Renzi

E' il luogo della libera circolazione delle idee "a ruota libera"
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2. «SONO UN SERVITORE DELLO STATO L' ESCLUSIONE? MI HA FERITO»
Andrea Ducci per il ''Corriere della Sera''

«Sono in Sabina a occuparmi della potatura degli olivi».

A Mompeo, paesino in provincia di Rieti, Mauro Moretti è stato sindaco. Qui, in veste di novello Cincinnato, trascorre la giornata clou delle nomine ai vertici delle grandi aziende di Stato. Il suo nome non è nella lista del Tesoro. Dopo anni alla guida prima di Ferrovie e, da ultimo, di Leonardo-Finmeccanica, Moretti è obbligato a fare i conti con le spietate regole imposte a chi interpreta il ruolo di civil servant . La condanna per la strage ferroviaria di Viareggio del 2009 ha innescato un meccanismo ineludibile: niente rinnovo per la guida di Leonardo.

Sebbene la condanna sia in primo grado e sia riconducibile a un incarico, quello di numero uno di Rfi che, al momento dell' incidente, non ricopriva più da anni, per «ragioni di opportunità politica» è stato sostituito con Alessandro Profumo, «una persona molto intelligente e capace». Duro da digerire per chi ritiene di essersi sempre prestato e proposto come un servitore della pubblica amministrazione. Moretti si sente ferito, ma non si permette di giudicare «quelle ragioni riconducibili all' opportunità politica». In via riservata rivendica i risultati di una gestione apprezzata dall' azionista pubblico e dal mercato.


Tanto da non escludere la possibilità di assumere nuovi incarichi nel settore privato. Intanto l' ex Finmeccanica ha cambiato pelle, oltre che nome, in Leonardo. Le commesse ora generano buone marginalità, e insieme al patrimonio industriale è stato ristrutturato quello valoriale.


3. LA RABBIA DELL' AD DI POSTE: "NON SO QUALI COLPE AVREI"
Francesco Manacorda per ''La Repubblica''


Era una poltrona che scotta, adesso è una poltrona che sbotta. «Non so quale presunta colpa dovrei pagare - spiega ieri a chi gli parla l' amministratore delegato uscente di Poste Francesco Caio -. Mi hanno detto di un' impuntatura dell' ex premier, ma non ho avuto modo di capire perché».

Ufficialmente è proprio così.
Da tempo l' uomo che Renzi mise nel 2014 alla guida delle Poste per dare il calcio d' avvio alla privatizzazione aveva capito che con la nuova tornata di nomine il suo destino era in bilico senza che dal punto di vista dei risultati aziendali gli si potesse imputare alcunché. Ma fino alle ultime ore Caio si è rifiutato di accettare la decisione come presa, opponendo alle valutazioni e alle mediazioni politiche i numeri della sua azienda che il mercato aveva premiato.

Eppure il tam tam tra i palazzi del potere politico ed economico raccontava già da tempo di un Caio poco attento alle esigenze «di sistema» spesso calorosamente illustrate da Matteo Renzi quando era ancora premier: tetragono, il manager, alle pressioni su Poste perché rilevasse ad ogni costo il risparmio gestito targato Pioneer da Unicredit in modo da evitare - come poi è accaduto - che andasse in mano ai francesi di Amundi per la bella somma di 3,5 miliardi di euro, «anche perché il nostro mestiere non è fare i banchieri »; ritroso nell' avvicinarsi al dossier Mps quando il governo Renzi avrebbe voluto una mano forte e una tasca profonda per cercare di risolvere il pasticcio senese.

Operazioni che le Poste a guida Caio non hanno mai fatto - «ma a quei prezzi lo considero una medaglia al valore» - e che molto difficilmente i suoi azionisti, i grandi fondi come i piccoli risparmiatori, rimpiangeranno.

I numeri, appunto, che ancora in queste ore Caio ha contrapposto al giudizio della politica.
Numeri che quattro giorni fa si sono concretizzati in 622 milioni di utile netto consolidato, in crescita di quasi il 13% rispetto allo scorso anno. Così, anche quando l' altro giorno lo ha chiamato il ministro dell' Economia, Pier Carlo Padoan, non era per annunciagli la defenestrazione «ma perché era molto soddisfatto del lavoro fatto. In un Paese normale queste parole sarebbero state seguite dalla riconferma. Questo però è un Paese strano ».

Con Renzi, l' uomo che oggi da azionista di maggioranza del governo ha chiesto e voluto la sua testa, «fino a qualche mese fa rapporti strepitosi». E del resto la privatizzazione della prima e finora unica tranche di Poste, un 38% messo sul mercato nell' ottobre di due anni fa, era stato un successo: 3 miliardi di incasso per il Tesoro e un prezzo dell' azione che ha resistito, con soddisfazione del suo amministratore delegato: «In un anno e mezzo il settore degli operatori finanziari diversificati, al quale Poste viene comparata da molti analisti, ha perso circa il 40%, mentre noi abbiamo tenuto ».

Caio aveva anche dovuto districarsi nella doppia missione di Poste: da una parte soggetto di mercato che doveva accontentare tutti i suoi azionisti e non più solo quello pubblico; dall' altra attore «sociale» per il servizio di consegna di lettere e pacchi che non poteva di certo rispondere solo a pure logiche finanziarie. Due obiettivi che paiono inconciliabili. «Ho mantenuto quell' input di azienda sociale e di mercato - spiegava ancora qualche giorno fa - mantenendo una presenza capillare e prendendo anche l' impegno a non chiudere gli uffici nei comuni sotto cinquemila abitanti».

Nei piccoli comuni avranno ancora lettere e pacchi, ma l' uomo alla guida di tutti i postini d' Italia no non sarà più lo stesso.

A Mompeo, paesino in provincia di Rieti, Mauro Moretti è stato sindaco. Qui, in veste di novello Cincinnato, trascorre la giornata clou delle nomine ai vertici delle grandi aziende di Stato. Il suo nome non è nella lista del Tesoro. Dopo anni alla guida prima di Ferrovie e, da ultimo, di Leonardo-Finmeccanica, Moretti è obbligato a fare i conti con le spietate regole imposte a chi interpreta il ruolo di civil servant . La condanna per la strage ferroviaria di Viareggio del 2009 ha innescato un meccanismo ineludibile: niente rinnovo per la guida di Leonardo.

Sebbene la condanna sia in primo grado e sia riconducibile a un incarico, quello di numero uno di Rfi che, al momento dell' incidente, non ricopriva più da anni, per «ragioni di opportunità politica» è stato sostituito con Alessandro Profumo, «una persona molto intelligente e capace». Duro da digerire per chi ritiene di essersi sempre prestato e proposto come un servitore della pubblica amministrazione. Moretti si sente ferito, ma non si permette di giudicare «quelle ragioni riconducibili all' opportunità politica». In via riservata rivendica i risultati di una gestione apprezzata dall' azionista pubblico e dal mercato.


Tanto da non escludere la possibilità di assumere nuovi incarichi nel settore privato. Intanto l' ex Finmeccanica ha cambiato pelle, oltre che nome, in Leonardo. Le commesse ora generano buone marginalità, e insieme al patrimonio industriale è stato ristrutturato quello valoriale.

Tanto da non escludere la possibilità di assumere nuovi incarichi nel settore privato. Intanto l' ex Finmeccanica ha cambiato pelle, oltre che nome, in Leonardo. Le commesse ora generano buone marginalità, e insieme al patrimonio industriale è stato ristrutturato quello valoriale.
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......C'ERA UNA VOLTA LA REPUBBLICA ITALIANA NATA DALLA RESISTENZA.......




Minzolini, la decadenza e i voltagabbana del Pd: nel 2013 la Severino andava solo applicata

Da Finocchiaro a Renzi, da Mucchetti a Marcucci e Ichino: pensieri e parole dei dem sulla decadenza di Berlusconi

Minzolini, la decadenza e i voltagabbana del Pd: nel 2013 la Severino andava solo applicata

di Marco Palombi | 19 marzo 2017




| 291
Come si sa, 57 senatori democratici su 99, di tutte le correnti, giovedì hanno partecipato a vario titolo (votanti a favore, astenuti, assenti) al salvataggio della poltrona di Augusto Minzolini in Senato rifiutandosi di applicare una legge dello Stato, la “Severino”, che prevede la decadenza per chi venga condannato definitivamente per alcuni reati a pene superiori ai due anni (e il “Direttorissimo” è in questa condizione, avendo avuto due anni e sei mesi per peculato con tanto di interdizione dai pubblici uffici). Al momento del voto, e all’indomani sui giornali, abbiamo scoperto i mille dubbi sulla legge Severino che attanagliano il Pd. E dire che nel novembre 2013 di dubbi non ce ne furono molti quando si trattò di votare la decadenza di Silvio Berlusconi dopo la condanna per frode fiscale: la legge era chiara e andava solo applicata. Breve elenco di testi dell’epoca:

“Il voto sulle decadenza è un nostro dovere nei confronti della legalità. È la prima volta che sento definire ‘colpo di Stato’ la rigorosa applicazione delle legge. Per il Pd non bisogna far altro che prendere atto della sentenza della Cassazione” (il capogruppo Luigi Zanda, che giovedì ha lasciato libertà di INcoscienza ai senatori)

“Il giudizio sulle procedure seguite dalla Giunta che hanno determinato la decadenza di Berlusconi lo potrei condensare in un aggettivo: ineccepibile” (Anna Finocchiaro, assente)

“La legalità deve prevalere sulle ragioni della politica politicante. Una volta riconosciuto a Berlusconi il diritto alla difesa, cioè a manifestare il proprio punto di vista, si voterà. Non bisogna usare il diritto politico alla difesa come il quarto grado di giudizio” (Massimo Mucchetti, ha votato contro la decadenza di Minzolini)

“La decadenza è un atto scontato, determinato dalla condanna in terzo grado e dall’applicazione della Severino” (Andrea Marcucci, astenuto)

“Tutte le evidenze spingono nella direzione del sì alla decadenza, ma il Pd esaminerà il caso in punto di diritto, con attenzione e serietà. L’unica cosa che possono chiederci è un giudizio attento e scrupoloso” (Giorgio Tonini, salvatore di Minzolini)

“La decadenza di Silvio Berlusconi è la normale conseguenza dell’applicazione della legge Severino, voluta e votata dallo stesso centrodestra. Si riconosce che la legge è uguale per tutti. Dopo tre gradi di giudizio correttezza avrebbe voluto che fosse lo stesso Berlusconi a fare un passo indietro” (Rosa Maria Di Giorgi, salvatrice di Minzolini)

“L’applicazione della legge Severino contro la corruzione negli organi legislativi e amministrativi contribuisce a ridare al nostro Paese almeno in parte, agli occhi della comunità internazionale, una credibilità come Stato di diritto” (Pietro Ichino, salvatore di Minzolini)

“La decadenza dalla carica non è una sanzione penale né amministrativa, ma una semplice conseguenza del verificarsi di un fatto da cui la legge fa dipendere la preclusione a mantenere cariche elettive: la condanna definitiva per alcuni reati. Votare la decadenza è un atto dovuto” (Francesco Scalia, salvatore di Minzolini)

“Credo che Berlusconi stia facendo una battaglia tecnica e giuridica riuscendo a trasformare con un’abile mossa semplice una presa d’atto da parte del Senato in una battaglia politica, dove sembra che sia il Senato a dare la sentenza. Ricordo che la sentenza è già stata emessa da un tribunale, non dal Parlamento” (Matteo Renzi)

“Nella Giunta delle elezioni del Senato c’è un pezzo di Friuli Venezia Giulia con la senatrice Isabella De Monte, la quale ha le idee chiare ed ha già detto che non si contratta il rispetto della legge con la stabilità. La legalità è un principio fondante, siamo qui anche per questo” (Debora Serracchiani)

“Nessun baratto è possibile tra principi dello Stato di diritto e un governo” (Dario Franceschini)

Forse hanno cambiato tutti idea. Ma quando? E perché?
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LA EX IENA ENRICO LUCCI, FACCIA UN'ALTRO SFORZO E FACCIA IL FUNERALE CON I CAVALLI ALLA REPUBBLICA ITALIANA.
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Re: Renzi

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MATTEO D'ARABIA


INCHIESTA

Matteo Renzi e la Qatar connection

Aerei. Armi. Ospedali. Alberghi di lusso.
 Visite ufficiali e incontri riservati. 
C’è uno stretto legame tra l’ex premier italiano e la casa reale dell'emirato
di Vittorio Malagutti
20 marzo 2017

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Matteo Renzi con l'emiro del Qatar, Tamim al-Thani, a Villa Madama
Chiamatela, se volete, Qatar connection. Un’attrazione fatale, scandita da coincidenze che si fatica a considerare casuali. Sta di fatto che Matteo Renzi, il suo percorso di statista, di uomo politico, di privato cittadino, negli ultimi mesi ha incrociato con grande frequenza la rotta del ricchissimo emirato, una monarchia assoluta governata dalla dinastia Al Thani.

Banche, alberghi, armi, navi da guerra, compagnie aeree, sport, cultura: da mesi l’Italia è il fronte più avanzato dell’offensiva lanciata dal Qatar. Un’offensiva a suon di affari e pubbliche relazioni annaffiata da abbondanti dosi di denaro. Miliardi di euro che, come sempre accade, aprono molte porte, spalancano l’ingresso di palazzi altrimenti inaccessibili. E Renzi, in un modo o nell’altro, si trova al centro di questa ragnatela, tra politica, alta finanza e diplomazia. Lo raccontano le cronache. Lo confermano i dettagli di alcune operazioni che collegati tra loro formano una trama che porta dritta nella penisola arabica.

Cominciamo dalla fine. Da un viaggio lampo segnalato dal sito Dagospia. Il 19 gennaio, l’ex presidente del Consiglio è sbarcato in Qatar per poi rientrare in Italia dopo poche ore. Non si conoscono i motivi della trasferta, che non è mai stata smentita dal diretto interessato. A questo proposito, nei palazzi romani si sprecano congetture e pettegolezzi, ma senza avventurarsi in ipotesi azzardate va ricordato che solo pochi mesi fa Renzi fu lo sponsor più autorevole dell’intervento dell’emiro Tamim bin Hamad al-Thani per salvare dal crack il Monte dei Paschi di Siena.

Il sovrano del piccolo Stato arabo, 2,6 milioni abitanti su una superficie di poco superiore a quella dell’Abruzzo, controlla un fondo d’investimento capace di muovere decine di miliardi di euro. E in Europa, anche attraverso altre holding o società personali delle più importanti famiglie locali, l’emirato con capitale Doha possiede già quote rilevanti di colossi bancari come Deutsche Bank (10 per cento) e Credit Suisse (17 per cento).

Per Mps si ipotizzava un investimento di un miliardo. Poca cosa, vista e considerata la dotazione finanziaria del Qia, una sigla che sta Qatar Investment Authority. Così, tra ottobre e novembre dell’anno scorso, sui giornali rimbalzarono a lungo le indiscrezioni sull’imminente entrata in scena degli arabi nell’inedito ruolo di salvatori del Monte. L’arrivano i nostri, però, è rimasto ben chiuso nel libro dei sogni. A dicembre nessuno ha più evocato il fantasma dell’emiro e adesso, per coprire i buchi nel bilancio di Siena, sarà necessario l’intervento pubblico, sempre che Bruxelles dia via libera agli aiuti di Stato.

«Avevamo creato le condizioni per un investimento estero importante - il fondo del Qatar - che ha detto no il giorno dopo il referendum per l’instabilità politica». Nell’intervista a la Repubblica pubblicata lo scorso 15 gennaio, l’ex premier ha ricostruito in questi termini la vicenda Mps. E allo stesso tempo ha rivendicato in modo esplicito il suo ruolo nel vagheggiato affare con l’emiro. Un affare che per giorni e giorni si è gonfiato come un soufflé per effetto dei boatos provenienti dai palazzi romani. Per poi sparire improvvisamente dai radar una volta passata la boa del referendum. Nel frattempo, però, da Doha non è mai arrivato un solo cenno di conferma dell’interesse dell’emiro per Mps. E, ovviamente, non è stato spiegato neppure il dietro front.

A giochi fatti, Renzi se l’è presa con «l’instabilità politica» seguita alla sconfitta (la sua) nel referendum. Una versione di parte, che non pare sorretta da dati di fatto. A differenza da quanto paventato da alcuni, la vittoria del No al referendum non ha innescato nessuna catastrofe economica. Vien quindi da pensare che l’offerta sia stata ritirata per altri motivi, magari legati ai conti disastrati del Monte dei Paschi. Oppure, più semplicemente, la soluzione targata Qatar non era altro che un’ipotesi, una cornice ancora tutta da riempire di fatti concreti.

D’altra parte non pare proprio che di recente l’emiro Tamim al-Thani, 36 anni, sul trono dal 2013 dopo l’abdicazione del padre Hamad al-Thani, si sia fatto granché impressionare dal precario stato di salute dell’economia italiana. E lo stesso Renzi si trova in una posizione privilegiata per confermare la passione dei sovrani del Qatar per il Belpaese. Dall’inizio dell’anno, infatti, l’ex premier ha più volte ricevuto amici e interlocutori politici in un ufficio ricavato all’interno dell’hotel Four Seasons di Firenze, un cinque stelle lusso che quattro anni fa è stato comprato proprio dalla famiglia al-Thani.

Sborsando una somma stimata intorno ai 150 milioni, i sovrani del Qatar si sono così aggiudicati Palazzo delle Gherardesca, il capolavoro dell’architettura rinascimentale che ospita l’albergo. La proprietà, che comprende anche quattro ettari di parco a pochi minuti a piedi dal centro città, era stata messa in vendita da Corrado e Marcello Fratini, legati a Renzi per via del comune amico Jacopo Mazzei, l’uomo d’affari che gestisce le attività immobiliari dei due fratelli fiorentini.

L’operazione Four Seasons non è che una tappa, e neppure la più importante, del lungo filotto di acquisizioni messe a segno in questi ultimi anni nel nostro Paese dai sovrani del Qatar. Ci sono gli alberghi, per esempio, collezionati come trofei da esibire al mondo. Oltre al già citato Four Seasons, gli investitori dell’emirato hanno comprato a Firenze il Baglioni e il St Regis Florence, il Gallia a Milano, Westin Excelsior e Grand Hotel St Regis a Roma, Palazzo Gritti a Venezia.

Tutti cinque stelle o cinque stelle lusso, in posizione centralissima. La campagna acquisti, cominciata nel 2014 è costata oltre un miliardo di euro. Ma non è solo questione di hotel. Ci sono per esempio i grattacieli di Porta Nuova a Milano, quelli che tra l’altro ospitano la sede di Unicredit, comprati dal Qia nel 2015 per una somma ben superiore al miliardo. A gestire quella transazione fu il manager Manfredi Catella, un renziano militante, tanto da organizzare eventi e cene già nel 2014 per raccogliere fondi per il Pd dell’allora premier. Ora Catella guida una società quotata in Borsa, la Coima Res, che ha come principale azionista proprio il fondo sovrano del Qatar.

A meno di sorprese clamorose, è invece atteso per fine mese il via libera dell’Antitrust europea all’acquisto del 49 per cento della compagnia aerea Meridiana da parte di Qatar airways. La quota di maggioranza resterà a una holding dell’Aga Khan, ma la gestione di Meridiana, da tempo in grave difficoltà, passerà alla società dell’emirato, che invece è in forte espansione. Di recente, tra l’altro, Qatar airways ha inaugurato una nuova rotta dall’Italia verso Doha. E qual è l’aeroporto prescelto per questi voli supplementari che vanno ad aggiungersi a quelli in partenza da Roma, Milano e Venezia? La risposta porta ancora in Toscana e, indirettamente, a Renzi. Da agosto dell’anno scorso, infatti, gli aerei con le insegne delle compagnia araba decollano e atterrano a Pisa, lo scalo controllato dalla Adf, la società Aeroporti di Firenze quotata in Borsa e presieduta da Marco Carrai, l’uomo d’affari grande amico dell’ex presidente del Consiglio.

L’acquisto di Meridiana, che ha Olbia per base principale, rientra in un disegno strategico più ampio. Già nel 2012 il Qatar si è preso la Costa Smeralda. Nel senso che il fondo sovrano del Paese arabo ha rilevato il complesso di alberghi e spiagge esclusive che in trent’anni, sotto il controllo dell’Aga Khan (lo stesso di Meridiana), è diventato un marchio globale del turismo per ricchi e ricchissimi. A vendere, in questo caso, è stato il fondo Colony del finanziere americano Tom Barrack, ma cinque anni dopo lo sbarco in Gallura, l’emiro corre in salita per completare un altro progetto.

Niente lusso, questa volta. Il crack del gruppo San Raffaele, quello di don Verzè, ha lasciato a metà il cantiere del Mater di Olbia e una fondazione del Qatar si è presa l’impegno di completare la costruzione dell’ospedale, annunciato come un centro d’avanguardia in grado di garantire cure di altissimo livello e anche 600 nuovi posti di lavoro in una regione come la Sardegna ad alto tasso di disoccupazione.

La struttura ospedaliera Mater Oblia
La struttura ospedaliera Mater Oblia

Le prime voci sull’arrivo degli arabi al Mater Olbia risalgono all’inizio del 2014, nell’ultima fase del governo di Enrico Letta, ma poi è stato Renzi a spendersi in prima persona per promuovere il progetto. A maggio del 2014 l’allora presidente del Consiglio annuncia un miliardo di investimenti in Sardegna promessi dalla Qatar Foundation per il nuovo ospedale. Nulla si muove per mesi e nell’ottobre successivo Renzi incontra di nuovo i rappresentanti arabi. Niente da fare. Bisogna attendere il maggio 2015 per l’inaugurazione del nuovo cantiere. «Si sblocca il Mater», twitta il premier che vola ad Olbia per celebrare l’evento. Sono passati quasi due anni e l’ospedale resta un’incompiuta. La burocrazia regionale e una serie di contrattempi tecnici hanno più volte bloccato i lavori.

Per l’inaugurazione, quella vera e definitiva, adesso si parla di metà 2018, con tre anni di ritardo rispetto a quanto annunciato da principio. Non proprio un gran successo. Eppure Renzi ce l’ha messa tutta per apparire come un interlocutore credibile agli occhi dell’emiro di Doha. Il primo contatto con lo sceicco Tamim al-Thani risale a novembre 2015 con un colloquio riservato durante la conferenza sul clima di Parigi. Passano meno di due mesi e a gennaio del 2016 il sovrano arabo sbarca a Roma per una visita ufficiale.

Nell’aprile successivo una nota ufficiale annuncia un colloquio telefonico tra i due capi di governo. Proprio in quelle settimane matura un altro grande affare. Questa volta i soldi del Qatar vanno a finanziare l’acquisto di ben sette navi da guerra complete di radar, sistemi di puntamento, missili e cannoni. Ad aggiudicarsi il contratto, che vale oltre quattro miliardi di euro, sono state due aziende di Stato, Fincantieri e Leonardo, la nuova ragione sociale di Finmeccanica. Quest’ultima, già nel 2015, aveva fornito all’emirato apparecchiature per la difesa aerea per un valore di 400 milioni di euro.

Il super appalto, siglato nel giugno 2016, viene presentato come una grande vittoria dei manager e della diplomazia italiana, che è riuscita a battere la concorrenza straniera, soprattutto francese. Poco importa, a quanto pare, che il regime di Doha sia più volte finito nella lista nera dei governi arabi sospettati di non impegnarsi a fondo contro il terrorismo islamico. È la doppia morale dell’Occidente, che di fronte ai miliardi degli Stati del Golfo, è pronta a chiudere gli occhi sulle loro politiche ambigue. Il Qatar, che ha accumulato una fortuna colossale grazie al petrolio e soprattutto al gas, è partito in ritardo rispetto ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi, ma in questi ultimi anni la dinastia degli al-Thani si è mossa a gran velocità alla ricerca di nuove occasioni d’affari in Europa. Tentando allo stesso tempo di accreditarsi come un Paese solido e affidabile. L’organizzazione dei mondiali di calcio del 2022, ottenuta dopo una gara su cui gravano forti sospetti di corruzione, rientra in questa strategia.

Da parte loro, prima la Gran Bretagna e poi la Francia hanno aperto la porta agli investimenti miliardari del Qatar, in qualche caso indispensabili per puntellare grandi imprese sull’orlo del crack. Esemplare il caso di Barclays, il colosso britannico del credito salvato nel 2008 dal fallimento grazie ai soldi di Doha. Buon’ultima è arrivata l’Italia. Per cominciare, nel 2012 il fondo Qia ha rilevato Valentino, simbolo della moda Made in Italy. E a novembre di quello stesso anno, con Mario Monti capo di governo, la Cassa Depositi e Prestiti a controllo pubblico si è alleata con la Qatar investment authority per realizzare investimenti comuni. Finora però l’unica operazione portata a termine è stata l’acquisizione del 28 per cento del produttore di carne Inalca, controllato dal gruppo Cremonini.

Il bello doveva ancora venire. Negli anni del governo Renzi gli investimenti del Qatar si sono moltiplicati e l’emirato ha trovato la sponda di Roma anche su altre partite in campo internazionale. In palio questa volta c’è la presidenza dell’Unesco, l’istituzione Onu per l’educazione, la scienza e la cultura. Per il Paese arabo è una questione di prestigio nazionale e in prima fila per promuoverne la candidatura alla guida Unesco c’è Mozah bint Nasser, seconda delle tre mogli dell’emiro padre a cui ha dato sette figli, tra cui il sovrano in carica.

L’affascinante Mozah, considerata una delle donne più eleganti del mondo, impegnatissima in campo umanitario, a giugno dell’anno scorso è stata ricevuta a Palazzo Chigi da Renzi. Tre mesi dopo è sbarcato a Roma Hamad al Kawary, candidato del Qatar alla poltrona di numero uno dell’Unesco. L’ospite arabo, in quell’occasione, ha ricevuto una laurea honoris causa dall’università di Tor Vergata. La stessa che alcune settimane prima aveva trovato un nuovo partner per sviluppare comuni progetti di ricerca. Un partner arabo: la Qatar university.

http://espresso.repubblica.it/attualita ... =HEF_RULLO
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Re: Renzi

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Dalla prima pagina de: IL FATTO QUOTIDIANO | Martedì 21 Marzo 2017

A U TO G O L Lo scandalo del voto al Senato
Il Pd coperto di insulti
dalla base su Minzolini:
“Una boiata, basta voti”

CERASA A PAG. 5
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Re: Renzi

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Roma, tribunale annulla riorganizzazione del Pd voluta da Orfini: “È illegittima”. Il partito: “Sentenza non ha alcun effetto”

Politica


"L'organo esecutivo ha inteso disciplinare materie esulanti dall’ambito delle sue attribuzioni, e riservate, invece, alla competenza dell’organo assembleare", scrive il giudice Clelia Buonocore, accogliendo il ricorso del comitato Articolo 49. In pratica il commissario non avrebbe potuto riorganizzare i circoli capitolini, visto che questo potere spettava invece all'Assemblea. Il partito romano: "Faremo appello ma la delibera impugnata non è più in vigore"



di F. Q. | 21 marzo 2017

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 135


Più informazioni su: Matteo Orfini, PD, Roma


Due anni fa avevano portato in tribunale il commissario del Pd romano, Matteo Orfini. Il motivo? Contestavano le modalità di rirganizzazione dei circoli dem nell’Urbe. E adesso che da quella denuncia sono passati meno di due anni il tribunale ha deciso di dargli ragione. La terza sezione civile del tribunale di Roma, infatti, ha accolto il ricorso presentato dal comitato Articolo 49 contro la ristrutturazione del partito decisa da Orfini nel giugno del 2015, dopo lo scandalo di Mafia capitale. Una sentenza che, però, secondo il Pd capitolino non avrebbe alcun effetto concreto perché superata da un nuovo regolamento. Ma andiamo con ordine.

A sancire che l’illegittimità della riorganizzazione dei circoli dem nella capitale è il giudice Clelia Buonocore che nella sua sentenza scrive:”L’organo esecutivo ha inteso disciplinare materie esulanti dall’ambito delle sue attribuzioni, e riservate, invece, alla competenza dell’organo assembleare”. In pratica Orfini da commissario non poteva riorganizzare il partito romano, visto che questo potere spettava invece all’Assemblea. “È riservata senz’altro all’organo assembleare la competenza a regolamentare le materie della delibera impugnata (iscrizione al Partito democratico Città di Roma, organizzazione dei Circoli della Federazione)”, si legge sempre nella stessa sentenza. “La circostanza che la delibera in contestazione sia stata adottata da organo incompetente vale di per sé a condurre al relativo annullamento“, conclude dunque la giudice, che ha anche condannato la Federazione romana del Pd al pagamento di 18.824 euro di spese processuali.

“In merito alla sentenza emessa in data odierna dal tribunale civile sulla delibera di organizzazione del giugno 2015, giova ricordare che detta delibera non è più in vigore. Da dicembre 2016 infatti è stata emanata una nuova delibera – di cui il giudice non poteva avere conoscenza – che regola la nostra vita interna. Gli effetti concreti della sentenza sulla organizzazione della federazione e del congresso sono dunque inesistenti. Per quanto riguarda il merito della sentenza, la federazione si riserva di proporre appello”, fanno sapere invece dal Pd Roma. Nel frattempo, però, i ricorrenti esultano. “Ora abbiamo una prima sentenza che ci dà ragione, e che afferma che il commissario del Pd Roma, nonché presidente nazionale del Pd, Matteo Orfini, ha impostato su una strada illegittima tutta la sua azione di riorganizzazione del partito romano”, dicono gli esponenti del comitato Articolo 49, chiamato così in omaggio al diritto di libera adesione dei cittadini ai partiti politici sancito dalla Costituzione.

“Siamo soddisfatti perché riteniamo di aver difeso valori di democrazia e di civismo” ma anche “dispiaciuti, perché siamo stati costretti a ricorrere alla via giudiziaria, ma i metodi arroganti e prevaricatori del commissario Orfini hanno impedito che ci fossero sedi di discussione serena all’interno del partito”, continuano i ricorrenti, che sono attivisti e dirigenti di alcuni circoli territoriali dem. E adesso con questa sentenza in mano e le primarie all’orizzonte cosa succede per il Pd a romano? “Noi ci auguriamo due cose – dicono dal comitato – la prima, che l’organizzazione e lo svolgimento del congresso cittadino tengano conto delle decisioni del giudice e non offrano ulteriori motivi di impugnazione; la seconda, che si eviti di far ricadere le conseguenze economiche della sentenza sulle già dissestate finanze del Pd romano e quindi sugli iscritti, dando un segno concreto di assunzione di responsabilità da parte di chi ha materialmente preso le decisioni sbagliate”.


Orfini era stato nominato commissario da Matteo Renzi nel dicembre del 2014 dopo l’esplosione dell’inchiesta su Mafia capitale. Dopo alcune denunce pubbliche sullo stato del partito nella Capitale, dunque, il presidente nazionale dem aveva annunciato il suo piano di rinnovamento cittadino. “Procederemo alla chiusura dei circoli cattivi e pericolosi– aveva annunciato – Abbiamo costituito 15 circoli territoriali, uno per municipio. Saranno il luogo dove si svolge il tesseramento e si celebrano i congressi. Gli attuali circoli diventano strutture organizzative di secondo livello che quindi continueranno la loro vita liberi da condizionamenti, ma non faranno tesseramento e non faranno congressi”. Una prospettiva sicuramente positiva, quella di riorganizzare il partito per depurarlo dalle scorie di Mafia capitale. Peccato che il tribunale ne abbia annullato le modalità. In attesa del processo d’appello
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Re: Renzi

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LE NOMINE DI PINOCCHIO MUSSOLONI..........FRESCHE DI GIORNATA




Usura bancaria, Profumo rinviato a giudizio

L'Ad di Leonardo andrà a giudizio con l'accusa di usura bancaria dopo la denuncia di un imprenditore
Luca Romano - Mer, 22/03/2017 - 09:42

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Alessandro Profumo a giudizio. L'amministratore delegato di Leonardo/Finmeccanica è stato rinviato a giudizio dal gup Salvatore Bloise del Tribunale di Lagonegro per usura bancaria con i tassi di interesse di Mps.









Il processo si aprirà il 23 maggio. La decisione del gup è del primo marzo scorso. Con Profumo sono stati rinviati a giudizio, sempre per usura bancaria, Raffaele Picella, ex presidente della Banca della Campania. Questa vicenda risale al 2014 quando un imprenditore del settore delle concessionarie di automobili presentò una denuncia per l'applicazione da parte di Mps e di Banca della Campania di tassi d'usura.

"Le indagini del pubblico ministero - spiega all’AGI il legale difensore dell’imprenditore di Sala Consilina, l’avvocato Carlo Scorza - hanno evidenziato che si sono registrati tassi ultralegali da parte di due istituti bancari fino a un massimo di 190 mila euro, per una esposizione debitoria che tale non è". Lo scorso 4 ottobre il pm aveva chiesto il rinvio a giudizio per Profumo. Adesso il gup ha accolto la richiesta. Gli avvocati si dicono convinti che non sono state superate le soglie di usura e che i contratti oggetto dell’inchiesta risalgono a un periodo antecedente all’ingresso di Profumo in Mps. Inoltre, gli avvocati (Adriano Raffaelli e Francesco Mucciarelli) precisano che l’iscrizione di Profumo nel registro degli indagati è avvenuta perchè era il legale rappresentante al momento in cui è stata aperta l’indagine.
UncleTom
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Re: Renzi

Messaggio da UncleTom »

SENTITA IERI

ALLA FACCIA DEL BICARBONATO DI SODIO.
TITOLO DI STUDIO: PERITO INDUSTRIALE – ANNI ‘60
LAVORO : PROGETTISTA DI CENTRALI DELL’ENEL
IN SOSTANZA, NON CERTO L’ULTIMO ARRIVATO, CHE HA RACCOLTO POMODORI PER TUTTA LA VITA.
HA PASSATO LA VITA FACENDO FUNZIONARE LA CENTRALINA. E’ STATO COSTRETTO A RIFLETTERE.

EPPURE, IERI, ERA ANCORA INCAZZATO PER GLI ITALIANI HANNO DETTO NO AL REFERENDUM.
RENZI E’ UN RAGAZZO INTELLIGENTE.
A ME PIACE PADOAN
MI PIACE FRANCESCHINI
MI PIACE MARTINA.

DEGUSTIBUS.

LA DEMOCRATURA E’ ANCHE QUESTA.
SIMIL DEMOCRAZIA



OGGI:

IL RAGAZZO INTELLIGENTE


23 mar 2017 09:57
EFFETTI DEL RENZISMO: I GIOVANI DIVENTANO AUTONOMI A 40 ANNI – E NEL PROSSIMO DECENNIO A CINQUANTA – LA SOLUZIONE? TASSARE DI PIU’ I VECCHI E MENO I GIOVANI: SAREBBE "DOVEROSO, NON SOLO SOTTO IL PROFILO ETICO, MA ANCHE SOTTO QUELLO SOCIALE ED ECONOMICO"

Da Ansa

Per diventare autonomi i giovani italiani ci mettono sempre di più. "Se un giovane di vent'anni nel 2004 aveva impiegato 10 anni per costruirsi una vita autonoma, nel 2020 ne impiegherà 18 (arrivando quindi a 38 anni), e nel 2030 addirittura 28: diventerebbe, in sostanza, 'grande' a cinquant'anni". Lo si legge in uno studio della Fondazione Visentini presentato oggi alla Luiss.

Lo studio contiene inoltre la proposta che, per fronteggiare l'emergenza generazionale e ridurre la forbice tra giovani e anziani, "serve una rimodulazione dell'imposizione che, con funzione redistributiva, tenga conto della maturità fiscale". Secondo la ricerca sarebbe necessario anche un "contributo solidaristico da parte della generazione più matura che gode delle pensioni più generose", questo - aggiunge lo studio - sarebbe "doveroso, non solo sotto il profilo etico, ma anche sotto quello sociale ed economico".

Nello studio si evidenzia che l'Italia "è penultima in Europa per equità intergenerazionale facendo meglio solo della Grecia". Inoltre, "sarebbe necessario un patto tra generazioni con un contributo da parte dei pensionati nella parte apicale delle fasce pensionistiche con un intervento progressivo sia rispetto alla capacità contributiva, sia ai contributi versati", si legge.
UncleTom
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Re: Renzi

Messaggio da UncleTom »

L'ITALIA IN FRANTUMI



26 mar 2017 17:36

“DATE UNO STIPENDIO A RENZI: 4.000 EURO AL MESE”


– PARLA MICHELE ANZALDI, CAPO DELLA COMUNICAZIONE DI MATTEUCCIO: "GUADAGNO PIU’ DI LUI. E’ IL MARADONA DELLA POLITICA E NON LO PAGHI?


- SU EMILIANO: “È COME UNA VECCHIA AUTO CHE SPANDE FUMO TOSSICO. HA ORGANIZZATO LA SCISSIONE, HA FATTO BUTTARE BERSANI DALLA FINESTRA E POI CI HA RIPENSATO. UNICO. E’ MEGLIO ORLANDO"


- SULLE NOMINE: "I TOSCANI? GENTE SERIA. NE DOVEVANO METTERE DI PIU’ NEI CDA” -



Luca Telese per La Verità
«Sei il guru della comunicazione che porterà Renzi alla vittoria?». «Al contrario: Renzi, che io accompagno, stravincerà le primarie». «Ti sei dato un obiettivo?». «Basta vincere senza ballottaggio e stappo lo spumante». Incontro Michele Anzaldi in un bar di Ponte Milvio, Roma.



Deputato del Pd, fedelissimo di Renzi, vietcong della comunicazione fra siti, tweet, guerriglia di comunicati e Facebook. Mentre parliamo gli arrivano sms come questo: «Dov' è il comitato Renzi?». E lui: «Non si trova. Ci stai parlando». Anzaldi è appena diventato capo della comunicazione del Pd per le primarie di Renzi. Annuncia rivoluzione.



Sei uno degli uomini più potenti del Pd e ricevi al bar?

(Ride). «Pago io, non temere».



Non mi vuoi far vedere l' ufficio?

«L' ufficio non c' è».



E dove hai la sede?

«In questo smartphone. Facciamo tutto con un iPad e un telefonino. Anche Matteo. Forse una sede ce la dovremo trovare. Ma di rappresentanza».



Scusa, e quando ti vedi con Renzi dove vi incontrate?


«Nei bar intorno a Montecitorio: ce li facciamo tutti. Divertente che nessuno se ne accorga».



Mi vuoi far credere che fate i meeting riservati alla Caffettiera napoletana, in piazza di Pietra?

«Se vogliamo andare in diretta sulla Cnn ci troviamo lì. Altrimenti scegliamo quelli più piccolini, più discreti. Lavoriamo sottotraccia».



Non potete star comodi al Nazareno?

«Guidare una campagna della corrente di Matteo dalla sede del partito? Già me lo immagino cosa direbbero... Non avete capito il nuovo Renzi».



Era a Palazzo Chigi, ora è senza ufficio e senza stipendio?




«Ecco, su questo io non sono d' accordo con Matteo. Mi piace l' idea di una nuova politica senza sprechi e senza pennacchi. Ma sullo stipendio voglio polemizzare pubblicamente con lui».



Perché?

«Santoddio: dovremmo dargli uno stipendio, e subito!».



Di quanto?

«Mi pare giusto che prenda almeno 4.000 euro al mese: non è una cifra campata per aria.

Come il sindaco di una grande città, come un funzionario del Nazareno, un terzo di un deputato. Guadagno più di lui, ti pare possibile?».



E invece?




«Lui su questo non ci sente. Ma ripeto, è il partito che dovrebbe imporsi: hai un gioiello, e te lo devi curare. A Maradona il Napoli l' ingaggio glielo paga lieto. Noi siamo ancora così, colpa dell' egemonia del grillismo».



Quindi rinunci all' ufficio?

«Se ci pensi anche il secondo partito italiano non ha sede».

Il M5s è il primo partito!

«Ti dirò: io leggo con attenzione le tendenze, i cicli di consenso. Non mi turbano i sondaggi di una settimana. Ma si sono smaterializzati i luoghi della politica. Il dopo referendum parte da questa riflessione: oggi tutto accade nel Web. Nel mondo cartaceo ci stanno le élites e i vecchi come noi».



Hai fatto fuori il tuo discepolo Filippo Sensi?

«Figurati! Il legame tra me e a Filippo è fatto di stima, affetto, complicità».

Quindi sì.

«È strano che fai il capo ufficio stampa del partito, di una corrente e il portavoce del capo del governo!».

Fino a ieri era così.




«Prima premier e leader erano la stessa persona. Ora due persone diverse. È buonsenso».

È vero che è stato Gentiloni a dirgli: «O con me o con lui?».

«Ah ah ah. Trattandosi di Paolo è folle immaginare un out out. Al massimo immaginati una perifrasi del tipo: "Filippo non trovi che sia troppo stressante per te sostenere due incarichi così gravosi?". La frase più traumatica che ho sentito dire a Gentiloni è: "Scusate, a me così non va bene"».



Come sei stato arruolato?




«Matteo mi ha invitato a prendere un caffè: in un baretto di via delle Mercede, vicino al Nazareno. Mi dice: "Facciamo il punto sulla comunicazione"».



Mentre bevevate un caffè?

«Lui è sempre operativo. Io sono stato molto critico, come sai, su quel che abbiamo comunicato in passato. L' uomo, come è noto, è complicato: erano troppi pochi, intorno a lui, e lui faceva troppe cose».

Eppure ha vinto così!

«Matteo è come una bottiglia di Coca-Cola. Se la bevi fresca e col ghiaccio è una goduria. Se la agiti esplode, il contenuto si versa inutilmente e una sostanza appiccicosa ti rimane tra le mani».



Il punto qual era?

«Sul piano personale la frase-verità: "Non pensavo di essere così odiato". Su quello politico, direi che il referendum ha oscurato le riforme. Ci siamo trovati a inseguire, spesso impreparati».






Esempio?

«Il caso Guidi. Alle 15 mentre scoppia lo scandalo Matteo è in aereo, in volo verso l' America. Alle 20, quando interviene, i titoli dei tg erano già andati. Prodi o Berlusconi avevano staff strutturati, Filippo e Matteo erano soli».



Chi vi manca?

«Prendi Berlusconi: aveva un portavoce come Paolo Bonaiuti, specialisti di immagine come Roberto Gasparotti, un addetto stampa come Luca D' Alessandro, un signore che si chiama Antonio Tajani, un ghost writer come Giuliano Ferrara Prodi aveva Silvio Sircana, Rodolfo Brancoli, Sandra Zampa, Lelio Alfonso e non dimenticarti quel gentiluomo di Angelo Rovati».Qui fai tutto tu. «Infatti io ho detto a Matteo che voglio creare questa squadra. Lui mi ha risposto: "Giusto: ma tu parti subito". E io: "Quanto tempo mi dai?"».

E lui?

«"Devi dirmi se vuoi farlo ora". Il pomeriggio ero al lavoro. Ma farò il cacciatore di teste perché servono un Sircana che tiene le relazioni, un Brancoli che vada a cena con i direttori a spiegare la linea...».



Ma non puoi andarci tu?

«Io? Vado volentieri al ristorante con Mario Calabresi e Luciano Fontana: ma a parlare di fake news. Quel lavoro istituzionale non è il mio. Se accentri tutto sbagli. È un' altra lezione del referendum».



Poteva andare meglio?

«Matteo è una Ferrari, una Lamborghini. Ma non puoi parcheggiare un' auto sportiva con una ruota sul marciapiede. Non puoi usarla per andare a comprare il pane».



E Andrea Orlando cos' è?

«Una di quelle Cinquecento Abarth carine. Belle per una corsa al mare».



E Michele Emiliano?

«Un vecchio diesel che ti fa la nuvola di fumo nero e tossico. Ha organizzato la scissione, ha fatto buttare Pier Luigi Bersani dalla finestra e poi ci ha ripensato. Unico».






Hai paura di Orlando?

«È più pericoloso. Ha fatto due volte il ministro senza che ci sia stato un problema. Ma Matteo è la luna al confronto di tutti, un' altra razza».

Stavi spiegando la sconfitta.

«Intanto non c' è stata la Rai».



Ma se l' avete occupata!

«Era spenta, direi: senza Ballaró, senza Nicola Porro, senza Politics. Che Antonio Campo Dall' Orto non va lo hanno detto anche Carlo Calenda, Antonello Giacomelli, Angelino Alfano. Basta?».

E poi?

«Bisognava diversificare i soggetti: un presidente, un portavoce del comitato, un coro di società civile. Invece ha preso tutto sulle spalle Renzi».

E Maria Elena Boschi.

«Mia madre non sa nemmeno chi sia la Boschi!».



È stato un limite di Renzi, allora.

«È stato troppo coraggioso. Il suo è stato un problema di etica della responsabilità: ha pagato e si è dimesso. Ma chi l' ha fatto oltre a lui?».



I duelli con Marco Travaglio, Gustavo Zagrebelsky, Ciriaco De Mita hanno funzionato?

«Se tu vai a fare una trasmissione e dura 3 ore sbagli: lui era stanco e i telespettatori si sono addormentati».



Ha vinto lui o no?

«Sì! Ma era diventata una cosa goliardica: vediamo chi dura di più a bere pinte di birra».



Detto così pare un disastro.

«Al contrario: era il più amato, ha governato bene, è riuscito a portare a casa riforme epocali.

Doveva e deve vendere questa merce».



E invece?

«Sovraesposizione, troppe uscite, troppo tempo. Oscurava se stesso, non dava tempo di metabolizzare. Conferenze stampa di un minuto e poi via in elicottero. Renzi da solo occupava ben 5 pagine al giorno sui quotidiani, poi ce n' erano altre 35 sul resto delle notizie: come faceva un cittadino normale a informarsi su così tanta roba? Meglio una pagina ogni due giorni su questioni concrete e realmente sentite. Solo così possiamo evitare il disastro di 100.000 assunzioni di professori, miliardi per l' edilizia scolastica e poi siamo insultati sulla scuola».



Da dove riparti?

«Matteo è spontaneo, genuino e intelligente: da lui».



Come funziona tra voi?

«Ci sentiamo la mattina per analizzare le cose importanti».



Le mosse dei nemici?

«Ma figurati! Uno dei primi temi che ci siamo scambiati è stato la disinformazione pericolosa e l' impennata dei casi di morbillo».



Cosa vi ha interessato?

«Il meccanismo perverso per cui sono i bimbi immunodepressi ma sani che il morbillo ammazza».



E quando leggi di Emiliano che chiede le sue dimissioni?

«Io dico: "Lasciamolo cuocere nel suo brodo". Vedi che funziona?».



Altro esempio?

«La polizia italiana intercetta una persona che cerca l' indirizzo dei due poliziotti che hanno ucciso il terrorista in fuga. Se potessi ascoltarci capiresti che Matteo ha a cuore l' Italia, non le piccole beghe».

Magari parlate anche dei toscani da nominare.

«Fake news grilline. Ce ne sono troppo pochi di toscani nei cda, purtroppo. Gente seria».



Pensi che Renzi non sia logoro?

«La sua forza è che lui non è nominato, è stato selezionato in una battaglia politica. È un combattente invincibile. Pensa allo streaming!».



Quello con Grillo?

«Appunto: lo ha demolito: "Beppe; benvenuto su questo pianeta!". Molto efficace. Soprattutto dopo l' umiliazione subita dal povero Bersani, bastonato da Roberta Lombardi».

Renzi ha detto a Giovanni Minoli di essere «cattivo e vendicativo».

«Ha fatto male, perché non è vero. I più grandi oppositori di Matteo hanno commissioni, poltrone ministeriali, incarichi. Guglielmo Epifani, alla guida della commissione Attività produttive! Francesco Boccia è a capo della commissione Bilancio della Camera!

Pensa anche al questore Paolo Fontanelli. E potrei andare avanti».



E ti pare un crimine?

«Se Matteo fosse cosi cattivo avrebbe potuto sostituirli: tutto passa per lui. Avevamo Roberto Speranza, uno che ha fatto la scissione. Capogruppo!».

Speranza è stato segato!
«Si è dimesso lui. Peraltro in piena campagna elettorale per le amministrative».



Nemico interno?

«Bisogna competere con la disinformazione grillina. Riconquistare i social».



Non ami i giornalisti?

«Al contrario servono: se il politico se la suona e se la canta è felice, ma non funziona. Deve parlare sempre con un filtro giornalistico».



Quanti dibattiti per le primarie con gli sfidanti?

«Ne farà uno solo, fatto bene. Quello su Sky è perfetto. Altri non si sono mai fatti, perché dovrebbe farli adesso?».



Punti a fare il vicepremier? Il sottosegretario alla presidenza?

«Ma figurati! Farò questo lavoro, magari altrove».



Chi ci crede?

«Perché? Alla Ferrari, magari. Alla Fca. Oppure prendi Cairo: azzera il deficit di Rcs e va in utile di 35 milioni».



Che c' entra?

«Invece che leggerlo nelle pagine economiche doveva essere una notizia da prima».

Mi stai depistando.

«Non ho ambizioni di Palazzo. Se mi vedrai in un altro posto sarà fuori della politica».
UncleTom
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Re: Renzi

Messaggio da UncleTom »

27 mar 2017 10:01

IL TERRORE PIU’ GRANDE DEL DUCETTO: ESSERE DIMENTICATO


– PER PAURA DI NON RIMETTERE PIEDE A PALAZZO CHIGI, RENZI SPARA CAZZATE TUTTO IL GIORNO E SU TUTTO: DALL’EUROPA ALLA VITTORIA DELLA FERRARI


– LETTA (ENRICO) GLI TIRA UN CALCIO NEGLI STINCHI: PREFERISCE ORLANDO, E MATTEO SI SCATENA CONTRO GRILLO
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