta differenza tra il Caf di Craxi con Forlani e Andreotti e il patto del Nazareno di Renzi con Berlusconi?
E ancora, la stessa insofferenza per i giornalisti “dei miei stivali”: quei pochissimi senza collare che quarant’anni dopo nella versione tweet diventeranno “gufi” e “sciacalli”.
A parte la stazza e i vestiti sformati, molte le analogie con un altro giovanotto che verrà e che nei giorni del Midas aveva appena un anno.
Certo che Matteo Renzi non è Bettino Craxi, né glielo auguriamo per come è finita quella storia.
Certo, saprà guardarsi dalle degenerazioni del sistema: quello dei “bilanci falsi di tutti i partiti che tutti sapevano” come ammise il cinghiale ferito nel famoso interrogatorio nell’aula milanese del processo Cusani.
Anche perché rivisitato su Youtube quel confronto tesissimo con il pm Di Pietro trasmette un senso di sgomento, di dramma incombente che nessuna fiction potrebbe mai restituirci.
Le colpe storiche e giudiziarie di Craxi restano intatte ma oggi lui quasi giganteggia a confronto dei tanti, troppi “tangentopolini” nel formaggio del ventennio successivo, senza dignità e senza verità.
Il percorso iniziale di Renzi può somigliare a quello di Craxi perchè entrambi nascono a sinistra per spaccare la sinistra.
Ma anche no per il diverso contesto politico oltreché temporale nel quale si svolgono le due vicende.
Esiste tuttavia una coazione a ripetere insita nel sistema italiano, quasi una malattia congenita e recidiva, tra corsi e ricorsi, che comincia con il ventennio mussoliniano e attraversa quello berlusconiano.
È il format dell’uomo solo al comando che rapidamente sale e repentinamente precipita. Reso cieco dalla sua stessa superbia e arroganza, mal consigliato, infine abbandonato e tradito finisce per “sottovalutare” i segnali dell’incombente disastro.
Ma qui si torna al punto di partenza.
I conti con la fine: tradimenti, falsi amici e cricche
Il più pesante atto d’accusa sull’opportunismo di Giuliano Amato non è contenuto negli articoli del Fatto Quotidiano, che l’ex Dottor Sottile cerca di trascinare in tribunale con una voluminosa querela.
Bensì nelle pagine di un libro dal titolo: Io parlo e continuerò a parlare, note e appunti di Bettino Craxi sull’Italia vista da Hammamet (vedi sotto e a fianco).
Neppure questo il cinghiale ferito aveva previsto: che un sistema di potere, il suo, che sembrava edificato sulla pietra, e che lungo un quindicennio aveva resistito perfino all’ostilità di Ronald Reagan e della Casa Bianca, si sbriciolasse nell’arco di poche settimane.
“Bettino come Benito”, scrisse all’inizio della frana Valentino Parlato sul manifesto: “Come Benito Mussolini? No, come il Benito Cereno di Melville, comandante fittizio di una nave ammutinata, ostaggio nelle mani di un equipaggio in rivolta”.
Poi, nella latitanza tunisina subentra la solitudine, la rabbia, la voglia di regolare i conti con i falsi amici e con la storia.
Ne fa le spese anche il “migliorista” e futuro capo dello Stato, Giorgio Napolitano in una sorta di chiamata di correo (vedi a fianco).
Mentre il nome di Claudio Martelli, il brillante delfino, l’unico autorizzato a rifornirsi nel frigorifero di casa Craxi (secondo la fulminante battuta di Anna Craxi) è relegato in una nota a margine che è peggio di una condanna.
Infine i conti con se stesso e una frase che suona come epitaffio: “Io non conosco la felicità.
La mia vita è stata una corsa a ostacoli, e non mi sono mai fermato per dire a me stesso ora sei un uomo felice. Bettino Craxi”.
Felici non lo sono stati e non lo sono neppure gli italiani derubati da Tangentopoli e poi derubati ancora dalle cricche nella indecente spoliazione della ricchezza nazionale proseguita fino ai giorni nostri, senza apparenti ostacoli.