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RITRATTO
Marco Minniti, il ministro in segreto
Ecco quanto conta il sottosegretario
Responsabile ai servizi, gode della piena fiducia di Matteo Renzi.
E su alcune questioni "pesa" più dei titolari di Interno, Esteri e Difesa
DI MARCO DAMILANO
21 aprile 2015
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Nel 1984 lei era già nei servizi segreti?», gli ha chiesto un mese fa l’avvocato di Totò Riina durante la testimonianza nel processo sulla strage del treno 904. Lui all’epoca faceva l’assistente universitario, teneva un seminario su Abelardo e Eloisa. E politicamente era un comunista: se fosse stato una spia i compagni lo avrebbero individuato come infiltrato e espulso.
Nessuno avrebbe potuto prevedere, trent’anni fa, che il responsabile politico dell’intelligence, l’uomo degli affari riservati e delle missioni segrete, sarebbe diventato il ragazzo di Reggio Calabria con la tessera del Partito comunista. Marco Minniti, 59 anni a giugno, festeggia questa settimana ventitré mesi a Palazzo Chigi da sottosegretario con delega ai servizi segreti, nella stanza di via dell’Impresa adornata da statue di Pulcinella e da modellini di aeroplani. È l’unico esponente del Pd sopravvissuto sulla propria poltrona al passaggio di governo da Enrico Letta a quello dell’ex sindaco di Firenze.
Da quell’inattesa riconferma è cominciata la silenziosa ascesa che oggi fa di Minniti uno degli uomini più potenti del governo Renzi. Non è un semplice sottosegretario, per il premier vale più di un ministro. Una figura che ricorda quella, mai vista in Italia, del Consigliere per la sicurezza nazionale che affianca il presidente Usa alla Casa Bianca, nomina fiduciaria, non sottoposta all’approvazione del Senato americano. Un agente speciale, con licenza di sconfinare in altri ministeri. Al Viminale, alla Difesa, alla Farnesina. Back diplomacy, la chiamano gli esperti. È toccato a Minniti volare in Egitto il 19 febbraio come emissario di Renzi per consegnare una lettera personale del premier al presidente Al Sisi sulla Libia.
È lui che monitora l’infernale scacchiere libico. È stato evocato un suo ruolo nella trattativa con le autorità indiane sui due marò italiani Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. E c’è chi ha visto la sua mano dietro le ultime nomine: il comandante dell’arma dei carabinieri Tullio Del Sette, il capo di Stato maggiore generale Claudio Graziano, il prefetto di Roma Franco Gabrielli, ex capo del Sisde. E il suo peso è destinato ad aumentare nei prossimi diciotto mesi. «Allacciate le cinture», smorza la tensione con i collaboratori il sottosegretario pensando al trittico Expo di Milano, esposizione della Sindone a Torino e Giubileo a Roma che richiamerà milioni di persone in Italia, potenziale vetrina per il terrorismo jihadista.
Eppure Minniti, inizialmente, non faceva parte del cerchio magico renziano. Fino all’elezione di Renzi alla segreteria del Pd, nel 2013, i due non si erano mai incontrati. Ai servizi segreti sembrava destinato il fedelissimo sottosegretario Luca Lotti, molto attratto dalla materia. La conferma è stata una sorpresa. Ancor più inaspettato il feeling nato tra due personaggi distanti anni luce.
Comunicativo Renzi, riservatissimo Minniti, non ha un profilo facebook e neppure twitter, e per di più con numerosi vizi d’origine: l’età (quasi venti anni più del premier), la militanza nel Pci e la lunga amicizia con Massimo D’Alema. Era uno dei Lothar negli anni Novanta, lo staff dalemiano di pochi capelli, con l’ex premier il sodalizio si spezzò nel 2010 quando D’Alema fu nominato presidente del Copasir, il comitato parlamentare di controllo dei servizi, incarico che sembrava spettare a Minniti, passato intanto con Walter Veltroni.
In comune con Renzi c’è l’adolescenza negli scout, con l’ex direttore della Dia Arturo De Felice, il questore di Catania Marcello Cardona e l’agente del Sismi Nicola Calipari, ucciso in Iraq dieci anni fa dai soldati Usa durante la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena. Ragazzi cresciuti nella Reggio Calabria dei primi anni Settanta, la rivolta di destra, il boia chi molla, il coprifuoco e le barricate tra un quartiere e l’altro, le scuole chiuse per mesi.
Nella famiglia Minniti i militari sono di casa (il papà è generale e così i suoi fratelli) anche Marco vorrebbe arruolarsi in aviazione, invece si iscrive alla facoltà di Lettere e al Pci, la rottura di una tradizione familiare che si ricomporrà molti anni dopo. Nel 1999 Minniti è a Palazzo Chigi come sottosegretario di D’Alema che ha deciso l’intervento in Kosovo, squilla il telefono. «Domenico», si sente chiamare, è il suo primo nome ma tutti lo hanno sempre chiamato Marco, «sono fiero di te». È il fratello del padre, generale anche lui, con cui non parlava da molti anni.
In questo filo biografico c’è l’intelligence guidata da Minniti. «Con lui, uno di sinistra, siamo entrati in serie A, come la diplomazia, le forze armate, le prefetture», riconoscono nell’ambiente. Ogni martedì c’è la riunione con il capo del Dis Giampiero Massolo, il generale Arturo Esposito (Aisi), Alberto Manenti (Aise). La cabina di regia che sorveglia la sicurezza nazionale su due fronti. Quello esterno, perché i confini non esistono più, la partita si gioca fuori e l’Italia è al centro del Mediterraneo, una delle aree più esplosive del mondo, di fronte alla Libia che è il crocevia delle tre grandi emergenze internazionali, il terrorismo, l’immigrazione, il controllo delle fonti energetiche. E il fronte interno: la prevenzione di possibili attentati è affidata alla tecnologia ma soprattutto all’intelligenza, alla collaborazione con le comunità islamiche, ascoltare e captare ogni segnale, perché anche il terrorista più isolato alla vigilia di un’azione cambia le sue abitudini.
Minniti, una vita trascorsa nel partito di Botteghe Oscure di cui ha conosciuto ogni sottoscala fino ad arrivare alla guida dell’organizzazione, sa bene che il primo nemico da battere è la rivalità tra i corpi dello Stato. C’è il comitato di analisi strategica anti-terrorismo (C.a.s.a.) che spinge gli apparati di sicurezza a scambiarsi informazioni. E c’è la rottamazione dei vecchi servizi e delle loro abitudini. La declassificazione degli atti coperti da segreto è stato il primo passo. Il secondo è l’assunzione di trenta giovani selezionati dalle università su settemila curriculum arrivati dopo una presentazione dell’intelligence nelle facoltà. Un investimento sul futuro cui Minniti tiene tantissimo.
Nelle ultime settimane il suo nome è comparso nei comunicati ufficiali di Palazzo Chigi, affiancato nei vertici con Renzi ai ministri Angelino Alfano, Roberta Pinotti e Paolo Gentiloni: la conferma di un rango ministeriale, chissà quanto gradito dai colleghi. È spuntato anche nell’inchiesta napoletana a proposito di un finanziamento di 20mila euro della coop Cpl Concordia destinato alla fondazione Icsa che Minniti aprì nel 2009 con Francesco Cossiga. Dal 2013 il sottosegretario ha lasciato ogni incarico, oggi la fondazione è presieduta dal generale Leonardo Tricarico. Un pensatoio molto trasversale: nel consiglio direttivo figurano magistrati, ambasciatori, generali, ammiragli e giornalisti (Paolo Del Debbio).
Una rete che ha accompagnato la trasformazione del compagno Marco nell’agente Minniti che quando parla degli 007 si illumina e usa la parola noi: «Siamo un reparto di super-elite. Qui vengono i migliori». «Il mondo è assetato di sicurezza», lo hanno sentito ragionare. E ogni volta che ritorna da un viaggio all’estero ripete che nella stragrande maggioranza dei paesi che visita il capo dei servizi è il numero due del governo. Ma nessuno la scambi per una notazione personale.
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MARCO MINNITI SERVIZI SEGRETI SOTTOSEGRETARIO
© Riproduzione riservata 21 aprile 2015
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