LA LIBIA E' VICINA
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Re: LA LIBIA E' VICINA
I soldi non puzzano mai? Se il Qatar compra il futuro di Milano…
SABATO, 28 FEBBRAIO 2015
(Gad Lerner)
Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
La minuscola, desertica penisola del Qatar ha un numero di abitanti inferiore all’area metropolitana milanese ed è retta da un emirato semifeudale. Ma ormai, come direbbe Salvini, il Qatar è “padrone in casa nostra”. Sono le regole inappellabili della finanza che stravolge la geopolitica e che, da ieri, assegna alla petromonarchia della dinastia al-Thani l’intera proprietà dei nuovi grattacieli di Milano. Le torri d’acciaio di Porta Nuova, sovrastando la Madonnina, regalano ai milanesi l’orgoglio di una sky-line da metropoli del XXI secolo; ma da oggi la loro visione insinua anche il dubbio: ci toccherà un futuro da colonizzati? Così la città che non è riuscita neppure ad allestire una moschea degna di questo nome in vista dell’Expò, a causa dei pregiudizi che tuttora la affliggono, si trova a fare i conti col potere sovrastante di una bolla finanziaria cresciuta ben più in fretta di quegli edifici avveniristici.
Perché il Qatar non è solo il ricchissimo staterello che può comprarsi i bocconi più prelibati dell’economia mondiale, e in sovrappiù squadre di calcio, case di moda, i quadri di Gauguin e Cézanne. Il Qatar è anche un emirato in cui vige un’interpretazione oscurantista della Sharia, la legge islamica, prodigo di finanziamenti ai Fratelli Musulmani, fin troppo attivo nella destabilizzazione del Medio Oriente e del Nordafrica che sta insanguinando l’intero bacino del Mediterraneo.
Chi ha concluso l’affare per conto del Fondo sovrano del Qatar è uno sceicco di 29 anni, Suhami al-Thani, secondo cugino dell’emiro, tifoso milanista e collezionista di Maserati. Si presenta come amante dello stile di vita occidentale e del gusto italiano, ma dietro a quel Fondo si cela anche un substrato politico impenetrabile nella sua ambiguità: un’economia incline a sbarazzarsi della democrazia, favorita dalla convinzione diffusa che i soldi non puzzano mai. E tanto meno puzzano di petrolio.
Chissà cose ne penserebbe Gae Aulenti, cui è intitolata la nuova piazza milanese su cui affacciano la Torre dell’Unicredit e, subito dietro, il Bosco Verticale disegnato da Stefano Boeri. La storia di questo insediamento da 290 mila metri quadri nel pieno centro storico di Milano, comporta certo un omaggio al talento di un’architettura contemporanea, capace però di esprimersi solo all’insegna dell’edilizia di lusso. Ma è anche la storia ingloriosa del declino degli immobiliaristi milanesi che, con la cementificazione e il gigantismo, si sono arricchiti per decenni prima di finire vittime delle loro stesse malversazioni: i lavori di Porta Nuova furono avviati dalla famiglia Ligresti, cui era associato lo stesso Manfredi Catella che ieri ha realizzato il colpaccio della vendita agli arabi. Catella (e non solo lui) ne esce con una ricca plusvalenza. Si dice che parte di questa liquidità sia destinata a un nuovo investimento nel Lido di Venezia. Siamo sicuri che ne beneficerà il sistema economico italiano?
Di certo Porta Nuova qatariota diviene così il simbolo di una parabola discendente della classe imprenditoriale ambrosiana, ormai incapace di creare imprese durature. Accentua un impulso alla finanziarizzazione dell’economia che ha già ridisegnato il tessuto urbano milanese in pericolosi compartimenti stagni: da una parte nuovi insediamenti destinati ai consumi di lusso; dall’altra una metropoli che vive il rapido degrado delle sue periferie, dove i poveri si fanno la guerra, smettono di pagare l’affitto, e il numero delle case popolari inagibili conosce un drammatico incremento. Due Milano ormai completamente separate, incomunicanti. Con i loro arabi di serie A e i loro arabi di serie B, proprio come avviene da sempre sulla sponda sud del Mediterraneo.
A sollevare questi argomenti, fino a ieri, ci si beccava l’accusa di provincialismo: ma come, disprezzi la ritrovata capacità italiana di attrarre investimenti? Non ti fa piacere che succeda a Milano quel che fino a ieri succedeva solo a Londra e a Parigi? Perché dovrebbe dispiacerci se il flusso mondiale della ricchezza, nella sua corrente impetuosa, lambisce anche la nostra penisola che rischiava di rimanerne completamente tagliata fuori?
Solo che oggi il fenomeno ineluttabile della globalizzazione si intreccia con equilibri geopolitici resi fragili dalla guerra. Nel dramma provocato dall’espansione del sedicente Califfato, lo sappiamo bene, le petromonarchie del Golfo sono divenute al tempo stesso nostri infidi alleati, restando apprendisti stregoni. Il predominio da esse conseguito nei gangli della finanza mondiale le rendono protagoniste imprescindibili; ma la loro natura antidemocratica, nonché la loro strategia di burattinai di un islam oscurantista, ne accrescono la pericolosità.
La politica estera del governo italiano, di fronte a operazioni sul nostro patrimonio di tale entità, non può limitarsi a un semplice “benvenuti”. Quando vendi un pezzo di territorio, in gioco non è solo un’operazione finanziaria.
Guardando il filmato diffuso ieri dall’Is sulla distruzione del patrimonio artistico nel museo di Mosul, non ho potuto fare a meno di pensare ai quadri di Gauguin e Cézanne acquistati per centinaia di milioni di dollari dalla famiglia al-Thani e destinati al nuovo museo di Doha, la capitale del Qatar. Nessuno può contestarne la vendita, ma saranno davvero al sicuro, laggiù nel deserto, quelle tele raffiguranti donne polinesiane e giocatori di carte che suggellano un apice dell’arte europea?
Il nostro destino futuro contempla senza dubbio l’intreccio finanziario e la contaminazione reciproca. Che il quartiere del lusso ambrosiano, oltreché cosmopolita diventi anche in parte straniero, sta nel percorso di un’evoluzione storica inarrestabile. Ma Milano ritroverà fiducia in se stessa non certo attraverso il colpaccio di un finanziere-immobiliarista, già socio degli americani, che vende tutto agli emiri. Bensì quando saprà trasformare questa ricchezza in imprese capaci di unire il profitto a uno sviluppo equilibrato. Come bene o male riusciva alla sua borghesia quand’era meno chiusa in se stessa.
http://www.gadlerner.it/2015/02/28/i-so ... -di-milano
SABATO, 28 FEBBRAIO 2015
(Gad Lerner)
Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
La minuscola, desertica penisola del Qatar ha un numero di abitanti inferiore all’area metropolitana milanese ed è retta da un emirato semifeudale. Ma ormai, come direbbe Salvini, il Qatar è “padrone in casa nostra”. Sono le regole inappellabili della finanza che stravolge la geopolitica e che, da ieri, assegna alla petromonarchia della dinastia al-Thani l’intera proprietà dei nuovi grattacieli di Milano. Le torri d’acciaio di Porta Nuova, sovrastando la Madonnina, regalano ai milanesi l’orgoglio di una sky-line da metropoli del XXI secolo; ma da oggi la loro visione insinua anche il dubbio: ci toccherà un futuro da colonizzati? Così la città che non è riuscita neppure ad allestire una moschea degna di questo nome in vista dell’Expò, a causa dei pregiudizi che tuttora la affliggono, si trova a fare i conti col potere sovrastante di una bolla finanziaria cresciuta ben più in fretta di quegli edifici avveniristici.
Perché il Qatar non è solo il ricchissimo staterello che può comprarsi i bocconi più prelibati dell’economia mondiale, e in sovrappiù squadre di calcio, case di moda, i quadri di Gauguin e Cézanne. Il Qatar è anche un emirato in cui vige un’interpretazione oscurantista della Sharia, la legge islamica, prodigo di finanziamenti ai Fratelli Musulmani, fin troppo attivo nella destabilizzazione del Medio Oriente e del Nordafrica che sta insanguinando l’intero bacino del Mediterraneo.
Chi ha concluso l’affare per conto del Fondo sovrano del Qatar è uno sceicco di 29 anni, Suhami al-Thani, secondo cugino dell’emiro, tifoso milanista e collezionista di Maserati. Si presenta come amante dello stile di vita occidentale e del gusto italiano, ma dietro a quel Fondo si cela anche un substrato politico impenetrabile nella sua ambiguità: un’economia incline a sbarazzarsi della democrazia, favorita dalla convinzione diffusa che i soldi non puzzano mai. E tanto meno puzzano di petrolio.
Chissà cose ne penserebbe Gae Aulenti, cui è intitolata la nuova piazza milanese su cui affacciano la Torre dell’Unicredit e, subito dietro, il Bosco Verticale disegnato da Stefano Boeri. La storia di questo insediamento da 290 mila metri quadri nel pieno centro storico di Milano, comporta certo un omaggio al talento di un’architettura contemporanea, capace però di esprimersi solo all’insegna dell’edilizia di lusso. Ma è anche la storia ingloriosa del declino degli immobiliaristi milanesi che, con la cementificazione e il gigantismo, si sono arricchiti per decenni prima di finire vittime delle loro stesse malversazioni: i lavori di Porta Nuova furono avviati dalla famiglia Ligresti, cui era associato lo stesso Manfredi Catella che ieri ha realizzato il colpaccio della vendita agli arabi. Catella (e non solo lui) ne esce con una ricca plusvalenza. Si dice che parte di questa liquidità sia destinata a un nuovo investimento nel Lido di Venezia. Siamo sicuri che ne beneficerà il sistema economico italiano?
Di certo Porta Nuova qatariota diviene così il simbolo di una parabola discendente della classe imprenditoriale ambrosiana, ormai incapace di creare imprese durature. Accentua un impulso alla finanziarizzazione dell’economia che ha già ridisegnato il tessuto urbano milanese in pericolosi compartimenti stagni: da una parte nuovi insediamenti destinati ai consumi di lusso; dall’altra una metropoli che vive il rapido degrado delle sue periferie, dove i poveri si fanno la guerra, smettono di pagare l’affitto, e il numero delle case popolari inagibili conosce un drammatico incremento. Due Milano ormai completamente separate, incomunicanti. Con i loro arabi di serie A e i loro arabi di serie B, proprio come avviene da sempre sulla sponda sud del Mediterraneo.
A sollevare questi argomenti, fino a ieri, ci si beccava l’accusa di provincialismo: ma come, disprezzi la ritrovata capacità italiana di attrarre investimenti? Non ti fa piacere che succeda a Milano quel che fino a ieri succedeva solo a Londra e a Parigi? Perché dovrebbe dispiacerci se il flusso mondiale della ricchezza, nella sua corrente impetuosa, lambisce anche la nostra penisola che rischiava di rimanerne completamente tagliata fuori?
Solo che oggi il fenomeno ineluttabile della globalizzazione si intreccia con equilibri geopolitici resi fragili dalla guerra. Nel dramma provocato dall’espansione del sedicente Califfato, lo sappiamo bene, le petromonarchie del Golfo sono divenute al tempo stesso nostri infidi alleati, restando apprendisti stregoni. Il predominio da esse conseguito nei gangli della finanza mondiale le rendono protagoniste imprescindibili; ma la loro natura antidemocratica, nonché la loro strategia di burattinai di un islam oscurantista, ne accrescono la pericolosità.
La politica estera del governo italiano, di fronte a operazioni sul nostro patrimonio di tale entità, non può limitarsi a un semplice “benvenuti”. Quando vendi un pezzo di territorio, in gioco non è solo un’operazione finanziaria.
Guardando il filmato diffuso ieri dall’Is sulla distruzione del patrimonio artistico nel museo di Mosul, non ho potuto fare a meno di pensare ai quadri di Gauguin e Cézanne acquistati per centinaia di milioni di dollari dalla famiglia al-Thani e destinati al nuovo museo di Doha, la capitale del Qatar. Nessuno può contestarne la vendita, ma saranno davvero al sicuro, laggiù nel deserto, quelle tele raffiguranti donne polinesiane e giocatori di carte che suggellano un apice dell’arte europea?
Il nostro destino futuro contempla senza dubbio l’intreccio finanziario e la contaminazione reciproca. Che il quartiere del lusso ambrosiano, oltreché cosmopolita diventi anche in parte straniero, sta nel percorso di un’evoluzione storica inarrestabile. Ma Milano ritroverà fiducia in se stessa non certo attraverso il colpaccio di un finanziere-immobiliarista, già socio degli americani, che vende tutto agli emiri. Bensì quando saprà trasformare questa ricchezza in imprese capaci di unire il profitto a uno sviluppo equilibrato. Come bene o male riusciva alla sua borghesia quand’era meno chiusa in se stessa.
http://www.gadlerner.it/2015/02/28/i-so ... -di-milano
Renzi elenca i successi del governo. “Sarò breve”.
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Re: LA LIBIA E' VICINA
Il primo documento Isis in italiano
«Da noi la malavita è crollata: -90%»
Pubblicato sul sito di analisi strategica e sociale lo scritto di 64 pagine probabilmente redatto da un italiano e rivolto ai musulmani d’Italia. Dall’agricoltura alla loro polizia
ROMA —Sessantaquattro pagine di documenti in italiano. Le prime in italiano, scritte da un italiano, secondo gli analisti, dello Stato islamico. A scovarlo sui siti online jihadisti è stato Wikilao, pagina online di analisi strategica e sociale. Il titolo del testo è «lo Stato islamico, una realtà che ti vorrebbe comunicare». Si compone di tredici capitoli, compreso l’ultimo con un «messaggio al lettore». La prima riga recita «In Nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso». Il documento è indirizzato principalmente ai musulmani d’Italia, ma è aperto anche a tutti gli italiani.
«Chiarire la verità è il nostro obiettivo»
Lo scritto è pieno di foto e grafici e ripropone tutti i temi della propaganda jihadista. «Propagare la conoscenza Islamica, correggere la comprensione della gente sulla religione, chiarire la verità»: sono questi, si legge, «i più importanti obiettivi da raggiungere fissati dalla politica dello Stato Islamico». Il testo contiene cronache propagandistiche della vita nei territori conquistati e amministrati dall’Isis, nei quali, si afferma, «grazie all’applicazione della Sharia e delle punizioni regolate dal Libro di Allah si è instaurata» una «reale sicurezza».
Campagne anti alcol e anti fumo. E anche l’Ufficio protezione utenti
I crimini sarebbero calati «in poco tempo» del 90 per cento. Vengono illustrate le campagne anti-alcol e anti-fumo, ci sono interviste al «capo della polizia» islamica, al responsabile della produzione del pane e a quello di un ufficio per la protezione dei consumatori. «Lo Stato Islamico è una vera e propria rivoluzione», si aggiunge nella parte che spiega l’introduzione della moneta ufficiale, il dinaro. Inoltre viene promessa «benzina gratis ai cittadini bisognosi». Il testo non contiene minacce esplicite all’Italia, ma vi è una chiara chiamata alle armi e si evoca la «conquista di Roma»: «Accorri al supporto del Califfato Islamico» che «ha allargato i propri territori... Per grazia di Allah i soldati sotto diretto controllo dello Stato Islamico sono in Algeria, Nigeria, Ciad, Libia, Egitto, Arabia Saudita, Yemen e altri Paesi ancora».
«Conquisteremo Costantinopoli e Roma, come Muhammad profetizzò»
Sotto una mappa, questa didascalia: «Accorrete Musulmani, questo con il permesso di Allah è il Califfato Islamico che conquisterà Costantinopoli e Roma come Muhammad profetizzo’». Alla fine del documento, come ormai consuetudine per gli scritti più strutturati riconducibili all’Isis, compare una lista di consigli concernente materiale da consultare. Tra l’altro anche un video, con traduzione in italiano, relativo alla «distruzione del confine Sykes-Picot», quando «la barriera colonialista dividente Iraq e Siria è stata abbattuta. Un giorno di felicità per i Musulmani in tutto il mondo», si legge nel testo.
28 febbraio 2015 | 15:25
© RIPRODUZIONE RISERVATASU WIKILAO
http://roma.corriere.it/notizie/cronaca ... f698.shtml
«Da noi la malavita è crollata: -90%»
Pubblicato sul sito di analisi strategica e sociale lo scritto di 64 pagine probabilmente redatto da un italiano e rivolto ai musulmani d’Italia. Dall’agricoltura alla loro polizia
ROMA —Sessantaquattro pagine di documenti in italiano. Le prime in italiano, scritte da un italiano, secondo gli analisti, dello Stato islamico. A scovarlo sui siti online jihadisti è stato Wikilao, pagina online di analisi strategica e sociale. Il titolo del testo è «lo Stato islamico, una realtà che ti vorrebbe comunicare». Si compone di tredici capitoli, compreso l’ultimo con un «messaggio al lettore». La prima riga recita «In Nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso». Il documento è indirizzato principalmente ai musulmani d’Italia, ma è aperto anche a tutti gli italiani.
«Chiarire la verità è il nostro obiettivo»
Lo scritto è pieno di foto e grafici e ripropone tutti i temi della propaganda jihadista. «Propagare la conoscenza Islamica, correggere la comprensione della gente sulla religione, chiarire la verità»: sono questi, si legge, «i più importanti obiettivi da raggiungere fissati dalla politica dello Stato Islamico». Il testo contiene cronache propagandistiche della vita nei territori conquistati e amministrati dall’Isis, nei quali, si afferma, «grazie all’applicazione della Sharia e delle punizioni regolate dal Libro di Allah si è instaurata» una «reale sicurezza».
Campagne anti alcol e anti fumo. E anche l’Ufficio protezione utenti
I crimini sarebbero calati «in poco tempo» del 90 per cento. Vengono illustrate le campagne anti-alcol e anti-fumo, ci sono interviste al «capo della polizia» islamica, al responsabile della produzione del pane e a quello di un ufficio per la protezione dei consumatori. «Lo Stato Islamico è una vera e propria rivoluzione», si aggiunge nella parte che spiega l’introduzione della moneta ufficiale, il dinaro. Inoltre viene promessa «benzina gratis ai cittadini bisognosi». Il testo non contiene minacce esplicite all’Italia, ma vi è una chiara chiamata alle armi e si evoca la «conquista di Roma»: «Accorri al supporto del Califfato Islamico» che «ha allargato i propri territori... Per grazia di Allah i soldati sotto diretto controllo dello Stato Islamico sono in Algeria, Nigeria, Ciad, Libia, Egitto, Arabia Saudita, Yemen e altri Paesi ancora».
«Conquisteremo Costantinopoli e Roma, come Muhammad profetizzò»
Sotto una mappa, questa didascalia: «Accorrete Musulmani, questo con il permesso di Allah è il Califfato Islamico che conquisterà Costantinopoli e Roma come Muhammad profetizzo’». Alla fine del documento, come ormai consuetudine per gli scritti più strutturati riconducibili all’Isis, compare una lista di consigli concernente materiale da consultare. Tra l’altro anche un video, con traduzione in italiano, relativo alla «distruzione del confine Sykes-Picot», quando «la barriera colonialista dividente Iraq e Siria è stata abbattuta. Un giorno di felicità per i Musulmani in tutto il mondo», si legge nel testo.
28 febbraio 2015 | 15:25
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http://roma.corriere.it/notizie/cronaca ... f698.shtml
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Re: LA LIBIA E' VICINA
L’apocalisse secondo l’Isis
I jihadisti mirano davvero alla città italiana? La «profezia» ha diverse interpretazioni
di Viviana Mazza
«Conquisteremo Roma», promettono i jihadisti dell’Isis. Ma che cosa intendono quando parlano di «Roma» è oggetto di dibattito (tra gli stessi jihadisti).
Di certo hanno in mente uno scenario apocalittico: una battaglia decisiva avverrà a Dabiq, cittadina vicino ad Aleppo, dove «gli eserciti di Roma» verranno sconfitti dagli «eserciti dell’Islam».
Nella battaglia di Dabiq le fonti dello Stato Islamico suggeriscono che «“Roma” potrebbe indicare una qualsiasi armata di infedeli: gli americani calzerebbero a pennello», spiega Graeme Wood sull’Atlantic Monthly in uno degli articoli più letti sull’Isis.
Quando l’anno scorso Washington ha iniziato a valutare l’intervento contro l’Isis in Siria, i jihadisti iniziarono a contare le nazioni aderenti alla coalizione Usa — nota William McCarts della Brookings Institution — aspettandosi l’inizio della battaglia quando «Roma» avrà 80 alleati. Secondo l’Isis, «l’armata dell’Islam» poi «procederà a conquistare Istanbul o Roma: ma c’è una certa confusione perché le tradizioni classiche islamiche descrivono Costantinopoli, l’odierna Istanbul, come capitale delle terre “romane”», scrive oggi sul New York Daily News Gabriel Said Reynolds, professore di studi islamici all’università di Notre Dame.
Alcuni adepti del Califfato credono che solo Istanbul (e non la città di Roma) verrà conquistata. Musa Cerantonio, predicatore australiano di origini calabresi ritenuto un abile reclutatore del gruppo, ha detto all’Atlantic che «Roma» rappresenta «l’Impero romano d’Oriente che aveva la sua capitale in quella che oggi è Istanbul» e che, dopo aver vinto a Dabiq e saccheggiato Costantinopoli (Istanbul), il Califfato non si espanderà oltre il Bosforo. Ma altri seguaci credono che l’Isis controllerà il mondo intero.
Nella propaganda ci sono anche riferimenti più concreti alla città di Roma, diventati ultimamente più frequenti. Il documento diffuso ieri in italiano parla della conquista di «Costantinopoli e Roma»; la rivista «Dabiq» dell’Isis ha messo in prima pagina l’immagine di Piazza San Pietro; e un fotomontaggio diffuso su Twitter (anche se da fonti non «ufficiali») mostra la bandiera dei jihadisti sventolare sul Colosseo. «Le profezie e soprattutto quelle apocalittiche si prestano sempre a interpretazioni diverse a seconda degli obiettivi», ci dice Paolo Branca, studioso di islamistica all’Università Cattolica di Milano.
«Quando gli arabi islamizzati hanno cominciato le conquiste, le grandi potenze del tempo erano l’Impero Bizantino e l’Impero Persiano. Travolto il secondo, il passo successivo era Costantinopoli: fino al 1453 quando gli ottomani la conquistarono. Ma c’è anche un riferimento implicito a Roma, in un detto attribuito al Profeta (considerato apocrifo da filologi e studiosi della sunna ndr). Alla domanda se sarà conquistata prima Roma o Costantinopoli, il Profeta rispondeva “Prima Costantinopoli”, individuando Roma come tappa secondaria, perché non valeva niente all’epoca delle invasioni barbariche e della decadenza dell’Impero romano.
Ora però è vista come città simbolica e cuore della cristianità. E’ anche un modo per darsi un obiettivo ambizioso. Anche se è uno scenario del tutto ridicolo».
1 marzo 2015 | 16:55
http://www.corriere.it/esteri/15_marzo_ ... 8977.shtml
© RIPRODUZIONE RISERVATA
I jihadisti mirano davvero alla città italiana? La «profezia» ha diverse interpretazioni
di Viviana Mazza
«Conquisteremo Roma», promettono i jihadisti dell’Isis. Ma che cosa intendono quando parlano di «Roma» è oggetto di dibattito (tra gli stessi jihadisti).
Di certo hanno in mente uno scenario apocalittico: una battaglia decisiva avverrà a Dabiq, cittadina vicino ad Aleppo, dove «gli eserciti di Roma» verranno sconfitti dagli «eserciti dell’Islam».
Nella battaglia di Dabiq le fonti dello Stato Islamico suggeriscono che «“Roma” potrebbe indicare una qualsiasi armata di infedeli: gli americani calzerebbero a pennello», spiega Graeme Wood sull’Atlantic Monthly in uno degli articoli più letti sull’Isis.
Quando l’anno scorso Washington ha iniziato a valutare l’intervento contro l’Isis in Siria, i jihadisti iniziarono a contare le nazioni aderenti alla coalizione Usa — nota William McCarts della Brookings Institution — aspettandosi l’inizio della battaglia quando «Roma» avrà 80 alleati. Secondo l’Isis, «l’armata dell’Islam» poi «procederà a conquistare Istanbul o Roma: ma c’è una certa confusione perché le tradizioni classiche islamiche descrivono Costantinopoli, l’odierna Istanbul, come capitale delle terre “romane”», scrive oggi sul New York Daily News Gabriel Said Reynolds, professore di studi islamici all’università di Notre Dame.
Alcuni adepti del Califfato credono che solo Istanbul (e non la città di Roma) verrà conquistata. Musa Cerantonio, predicatore australiano di origini calabresi ritenuto un abile reclutatore del gruppo, ha detto all’Atlantic che «Roma» rappresenta «l’Impero romano d’Oriente che aveva la sua capitale in quella che oggi è Istanbul» e che, dopo aver vinto a Dabiq e saccheggiato Costantinopoli (Istanbul), il Califfato non si espanderà oltre il Bosforo. Ma altri seguaci credono che l’Isis controllerà il mondo intero.
Nella propaganda ci sono anche riferimenti più concreti alla città di Roma, diventati ultimamente più frequenti. Il documento diffuso ieri in italiano parla della conquista di «Costantinopoli e Roma»; la rivista «Dabiq» dell’Isis ha messo in prima pagina l’immagine di Piazza San Pietro; e un fotomontaggio diffuso su Twitter (anche se da fonti non «ufficiali») mostra la bandiera dei jihadisti sventolare sul Colosseo. «Le profezie e soprattutto quelle apocalittiche si prestano sempre a interpretazioni diverse a seconda degli obiettivi», ci dice Paolo Branca, studioso di islamistica all’Università Cattolica di Milano.
«Quando gli arabi islamizzati hanno cominciato le conquiste, le grandi potenze del tempo erano l’Impero Bizantino e l’Impero Persiano. Travolto il secondo, il passo successivo era Costantinopoli: fino al 1453 quando gli ottomani la conquistarono. Ma c’è anche un riferimento implicito a Roma, in un detto attribuito al Profeta (considerato apocrifo da filologi e studiosi della sunna ndr). Alla domanda se sarà conquistata prima Roma o Costantinopoli, il Profeta rispondeva “Prima Costantinopoli”, individuando Roma come tappa secondaria, perché non valeva niente all’epoca delle invasioni barbariche e della decadenza dell’Impero romano.
Ora però è vista come città simbolica e cuore della cristianità. E’ anche un modo per darsi un obiettivo ambizioso. Anche se è uno scenario del tutto ridicolo».
1 marzo 2015 | 16:55
http://www.corriere.it/esteri/15_marzo_ ... 8977.shtml
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Re: LA LIBIA E' VICINA
In LIBRE, nel settore segnalazioni, oggi è stato pubblicato questo articolo sui generis, dove da un certo punto di vista può essere condiviso, oppure il suo esatto contrario per via perché può dare l'impressione di una visione romanzata. Sta quindi ai singoli filtri individuali decidere se accreditare questo articolo.
Cia e sauditi, la premiata ditta dei tagliatori di teste
Scritto il 03/3/15 • nella Categoria: segnalazioni
Non fanatici, ma mercenari. Traslocati in mezzo mondo – Afghanistan, Balcani, Medio Oriente – per scatenare il terrore, fornendo l’alibi per la “guerra infinita” degli Usa. Al-Qaeda e Isis sono due maschere dello stesso network, organizzato dai sauditi sotto la regia di Washington. «Dalle viscere del carcere di massima sicurezza statunitense di Florence (Colorado), il componente di Al-Qaeda Zacarias Moussaui, condannato all’ergastolo, fa luce su quello che certamente è il segreto più sporco della “guerra al terrore”», scrive Pepe Escobar. «In più di 100 pagine di testimonianze rese nei giorni scorsi in una corte federale di New York, Moussaui fa “esplodere” delle autentiche bombe legate alla “Casa di Saud”». Tra i più importanti finanziatori di Al-Qaeda prima dell’11 Settembre compaiono i principali esponenti del potere saudita, alleato di Washington. Le prime avvisaglie dello scandalo esplodono adesso, spiega Escobar, perché gli Usa ricattano l’Arabia Saudita: guai se Riyadh si sfilasse dall’alleanza, cessando di sostenere sottobanco il network del terrore, che oggi si chiama Califfato, o a scelta Isis, Isil o semplicemente Daesh. E guai se smettono di pompare petrolio, facendone crollare il prezzo per colpire Putin.Nelle rivelazioni dell’ergastolano Moussaui, scrive Escobar in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, troviamo nientemeno che l’ex capo dell’intelligence saudita, il principe Turki al-Faisal, già grande amico di Osama Bin Laden, insieme un personaggio come il principe Bandar Bin Sultan, detto “Bandar Bush”, già ambasciatore saudita negli Stati Uniti «e mancato sponsorizzatore di jihadisti in Siria». Turki e Bandar sono in compagnia «di un caro amico dei mercati occidentali (e di Rupert Murdoch)», cioè il principe Al-Waleed Bin Talal, e con lui «tutti i maggiori “chierici” wahhabiti dell’Arabia Saudita». In altre parole, «nessuno di loro è nuovo a chi segue fin dai tempi dell’Afghanistan degli anni ’80 le sporche vicende degli jihadisti finanziati dai wahhabiti sauditi». Le informazioni, aggiunge Escobar, assumono maggiore importanza se messe in relazione al prossimo libro di Michael Springmann, ex capo della sezione visti a Jeddah, in Arabia Saudita. In “Visto per al-Qaeda”, svelando «tutti gli sdoganamenti della Cia che hanno sconvolto il mondo», Springmann descrive in dettaglio le mosse dell’armata del terrore messa in piedi dagli Usa.Negli anni ’80, la Cia reclutò e addestrò «agenti musulmani» per contrastare l’invasione sovietica in Afganistan. «Più tardi, la Cia avrebbe spostato questi agenti dall’Afganistan ai Balcani, poi in Iraq, in Libia e in Siria, facendoli viaggiare con visti statunitensi illegali». Questi guerriglieri addestrati dagli Usa «si sarebbero poi riuniti in un’ organizzazione che è sinonimo di terrorismo jihadista: Al-Qaeda». Lo scopo politico di queste rivelazioni, dal punto di vista di Washington, secondo Springmann «è di esercitare pressioni sulla Casa di Saud per continuare a pompare le loro eccedenze petrolifere: i recenti rimbalzi petroliferi stanno provocando l’isterismo a Washington, poiché potrebbero essere il segnale di un ripensamento dei sauditi sulla loro guerra dei prezzi del petrolio contro, prima fra tutti, la Russia». Dunque, verso la metà degli anni ’80, “Al-Qaeda” era solo un database in un computer collegato al dipartimento delle comunicazioni del segretariato della Conferenza Islamica, scrive Escobar. «A quel tempo, quando Osama Bin Laden non era che un agente “delegato” Usa che operava a Peshawar, l’intranet di Al-Qaeda era un ottimo sistema di comunicazione per lo scambio di messaggi in codice tra i guerriglieri».“Al-Qaeda” non era un’organizzazione terrorista – ovvero un esercito islamico – e neanche proprietà privata di Osama Bin Laden. «In seguito, verso la metà degli anni 2000 in Iraq, Abu Musab al-Zarqawi – il precursore giordano di Isis/Isil/Daesh – stava reclutando giovani militanti-fanatici-arrabbiati, senza un diretto input da parte di Bin Laden. La sua copertura era Aqi (Al-Qaeda in Iraq)». Quindi, continua Escobar, Al-Qaeda era e resta un marchio di successo. «Non è mai stata un’organizzazione; piuttosto era un elemento operativo essenziale di un’agenzia di intelligence. Da qui l’imperativo categorico: Al-Qaeda è essenzialmente una derivazione dell’intelligence saudita». La miglior prova è il ruolo oscuro, fin dall’inizio, del principe Turki, ex direttore generale per lungo tempo del Mukhabarat, l’intelligence della Casa di Saud («ma Turki non parla, e mai lo farà»). L’intelligence turca, per parte sua, «non ha mai creduto al mito dell’“organizzazione” Al-Qaeda». Le rivelazioni di Moussaui, aggiunge Escobar, «diventano davvero esplosive quando si collegano tutti i punti tra l’ideologia politica della Casa di Saud, la piattaforma politica di Al-Qaeda e l’abbozzo ideologico del falso Califfato di Isis/Isil/Daesh. La matrice di tutti questi è il wahhabismo del 19° secolo – e la sua interpretazione/appropriazione medievale dell’Islam. Tutti usano metodi diversi, alcuni più rumorosi di altri, ma tutti hanno lo stesso fine: il proselitismo wahhabita».La differenza fondamentale, secondo Escobar, è che Al-Qaeda e Isis/Isil/Daesh «sono dei rinnegati wahhabiti che intendono, alla fine, prendere il posto della Casa di Saud – fantoccio comandato dall’Occidente – instaurando in modo ancora più intollerante il potere salafita e/o del Califfato». Per cui, «quando questa “bomba” ancora segreta verrà fuori dal vaso di pandora arabico, crolleranno i presupposti che reggono quel dono che viene continuamente elargito dagli Usa, la “Guerra al Terrore” (guerra infinita)». Non è rassicurante nemmeno il nuovo capo della Casa di Saud, il principe Salman, che «negli anni ’90 era uno strenuo sostenitore del salafismo e del Jihad», inclusa la pratica Bin Laden. Più tardi, come governatore di Riyadh, «si distinse nell’avversione più totale verso gli sciiti, che poi si espandeva nell’odio verso l’Iran nel suo complesso – per non parlare poi del suo odio per qualsiasi cosa che lontanamente ricordasse la democrazia all’interno dell’Arabia Saudita». Assurdo aspettarsi che Salman sia un “riformatore”, «come è assurdo aspettarsi che l’amministrazione Obama interrompa una volta per tutte la sua storia d’amore con i suoi “bastardi preferiti” del Golfo Persico».Ma ora, aggiunge Escobar, c’e’ un nuovo elemento chiave: «La Casa di Saud è disperata. Non è un segreto a Riyadh e in tutto il Golfo che il nuovo Re e i suoi consiglieri ammaestrati dall’Occidente stiano letteralmente perdendo la testa. Si ritrovano circondati dall’Iran – che, per giunta, è sul punto di concludere un accordo nucleare con il Grande Satana l’estate prossima». La situazione non è allegra: i sauditi «vedono il falso Califfato di Isis/Isil/Daesh che controlla gran parte del “Siraq” – e con gli occhi già puntati verso la Mecca e Medina. Vedono gli sciiti Houthi pro-Iran che controllano lo Yemen. Vedono gli sciiti della maggioranza in Bahrein repressi con grandi difficoltà dalle forze mercenarie. Vedono disordini sciiti diffusi nelle province orientali dell’Arabia Saudita, dove c’è il petrolio. Sono sparsi in tutto il Medio Oriente ancora in preda alla psicosi “Assad deve andarsene” (mentre lui non va da nessuna parte). Hanno bisogno di finanziare la “junta” militare al potere in Egitto con miliardi di dollari (l’Egitto è al verde). E oltre a tutto questo, si sono bevuti la storia America-contro-Russia, impegnandosi in una guerra dei prezzi del petrolio che sta consumando il loro budget».Non ci sono prove che Salman sia deciso a compiere lo sforzo di cooperare con il governo di maggioranza sciita a Baghdad, né che tenterà di raggiungere un compromesso con Teheran: «Al contrario, regna la paranoia, poiché nel momento in cui l’Iran riaffermasse la sua supremazia nucleare, una volta concluso l’accordo atteso per l’estate prossima, i sauditi si ritroveranno emarginati ideologicamente e politicamente». Soprattutto, conclude Escobar, non ci sono prove che l’amministrazione Obama abbia la capacità di riconsiderare le relazioni coi sauditi. «Ciò che è certo è che il più sporco segreto della “guerra al terrore” resterà off-limits. Tutto il “terrore” che stiamo vivendo, sia quello reale sia quello costruito a tavolino, proviene da un’unica fonte: non è “l’Islam”, ma l’intollerante e demente wahhabismo», irresponsabilmente incoraggiato, organizzato e finanziato con la piena collaborazione della Cia. Stesso film: dalla strage di americani innocenti l’11 Settembre alla ricomparsa dei “tagliatori di teste” in Siria, in Iraq e ora in Libia.
Non fanatici, ma mercenari. Dirottati in mezzo mondo – Afghanistan, Balcani, Medio Oriente – per scatenare il terrore, fornendo l’alibi per la “guerra infinita” degli Usa. Al-Qaeda e Isis sono due maschere dello stesso network, organizzato dai sauditi sotto la regia di Washington. «Dalle viscere del carcere di massima sicurezza statunitense di Florence (Colorado), il componente di Al-Qaeda Zacarias Moussaui, condannato all’ergastolo, fa luce su quello che certamente è il segreto più sporco della “guerra al terrore”», scrive Pepe Escobar. «In più di 100 pagine di testimonianze rese nei giorni scorsi in una corte federale di New York, Moussaui fa “esplodere” delle autentiche bombe legate alla “Casa di Saud”». Tra i più importanti finanziatori di Al-Qaeda prima dell’11 Settembre compaiono i principali esponenti del potere saudita, alleato di Washington. Le prime avvisaglie dello scandalo esplodono adesso, spiega Escobar, perché gli Usa ricattano l’Arabia Saudita: guai se Riyadh si sfilasse dall’alleanza, cessando di sostenere sottobanco il network del terrore, che oggi si chiama Califfato, o a scelta Isis, Isil o semplicemente Daesh. E guai se smettono di pompare petrolio, facendone crollare il prezzo per colpire Putin.
Nelle rivelazioni dell’ergastolano Moussaui, scrive Escobar in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, troviamo nientemeno che l’ex capo dell’intelligence saudita, il principe Turki al-Faisal, già grande amico di Osama Bin Laden, insieme un Zacarias Moussauipersonaggio come il principe Bandar Bin Sultan, detto “Bandar Bush”, già ambasciatore saudita negli Stati Uniti «e mancato sponsorizzatore di jihadisti in Siria». Turki e Bandar sono in compagnia «di un caro amico dei mercati occidentali (e di Rupert Murdoch)», cioè il principe Al-Waleed Bin Talal, e con lui «tutti i maggiori “chierici” wahhabiti dell’Arabia Saudita». In altre parole, «nessuno di loro è nuovo a chi segue fin dai tempi dell’Afghanistan degli anni ’80 le sporche vicende degli jihadisti finanziati dai wahhabiti sauditi». Le informazioni, aggiunge Escobar, assumono maggiore importanza se messe in relazione al prossimo libro di Michael Springmann, ex capo della sezione visti a Jeddah, in Arabia Saudita. In “Visto per al-Qaeda”, svelando «tutti gli sdoganamenti della Cia che hanno sconvolto il mondo», Springmann descrive in dettaglio le mosse dell’armata del terrore messa in piedi dagli Usa.
Negli anni ’80, la Cia reclutò e addestrò «agenti musulmani» per contrastare l’invasione sovietica in Afganistan. «Più tardi, la Cia avrebbe spostato questi agenti dall’Afganistan ai Balcani, poi in Iraq, in Libia e in Siria, facendoli viaggiare con visti statunitensi illegali». Questi guerriglieri addestrati dagli Usa «si sarebbero poi riuniti in un’ organizzazione che è sinonimo di terrorismo jihadista: Al-Qaeda». Lo scopo politico di queste rivelazioni, dal punto di vista di Washington, secondo Springmann «è di esercitare pressioni sulla Casa di Saud per continuare a pompare le loro eccedenze petrolifere: i recenti rimbalzi petroliferi stanno provocando l’isterismo a Washington, poiché potrebbero essere il segnale di un ripensamento dei sauditi sulla loro guerra dei prezzi del petrolio contro, prima fra tutti, la Russia». Dunque, verso la metà degli anni ’80, “Al-Qaeda” era solo un database in un computer collegato al dipartimento delle comunicazioni del segretariato della Conferenza Islamica, scrive Escobar. «A quel tempo, quando Osama Bin Laden non era che un agente “delegato” Usa che operava a Michael SpringmannPeshawar, l’intranet di Al-Qaeda era un ottimo sistema di comunicazione per lo scambio di messaggi in codice tra i guerriglieri».
“Al-Qaeda” non era un’organizzazione terrorista – ovvero un esercito islamico – e neanche proprietà privata di Osama Bin Laden. «In seguito, verso la metà degli anni 2000 in Iraq, Abu Musab al-Zarqawi – il precursore giordano di Isis/Isil/Daesh – stava reclutando giovani militanti-fanatici-arrabbiati, senza un diretto input da parte di Bin Laden. La sua copertura era Aqi (Al-Qaeda in Iraq)». Quindi, continua Escobar, Al-Qaeda era e resta un marchio di successo. «Non è mai stata un’organizzazione; piuttosto era un elemento operativo essenziale di un’agenzia di intelligence. Da qui l’imperativo categorico: Al-Qaeda è essenzialmente una derivazione dell’intelligence saudita». La miglior prova è il ruolo oscuro, fin dall’inizio, del principe Turki, ex direttore generale per lungo tempo del Mukhabarat, l’intelligence della Casa di Saud («ma Turki non parla, e mai lo farà»). L’intelligence turca, per parte sua, «non ha mai creduto al mito dell’“organizzazione” Al-Qaeda». Le rivelazioni di Moussaui, aggiunge Escobar, «diventano davvero esplosive quando si collegano tutti i punti tra l’ideologia politica della Casa di Saud, la piattaforma politica di Al-Qaeda e l’abbozzo ideologico del falso Califfato di Isis/Isil/Daesh. La matrice di tutti questi è il wahhabismo del 19° secolo – e la sua interpretazione/appropriazione medievale dell’Islam. Tutti usano metodi diversi, alcuni più rumorosi di altri, ma tutti hanno lo stesso fine: il proselitismo wahhabita».
La differenza fondamentale, secondo Escobar, è che Al-Qaeda e Isis/Isil/Daesh «sono dei rinnegati wahhabiti che intendono, alla fine, prendere il posto della Casa di Saud – fantoccio comandato dall’Occidente – instaurando in modo ancora più intollerante il potere salafita e/o del Califfato». Per cui, «quando questa “bomba” ancora segreta verrà fuori dal vaso di pandora arabico, crolleranno i presupposti che reggono quel dono che viene continuamente elargito dagli Usa, la “Guerra al Terrore” (guerra infinita)». Non è rassicurante nemmeno il nuovo capo della Casa di Saud, il principe Salman, che «negli anni ’90 era uno strenuo sostenitore del salafismo e del Jihad», inclusa la pratica Bin Laden. Più tardi, come governatore di Riyadh, «si distinse nell’avversione più totale verso gli sciiti, che poi si espandeva nell’odio verso l’Iran nel suo complesso – per non parlare poi del suo odio per qualsiasi cosa che lontanamente ricordasse la democrazia all’interno dell’Arabia Saudita». Assurdo aspettarsi che Salman sia un “riformatore”, «come è assurdo aspettarsi che l’amministrazione Obama interrompa una volta per tutte la sua storia d’amore con i suoi “bastardi preferiti” del Golfo Persico».
Ma ora, aggiunge Escobar, c’e’ un nuovo elemento chiave: «La Casa di Saud è disperata. Non è un segreto a Riyadh e in tutto il Golfo che il nuovo Re e i suoi consiglieri ammaestrati dall’Occidente stiano letteralmente perdendo la testa. Si ritrovano circondati dall’Iran – che, per giunta, è sul punto di concludere un accordo nucleare con il Grande Satana l’estate prossima». La situazione non è allegra: i sauditi «vedono il falso Califfato di Isis/Isil/Daesh che controlla gran parte del “Siraq” – e con gli occhi già puntati verso la Mecca e Medina. Vedono gli sciiti Houthi pro-Iran che controllano lo Yemen. Vedono gli sciiti della maggioranza in Bahrein repressi con grandi difficoltà dalle forze mercenarie. Vedono disordini sciiti diffusi nelle province orientali dell’Arabia Saudita, dove c’è il petrolio. Sono sparsi in tutto il Medio Oriente ancora in preda alla psicosi “Assad deve Pepe Escobarandarsene” (mentre lui non va da nessuna parte). Hanno bisogno di finanziare la “junta” militare al potere in Egitto con miliardi di dollari (l’Egitto è al verde). E oltre a tutto questo, si sono bevuti la storia America-contro-Russia, impegnandosi in una guerra dei prezzi del petrolio che sta consumando il loro budget».
Non ci sono prove che Salman sia deciso a compiere lo sforzo di cooperare con il governo di maggioranza sciita a Baghdad, né che tenterà di raggiungere un compromesso con Teheran: «Al contrario, regna la paranoia, poiché nel momento in cui l’Iran riaffermasse la sua supremazia nucleare, una volta concluso l’accordo atteso per l’estate prossima, i sauditi si ritroveranno emarginati ideologicamente e politicamente». Soprattutto, conclude Escobar, non ci sono prove che l’amministrazione Obama abbia la capacità di riconsiderare le relazioni coi sauditi. «Ciò che è certo è che il più sporco segreto della “guerra al terrore” resterà off-limits. Tutto il “terrore” che stiamo vivendo, sia quello reale sia quello costruito a tavolino, proviene da un’unica fonte: non è “l’Islam”, ma l’intollerante e demente wahhabismo», irresponsabilmente incoraggiato, organizzato e finanziato con la piena collaborazione della Cia. Stesso film: dalla strage di americani innocenti l’11 Settembre alla ricomparsa dei “tagliatori di teste” in Siria, in Iraq e ora in Libia.
Cia e sauditi, la premiata ditta dei tagliatori di teste
Scritto il 03/3/15 • nella Categoria: segnalazioni
Non fanatici, ma mercenari. Traslocati in mezzo mondo – Afghanistan, Balcani, Medio Oriente – per scatenare il terrore, fornendo l’alibi per la “guerra infinita” degli Usa. Al-Qaeda e Isis sono due maschere dello stesso network, organizzato dai sauditi sotto la regia di Washington. «Dalle viscere del carcere di massima sicurezza statunitense di Florence (Colorado), il componente di Al-Qaeda Zacarias Moussaui, condannato all’ergastolo, fa luce su quello che certamente è il segreto più sporco della “guerra al terrore”», scrive Pepe Escobar. «In più di 100 pagine di testimonianze rese nei giorni scorsi in una corte federale di New York, Moussaui fa “esplodere” delle autentiche bombe legate alla “Casa di Saud”». Tra i più importanti finanziatori di Al-Qaeda prima dell’11 Settembre compaiono i principali esponenti del potere saudita, alleato di Washington. Le prime avvisaglie dello scandalo esplodono adesso, spiega Escobar, perché gli Usa ricattano l’Arabia Saudita: guai se Riyadh si sfilasse dall’alleanza, cessando di sostenere sottobanco il network del terrore, che oggi si chiama Califfato, o a scelta Isis, Isil o semplicemente Daesh. E guai se smettono di pompare petrolio, facendone crollare il prezzo per colpire Putin.Nelle rivelazioni dell’ergastolano Moussaui, scrive Escobar in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, troviamo nientemeno che l’ex capo dell’intelligence saudita, il principe Turki al-Faisal, già grande amico di Osama Bin Laden, insieme un personaggio come il principe Bandar Bin Sultan, detto “Bandar Bush”, già ambasciatore saudita negli Stati Uniti «e mancato sponsorizzatore di jihadisti in Siria». Turki e Bandar sono in compagnia «di un caro amico dei mercati occidentali (e di Rupert Murdoch)», cioè il principe Al-Waleed Bin Talal, e con lui «tutti i maggiori “chierici” wahhabiti dell’Arabia Saudita». In altre parole, «nessuno di loro è nuovo a chi segue fin dai tempi dell’Afghanistan degli anni ’80 le sporche vicende degli jihadisti finanziati dai wahhabiti sauditi». Le informazioni, aggiunge Escobar, assumono maggiore importanza se messe in relazione al prossimo libro di Michael Springmann, ex capo della sezione visti a Jeddah, in Arabia Saudita. In “Visto per al-Qaeda”, svelando «tutti gli sdoganamenti della Cia che hanno sconvolto il mondo», Springmann descrive in dettaglio le mosse dell’armata del terrore messa in piedi dagli Usa.Negli anni ’80, la Cia reclutò e addestrò «agenti musulmani» per contrastare l’invasione sovietica in Afganistan. «Più tardi, la Cia avrebbe spostato questi agenti dall’Afganistan ai Balcani, poi in Iraq, in Libia e in Siria, facendoli viaggiare con visti statunitensi illegali». Questi guerriglieri addestrati dagli Usa «si sarebbero poi riuniti in un’ organizzazione che è sinonimo di terrorismo jihadista: Al-Qaeda». Lo scopo politico di queste rivelazioni, dal punto di vista di Washington, secondo Springmann «è di esercitare pressioni sulla Casa di Saud per continuare a pompare le loro eccedenze petrolifere: i recenti rimbalzi petroliferi stanno provocando l’isterismo a Washington, poiché potrebbero essere il segnale di un ripensamento dei sauditi sulla loro guerra dei prezzi del petrolio contro, prima fra tutti, la Russia». Dunque, verso la metà degli anni ’80, “Al-Qaeda” era solo un database in un computer collegato al dipartimento delle comunicazioni del segretariato della Conferenza Islamica, scrive Escobar. «A quel tempo, quando Osama Bin Laden non era che un agente “delegato” Usa che operava a Peshawar, l’intranet di Al-Qaeda era un ottimo sistema di comunicazione per lo scambio di messaggi in codice tra i guerriglieri».“Al-Qaeda” non era un’organizzazione terrorista – ovvero un esercito islamico – e neanche proprietà privata di Osama Bin Laden. «In seguito, verso la metà degli anni 2000 in Iraq, Abu Musab al-Zarqawi – il precursore giordano di Isis/Isil/Daesh – stava reclutando giovani militanti-fanatici-arrabbiati, senza un diretto input da parte di Bin Laden. La sua copertura era Aqi (Al-Qaeda in Iraq)». Quindi, continua Escobar, Al-Qaeda era e resta un marchio di successo. «Non è mai stata un’organizzazione; piuttosto era un elemento operativo essenziale di un’agenzia di intelligence. Da qui l’imperativo categorico: Al-Qaeda è essenzialmente una derivazione dell’intelligence saudita». La miglior prova è il ruolo oscuro, fin dall’inizio, del principe Turki, ex direttore generale per lungo tempo del Mukhabarat, l’intelligence della Casa di Saud («ma Turki non parla, e mai lo farà»). L’intelligence turca, per parte sua, «non ha mai creduto al mito dell’“organizzazione” Al-Qaeda». Le rivelazioni di Moussaui, aggiunge Escobar, «diventano davvero esplosive quando si collegano tutti i punti tra l’ideologia politica della Casa di Saud, la piattaforma politica di Al-Qaeda e l’abbozzo ideologico del falso Califfato di Isis/Isil/Daesh. La matrice di tutti questi è il wahhabismo del 19° secolo – e la sua interpretazione/appropriazione medievale dell’Islam. Tutti usano metodi diversi, alcuni più rumorosi di altri, ma tutti hanno lo stesso fine: il proselitismo wahhabita».La differenza fondamentale, secondo Escobar, è che Al-Qaeda e Isis/Isil/Daesh «sono dei rinnegati wahhabiti che intendono, alla fine, prendere il posto della Casa di Saud – fantoccio comandato dall’Occidente – instaurando in modo ancora più intollerante il potere salafita e/o del Califfato». Per cui, «quando questa “bomba” ancora segreta verrà fuori dal vaso di pandora arabico, crolleranno i presupposti che reggono quel dono che viene continuamente elargito dagli Usa, la “Guerra al Terrore” (guerra infinita)». Non è rassicurante nemmeno il nuovo capo della Casa di Saud, il principe Salman, che «negli anni ’90 era uno strenuo sostenitore del salafismo e del Jihad», inclusa la pratica Bin Laden. Più tardi, come governatore di Riyadh, «si distinse nell’avversione più totale verso gli sciiti, che poi si espandeva nell’odio verso l’Iran nel suo complesso – per non parlare poi del suo odio per qualsiasi cosa che lontanamente ricordasse la democrazia all’interno dell’Arabia Saudita». Assurdo aspettarsi che Salman sia un “riformatore”, «come è assurdo aspettarsi che l’amministrazione Obama interrompa una volta per tutte la sua storia d’amore con i suoi “bastardi preferiti” del Golfo Persico».Ma ora, aggiunge Escobar, c’e’ un nuovo elemento chiave: «La Casa di Saud è disperata. Non è un segreto a Riyadh e in tutto il Golfo che il nuovo Re e i suoi consiglieri ammaestrati dall’Occidente stiano letteralmente perdendo la testa. Si ritrovano circondati dall’Iran – che, per giunta, è sul punto di concludere un accordo nucleare con il Grande Satana l’estate prossima». La situazione non è allegra: i sauditi «vedono il falso Califfato di Isis/Isil/Daesh che controlla gran parte del “Siraq” – e con gli occhi già puntati verso la Mecca e Medina. Vedono gli sciiti Houthi pro-Iran che controllano lo Yemen. Vedono gli sciiti della maggioranza in Bahrein repressi con grandi difficoltà dalle forze mercenarie. Vedono disordini sciiti diffusi nelle province orientali dell’Arabia Saudita, dove c’è il petrolio. Sono sparsi in tutto il Medio Oriente ancora in preda alla psicosi “Assad deve andarsene” (mentre lui non va da nessuna parte). Hanno bisogno di finanziare la “junta” militare al potere in Egitto con miliardi di dollari (l’Egitto è al verde). E oltre a tutto questo, si sono bevuti la storia America-contro-Russia, impegnandosi in una guerra dei prezzi del petrolio che sta consumando il loro budget».Non ci sono prove che Salman sia deciso a compiere lo sforzo di cooperare con il governo di maggioranza sciita a Baghdad, né che tenterà di raggiungere un compromesso con Teheran: «Al contrario, regna la paranoia, poiché nel momento in cui l’Iran riaffermasse la sua supremazia nucleare, una volta concluso l’accordo atteso per l’estate prossima, i sauditi si ritroveranno emarginati ideologicamente e politicamente». Soprattutto, conclude Escobar, non ci sono prove che l’amministrazione Obama abbia la capacità di riconsiderare le relazioni coi sauditi. «Ciò che è certo è che il più sporco segreto della “guerra al terrore” resterà off-limits. Tutto il “terrore” che stiamo vivendo, sia quello reale sia quello costruito a tavolino, proviene da un’unica fonte: non è “l’Islam”, ma l’intollerante e demente wahhabismo», irresponsabilmente incoraggiato, organizzato e finanziato con la piena collaborazione della Cia. Stesso film: dalla strage di americani innocenti l’11 Settembre alla ricomparsa dei “tagliatori di teste” in Siria, in Iraq e ora in Libia.
Non fanatici, ma mercenari. Dirottati in mezzo mondo – Afghanistan, Balcani, Medio Oriente – per scatenare il terrore, fornendo l’alibi per la “guerra infinita” degli Usa. Al-Qaeda e Isis sono due maschere dello stesso network, organizzato dai sauditi sotto la regia di Washington. «Dalle viscere del carcere di massima sicurezza statunitense di Florence (Colorado), il componente di Al-Qaeda Zacarias Moussaui, condannato all’ergastolo, fa luce su quello che certamente è il segreto più sporco della “guerra al terrore”», scrive Pepe Escobar. «In più di 100 pagine di testimonianze rese nei giorni scorsi in una corte federale di New York, Moussaui fa “esplodere” delle autentiche bombe legate alla “Casa di Saud”». Tra i più importanti finanziatori di Al-Qaeda prima dell’11 Settembre compaiono i principali esponenti del potere saudita, alleato di Washington. Le prime avvisaglie dello scandalo esplodono adesso, spiega Escobar, perché gli Usa ricattano l’Arabia Saudita: guai se Riyadh si sfilasse dall’alleanza, cessando di sostenere sottobanco il network del terrore, che oggi si chiama Califfato, o a scelta Isis, Isil o semplicemente Daesh. E guai se smettono di pompare petrolio, facendone crollare il prezzo per colpire Putin.
Nelle rivelazioni dell’ergastolano Moussaui, scrive Escobar in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, troviamo nientemeno che l’ex capo dell’intelligence saudita, il principe Turki al-Faisal, già grande amico di Osama Bin Laden, insieme un Zacarias Moussauipersonaggio come il principe Bandar Bin Sultan, detto “Bandar Bush”, già ambasciatore saudita negli Stati Uniti «e mancato sponsorizzatore di jihadisti in Siria». Turki e Bandar sono in compagnia «di un caro amico dei mercati occidentali (e di Rupert Murdoch)», cioè il principe Al-Waleed Bin Talal, e con lui «tutti i maggiori “chierici” wahhabiti dell’Arabia Saudita». In altre parole, «nessuno di loro è nuovo a chi segue fin dai tempi dell’Afghanistan degli anni ’80 le sporche vicende degli jihadisti finanziati dai wahhabiti sauditi». Le informazioni, aggiunge Escobar, assumono maggiore importanza se messe in relazione al prossimo libro di Michael Springmann, ex capo della sezione visti a Jeddah, in Arabia Saudita. In “Visto per al-Qaeda”, svelando «tutti gli sdoganamenti della Cia che hanno sconvolto il mondo», Springmann descrive in dettaglio le mosse dell’armata del terrore messa in piedi dagli Usa.
Negli anni ’80, la Cia reclutò e addestrò «agenti musulmani» per contrastare l’invasione sovietica in Afganistan. «Più tardi, la Cia avrebbe spostato questi agenti dall’Afganistan ai Balcani, poi in Iraq, in Libia e in Siria, facendoli viaggiare con visti statunitensi illegali». Questi guerriglieri addestrati dagli Usa «si sarebbero poi riuniti in un’ organizzazione che è sinonimo di terrorismo jihadista: Al-Qaeda». Lo scopo politico di queste rivelazioni, dal punto di vista di Washington, secondo Springmann «è di esercitare pressioni sulla Casa di Saud per continuare a pompare le loro eccedenze petrolifere: i recenti rimbalzi petroliferi stanno provocando l’isterismo a Washington, poiché potrebbero essere il segnale di un ripensamento dei sauditi sulla loro guerra dei prezzi del petrolio contro, prima fra tutti, la Russia». Dunque, verso la metà degli anni ’80, “Al-Qaeda” era solo un database in un computer collegato al dipartimento delle comunicazioni del segretariato della Conferenza Islamica, scrive Escobar. «A quel tempo, quando Osama Bin Laden non era che un agente “delegato” Usa che operava a Michael SpringmannPeshawar, l’intranet di Al-Qaeda era un ottimo sistema di comunicazione per lo scambio di messaggi in codice tra i guerriglieri».
“Al-Qaeda” non era un’organizzazione terrorista – ovvero un esercito islamico – e neanche proprietà privata di Osama Bin Laden. «In seguito, verso la metà degli anni 2000 in Iraq, Abu Musab al-Zarqawi – il precursore giordano di Isis/Isil/Daesh – stava reclutando giovani militanti-fanatici-arrabbiati, senza un diretto input da parte di Bin Laden. La sua copertura era Aqi (Al-Qaeda in Iraq)». Quindi, continua Escobar, Al-Qaeda era e resta un marchio di successo. «Non è mai stata un’organizzazione; piuttosto era un elemento operativo essenziale di un’agenzia di intelligence. Da qui l’imperativo categorico: Al-Qaeda è essenzialmente una derivazione dell’intelligence saudita». La miglior prova è il ruolo oscuro, fin dall’inizio, del principe Turki, ex direttore generale per lungo tempo del Mukhabarat, l’intelligence della Casa di Saud («ma Turki non parla, e mai lo farà»). L’intelligence turca, per parte sua, «non ha mai creduto al mito dell’“organizzazione” Al-Qaeda». Le rivelazioni di Moussaui, aggiunge Escobar, «diventano davvero esplosive quando si collegano tutti i punti tra l’ideologia politica della Casa di Saud, la piattaforma politica di Al-Qaeda e l’abbozzo ideologico del falso Califfato di Isis/Isil/Daesh. La matrice di tutti questi è il wahhabismo del 19° secolo – e la sua interpretazione/appropriazione medievale dell’Islam. Tutti usano metodi diversi, alcuni più rumorosi di altri, ma tutti hanno lo stesso fine: il proselitismo wahhabita».
La differenza fondamentale, secondo Escobar, è che Al-Qaeda e Isis/Isil/Daesh «sono dei rinnegati wahhabiti che intendono, alla fine, prendere il posto della Casa di Saud – fantoccio comandato dall’Occidente – instaurando in modo ancora più intollerante il potere salafita e/o del Califfato». Per cui, «quando questa “bomba” ancora segreta verrà fuori dal vaso di pandora arabico, crolleranno i presupposti che reggono quel dono che viene continuamente elargito dagli Usa, la “Guerra al Terrore” (guerra infinita)». Non è rassicurante nemmeno il nuovo capo della Casa di Saud, il principe Salman, che «negli anni ’90 era uno strenuo sostenitore del salafismo e del Jihad», inclusa la pratica Bin Laden. Più tardi, come governatore di Riyadh, «si distinse nell’avversione più totale verso gli sciiti, che poi si espandeva nell’odio verso l’Iran nel suo complesso – per non parlare poi del suo odio per qualsiasi cosa che lontanamente ricordasse la democrazia all’interno dell’Arabia Saudita». Assurdo aspettarsi che Salman sia un “riformatore”, «come è assurdo aspettarsi che l’amministrazione Obama interrompa una volta per tutte la sua storia d’amore con i suoi “bastardi preferiti” del Golfo Persico».
Ma ora, aggiunge Escobar, c’e’ un nuovo elemento chiave: «La Casa di Saud è disperata. Non è un segreto a Riyadh e in tutto il Golfo che il nuovo Re e i suoi consiglieri ammaestrati dall’Occidente stiano letteralmente perdendo la testa. Si ritrovano circondati dall’Iran – che, per giunta, è sul punto di concludere un accordo nucleare con il Grande Satana l’estate prossima». La situazione non è allegra: i sauditi «vedono il falso Califfato di Isis/Isil/Daesh che controlla gran parte del “Siraq” – e con gli occhi già puntati verso la Mecca e Medina. Vedono gli sciiti Houthi pro-Iran che controllano lo Yemen. Vedono gli sciiti della maggioranza in Bahrein repressi con grandi difficoltà dalle forze mercenarie. Vedono disordini sciiti diffusi nelle province orientali dell’Arabia Saudita, dove c’è il petrolio. Sono sparsi in tutto il Medio Oriente ancora in preda alla psicosi “Assad deve Pepe Escobarandarsene” (mentre lui non va da nessuna parte). Hanno bisogno di finanziare la “junta” militare al potere in Egitto con miliardi di dollari (l’Egitto è al verde). E oltre a tutto questo, si sono bevuti la storia America-contro-Russia, impegnandosi in una guerra dei prezzi del petrolio che sta consumando il loro budget».
Non ci sono prove che Salman sia deciso a compiere lo sforzo di cooperare con il governo di maggioranza sciita a Baghdad, né che tenterà di raggiungere un compromesso con Teheran: «Al contrario, regna la paranoia, poiché nel momento in cui l’Iran riaffermasse la sua supremazia nucleare, una volta concluso l’accordo atteso per l’estate prossima, i sauditi si ritroveranno emarginati ideologicamente e politicamente». Soprattutto, conclude Escobar, non ci sono prove che l’amministrazione Obama abbia la capacità di riconsiderare le relazioni coi sauditi. «Ciò che è certo è che il più sporco segreto della “guerra al terrore” resterà off-limits. Tutto il “terrore” che stiamo vivendo, sia quello reale sia quello costruito a tavolino, proviene da un’unica fonte: non è “l’Islam”, ma l’intollerante e demente wahhabismo», irresponsabilmente incoraggiato, organizzato e finanziato con la piena collaborazione della Cia. Stesso film: dalla strage di americani innocenti l’11 Settembre alla ricomparsa dei “tagliatori di teste” in Siria, in Iraq e ora in Libia.
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Re: LA LIBIA E' VICINA
"Noi, l'Islam, la guerra e lo scontro di civiltà"
Così scriveva il cardinale Carlo Maria Martini
La lezione dell'alto prelato è più attuale che mai e, nonostante gli anni passati, coglie e anticipa una serie di eventi che si sono puntualmente verificati. Qui Massimo Cacciari spiega perché quelle parole vanno lette ancora oggi
DI MASSIMO CACCIARI
03 marzo 2015
Il testo di Cacciari che anticipiamo introduce gli scritti di Carlo Maria Martini raccolti in “Figli di Abramo. Noi e l’Islam”, in uscita per La Scuola
Sono parole, quelle del cardinale Martini, che a leggerle ora, a distanza di tanti anni, potrebbero anche generare se non disperazione, sconforto.
Dall’11 settembre 2001,e più ancora dall’anno mirabile della caduta del Muro e della fine della “Terza Guerra Mondiale”, la situazione è tragicamente peggiorata.
Una fede cieca nella possibilità di instaurare un ordine imperiale planetario in seguito al crollo di uno dei due Titani usciti vincitori dalla Seconda Grande Guerra, insieme alla risposta altrettanto ciecamente ed esclusivamente militare alla sfida all’Occidente condotta dall’islamismo radicale e fondamentalista, hanno portato il conflitto a un punto dove perfino l’armistizio sembra diventare impossibile, e il rapporto culturale e politico ridursi a quello puro e semplice di amico-nemico. «In questo turbine della storia ha davvero senso parlare di pace?».
Tutti i motivi storici e sociali che Martini indica, lungi dall’essere stati superati, neppure sono stati compresi.
Le radici del risentimento, del disprezzo e dell’odio sono state irrobustite in ogni possibile modo.
Ciò che Martini evidentemente temeva potesse accadere dopo l’11 settembre, si è puntualmente verificato, e ogni soluzione è resa oggi più impervia dalla crisi economica e politica che l’Europa e l’intero mondo occidentale stanno vivendo per ragioni intrinseche al proprio sistema, ragioni destinate a manifestare la propria “violenza” anche senza alcun attacco “terroristico”, esterno o interno che sia.
Potremmo anche individuare la soglia oltre la quale la crisi diventerebbe difficilmente governabile; questo discrimine è segnato dalla tenuta della prospettiva dell’unità politica europea.
Se questa dovesse ancor più drammaticamente essere messa in dubbio sotto i colpi di un’immigrazione incontrollata, degli attacchi jihadisti, della crisi economica, sociale, occupazionale e della conseguente affermazione di egoismi micro-nazionalistici, di forze xenofobe o apertamente reazionarie, quella speranza di pace, quel «grande bene della pace» predicato da Martini, minaccerebbe di trasformarsi in un puro fantasma.
Tuttavia, gli interventi di Martini hanno ampiezza e profondità tali, in questo caso come in tutto il suo magistero, da non poter essere discussi soltanto in un’ottica storico-politica.
Essi sollevano questioni di principio, che, proprio per la tragicità dell’ora che attraversiamo, non è più lecito mettere tra parentesi o peggio ignorare.
Cerchiamo almeno di definirne i tratti, a partire da quelle che sembrano disporsi più chiaramente su un asse politico-culturale, fino a quelle che assumono una dimensione filosofico-teologica generale.
La prima a me pare concernere l’idea di “guerra giusta”.
Idea invocata dalle potenze occidentali per tutti gli interventi militari a partire dalla guerra del Golfo, e in particolare dopo l’11 settembre. «Il diritto di legittima difesa non si può negare a nessuno, neppure in nome di un principio evangelico», afferma Martini.
Nello stesso tempo, sono evidenti tutti i suoi dubbi sul fatto che a tale diritto ci si possa richiamare per la guerra in Afghanistan- e certamente gli sarà impossibile farlo, di lì a pochi anni, per quella in Iraq. La ritorsione si è trasformata in «eccesso di violenza», in «dismisura della vendetta».
La conseguenza inesorabile è sotto agli occhi di tutti: si sono creati più odi e conflitti di quanti si pretendeva di risolvere. Ma la questione di principio rimane. Se il criterio di “guerra giusta” si riduce a quello della “legittima difesa”, il termine “giustizia” assume un significato talmente generico da diventare evanescente.
È naturale che io risponda all’offesa, non giusto: giustizia implica una scala di valori, un giudizio morale, una responsabilità etica, un principio di finalità, che tutto sono fuorché “naturali”.
Posso scatenare una guerra in loro nome?
Posso giustificare una guerra per imporne la misura, nella convinzione che essa soltanto possa rappresentare anche una fondata “strategia di pace”?
È evidente che la domanda va oltre ogni considerazione sugli errori commessi, così come sulla posizione assunta nei confronti dei “valori” in campo.
Anche nella più “giusta”delle guerre si possono commettere errori strategici, e sempre si esprimeranno punti di vista per i quali non sono affatto “giusti”i valori che per una parte o l’altra hanno motivato il conflitto.
Io credo, “semplicemente”, che il “fatto” della guerra vada scardinato da ogni idea di giustizia.
Esso riguarda la logica di potenza, in tutte le sue dimensioni.
Logica di potenza, e perciò nulla di riducibile al “naturale” neppure in questo caso. E mi chiedo: non è precisamente questo il significato dell’Annuncio, che pervade di sé il discorso di Martini?
Ma, si dice, lo stesso Annuncio non si opporrebbe alla naturale legittima difesa… Forse - tuttavia la guerra nulla ha a che fare né col “naturale”, né con la giustizia. Ha a che fare col Politico e basta (e vedremo subito che ciò non implica un’astratta idea di “autonomia” del Politico).
In quali condizioni versa il Politico dell’Occidente? Le incapacità che Martini denuncia nell’affrontare disuguaglianze crescenti e intollerabili, contraddizioni esplosive, come quella, che stava al centro delle sue “curae”, tra Israele e nazione palestinese, rappresentano suoi limiti contingenti o una impotenza ormai fisiologica?
Questa è la domanda “apocalittica” sottesa in tutto il discorso di Martini. Poiché nessuna “grande politica” è concepibile senza un ethos comune, senza la condivisione di finalità che diano senso all’agire quotidiano. Non esiste Politico senza auctoritas, così come non esiste comunità politica che si fondi esclusivamente (quando va bene) sul “consensus iuris”, sull’obbedienza, più o meno coatta, a un diritto positivo.
Che cosa dà forma oggi alla “identità” dell’Occidente?
Era l’idea di un possibile progresso all’infinito o di una crescita indefinibile nelle stesse condizioni di benessere economico e civile?
Era questo il suo paradossale, ma certo seducentissimo Fine?
Brama insaziabile, direbbe il poeta, pertanto malcontenta sempre, eppure di straordinaria potenza.
Ma ora? Convince ancora? Se “democrazia” non assume come proprio significato essenziale quello di ricerca di uguaglianza e di riconoscimento del valore dell’altro, e non quello “economico” di illimite libertà nel perseguire la propria individuale utilitas, nessun discorso sulla “identità” dell’Occidente saprà opporsi con reale efficacia a quelle “fondamentalistiche”, estranee a ogni idea di laicità, che ci hanno dichiarato guerra.
Non ci sono soltanto emarginazione, miseria, disuguaglianza, ingiustizia a spiegare l’attuale tragedia, ma vi è anche una identità comunque forte, convinta di sé, che crede di opporsi in toto alla nostra, ritenendola spoglia ormai di ogni “valore” al di fuori di quelli scambiabili sul mercato, “senza Dio”.
E perciò infine anche matura per la sconfitta.
È lo scenario dello “scontro di civiltà”?
Martini spiega che, posta in questi termini, la questione può dar adito soltanto a colossali fraintendimenti.
Come è possibile parlare di scontro di civiltà se prendiamo inizio da Genesi 21,13? Isacco e Ismaele sono entrambi figli di Abramo; Dio ode la voce di Ismaele e anche di lui farà una grande nazione.
Tante voci profetiche si sono alzate, anche nel Novecento, a partire da questo racconto biblico, per cercare di porre sul suo solco il rapporto tra Islam e Cristianità e dimenticare un passato di lotte e reciproca ignoranza.
Dimenticare? Così si esprime la stessa “Lumen Gentium”, che resta alla base di ogni cammino interreligioso ed ecumenico tentato nei decenni successivi.
Confessare le proprie colpe, perdonare e chiedere perdono non significano, però, dimenticare.
Dimenticare l’abisso delle differenze è impossibile e fingerlo sarebbe pura ipocrisia. Martini si arresta con timore e tremore sulla soglia di questa interrogazione: come impostare, allora, il dialogo con l’Islam, su quale fondamento basarne la concreta possibilità?
Altra possibilità non riesco a vedere se non quella di “educarci” a sostenere la contraddizione, nel senso primario del “tollere”: non paternalistica “tolleranza”, ma sollevare in alto.
Mostrare bene in alto proprio ciò che ci distingue radicalmente. Poiché Isacco non può concepirsi senza Ismaele e Ismaele senza Isacco.
Non è volontà del Signore che tutti i fratelli finiscano come Caino e Abele. E neppure che Caino e Abele si risolvano alla fine in un’astratta, in-differente unità. “Ut unum sint”, sta scritto: l’Uno è plurale, oppure è mero deserto.
È una “educazione” (un trarci fuori dalla miseria attuale) che comporta una “metanoia”, un mutamento radicale di mente. E qui il discorso di Martini assume tutta la sua pregnanza, da Padre della Chiesa, successore di Ambrogio, nel commentare quel passo di Luca 13,1-5, che fa tremare vene e polsi, in cui Gesù è chiamato a rispondere ad una “provocazione” davvero decisiva.
Che cosa dici, Maestro, delle stragi che fanno i romani, in sprezzo della stessa sacralità del Tempio , massacrando insieme alle vittime dei sacrifici quei “terroristi”che ne combattono con ogni violenza il dominio? Chi è il colpevole? Chi il peccatore? Ma Lui è venuto a salvare gli uni e gli altri, a “eliminare” nessuno. Questo Lui dice: che periranno entrambi se entrambi non cambiano mente.
Periranno entrambi se non sapranno perdonarsi.
Per chi ha fede metanoia si traduce in conversio, che significa soprattutto fare ritorno al Padre misericordioso e sempre fedele nel suo attenderci. Per il non credente significherà soltanto comprendere, comprendere razionalmente, che senza far cessare le ragioni dell’odio e della vendetta, ne rimarremo prigionieri fino a soffocarci e perire.
http://espresso.repubblica.it/plus/arti ... i-1.202008
Così scriveva il cardinale Carlo Maria Martini
La lezione dell'alto prelato è più attuale che mai e, nonostante gli anni passati, coglie e anticipa una serie di eventi che si sono puntualmente verificati. Qui Massimo Cacciari spiega perché quelle parole vanno lette ancora oggi
DI MASSIMO CACCIARI
03 marzo 2015
Il testo di Cacciari che anticipiamo introduce gli scritti di Carlo Maria Martini raccolti in “Figli di Abramo. Noi e l’Islam”, in uscita per La Scuola
Sono parole, quelle del cardinale Martini, che a leggerle ora, a distanza di tanti anni, potrebbero anche generare se non disperazione, sconforto.
Dall’11 settembre 2001,e più ancora dall’anno mirabile della caduta del Muro e della fine della “Terza Guerra Mondiale”, la situazione è tragicamente peggiorata.
Una fede cieca nella possibilità di instaurare un ordine imperiale planetario in seguito al crollo di uno dei due Titani usciti vincitori dalla Seconda Grande Guerra, insieme alla risposta altrettanto ciecamente ed esclusivamente militare alla sfida all’Occidente condotta dall’islamismo radicale e fondamentalista, hanno portato il conflitto a un punto dove perfino l’armistizio sembra diventare impossibile, e il rapporto culturale e politico ridursi a quello puro e semplice di amico-nemico. «In questo turbine della storia ha davvero senso parlare di pace?».
Tutti i motivi storici e sociali che Martini indica, lungi dall’essere stati superati, neppure sono stati compresi.
Le radici del risentimento, del disprezzo e dell’odio sono state irrobustite in ogni possibile modo.
Ciò che Martini evidentemente temeva potesse accadere dopo l’11 settembre, si è puntualmente verificato, e ogni soluzione è resa oggi più impervia dalla crisi economica e politica che l’Europa e l’intero mondo occidentale stanno vivendo per ragioni intrinseche al proprio sistema, ragioni destinate a manifestare la propria “violenza” anche senza alcun attacco “terroristico”, esterno o interno che sia.
Potremmo anche individuare la soglia oltre la quale la crisi diventerebbe difficilmente governabile; questo discrimine è segnato dalla tenuta della prospettiva dell’unità politica europea.
Se questa dovesse ancor più drammaticamente essere messa in dubbio sotto i colpi di un’immigrazione incontrollata, degli attacchi jihadisti, della crisi economica, sociale, occupazionale e della conseguente affermazione di egoismi micro-nazionalistici, di forze xenofobe o apertamente reazionarie, quella speranza di pace, quel «grande bene della pace» predicato da Martini, minaccerebbe di trasformarsi in un puro fantasma.
Tuttavia, gli interventi di Martini hanno ampiezza e profondità tali, in questo caso come in tutto il suo magistero, da non poter essere discussi soltanto in un’ottica storico-politica.
Essi sollevano questioni di principio, che, proprio per la tragicità dell’ora che attraversiamo, non è più lecito mettere tra parentesi o peggio ignorare.
Cerchiamo almeno di definirne i tratti, a partire da quelle che sembrano disporsi più chiaramente su un asse politico-culturale, fino a quelle che assumono una dimensione filosofico-teologica generale.
La prima a me pare concernere l’idea di “guerra giusta”.
Idea invocata dalle potenze occidentali per tutti gli interventi militari a partire dalla guerra del Golfo, e in particolare dopo l’11 settembre. «Il diritto di legittima difesa non si può negare a nessuno, neppure in nome di un principio evangelico», afferma Martini.
Nello stesso tempo, sono evidenti tutti i suoi dubbi sul fatto che a tale diritto ci si possa richiamare per la guerra in Afghanistan- e certamente gli sarà impossibile farlo, di lì a pochi anni, per quella in Iraq. La ritorsione si è trasformata in «eccesso di violenza», in «dismisura della vendetta».
La conseguenza inesorabile è sotto agli occhi di tutti: si sono creati più odi e conflitti di quanti si pretendeva di risolvere. Ma la questione di principio rimane. Se il criterio di “guerra giusta” si riduce a quello della “legittima difesa”, il termine “giustizia” assume un significato talmente generico da diventare evanescente.
È naturale che io risponda all’offesa, non giusto: giustizia implica una scala di valori, un giudizio morale, una responsabilità etica, un principio di finalità, che tutto sono fuorché “naturali”.
Posso scatenare una guerra in loro nome?
Posso giustificare una guerra per imporne la misura, nella convinzione che essa soltanto possa rappresentare anche una fondata “strategia di pace”?
È evidente che la domanda va oltre ogni considerazione sugli errori commessi, così come sulla posizione assunta nei confronti dei “valori” in campo.
Anche nella più “giusta”delle guerre si possono commettere errori strategici, e sempre si esprimeranno punti di vista per i quali non sono affatto “giusti”i valori che per una parte o l’altra hanno motivato il conflitto.
Io credo, “semplicemente”, che il “fatto” della guerra vada scardinato da ogni idea di giustizia.
Esso riguarda la logica di potenza, in tutte le sue dimensioni.
Logica di potenza, e perciò nulla di riducibile al “naturale” neppure in questo caso. E mi chiedo: non è precisamente questo il significato dell’Annuncio, che pervade di sé il discorso di Martini?
Ma, si dice, lo stesso Annuncio non si opporrebbe alla naturale legittima difesa… Forse - tuttavia la guerra nulla ha a che fare né col “naturale”, né con la giustizia. Ha a che fare col Politico e basta (e vedremo subito che ciò non implica un’astratta idea di “autonomia” del Politico).
In quali condizioni versa il Politico dell’Occidente? Le incapacità che Martini denuncia nell’affrontare disuguaglianze crescenti e intollerabili, contraddizioni esplosive, come quella, che stava al centro delle sue “curae”, tra Israele e nazione palestinese, rappresentano suoi limiti contingenti o una impotenza ormai fisiologica?
Questa è la domanda “apocalittica” sottesa in tutto il discorso di Martini. Poiché nessuna “grande politica” è concepibile senza un ethos comune, senza la condivisione di finalità che diano senso all’agire quotidiano. Non esiste Politico senza auctoritas, così come non esiste comunità politica che si fondi esclusivamente (quando va bene) sul “consensus iuris”, sull’obbedienza, più o meno coatta, a un diritto positivo.
Che cosa dà forma oggi alla “identità” dell’Occidente?
Era l’idea di un possibile progresso all’infinito o di una crescita indefinibile nelle stesse condizioni di benessere economico e civile?
Era questo il suo paradossale, ma certo seducentissimo Fine?
Brama insaziabile, direbbe il poeta, pertanto malcontenta sempre, eppure di straordinaria potenza.
Ma ora? Convince ancora? Se “democrazia” non assume come proprio significato essenziale quello di ricerca di uguaglianza e di riconoscimento del valore dell’altro, e non quello “economico” di illimite libertà nel perseguire la propria individuale utilitas, nessun discorso sulla “identità” dell’Occidente saprà opporsi con reale efficacia a quelle “fondamentalistiche”, estranee a ogni idea di laicità, che ci hanno dichiarato guerra.
Non ci sono soltanto emarginazione, miseria, disuguaglianza, ingiustizia a spiegare l’attuale tragedia, ma vi è anche una identità comunque forte, convinta di sé, che crede di opporsi in toto alla nostra, ritenendola spoglia ormai di ogni “valore” al di fuori di quelli scambiabili sul mercato, “senza Dio”.
E perciò infine anche matura per la sconfitta.
È lo scenario dello “scontro di civiltà”?
Martini spiega che, posta in questi termini, la questione può dar adito soltanto a colossali fraintendimenti.
Come è possibile parlare di scontro di civiltà se prendiamo inizio da Genesi 21,13? Isacco e Ismaele sono entrambi figli di Abramo; Dio ode la voce di Ismaele e anche di lui farà una grande nazione.
Tante voci profetiche si sono alzate, anche nel Novecento, a partire da questo racconto biblico, per cercare di porre sul suo solco il rapporto tra Islam e Cristianità e dimenticare un passato di lotte e reciproca ignoranza.
Dimenticare? Così si esprime la stessa “Lumen Gentium”, che resta alla base di ogni cammino interreligioso ed ecumenico tentato nei decenni successivi.
Confessare le proprie colpe, perdonare e chiedere perdono non significano, però, dimenticare.
Dimenticare l’abisso delle differenze è impossibile e fingerlo sarebbe pura ipocrisia. Martini si arresta con timore e tremore sulla soglia di questa interrogazione: come impostare, allora, il dialogo con l’Islam, su quale fondamento basarne la concreta possibilità?
Altra possibilità non riesco a vedere se non quella di “educarci” a sostenere la contraddizione, nel senso primario del “tollere”: non paternalistica “tolleranza”, ma sollevare in alto.
Mostrare bene in alto proprio ciò che ci distingue radicalmente. Poiché Isacco non può concepirsi senza Ismaele e Ismaele senza Isacco.
Non è volontà del Signore che tutti i fratelli finiscano come Caino e Abele. E neppure che Caino e Abele si risolvano alla fine in un’astratta, in-differente unità. “Ut unum sint”, sta scritto: l’Uno è plurale, oppure è mero deserto.
È una “educazione” (un trarci fuori dalla miseria attuale) che comporta una “metanoia”, un mutamento radicale di mente. E qui il discorso di Martini assume tutta la sua pregnanza, da Padre della Chiesa, successore di Ambrogio, nel commentare quel passo di Luca 13,1-5, che fa tremare vene e polsi, in cui Gesù è chiamato a rispondere ad una “provocazione” davvero decisiva.
Che cosa dici, Maestro, delle stragi che fanno i romani, in sprezzo della stessa sacralità del Tempio , massacrando insieme alle vittime dei sacrifici quei “terroristi”che ne combattono con ogni violenza il dominio? Chi è il colpevole? Chi il peccatore? Ma Lui è venuto a salvare gli uni e gli altri, a “eliminare” nessuno. Questo Lui dice: che periranno entrambi se entrambi non cambiano mente.
Periranno entrambi se non sapranno perdonarsi.
Per chi ha fede metanoia si traduce in conversio, che significa soprattutto fare ritorno al Padre misericordioso e sempre fedele nel suo attenderci. Per il non credente significherà soltanto comprendere, comprendere razionalmente, che senza far cessare le ragioni dell’odio e della vendetta, ne rimarremo prigionieri fino a soffocarci e perire.
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Re: LA LIBIA E' VICINA
Libia, Frontex: “Tra 500mila e un milione di migranti pronti a partire per l’Europa”
E' la stima fornita dall'agenzia Dell'Ue che coordina il pattugliamento delle frontiere esterne dell'Unione. "Nel 2015 dobbiamo essere preparati ad affrontare una situazione più difficile dello scorso anno - spiega il direttore esecutivo Fabrice Leggeri - jihadisti sui barconi? Non ci sono prove"
di F. Q. | 6 marzo 2015 COMMENTI
Fino a un milione di migranti pronti a partire dalla Libia. E’ la stima fornita da Frontex, agenzia Dell’Ue che coordina il pattugliamento delle frontiere esterne dell’Unione.
“Nel 2015 dobbiamo essere preparati ad affrontare una situazione più difficile dello scorso anno”, spiega il direttore esecutivo di Frontex Fabrice Leggeri – seconda delle fonti ci viene segnalato che ci sono tra i 500mila ed un milione di migranti pronti a partire dalla Libia”.
L’Isis dietro il traffico dei migranti in Libia? “Dobbiamo essere coscienti dei rischi.
Ad ora non ho prove per dire che hanno la situazione dell’immigrazione illegale sotto controllo.
Ma dobbiamo stare attenti”, continua Leggeri – abbiamo prove che i migranti sono stati forzati a salire sulle imbarcazioni con le armi .
Non ho niente per dire se fossero terroristi. C’è preoccupazione tra gli Stati. Perché se questo non accade ora potrebbe accadere in futuro”.
Dopo le minacce di trafficanti armati durante un salvataggio vicino alle coste libiche, “le autorità italiane hanno fatto passi per rafforzare la sicurezza e mitigare il rischio – ha spiegato Leggeri – non posso entrare nello specifico perché sono informazioni sensibili. Su questo abbiamo avuto anche uno scambio di vedute con gli Stati Ue. Ma questo non significa che domani non ci siano incidenti. E’ vicino alle coste libiche che c’è il rischio”.
Mentre la situazione in Libia continua a complicarsi e si va incontro alla bella stagione e al conseguente aumento delle partenze dal Nord Africa, secondo il direttore esecutivo è arrivato il tempo di potenziare l’agenzia: “Se si vuole che Frontex faccia più operazioni – spiega ancora Leggeri – abbiamo bisogno di risorse e staff e dell’impegno degli Stati membri a rendere disponibili i loro mezzi”.
Tuttavia “Frontex è una parte.
Da solo non è sufficiente ad affrontare questo enorme problema.
Ad esempio, la cooperazione con i Paesi terzi è molto importante”.
Giovedì Paolo Gentiloni, ministro degli Esteri, aveva fornito dati sul fenomeno in atto. Il 90% dei flussi di immigrazione irregolare registrati finora nel 2015 proviene dalla Libi, ha riferito il capo della Farnesina davanti al Comitato Schengen.
La Libia, ha detto il ministro, attualmente è “di fatto priva di una capacità statale minima”. Per questo è ora “difficile se non quasi impossibile instaurare rapporti di collaborazione con lo stato libico”.
Anche in riferimento al dialogo che si sta cercando di instaurare tra le varie componenti in lotta in Libia l’Italia, ha detto ancora Gentiloni, l’Italia sta lavorando “in tutte le direzioni”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/03 ... a/1482666/#
E' la stima fornita dall'agenzia Dell'Ue che coordina il pattugliamento delle frontiere esterne dell'Unione. "Nel 2015 dobbiamo essere preparati ad affrontare una situazione più difficile dello scorso anno - spiega il direttore esecutivo Fabrice Leggeri - jihadisti sui barconi? Non ci sono prove"
di F. Q. | 6 marzo 2015 COMMENTI
Fino a un milione di migranti pronti a partire dalla Libia. E’ la stima fornita da Frontex, agenzia Dell’Ue che coordina il pattugliamento delle frontiere esterne dell’Unione.
“Nel 2015 dobbiamo essere preparati ad affrontare una situazione più difficile dello scorso anno”, spiega il direttore esecutivo di Frontex Fabrice Leggeri – seconda delle fonti ci viene segnalato che ci sono tra i 500mila ed un milione di migranti pronti a partire dalla Libia”.
L’Isis dietro il traffico dei migranti in Libia? “Dobbiamo essere coscienti dei rischi.
Ad ora non ho prove per dire che hanno la situazione dell’immigrazione illegale sotto controllo.
Ma dobbiamo stare attenti”, continua Leggeri – abbiamo prove che i migranti sono stati forzati a salire sulle imbarcazioni con le armi .
Non ho niente per dire se fossero terroristi. C’è preoccupazione tra gli Stati. Perché se questo non accade ora potrebbe accadere in futuro”.
Dopo le minacce di trafficanti armati durante un salvataggio vicino alle coste libiche, “le autorità italiane hanno fatto passi per rafforzare la sicurezza e mitigare il rischio – ha spiegato Leggeri – non posso entrare nello specifico perché sono informazioni sensibili. Su questo abbiamo avuto anche uno scambio di vedute con gli Stati Ue. Ma questo non significa che domani non ci siano incidenti. E’ vicino alle coste libiche che c’è il rischio”.
Mentre la situazione in Libia continua a complicarsi e si va incontro alla bella stagione e al conseguente aumento delle partenze dal Nord Africa, secondo il direttore esecutivo è arrivato il tempo di potenziare l’agenzia: “Se si vuole che Frontex faccia più operazioni – spiega ancora Leggeri – abbiamo bisogno di risorse e staff e dell’impegno degli Stati membri a rendere disponibili i loro mezzi”.
Tuttavia “Frontex è una parte.
Da solo non è sufficiente ad affrontare questo enorme problema.
Ad esempio, la cooperazione con i Paesi terzi è molto importante”.
Giovedì Paolo Gentiloni, ministro degli Esteri, aveva fornito dati sul fenomeno in atto. Il 90% dei flussi di immigrazione irregolare registrati finora nel 2015 proviene dalla Libi, ha riferito il capo della Farnesina davanti al Comitato Schengen.
La Libia, ha detto il ministro, attualmente è “di fatto priva di una capacità statale minima”. Per questo è ora “difficile se non quasi impossibile instaurare rapporti di collaborazione con lo stato libico”.
Anche in riferimento al dialogo che si sta cercando di instaurare tra le varie componenti in lotta in Libia l’Italia, ha detto ancora Gentiloni, l’Italia sta lavorando “in tutte le direzioni”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/03 ... a/1482666/#
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Re: LA LIBIA E' VICINA
Libia, la difficile trattativa delle fazioni con inviati e sale separate. La riunione a Rabat: la possibilità di formare un governo di unità nazionale sembra appesa a un filo
Corriere della Sera, venerdì 6 marzo 2015
Tre ore di capannelli, telefonate, lunghe passeggiate solo per decidere se era il caso di sedersi intorno allo stesso tavolo e dialogare direttamente con «quelli» di Tripoli.
Alla fine i quattro rappresentanti del Parlamento in esilio a Tobruk, l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale, hanno deciso che no, non si doveva fare.
Non possiamo essere proprio noi a legittimarli», sibila Abu Bakr Buera, uno dei delegati, mentre cerca di mimetizzarsi sulla spiaggia, con il suo completo e la sua cravatta marroni tra i padiglioni bianchi dell’hotel Amphitrite.
L’inviato speciale per la Libia, lo spagnolo Bernardino León, prova a rimettere insieme i frammenti di uno Stato distrutto e di un Paese in armi.
Appuntamento sulla costa di Rabat, dunque, la capitale del Marocco, dopo il fallimento dei colloqui di Ginevra e nella libica Gadames, l’antica città degli schiavi al confine con Algeria.
Gli obiettivi delle Nazioni Unite sono tre. Uno più ambizioso dell’altro: costituire un governo di unità nazionale; disarmare bande e gruppuscoli; completare, entro una data certa, la nuova Costituzione.
Un programma, come se non bastasse, da realizzare in fretta.
Il mandato di León è in scadenza, anche se il Consiglio di sicurezza è pronto a prorogarlo almeno fino al 31 marzo, come suggerisce una risoluzione presentata dal Regno Unito ed esaminata nella notte italiana nel Palazzo di vetro a New York.
In realtà il tempo è scandito dai kalashnikov dell’Isis, lo Stato islamico che si espande come una muffa distruttrice nelle città, nei villaggi abbandonati da ogni autorità.
I capi delle fazioni libiche si sono presentati in Marocco tenendo fede alla loro pessima reputazione.
Litigiosi, cavillosi, prigionieri del loro micro sistemi di potere, anche in questo momento drammatico.
Risultato: il vertice è potuto iniziare soltanto con una formula complicata.
Tre riunioni parallele nell’arabesco Palazzo dei congressi, con i funzionari dell’Onu attenti a valorizzare i punti in comune tra una discussione e l’altra.
León ha partecipato all’incontro con la delegazione del Consiglio Nazionale di Tripoli, l’assemblea dominata dai partiti islamici, come Fajr Libia (l’alba della Libia) e difeso con le armi anche dalla milizia di Misurata, fino a non molto tempo fa fiorente centro di commerci e appalti.
I loro grandi nemici di Tobruk si sono riuniti in un altro salone.
Sul campo possono contare sul sostegno dell’ambiguo generale Khalifa Haftar e su quello della brigata di Zintan, la cittadina a 120 chilometri a sud di Tripoli, ai tempi la più ostile a Gheddafi.
I due schieramenti si combattono con fasi alterne, ma finora senza una prospettiva credibile di riavvicinamento.
L’incaricato Onu sta cercando di sbloccare l’incomunicabilità allargando il dialogo ad altri soggetti.
Ospiti della terza sessione di ieri sono stati «esponenti della società civile», compresa la leader del movimento per i diritti delle donne. Nelle prossime settimane León chiamerà a raccolta le tribù (e sono 140), i partiti politici e le municipalità.
Ma per ora l’obiettivo qui a Rabat è arrivare almeno a riunire in una sola stanza i capi fazione.
Solo allora comincerà la vera trattativa.
Giuseppe Sarcina
Corriere della Sera, venerdì 6 marzo 2015
Tre ore di capannelli, telefonate, lunghe passeggiate solo per decidere se era il caso di sedersi intorno allo stesso tavolo e dialogare direttamente con «quelli» di Tripoli.
Alla fine i quattro rappresentanti del Parlamento in esilio a Tobruk, l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale, hanno deciso che no, non si doveva fare.
Non possiamo essere proprio noi a legittimarli», sibila Abu Bakr Buera, uno dei delegati, mentre cerca di mimetizzarsi sulla spiaggia, con il suo completo e la sua cravatta marroni tra i padiglioni bianchi dell’hotel Amphitrite.
L’inviato speciale per la Libia, lo spagnolo Bernardino León, prova a rimettere insieme i frammenti di uno Stato distrutto e di un Paese in armi.
Appuntamento sulla costa di Rabat, dunque, la capitale del Marocco, dopo il fallimento dei colloqui di Ginevra e nella libica Gadames, l’antica città degli schiavi al confine con Algeria.
Gli obiettivi delle Nazioni Unite sono tre. Uno più ambizioso dell’altro: costituire un governo di unità nazionale; disarmare bande e gruppuscoli; completare, entro una data certa, la nuova Costituzione.
Un programma, come se non bastasse, da realizzare in fretta.
Il mandato di León è in scadenza, anche se il Consiglio di sicurezza è pronto a prorogarlo almeno fino al 31 marzo, come suggerisce una risoluzione presentata dal Regno Unito ed esaminata nella notte italiana nel Palazzo di vetro a New York.
In realtà il tempo è scandito dai kalashnikov dell’Isis, lo Stato islamico che si espande come una muffa distruttrice nelle città, nei villaggi abbandonati da ogni autorità.
I capi delle fazioni libiche si sono presentati in Marocco tenendo fede alla loro pessima reputazione.
Litigiosi, cavillosi, prigionieri del loro micro sistemi di potere, anche in questo momento drammatico.
Risultato: il vertice è potuto iniziare soltanto con una formula complicata.
Tre riunioni parallele nell’arabesco Palazzo dei congressi, con i funzionari dell’Onu attenti a valorizzare i punti in comune tra una discussione e l’altra.
León ha partecipato all’incontro con la delegazione del Consiglio Nazionale di Tripoli, l’assemblea dominata dai partiti islamici, come Fajr Libia (l’alba della Libia) e difeso con le armi anche dalla milizia di Misurata, fino a non molto tempo fa fiorente centro di commerci e appalti.
I loro grandi nemici di Tobruk si sono riuniti in un altro salone.
Sul campo possono contare sul sostegno dell’ambiguo generale Khalifa Haftar e su quello della brigata di Zintan, la cittadina a 120 chilometri a sud di Tripoli, ai tempi la più ostile a Gheddafi.
I due schieramenti si combattono con fasi alterne, ma finora senza una prospettiva credibile di riavvicinamento.
L’incaricato Onu sta cercando di sbloccare l’incomunicabilità allargando il dialogo ad altri soggetti.
Ospiti della terza sessione di ieri sono stati «esponenti della società civile», compresa la leader del movimento per i diritti delle donne. Nelle prossime settimane León chiamerà a raccolta le tribù (e sono 140), i partiti politici e le municipalità.
Ma per ora l’obiettivo qui a Rabat è arrivare almeno a riunire in una sola stanza i capi fazione.
Solo allora comincerà la vera trattativa.
Giuseppe Sarcina
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Re: LA LIBIA E' VICINA
http://www.tzetze.it/redazione/2015/03/ ... stipendio/
Il presidente russo Vladimir Putin ha preso una decisione da cui dovrebbero trarre esempio molti leader occidentali, soprattutto italiani: ha tagliato del dieci per cento gli stipendi dell'amministrazione presidenziale, così come il proprio e quello dei dirigenti pubblici. Scrive Gabriele Farro sul Secolo XIX:
"Uno schiaffo alla disinformazione e ai falsi moralisti che hanno costruito una campagna di fango contro di lui. Delle critiche se ne fa un baffo, Vladimir Putin, e procede come un carrarmato, senza indietreggiare di un millimetro. Ha dalla sua la coerenza e la forza della leadership russa, sa che l'Occidente - specie ora che c'è il disastro Libia e il pericolo dell'Isis - ha bisogno del suo aiuto, è consapevole che molti Paesi potrebbero pagare il boicottaggio economico fatto a Mosca. Ha incassato anche la resa incondizionata di Matteo Renzi. E fa un passo importante.
Putin ha tagliato del dieci per cento gli stipendi dei dipendenti dell'amministrazione presidenziale, ma anche il proprio, quello del primo ministro e di altri dirigenti pubblici. L'hanno fatto sapere le agenzie citando l'ufficio stampa del Cremlino. La riduzione delle remunerazioni parte il primo marzo ed è già deciso che proseguirà almeno fino al 31 dicembre".
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Cosa è andato a fare Renzi da Putin.
Ciao
Paolo11
Il presidente russo Vladimir Putin ha preso una decisione da cui dovrebbero trarre esempio molti leader occidentali, soprattutto italiani: ha tagliato del dieci per cento gli stipendi dell'amministrazione presidenziale, così come il proprio e quello dei dirigenti pubblici. Scrive Gabriele Farro sul Secolo XIX:
"Uno schiaffo alla disinformazione e ai falsi moralisti che hanno costruito una campagna di fango contro di lui. Delle critiche se ne fa un baffo, Vladimir Putin, e procede come un carrarmato, senza indietreggiare di un millimetro. Ha dalla sua la coerenza e la forza della leadership russa, sa che l'Occidente - specie ora che c'è il disastro Libia e il pericolo dell'Isis - ha bisogno del suo aiuto, è consapevole che molti Paesi potrebbero pagare il boicottaggio economico fatto a Mosca. Ha incassato anche la resa incondizionata di Matteo Renzi. E fa un passo importante.
Putin ha tagliato del dieci per cento gli stipendi dei dipendenti dell'amministrazione presidenziale, ma anche il proprio, quello del primo ministro e di altri dirigenti pubblici. L'hanno fatto sapere le agenzie citando l'ufficio stampa del Cremlino. La riduzione delle remunerazioni parte il primo marzo ed è già deciso che proseguirà almeno fino al 31 dicembre".
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Cosa è andato a fare Renzi da Putin.
Ciao
Paolo11
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Re: LA LIBIA E' VICINA
DA REPUBBLICA.IT
Libia, vita da rifugiati fuggiti dalla fame e dai conflitti in un paese in guerra
La testimonianza di un cooperante della Ong italiana CESVI. A Bengasi la situazione è allarmante. Gli spostamenti dei rifugiati sono limitati, i posti di lavoro sono diminuiti. Le partenze delle barche sono state bloccate e gli immigrati sono sfruttati dai miliziani che li arrestano e li obbligano in lavori pesanti di carico e scarico munizioni. La situazione sanitaria è drammatica
di AHMED KASHBUR *
BENGASI - "La Libia è un paese che ospita persone di molte nazionalità diverse, provenienti principalmente dall'Africa e dal mondo arabo. Tra queste, gli immigrati che arrivano da determinati paesi (Eritrea, Etiopia, Somalia, Siria, Palestina, Darfur e Iraq) sono considerati richiedenti asilo dall'UNHCR e il governo libico non può respingerli nel loro paese di origine ( la Libia ha firmato l'accordo del 1969). Gli uffici UNHCR a Bengasi e Tripoli accolgono i rifugiati, li registrano e approvano per loro sostegno economico e assistenza medica.
Aumentano i pescherecci in partenza. A Tripoli, al momento, le condizioni dei rifugiati sono abbastanza sicure: non ci sono scontri armati, l'ufficio UNHCR è aperto, i centri di detenzione sono attivi e c'è disponibilità di posti di lavoro per tutte le persone, per lo meno per quelle sane e giovani. Le partenze dei pescherecci verso le coste italiane sono più frequenti e ad un costo inferiore rispetto a quello di prima a causa della mancanza di regolamentazioni e dei controlli di polizia. Dopo la chiusura dei centri di detenzione a Bengasi, ad aprile 2014, i gruppi di beneficiari hanno occupato la zona del mercato e le zone industriali e hanno costruito lì baracche e case di fortuna.
I miliziani diventano negrieri. A Bengasi, invece, la situazione è più allarmante a causa del conflitto armato. Gli spostamenti dei rifugiati sono limitati, i posti di lavoro sono diminuiti. Le partenze delle barche sono state bloccate e gli immigrati sono diventati target dei miliziani: vengono arrestati e sfruttati per i lavori pesanti di carico e scarico munizioni. Il lavoro è poco e la situazione sanitaria è negativa: l'assistenza è scarsa e gli ospedali pubblici sono in condizioni drammatiche. Molte famiglie immigrate che abitavano in zone colpite dagli scontri hanno dovuto spostarsi nei campi sfollati o lasciare la città.
Le attività dei progetti Cesvi. A Tripoli, Cesvi fornisce assistenza medica e supporto psicologico ai beneficiari registrati dall'UNHCR. Dopo una valutazione effettuata su tutti i visitatori del centro sociale, viene indicato il criterio di vulnerabilità e stabilito il tipo di assistenza che verrà fornita loro. L'équipe di Cesvi, assieme ad UNHCR e IMC (International medical corps) analizza i singoli casi per i quali viene raccomandata l'assistenza. Ci sono alcuni beneficiari che non riescono ad arrivare al centro sociale (anziani, disabili e detenuti) e in questi casi Cesvi effettua visite presso le loro abitazioni per monitorare la situazione e consegnare loro il sostegno economico che gli spetta.
Il grande flusso dal Corno d'Africa. A Bengasi, le attività di Cesvi interessano gli sfollati interni e i rifugiati. Nei campi sfollati il team di Cesvi fa monitoraggio e indica il tipo di assistenza necessaria, fornisce sostegno economico (donne capo famiglia, disabili, famiglie immigrate, minori non accompagnati). Inoltre, Cesvi supporta le infermerie dei campi che prestano servizi agli sfollati interni, tramite la fornitura di medicine e strumenti; distribuisce kit igienici, coperte e materassi; gestisce rifiuti e si occupa del programma con la formula Cash for work (denaro in cambio di lavoro) che permette ai giovani beneficiari di lavorare principalmente in attività relative allo smaltimento dei rifiuti. I cooperanti di Cesvi lavorano a stretto contatto con i rifugiati del Corno d'Africa dal 2011. In questi anni, si è reso evidente il fatto che gli immigrati che arrivano in Libia non la considerano come paese in cui restare, ma come paese di transito per arrivare in Europa."
Obiettivo del progetto in Libia. Dove Cesvi è presente dal 2011, come prima Ong italiana intervenuta all'indomani della primavera araba. Il progetto nasce per fornire protezione ai settori più vulnerabili della popolazione: i rifugiati, i richiedenti asilo e i migranti irregolari - che arrivano principalmente dalla Siria e dall'Africa Sub Sahariana - e gli sfollati interni, vittime delle continue violenze che affliggono il Paese. Negli anni, Cesvi ha consolidato il suo intervento in Libia fornendo loro sostegno economico, assistenza medica e supporto psicosociale.
Il Contesto nel "dopo Gheddafi". In Libia non c'è un sistema nazionale di registrazione dei richiedenti asilo e di riconoscimento dei rifugiati, né un meccanismo di controllo e protezione per coloro che rischiano di essere rimpatriati nei Paesi d'origine. I rifugiati, i richiedenti asilo e i migranti irregolari sono stati individuati nel corso del 2014 con il supporto dell'UNHCR. In Libia ci sono 36.984 rifugiati e richiedenti asilo di cui 18.710 sono siriani (dati del settembre 2014, UNHCR). Dal crollo del regime di Gaddafi, nel 2011, la Libia è afflitta da uno stato cronico di insicurezza. Nonostante il clima di instabilità e di caos - esasperato da una crisi politica sempre più acuta e sanguinosa, dopo le elezioni di febbraio 2014 e dagli scontri tra milizie e gruppi armati, rifugiati e richiedenti asilo continuano ad arrivare in Libia. Tra questi, quelli che provengono dall'Africa Sub Sahariana affrontano il rischio maggiore di arresto e detenzione.
* Ahmed Kashbur è il Project Coordinator di Cesvi a Bengasi.
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Leggendo questo articolo risultano 36.984 rifugiati e non mezzo milione e oltre come riferito da Frontex, i dati sono ben distanti. Vedo che alcune Ong riescono in parte ad operare tra mille difficoltà e penso che dovrebbero essere aiutate e protette, penso che una forza di pace anche armata (per difendersi dai lupi solitari) potrebbe essere concordata con le forze locali.
Libia, vita da rifugiati fuggiti dalla fame e dai conflitti in un paese in guerra
La testimonianza di un cooperante della Ong italiana CESVI. A Bengasi la situazione è allarmante. Gli spostamenti dei rifugiati sono limitati, i posti di lavoro sono diminuiti. Le partenze delle barche sono state bloccate e gli immigrati sono sfruttati dai miliziani che li arrestano e li obbligano in lavori pesanti di carico e scarico munizioni. La situazione sanitaria è drammatica
di AHMED KASHBUR *
BENGASI - "La Libia è un paese che ospita persone di molte nazionalità diverse, provenienti principalmente dall'Africa e dal mondo arabo. Tra queste, gli immigrati che arrivano da determinati paesi (Eritrea, Etiopia, Somalia, Siria, Palestina, Darfur e Iraq) sono considerati richiedenti asilo dall'UNHCR e il governo libico non può respingerli nel loro paese di origine ( la Libia ha firmato l'accordo del 1969). Gli uffici UNHCR a Bengasi e Tripoli accolgono i rifugiati, li registrano e approvano per loro sostegno economico e assistenza medica.
Aumentano i pescherecci in partenza. A Tripoli, al momento, le condizioni dei rifugiati sono abbastanza sicure: non ci sono scontri armati, l'ufficio UNHCR è aperto, i centri di detenzione sono attivi e c'è disponibilità di posti di lavoro per tutte le persone, per lo meno per quelle sane e giovani. Le partenze dei pescherecci verso le coste italiane sono più frequenti e ad un costo inferiore rispetto a quello di prima a causa della mancanza di regolamentazioni e dei controlli di polizia. Dopo la chiusura dei centri di detenzione a Bengasi, ad aprile 2014, i gruppi di beneficiari hanno occupato la zona del mercato e le zone industriali e hanno costruito lì baracche e case di fortuna.
I miliziani diventano negrieri. A Bengasi, invece, la situazione è più allarmante a causa del conflitto armato. Gli spostamenti dei rifugiati sono limitati, i posti di lavoro sono diminuiti. Le partenze delle barche sono state bloccate e gli immigrati sono diventati target dei miliziani: vengono arrestati e sfruttati per i lavori pesanti di carico e scarico munizioni. Il lavoro è poco e la situazione sanitaria è negativa: l'assistenza è scarsa e gli ospedali pubblici sono in condizioni drammatiche. Molte famiglie immigrate che abitavano in zone colpite dagli scontri hanno dovuto spostarsi nei campi sfollati o lasciare la città.
Le attività dei progetti Cesvi. A Tripoli, Cesvi fornisce assistenza medica e supporto psicologico ai beneficiari registrati dall'UNHCR. Dopo una valutazione effettuata su tutti i visitatori del centro sociale, viene indicato il criterio di vulnerabilità e stabilito il tipo di assistenza che verrà fornita loro. L'équipe di Cesvi, assieme ad UNHCR e IMC (International medical corps) analizza i singoli casi per i quali viene raccomandata l'assistenza. Ci sono alcuni beneficiari che non riescono ad arrivare al centro sociale (anziani, disabili e detenuti) e in questi casi Cesvi effettua visite presso le loro abitazioni per monitorare la situazione e consegnare loro il sostegno economico che gli spetta.
Il grande flusso dal Corno d'Africa. A Bengasi, le attività di Cesvi interessano gli sfollati interni e i rifugiati. Nei campi sfollati il team di Cesvi fa monitoraggio e indica il tipo di assistenza necessaria, fornisce sostegno economico (donne capo famiglia, disabili, famiglie immigrate, minori non accompagnati). Inoltre, Cesvi supporta le infermerie dei campi che prestano servizi agli sfollati interni, tramite la fornitura di medicine e strumenti; distribuisce kit igienici, coperte e materassi; gestisce rifiuti e si occupa del programma con la formula Cash for work (denaro in cambio di lavoro) che permette ai giovani beneficiari di lavorare principalmente in attività relative allo smaltimento dei rifiuti. I cooperanti di Cesvi lavorano a stretto contatto con i rifugiati del Corno d'Africa dal 2011. In questi anni, si è reso evidente il fatto che gli immigrati che arrivano in Libia non la considerano come paese in cui restare, ma come paese di transito per arrivare in Europa."
Obiettivo del progetto in Libia. Dove Cesvi è presente dal 2011, come prima Ong italiana intervenuta all'indomani della primavera araba. Il progetto nasce per fornire protezione ai settori più vulnerabili della popolazione: i rifugiati, i richiedenti asilo e i migranti irregolari - che arrivano principalmente dalla Siria e dall'Africa Sub Sahariana - e gli sfollati interni, vittime delle continue violenze che affliggono il Paese. Negli anni, Cesvi ha consolidato il suo intervento in Libia fornendo loro sostegno economico, assistenza medica e supporto psicosociale.
Il Contesto nel "dopo Gheddafi". In Libia non c'è un sistema nazionale di registrazione dei richiedenti asilo e di riconoscimento dei rifugiati, né un meccanismo di controllo e protezione per coloro che rischiano di essere rimpatriati nei Paesi d'origine. I rifugiati, i richiedenti asilo e i migranti irregolari sono stati individuati nel corso del 2014 con il supporto dell'UNHCR. In Libia ci sono 36.984 rifugiati e richiedenti asilo di cui 18.710 sono siriani (dati del settembre 2014, UNHCR). Dal crollo del regime di Gaddafi, nel 2011, la Libia è afflitta da uno stato cronico di insicurezza. Nonostante il clima di instabilità e di caos - esasperato da una crisi politica sempre più acuta e sanguinosa, dopo le elezioni di febbraio 2014 e dagli scontri tra milizie e gruppi armati, rifugiati e richiedenti asilo continuano ad arrivare in Libia. Tra questi, quelli che provengono dall'Africa Sub Sahariana affrontano il rischio maggiore di arresto e detenzione.
* Ahmed Kashbur è il Project Coordinator di Cesvi a Bengasi.
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Leggendo questo articolo risultano 36.984 rifugiati e non mezzo milione e oltre come riferito da Frontex, i dati sono ben distanti. Vedo che alcune Ong riescono in parte ad operare tra mille difficoltà e penso che dovrebbero essere aiutate e protette, penso che una forza di pace anche armata (per difendersi dai lupi solitari) potrebbe essere concordata con le forze locali.
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- Iscritto il: 17/01/2015, 9:10
Re: LA LIBIA E' VICINA
Sto pensando che per trasbordare questi numeri di migranti occorrerebbero da 5mila a 10mila barconi (500.000 – 1.000.000 persone a circa 100 a natante).camillobenso ha scritto:Libia, Frontex: “Tra 500mila e un milione di migranti pronti a partire per l’Europa”
Bisognerebbe sequestrare tutti i natanti (in avaria o meno) che vengono intercettati e soccorsi dalle unità marine. Forse lo si fa ma rimarrebbe l'obbligo di una custodia definitiva a terra.
Il problema, comunque, dei migranti non si risolverebbe in modo definitivo: tutti aspirano a migliorare la propria condizione di vita ...
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