Un sindacato da rifare?
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Un sindacato da rifare?
In attesa che Maurizio Landini arrivi sul forum....
Un thread dedicato al sindacato non è mai stato prodotto in 13 anni di forum.
LAVORO & PRECARI
Sindacati, il cattivo esempio degli Usa: la loro sconfitta la pagano i lavoratori, ma grava sull’intero paese
di Roberto Marchesi | 28 febbraio 2015 COMMENTI
Politologo, studioso di macroeconomia
i
Contrariamente a quanto molti pensano, le sconfitte gravi dei sindacati, quelle che ne riducono la rappresentanza, la consistenza e la capacità di sostenere dure lotte per la tutela dei lavoratori, non ricadono soltanto con un pesantissimo costo sulle spalle dei lavoratori stessi, ma anche, in modo più strisciante e subdolo, sulle spalle dell’intera popolazione.
Sono ancora molti quelli che ancora pensano che tutti i mali alla società derivano proprio dall’abusivo comportamento personale dei sindacalisti e dalle irresponsabili vertenze che costano alle imprese soldi, tempo e insopportabile rigidità nella gestione del personale. Vi sorprenderà allora se vi dico che negli anni 70, quando entrai in banca con la mansione di programmatore esperto, la pensavo anch’io esattamente così. E vi sorpenderà persino di più se a confessare lo stesso errore di valutazione è Nicholas D.Christof, un noto articolista del New York Times, che nel suo articolo: “The cost of a decline in Unions” (il costo del declino dei sindacati) cita proprio anche lui i maggiori difetti riscontrabili nel comportamento di certi sindacalisti e (poteva mancare?) il solito richiamo alla insopportabile rigidità che si riflette nel mercato del lavoro e nel relativo costo.
Ma alla fine arriva anche lui a constatare che, nonostante tutti i difetti citati, a seguito della quasi scomparsa in America della presenza sindacale nel comparto delle aziende private “… è chiaro che (il Sindacato) fa un ottimo lavoro nel sostenere il tenore di vita della classe media”. Infatti, prosegue poi, la disuguaglianza che si è venuta a creare a partire dagli anni 80, a seguito delle continue sconfitte subite dai sindacati (ormai praticamente scomparsi nelle aziende private), secondo uno studio della American Sociological Review, pesano per almeno un terzo nella crescita della disuguagliaza riscontrata nella distribuzione del reddito in America. E tutto questo coincide non casualmente con il devastante calo degli iscritti ai sindacati in quel periodo (dal 40% al 14%).
Naturalmente lo squilibrio nella distribuzione della ricchezza e lo scompenso reddituale della classe media diventano palese componente anche del fenomeno recessivo.
Ma non basta, la vittoria dei conservatori alle elezioni del novembre scorso ha riscaldato nuovamente gli animi degli ultra-liberisti americani, che adesso cominciano a non sopporatre più la presenza sindacale nemmeno nel comparto pubblico.
Si avvicinano le elezioni presidenziali del 2016, Obama non potrà ricandidarsi, i repubblicani fiutano la possibilità di fare l’”en plein”: oltre al controllo dell’intero Congresso, stavolta vogliono anche la Casa Bianca. E cosa fanno tra di loro per distinguersi e farsi scegliere nelle primarie? (che cominceranno ufficialmente tra circa un anno, ma è come negli arrivi in volata del ciclismo, se vuoi vincere devi essere in prima fila già negli ultimi chilometri). Per distinguersi, specialmente quelli che sono attualmente governatori in qualche Stato, promettono grandi purghe contro i sindacati pubblici.
Scott Walker, governatore del Wisconsin, che ha già colpito duramente le organizzazioni di categoria nel 2011, quando costrinse i lavoratori del comparto pubblico (insegnanti, impiegati comunali, ecc.) con una legge fortemente ostacolata senza successo dai democratici, a rinnovare esplicitamente e burocraticamente ogni anno l’iscrizione. Ora torna alla carica promettendo nuove norme più severe necessarie a premiare il merito e la produttività. In realtà vuole solo risparmiare sul costo del lavoro.
Anche il governatore del New Jersey Chris Christie, pure lui aspirante presidente, vorrebbe approfittare delle casse vuote del suo Stato per farsi un po’ di propaganda da “puro e duro” sostenendo che i lavoratori pubblici hanno vita facile e vanno in pensione troppo presto e con pensioni smisurate rispetto ai lavoratori privati. Quindi si è messo al lavoro per trovare il modo di ridurle. Se occorre, anche facendo approvare dal suo parlamentino una legge che tagli un po’ di quegli “sprechi”. Si sa come la pensano questi puristi dello sfruttamento umano: “Queste pensioni sono un lusso che lo Stato non si può più permettere! Se la volete mettetevi da parte i soldi!” (Per lui e i suoi tirapiedi invece si può fare eccezione).
Gli americani sono stati tra gli ultimi ad abolire la schiavitù, non dimentichiamolo. Persino il presidente Washington aveva dozzine di schiavi che lo servivano. Le radici ogni tanto riemergono.
Quindi si delinea abbastanza chiaramente quale sarà il futuro programma dei repubblicani, i lavoratori americani sono avvisati.
Ma anche quelli italiani, dopo lo sgretolamento dello Statuto dei Lavoratori, devono aspettarsi purghe anche peggiori (non per niente Renzi viene osannato ora dai “puristi” europei).
Senza lo Statuto dei Lavoratori a proteggerli saranno proprio i sindacalisti il primo bersaglio che verrà colpito, e senza sindacalisti i lavoratori saranno solo delle pecorelle in balia dei cani da guardia di chi li vorrà usare nel loro esclusivo interesse, dimenticando che non sono macchine ma persone.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/02 ... e/1464510/
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LAVORO & PRECARI
Sindacati, il cattivo esempio degli Usa: la loro sconfitta la pagano i lavoratori, ma grava sull’intero paese
di Roberto Marchesi | 28 febbraio 2015 COMMENTI
Politologo, studioso di macroeconomia
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Contrariamente a quanto molti pensano, le sconfitte gravi dei sindacati, quelle che ne riducono la rappresentanza, la consistenza e la capacità di sostenere dure lotte per la tutela dei lavoratori, non ricadono soltanto con un pesantissimo costo sulle spalle dei lavoratori stessi, ma anche, in modo più strisciante e subdolo, sulle spalle dell’intera popolazione.
Sono ancora molti quelli che ancora pensano che tutti i mali alla società derivano proprio dall’abusivo comportamento personale dei sindacalisti e dalle irresponsabili vertenze che costano alle imprese soldi, tempo e insopportabile rigidità nella gestione del personale. Vi sorprenderà allora se vi dico che negli anni 70, quando entrai in banca con la mansione di programmatore esperto, la pensavo anch’io esattamente così. E vi sorpenderà persino di più se a confessare lo stesso errore di valutazione è Nicholas D.Christof, un noto articolista del New York Times, che nel suo articolo: “The cost of a decline in Unions” (il costo del declino dei sindacati) cita proprio anche lui i maggiori difetti riscontrabili nel comportamento di certi sindacalisti e (poteva mancare?) il solito richiamo alla insopportabile rigidità che si riflette nel mercato del lavoro e nel relativo costo.
Ma alla fine arriva anche lui a constatare che, nonostante tutti i difetti citati, a seguito della quasi scomparsa in America della presenza sindacale nel comparto delle aziende private “… è chiaro che (il Sindacato) fa un ottimo lavoro nel sostenere il tenore di vita della classe media”. Infatti, prosegue poi, la disuguaglianza che si è venuta a creare a partire dagli anni 80, a seguito delle continue sconfitte subite dai sindacati (ormai praticamente scomparsi nelle aziende private), secondo uno studio della American Sociological Review, pesano per almeno un terzo nella crescita della disuguagliaza riscontrata nella distribuzione del reddito in America. E tutto questo coincide non casualmente con il devastante calo degli iscritti ai sindacati in quel periodo (dal 40% al 14%).
Naturalmente lo squilibrio nella distribuzione della ricchezza e lo scompenso reddituale della classe media diventano palese componente anche del fenomeno recessivo.
Ma non basta, la vittoria dei conservatori alle elezioni del novembre scorso ha riscaldato nuovamente gli animi degli ultra-liberisti americani, che adesso cominciano a non sopporatre più la presenza sindacale nemmeno nel comparto pubblico.
Si avvicinano le elezioni presidenziali del 2016, Obama non potrà ricandidarsi, i repubblicani fiutano la possibilità di fare l’”en plein”: oltre al controllo dell’intero Congresso, stavolta vogliono anche la Casa Bianca. E cosa fanno tra di loro per distinguersi e farsi scegliere nelle primarie? (che cominceranno ufficialmente tra circa un anno, ma è come negli arrivi in volata del ciclismo, se vuoi vincere devi essere in prima fila già negli ultimi chilometri). Per distinguersi, specialmente quelli che sono attualmente governatori in qualche Stato, promettono grandi purghe contro i sindacati pubblici.
Scott Walker, governatore del Wisconsin, che ha già colpito duramente le organizzazioni di categoria nel 2011, quando costrinse i lavoratori del comparto pubblico (insegnanti, impiegati comunali, ecc.) con una legge fortemente ostacolata senza successo dai democratici, a rinnovare esplicitamente e burocraticamente ogni anno l’iscrizione. Ora torna alla carica promettendo nuove norme più severe necessarie a premiare il merito e la produttività. In realtà vuole solo risparmiare sul costo del lavoro.
Anche il governatore del New Jersey Chris Christie, pure lui aspirante presidente, vorrebbe approfittare delle casse vuote del suo Stato per farsi un po’ di propaganda da “puro e duro” sostenendo che i lavoratori pubblici hanno vita facile e vanno in pensione troppo presto e con pensioni smisurate rispetto ai lavoratori privati. Quindi si è messo al lavoro per trovare il modo di ridurle. Se occorre, anche facendo approvare dal suo parlamentino una legge che tagli un po’ di quegli “sprechi”. Si sa come la pensano questi puristi dello sfruttamento umano: “Queste pensioni sono un lusso che lo Stato non si può più permettere! Se la volete mettetevi da parte i soldi!” (Per lui e i suoi tirapiedi invece si può fare eccezione).
Gli americani sono stati tra gli ultimi ad abolire la schiavitù, non dimentichiamolo. Persino il presidente Washington aveva dozzine di schiavi che lo servivano. Le radici ogni tanto riemergono.
Quindi si delinea abbastanza chiaramente quale sarà il futuro programma dei repubblicani, i lavoratori americani sono avvisati.
Ma anche quelli italiani, dopo lo sgretolamento dello Statuto dei Lavoratori, devono aspettarsi purghe anche peggiori (non per niente Renzi viene osannato ora dai “puristi” europei).
Senza lo Statuto dei Lavoratori a proteggerli saranno proprio i sindacalisti il primo bersaglio che verrà colpito, e senza sindacalisti i lavoratori saranno solo delle pecorelle in balia dei cani da guardia di chi li vorrà usare nel loro esclusivo interesse, dimenticando che non sono macchine ma persone.
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Re: Un sindacato da rifare?
La vox populi
Renato Bonivento • 6 ore fa
(segue) Certamente diverso è il rapporto societario fra dipendente, sindacato ed Unions oltreoceano, ma anche oltre manica per esempio: dal momento che tu sottoscrivi un impegno col sindacato lo osservi e comunque prendi atto che il sindacato sovrintenderà i diritti di tutti i lavoratori in pari misura senza eccezioni di sorta, non come qui dove il particolarismo è invece norma. L'unica unità di intenti oggi in atto è quella della sottomissione del sindacato da parte del padronato, oppure dello stato che decide di falcidiare i diritti istituzionali del sindacato stesso, o con misure legali oppure con misure ostruzionistiche come quelle utilizzate dal governo italiano. In ogni caso, quando decade quel certo potere del sindacato in termini di discussione con le parti, (e questo dev'essere ben chiaro a tutti, anche a quelli che protestano contro il sindacato reo di azioni considerate avverse ai lavoratori) decade anche la minima salvaguardia del lavoratore nei confronti dei suoi diritti, di difesa del posto per quello che è possibile, di difesa del salario e dei suoi tetti minimi che consentono la vita entro termini decenti, dei diritti nell'ambito lavorativo ivi compresi gli orari.
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emiliano vero • 6 ore fa
ma parla dei sindacati italiani di quelli americani o in generale?
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Renato Bonivento • 6 ore fa
(segue) Si badi bene, qui (e non so se sia analogo in tutta Europa) il rapporto fra dipendente e padrone non è mai stato concepito secondo regole condivise ed uguali per tutti, perlomeno a fatti che son diversi dalle parole, dagli intendimenti, dalle regole appunto, ma è sempre o quasi stato oggetto di mercificazione, sia da parte del lavoratore sia da parte del datore. Un detto vale su tutti qui in Italia: "fatti valere" e con quello si son sempre regolati quei rapporti. Ora, se su questi interviene un sindacato che sovrintende alla media salvaguardia dei diritti, è chiaro che salta il detto "fatti valere" che funziona nel rapporto individuale soltanto, essendo esclusivo accordo mercenario. E allora vengono fuori le solite giaculatorie del tipo "I sindacati no serve a gnente! I se fa solo i soi interessi e a noantri i ne ciava i s'chei!" Stesso risultato si ottiene se nel rapporto fra datore e dipendente c'è sudditanza da parte di quest'ultimo, che accetta tutto pur di conservarsi il posto ed è chiaro che anche in questo caso il sindacato è avvertito come "intralcio ai lavori". Comunque il sindacato qui viene visto come intoppo ai "normali rapporti" fra datore e dipendente, per cui alla fine subisce un processo di ghettizzazione se non una vera e propria gogna. (continua)
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Renato Bonivento • 6 ore fa
(segue) E concorrere al meglio significa poter disporre di tutte le armi con le quali concorrere, compreso il costo del lavoro che deve essere fluttuante come i valori delle azioni, un giorno all'apice l'altro al suolo. In parole poverissime, si sta verificando quello che anni addietro solevo indicare come la "cinesizzazione", ovvero mercificare il lavoro come fosse l'impostazione di un robot, non esiste più la persona, il suo valore, la sua dignità, i suoi diritti ma esite solo la decisione unilaterale padronale. Come un tempo. Come in Cina. L'unico problema è che lì sono abituati da tempo immemore a sopravvivere e forse l'icona della classica "ciotola di riso" non costituisce problema, qui però sì. Tutto questo va al di là della portata di un sindacato, che nulla può nel caso di una voluta destabilizzazione della corporazione lavoro da parte istituzionale, il sindacato tutt'al più può solamente sovrintendere l'interesse del lavoratore nella media, come anche qui detto, eliminando le punte di maggiore o minore interesse. Il compito di un sindacato infatti non è quello di tendere alle personali necessità e questo è uno dei nodi fondamentali per i quali si son voltate le spalle ai sindacati stessi. (continua)
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Renato Bonivento • 7 ore fa
(segue) Ora, dal momento in cui Berlusconi fu fatto defenestrare a fine 2011, si sono susseguiti dei governi dai programmi, per non dire offensivamente loschi diremo "offuscati", dai quali sono usciti puntualmente provvedimenti tesi ad abbassare il livello incisivo nel benessere generale, primo la sanità, secondo la previdenza e terzo, ora col jobs act il mondo del lavoro. E' perciò ampiamente dimostrato, checché ne dica Renzi con la sua affabulazione depistante, che anche qui in Italia lo zoccolo duro non esiste più e si stanno smantellando i capisaldi sociali. Perché tutto questo, in Italia, in Europa, nel mondo? Il fine è molto semplice e comprensibile, benché l'economista francese non ne abbia fatto menzione esplicita ma va da sé: da che mondo è mondo, da che capitalismo è capitalismo e da che commercio è commercio esiste la regola della concorrenza, con la quale si determina la sopravvivenza o l'arricchimento e dunque se esiste questa deve esistere la possibilità di agire in modo che ciascuno sia in grado di concorrere al meglio. (continua)
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Renato Bonivento • 7 ore fa
Alla base di tutto lo sconquasso italico, riflesso dello sconquasso generale europeo che è poi a sua volta figlio di quello internazionale, sta l'assunto di quell'economista francese dal maglionazzo rossastro e capelli brizzolati quasi incolti: egli sostiene che nel mirino dell'intellighentia economico-finanziaria internazionale prima, europea poi, ci sia lo sgretolamento dello stato sociale così come concepito e coltivato in tutti questi anni in Europa. Ed ovviamente in Italia, zoccolo duro europeo poiché qui da noi esiste una costituzione che in teoria è fermamente difesa ed osservata. In teoria. In realtà fra la gente è pressoché "la costituzione questa sconosciuta", fra i politici "la costituzione questa balordaggine", quindi ... Se dunque l'assunto di quell'economista è tale, ne deriva che fra lo smantellamento dello stato sociale ci sta anche il lavoro e la sua organizzazione, con i diritti, le paghe, le salvaguardie. Ci sta pure la questione della previdenza. E non ultima quella della sanità pubblica. (continua)
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Renato Bonivento • 6 ore fa
(segue) Certamente diverso è il rapporto societario fra dipendente, sindacato ed Unions oltreoceano, ma anche oltre manica per esempio: dal momento che tu sottoscrivi un impegno col sindacato lo osservi e comunque prendi atto che il sindacato sovrintenderà i diritti di tutti i lavoratori in pari misura senza eccezioni di sorta, non come qui dove il particolarismo è invece norma. L'unica unità di intenti oggi in atto è quella della sottomissione del sindacato da parte del padronato, oppure dello stato che decide di falcidiare i diritti istituzionali del sindacato stesso, o con misure legali oppure con misure ostruzionistiche come quelle utilizzate dal governo italiano. In ogni caso, quando decade quel certo potere del sindacato in termini di discussione con le parti, (e questo dev'essere ben chiaro a tutti, anche a quelli che protestano contro il sindacato reo di azioni considerate avverse ai lavoratori) decade anche la minima salvaguardia del lavoratore nei confronti dei suoi diritti, di difesa del posto per quello che è possibile, di difesa del salario e dei suoi tetti minimi che consentono la vita entro termini decenti, dei diritti nell'ambito lavorativo ivi compresi gli orari.
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emiliano vero • 6 ore fa
ma parla dei sindacati italiani di quelli americani o in generale?
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Renato Bonivento • 6 ore fa
(segue) Si badi bene, qui (e non so se sia analogo in tutta Europa) il rapporto fra dipendente e padrone non è mai stato concepito secondo regole condivise ed uguali per tutti, perlomeno a fatti che son diversi dalle parole, dagli intendimenti, dalle regole appunto, ma è sempre o quasi stato oggetto di mercificazione, sia da parte del lavoratore sia da parte del datore. Un detto vale su tutti qui in Italia: "fatti valere" e con quello si son sempre regolati quei rapporti. Ora, se su questi interviene un sindacato che sovrintende alla media salvaguardia dei diritti, è chiaro che salta il detto "fatti valere" che funziona nel rapporto individuale soltanto, essendo esclusivo accordo mercenario. E allora vengono fuori le solite giaculatorie del tipo "I sindacati no serve a gnente! I se fa solo i soi interessi e a noantri i ne ciava i s'chei!" Stesso risultato si ottiene se nel rapporto fra datore e dipendente c'è sudditanza da parte di quest'ultimo, che accetta tutto pur di conservarsi il posto ed è chiaro che anche in questo caso il sindacato è avvertito come "intralcio ai lavori". Comunque il sindacato qui viene visto come intoppo ai "normali rapporti" fra datore e dipendente, per cui alla fine subisce un processo di ghettizzazione se non una vera e propria gogna. (continua)
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Renato Bonivento • 6 ore fa
(segue) E concorrere al meglio significa poter disporre di tutte le armi con le quali concorrere, compreso il costo del lavoro che deve essere fluttuante come i valori delle azioni, un giorno all'apice l'altro al suolo. In parole poverissime, si sta verificando quello che anni addietro solevo indicare come la "cinesizzazione", ovvero mercificare il lavoro come fosse l'impostazione di un robot, non esiste più la persona, il suo valore, la sua dignità, i suoi diritti ma esite solo la decisione unilaterale padronale. Come un tempo. Come in Cina. L'unico problema è che lì sono abituati da tempo immemore a sopravvivere e forse l'icona della classica "ciotola di riso" non costituisce problema, qui però sì. Tutto questo va al di là della portata di un sindacato, che nulla può nel caso di una voluta destabilizzazione della corporazione lavoro da parte istituzionale, il sindacato tutt'al più può solamente sovrintendere l'interesse del lavoratore nella media, come anche qui detto, eliminando le punte di maggiore o minore interesse. Il compito di un sindacato infatti non è quello di tendere alle personali necessità e questo è uno dei nodi fondamentali per i quali si son voltate le spalle ai sindacati stessi. (continua)
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Renato Bonivento • 7 ore fa
(segue) Ora, dal momento in cui Berlusconi fu fatto defenestrare a fine 2011, si sono susseguiti dei governi dai programmi, per non dire offensivamente loschi diremo "offuscati", dai quali sono usciti puntualmente provvedimenti tesi ad abbassare il livello incisivo nel benessere generale, primo la sanità, secondo la previdenza e terzo, ora col jobs act il mondo del lavoro. E' perciò ampiamente dimostrato, checché ne dica Renzi con la sua affabulazione depistante, che anche qui in Italia lo zoccolo duro non esiste più e si stanno smantellando i capisaldi sociali. Perché tutto questo, in Italia, in Europa, nel mondo? Il fine è molto semplice e comprensibile, benché l'economista francese non ne abbia fatto menzione esplicita ma va da sé: da che mondo è mondo, da che capitalismo è capitalismo e da che commercio è commercio esiste la regola della concorrenza, con la quale si determina la sopravvivenza o l'arricchimento e dunque se esiste questa deve esistere la possibilità di agire in modo che ciascuno sia in grado di concorrere al meglio. (continua)
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Renato Bonivento • 7 ore fa
Alla base di tutto lo sconquasso italico, riflesso dello sconquasso generale europeo che è poi a sua volta figlio di quello internazionale, sta l'assunto di quell'economista francese dal maglionazzo rossastro e capelli brizzolati quasi incolti: egli sostiene che nel mirino dell'intellighentia economico-finanziaria internazionale prima, europea poi, ci sia lo sgretolamento dello stato sociale così come concepito e coltivato in tutti questi anni in Europa. Ed ovviamente in Italia, zoccolo duro europeo poiché qui da noi esiste una costituzione che in teoria è fermamente difesa ed osservata. In teoria. In realtà fra la gente è pressoché "la costituzione questa sconosciuta", fra i politici "la costituzione questa balordaggine", quindi ... Se dunque l'assunto di quell'economista è tale, ne deriva che fra lo smantellamento dello stato sociale ci sta anche il lavoro e la sua organizzazione, con i diritti, le paghe, le salvaguardie. Ci sta pure la questione della previdenza. E non ultima quella della sanità pubblica. (continua)
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Re: Un sindacato da rifare?
Il punto di vista di Cremaschi.
Da Libre associazione idee
Lavoratori spacciati, grazie alla Cgil che si è arresa a Renzi
Scritto il 13/3/15 • nella Categoria: segnalazioni
Prima il grande corteo di Torino, con decine di migliaia di persone che hanno sfidato un tempo inclemente per ribadire il proprio sostegno al movimento No-Tav.
Poi la dimostrazione a Roma contro Salvini, «il lepenismo in salsa leghista e Casapound». E infine la prima manifestazione sindacale, a Milano, contro il Jobs Act dal varo dei decreti attuativi, «fatta apposta nella città ove si sperimenta quella schiavitù a tempo determinato che è il lavoro gratis per l’Expo». In tutti questi appuntamenti, ricorda Giorgio Cremaschi, già dirigente Fiom, la Cgil era assente. «È un dato costante di tanti momenti di lotta di questi mesi: la Cgil non vi partecipa». Dopo lo sciopero generale del 12 dicembre, che aveva suscitato una mobilitazione persino inaspettata nel mondo del lavoro, il gruppo dirigente del principale sindacato italiano «è ripiombato nella passività neghittosa che ne aveva caratterizzato tutti i comportamenti precedenti». Così, il mondo del lavoro «continua a precipitare di gradino in gradino, in una caduta che sembra inarrestabile e che ci ha fatto diventare il paese portato ad esempio nella distruzione dei diritti».In poco tempo, continua Cremaschi su “Micromega”, abbiamo avuto il sistema pensionistico più feroce del continente, con l’età pensionabile più elevata: «La nostra si avvicina sempre più ai 70 anni, mentre l’austera Germania la fa scendere a 63 e la Francia la mantiene a 60». Mentre consolidiamo 6 milioni di disoccupati, «l’orario di chi un lavoro ancora ce l’ha cresce inesorabilmente: lavoriamo quasi 200 ore all’anno più dei tedeschi e 100 in più dei francesi». Idem i salari: quelli italiani «hanno avuto la dinamica peggiore del continente, cioè son calati di più come reale potere d’acquisto e a volte anche in valori assoluti». Unica eccezione, non certo consolante, la Grecia: «Che, per altro, se dovesse davvero definire per legge il salario minimo a 750 euro mensili, sopravanzerebbe molte regioni del nostro Mezzogiorno». Infine, con il Jobs Act abbiamo raggiunto la meta di avere il mercato del lavoro più flessibile del continente: «La libertà di licenziamento, la precarizzazione diffusa e incentivata, il potere di degradare il lavoratore e di controllarlo a distanza, l’appalto selvaggio e le cooperative di sfruttamento, l’elenco degli atti di ferocia contro il lavoro autorizzati qui da noi è interminabile».I provvedimenti di Renzi «chiudono un percorso durato decenni, che alla fine ha portato il dipendente alla completa mercé dell’impresa», prosegue Cremaschi. «Come ha detto Crozza in Tv, i padroni non erano così felici dall’epoca di Kunta Kinte. La nostra caduta è stata la più rovinosa del continente, siamo diventati un esempio negativo per i diritti e le lotte sociali, siamo diventati il paese crumiro d’Europa». La Cgil? «Non pare intenzionata ad interrogarsi sulle ragioni di questa disfatta, ma soprattutto neppure a riconoscerla e a reagire ad essa». Il sindacato considerato più forte d’Europa «vive in una ritirata permanente che non può che condurre alla resa». Eppure non ha alcun feeling con Renzi, come invece la Cisl. «Neppure con il primo ispiratore delle politiche del lavoro del presidente del consiglio, neppure con Sergio Marchionne, a differenza della Cisl che invece lo applaude, la Cgil va d’accordo. Tuttavia il dissenso Cgil appare sempre più impotente». Per Renzi, secondo Cremaschi, una simile opposizione è la migliore augurabile: «La Cgil dice no ai suoi provvedimenti, ne lamenta tutto il male possibile, ma poi non li contrasta davvero. È il modo migliore per dimostrare che il sindacato non conta nulla e fa solo proteste di facciata per ragioni d’immagine». Così, «Renzi ci va a nozze».La questione non è solo quella della quantità e continuità delle lotte, che pure esiste. Il problema di fondo, aggiunge Cremaschi, è che il linguaggio e i comportamenti concreti dei dirigenti della Cgil non sono di opposizione. «Pensiamo allo sciopero di soli cinque lavoratori tra i comandati per lo straordinario a Pomigliano. Succedeva anche negli anni ‘50 che gli scioperi in Fiat fallissero clamorosamente. Ma la Cgil di allora non aveva difficoltà a dire che quei lavoratori non erano liberi di decidere perché in Fiat c’era il fascismo». Pochi giorni fa un servizio del Tg7, evidentemente sfuggito alle maglie della censura di regime, presentava una immagine agghiacciante della condizione dei lavoratori di Pomigliano: alle sei del mattino, le telecamere inseguivano operai a cui l’intervistatore chiedeva un parere sugli straordinari. «Domanda cautissima, non si chiedeva né un giudizio su Marchionne, né altro di compromettente. Eppure fuggivano tutti, come sudditi in uno Stato di polizia». Per Cremaschi, ormai, «nei luoghi di lavoro, non solo in Fiat, dilaga il fascismo aziendale, che con il Jobs Act viene istituzionalizzato. Questo la Cgil dovrebbe denunciare con tutta la forza che ha. E invece non lo fa».Il gruppo dirigente del sindacato sostiene che il governo agisca sotto dettatura della Confindustria: è vero, «ma poi non si scontra per niente con gli autori di quel dettato». Anzi: con gli industriali, insieme a Cisl e Uil, la Cgil «continua a voler applicare l’accordo incostituzionale del 10 gennaio 2014, che sancisce che chi non firma accordi non può neppure partecipare alle elezioni delle rappresentanze aziendali». Alla Telecom, i tre sindacati maggiori «hanno firmato un accordo che applicava il Jobs Act prima ancora dei decreti attuativi e per fortuna i dipendenti hanno espresso un clamoroso no». Poi c’è «l’accordo scandaloso che autorizza il lavoro gratis per quella notoria impresa di beneficenza che è Expo», accordo che «ha la firma di Cgil, Cisl e Uil». E di fronte a un presidente del Consiglio che «minaccia i lavoratori della Scala perché vogliono festeggiare il Primo Maggio», le flebili parole dei dirigenti della Cgil «son state più rivolte ad auspicare una sottomissione dei lavoratori che un rifiuto della prepotenza reazionaria del capo del governo».Proclami roboanti, ma poi un atteggiamento mite: troppe contraddizioni. Le ragioni? «Una è la complicità con il sistema delle imprese, che non a caso ha fatto sì che quando la Fiom si mise di traverso in Fiat, apparisse come qualcosa di diverso dalla organizzazione di cui fa parte». La seconda, anche più forte, «è che questa Cgil non può rompere con il Pd neppure se il suo segretario presidente la prende ogni giorno a pesci in faccia». Il corpo della struttura e degli apparati della Cgil «soffre e persino odia Renzi», ma lo fa «nella condizione di spirito e di sostanziale impotenza della minoranza Pd». E così, anche «nelle amministrazioni locali, negli enti pubblici, nelle cooperative, ovunque», la Cgil potrebbe, volendo, «far vedere i sorci verdi al renzismo», e invece «continua a collaborare come sempre». Per Cremaschi, «rompere davvero con la Confindustria che festeggia il Jobs Act, fare la stessa cosa con il Pd renziano e il suo sistema di potere, sono le due condizioni indispensabili per costruire una opposizione efficace alla politica che sta distruggendo i diritti del lavoro. Ma sono anche le uniche condizioni a cui l’attuale struttura della Cgil non vuole e non può sottostare». Dilaniata tra il voler contrastare Renzi e l’incapacità di farlo davvero, conclude Cremaschi, «la Cgil archivia lo sciopero generale e torna all’abulia confusa che oramai la possiede». Per il mondo del lavoro italiano, «questo stato passivo dei grandi sindacati è parte del disastro, è un vuoto che non si riempie con altro».
Prima il grande corteo di Torino, con decine di migliaia di persone che hanno sfidato un tempo inclemente per ribadire il proprio sostegno al movimento No-Tav. Poi la dimostrazione a Roma contro Salvini, «il lepenismo in salsa leghista e Casapound». E infine la prima manifestazione sindacale, a Milano, contro il Jobs Act dal varo dei decreti attuativi, «fatta apposta nella città ove si sperimenta quella schiavitù a tempo determinato che è il lavoro gratis per l’Expo». In tutti questi appuntamenti, ricorda Giorgio Cremaschi, già dirigente Fiom, la Cgil era assente. «È un dato costante di tanti momenti di lotta di questi mesi: la Cgil non vi partecipa». Dopo lo sciopero generale del 12 dicembre, che aveva suscitato una mobilitazione persino inaspettata nel mondo del lavoro, il gruppo dirigente del principale sindacato italiano «è ripiombato nella passività neghittosa che ne aveva caratterizzato tutti i comportamenti precedenti». Così, il mondo del lavoro «continua a precipitare di gradino in gradino, in una caduta che sembra inarrestabile e che ci ha fatto diventare il paese portato ad esempio nella distruzione dei diritti».
In poco tempo, continua Cremaschi su “Micromega”, abbiamo avuto il sistema pensionistico più feroce del continente, con l’età pensionabile più elevata: «La nostra si avvicina sempre più ai 70 anni, mentre l’austera Germania la fa scendere a 63 e la Giorgio CremaschiFrancia la mantiene a 60». Mentre consolidiamo 6 milioni di disoccupati, «l’orario di chi un lavoro ancora ce l’ha cresce inesorabilmente: lavoriamo quasi 200 ore all’anno più dei tedeschi e 100 in più dei francesi». Idem i salari: quelli italiani «hanno avuto la dinamica peggiore del continente, cioè son calati di più come reale potere d’acquisto e a volte anche in valori assoluti». Unica eccezione, non certo consolante, la Grecia: «Che, per altro, se dovesse davvero definire per legge il salario minimo a 750 euro mensili, sopravanzerebbe molte regioni del nostro Mezzogiorno». Infine, con il Jobs Act abbiamo raggiunto la meta di avere il mercato del lavoro più flessibile del continente: «La libertà di licenziamento, la precarizzazione diffusa e incentivata, il potere di degradare il lavoratore e di controllarlo a distanza, l’appalto selvaggio e le cooperative di sfruttamento, l’elenco degli atti di ferocia contro il lavoro autorizzati qui da noi è interminabile».
I provvedimenti di Renzi «chiudono un percorso durato decenni, che alla fine ha portato il dipendente alla completa mercé dell’impresa», prosegue Cremaschi. «Come ha detto Crozza in Tv, i padroni non erano così felici dall’epoca di Kunta Kinte. La nostra caduta è stata la più rovinosa del continente, siamo diventati un esempio negativo per i diritti e le lotte sociali, siamo diventati il paese crumiro d’Europa». La Cgil? «Non pare intenzionata ad interrogarsi sulle ragioni di questa disfatta, ma soprattutto neppure a riconoscerla e a reagire ad essa». Il sindacato considerato più forte d’Europa «vive in una ritirata permanente che non può che condurre alla resa». Eppure non ha alcun feeling con Renzi, come invece la Cisl. «Neppure con il primo ispiratore delle politiche del lavoro del presidente del consiglio, neppure con Sergio Marchionne, a differenza della Cisl che invece lo applaude, la Cgil va d’accordo. Tuttavia il dissenso Cgil appare sempre più impotente». Per Renzi, secondo Cremaschi, una simile opposizione è la migliore augurabile: «La Cgil dice no ai suoi provvedimenti, ne lamenta tutto il male Crozza-Renzipossibile, ma poi non li contrasta davvero. È il modo migliore per dimostrare che il sindacato non conta nulla e fa solo proteste di facciata per ragioni d’immagine». Così, «Renzi ci va a nozze».
La questione non è solo quella della quantità e continuità delle lotte, che pure esiste. Il problema di fondo, aggiunge Cremaschi, è che il linguaggio e i comportamenti concreti dei dirigenti della Cgil non sono di opposizione. «Pensiamo allo sciopero di soli cinque lavoratori tra i comandati per lo straordinario a Pomigliano. Succedeva anche negli anni ‘50 che gli scioperi in Fiat fallissero clamorosamente. Ma la Cgil di allora non aveva difficoltà a dire che quei lavoratori non erano liberi di decidere perché in Fiat c’era il fascismo». Pochi giorni fa un servizio del Tg7, evidentemente sfuggito alle maglie della censura di regime, presentava una immagine agghiacciante della condizione dei lavoratori di Pomigliano: alle sei del mattino, le telecamere inseguivano operai a cui l’intervistatore chiedeva un parere sugli straordinari. «Domanda cautissima, non si chiedeva né un giudizio su Marchionne, né altro di compromettente. Eppure fuggivano tutti, come sudditi in uno Stato di polizia». Per Cremaschi, ormai, «nei luoghi di lavoro, non solo in Fiat, dilaga il fascismo aziendale, che con il Jobs Act viene istituzionalizzato. Questo la Cgil dovrebbe denunciare con tutta la forza che ha. E invece non lo fa».
Il gruppo dirigente del sindacato sostiene che il governo agisca sotto dettatura della Confindustria: è vero, «ma poi non si scontra per niente con gli autori di quel dettato». Anzi: con gli industriali, insieme a Cisl e Uil, la Cgil «continua a voler applicare l’accordo incostituzionale del 10 gennaio 2014, che sancisce che chi non firma accordi non può neppure partecipare alle elezioni delle rappresentanze aziendali». Alla Telecom, i tre sindacati maggiori «hanno firmato un accordo che applicava il Jobs Act prima ancora dei decreti attuativi e per fortuna i dipendenti hanno espresso un clamoroso no». Poi c’è «l’accordo scandaloso che autorizza il lavoro gratis per quella notoria impresa di beneficenza che è Expo», accordo che «ha la firma di Cgil, Cisl e Uil». E di fronte a un presidente del Consiglio che «minaccia i lavoratori della Scala perché vogliono festeggiare il Renzi e CamussoPrimo Maggio», le flebili parole dei dirigenti della Cgil «son state più rivolte ad auspicare una sottomissione dei lavoratori che un rifiuto della prepotenza reazionaria del capo del governo».
Proclami roboanti, ma poi un atteggiamento mite: troppe contraddizioni. Le ragioni? «Una è la complicità con il sistema delle imprese, che non a caso ha fatto sì che quando la Fiom si mise di traverso in Fiat, apparisse come qualcosa di diverso dalla organizzazione di cui fa parte». La seconda, anche più forte, «è che questa Cgil non può rompere con il Pd neppure se il suo segretario presidente la prende ogni giorno a pesci in faccia». Il corpo della struttura e degli apparati della Cgil «soffre e persino odia Renzi», ma lo fa «nella condizione di spirito e di sostanziale impotenza della minoranza Pd». E così, anche «nelle amministrazioni locali, negli enti pubblici, nelle cooperative, ovunque», la Cgil potrebbe, volendo, «far vedere i sorci verdi al renzismo», e invece «continua a collaborare come sempre». Per Cremaschi, «rompere davvero con la Confindustria che festeggia il Jobs Act, fare la stessa cosa con il Pd renziano e il suo sistema di potere, sono le due condizioni indispensabili per costruire una opposizione efficace alla politica che sta distruggendo i diritti del lavoro. Ma sono anche le uniche condizioni a cui l’attuale struttura della Cgil non vuole e non può sottostare». Dilaniata tra il voler contrastare Renzi e l’incapacità di farlo davvero, conclude Cremaschi, «la Cgil archivia lo sciopero generale e torna all’abulia confusa che oramai la possiede». Per il mondo del lavoro italiano, «questo stato passivo dei grandi sindacati è parte del disastro, è un vuoto che non si riempie con altro».
Da Libre associazione idee
Lavoratori spacciati, grazie alla Cgil che si è arresa a Renzi
Scritto il 13/3/15 • nella Categoria: segnalazioni
Prima il grande corteo di Torino, con decine di migliaia di persone che hanno sfidato un tempo inclemente per ribadire il proprio sostegno al movimento No-Tav.
Poi la dimostrazione a Roma contro Salvini, «il lepenismo in salsa leghista e Casapound». E infine la prima manifestazione sindacale, a Milano, contro il Jobs Act dal varo dei decreti attuativi, «fatta apposta nella città ove si sperimenta quella schiavitù a tempo determinato che è il lavoro gratis per l’Expo». In tutti questi appuntamenti, ricorda Giorgio Cremaschi, già dirigente Fiom, la Cgil era assente. «È un dato costante di tanti momenti di lotta di questi mesi: la Cgil non vi partecipa». Dopo lo sciopero generale del 12 dicembre, che aveva suscitato una mobilitazione persino inaspettata nel mondo del lavoro, il gruppo dirigente del principale sindacato italiano «è ripiombato nella passività neghittosa che ne aveva caratterizzato tutti i comportamenti precedenti». Così, il mondo del lavoro «continua a precipitare di gradino in gradino, in una caduta che sembra inarrestabile e che ci ha fatto diventare il paese portato ad esempio nella distruzione dei diritti».In poco tempo, continua Cremaschi su “Micromega”, abbiamo avuto il sistema pensionistico più feroce del continente, con l’età pensionabile più elevata: «La nostra si avvicina sempre più ai 70 anni, mentre l’austera Germania la fa scendere a 63 e la Francia la mantiene a 60». Mentre consolidiamo 6 milioni di disoccupati, «l’orario di chi un lavoro ancora ce l’ha cresce inesorabilmente: lavoriamo quasi 200 ore all’anno più dei tedeschi e 100 in più dei francesi». Idem i salari: quelli italiani «hanno avuto la dinamica peggiore del continente, cioè son calati di più come reale potere d’acquisto e a volte anche in valori assoluti». Unica eccezione, non certo consolante, la Grecia: «Che, per altro, se dovesse davvero definire per legge il salario minimo a 750 euro mensili, sopravanzerebbe molte regioni del nostro Mezzogiorno». Infine, con il Jobs Act abbiamo raggiunto la meta di avere il mercato del lavoro più flessibile del continente: «La libertà di licenziamento, la precarizzazione diffusa e incentivata, il potere di degradare il lavoratore e di controllarlo a distanza, l’appalto selvaggio e le cooperative di sfruttamento, l’elenco degli atti di ferocia contro il lavoro autorizzati qui da noi è interminabile».I provvedimenti di Renzi «chiudono un percorso durato decenni, che alla fine ha portato il dipendente alla completa mercé dell’impresa», prosegue Cremaschi. «Come ha detto Crozza in Tv, i padroni non erano così felici dall’epoca di Kunta Kinte. La nostra caduta è stata la più rovinosa del continente, siamo diventati un esempio negativo per i diritti e le lotte sociali, siamo diventati il paese crumiro d’Europa». La Cgil? «Non pare intenzionata ad interrogarsi sulle ragioni di questa disfatta, ma soprattutto neppure a riconoscerla e a reagire ad essa». Il sindacato considerato più forte d’Europa «vive in una ritirata permanente che non può che condurre alla resa». Eppure non ha alcun feeling con Renzi, come invece la Cisl. «Neppure con il primo ispiratore delle politiche del lavoro del presidente del consiglio, neppure con Sergio Marchionne, a differenza della Cisl che invece lo applaude, la Cgil va d’accordo. Tuttavia il dissenso Cgil appare sempre più impotente». Per Renzi, secondo Cremaschi, una simile opposizione è la migliore augurabile: «La Cgil dice no ai suoi provvedimenti, ne lamenta tutto il male possibile, ma poi non li contrasta davvero. È il modo migliore per dimostrare che il sindacato non conta nulla e fa solo proteste di facciata per ragioni d’immagine». Così, «Renzi ci va a nozze».La questione non è solo quella della quantità e continuità delle lotte, che pure esiste. Il problema di fondo, aggiunge Cremaschi, è che il linguaggio e i comportamenti concreti dei dirigenti della Cgil non sono di opposizione. «Pensiamo allo sciopero di soli cinque lavoratori tra i comandati per lo straordinario a Pomigliano. Succedeva anche negli anni ‘50 che gli scioperi in Fiat fallissero clamorosamente. Ma la Cgil di allora non aveva difficoltà a dire che quei lavoratori non erano liberi di decidere perché in Fiat c’era il fascismo». Pochi giorni fa un servizio del Tg7, evidentemente sfuggito alle maglie della censura di regime, presentava una immagine agghiacciante della condizione dei lavoratori di Pomigliano: alle sei del mattino, le telecamere inseguivano operai a cui l’intervistatore chiedeva un parere sugli straordinari. «Domanda cautissima, non si chiedeva né un giudizio su Marchionne, né altro di compromettente. Eppure fuggivano tutti, come sudditi in uno Stato di polizia». Per Cremaschi, ormai, «nei luoghi di lavoro, non solo in Fiat, dilaga il fascismo aziendale, che con il Jobs Act viene istituzionalizzato. Questo la Cgil dovrebbe denunciare con tutta la forza che ha. E invece non lo fa».Il gruppo dirigente del sindacato sostiene che il governo agisca sotto dettatura della Confindustria: è vero, «ma poi non si scontra per niente con gli autori di quel dettato». Anzi: con gli industriali, insieme a Cisl e Uil, la Cgil «continua a voler applicare l’accordo incostituzionale del 10 gennaio 2014, che sancisce che chi non firma accordi non può neppure partecipare alle elezioni delle rappresentanze aziendali». Alla Telecom, i tre sindacati maggiori «hanno firmato un accordo che applicava il Jobs Act prima ancora dei decreti attuativi e per fortuna i dipendenti hanno espresso un clamoroso no». Poi c’è «l’accordo scandaloso che autorizza il lavoro gratis per quella notoria impresa di beneficenza che è Expo», accordo che «ha la firma di Cgil, Cisl e Uil». E di fronte a un presidente del Consiglio che «minaccia i lavoratori della Scala perché vogliono festeggiare il Primo Maggio», le flebili parole dei dirigenti della Cgil «son state più rivolte ad auspicare una sottomissione dei lavoratori che un rifiuto della prepotenza reazionaria del capo del governo».Proclami roboanti, ma poi un atteggiamento mite: troppe contraddizioni. Le ragioni? «Una è la complicità con il sistema delle imprese, che non a caso ha fatto sì che quando la Fiom si mise di traverso in Fiat, apparisse come qualcosa di diverso dalla organizzazione di cui fa parte». La seconda, anche più forte, «è che questa Cgil non può rompere con il Pd neppure se il suo segretario presidente la prende ogni giorno a pesci in faccia». Il corpo della struttura e degli apparati della Cgil «soffre e persino odia Renzi», ma lo fa «nella condizione di spirito e di sostanziale impotenza della minoranza Pd». E così, anche «nelle amministrazioni locali, negli enti pubblici, nelle cooperative, ovunque», la Cgil potrebbe, volendo, «far vedere i sorci verdi al renzismo», e invece «continua a collaborare come sempre». Per Cremaschi, «rompere davvero con la Confindustria che festeggia il Jobs Act, fare la stessa cosa con il Pd renziano e il suo sistema di potere, sono le due condizioni indispensabili per costruire una opposizione efficace alla politica che sta distruggendo i diritti del lavoro. Ma sono anche le uniche condizioni a cui l’attuale struttura della Cgil non vuole e non può sottostare». Dilaniata tra il voler contrastare Renzi e l’incapacità di farlo davvero, conclude Cremaschi, «la Cgil archivia lo sciopero generale e torna all’abulia confusa che oramai la possiede». Per il mondo del lavoro italiano, «questo stato passivo dei grandi sindacati è parte del disastro, è un vuoto che non si riempie con altro».
Prima il grande corteo di Torino, con decine di migliaia di persone che hanno sfidato un tempo inclemente per ribadire il proprio sostegno al movimento No-Tav. Poi la dimostrazione a Roma contro Salvini, «il lepenismo in salsa leghista e Casapound». E infine la prima manifestazione sindacale, a Milano, contro il Jobs Act dal varo dei decreti attuativi, «fatta apposta nella città ove si sperimenta quella schiavitù a tempo determinato che è il lavoro gratis per l’Expo». In tutti questi appuntamenti, ricorda Giorgio Cremaschi, già dirigente Fiom, la Cgil era assente. «È un dato costante di tanti momenti di lotta di questi mesi: la Cgil non vi partecipa». Dopo lo sciopero generale del 12 dicembre, che aveva suscitato una mobilitazione persino inaspettata nel mondo del lavoro, il gruppo dirigente del principale sindacato italiano «è ripiombato nella passività neghittosa che ne aveva caratterizzato tutti i comportamenti precedenti». Così, il mondo del lavoro «continua a precipitare di gradino in gradino, in una caduta che sembra inarrestabile e che ci ha fatto diventare il paese portato ad esempio nella distruzione dei diritti».
In poco tempo, continua Cremaschi su “Micromega”, abbiamo avuto il sistema pensionistico più feroce del continente, con l’età pensionabile più elevata: «La nostra si avvicina sempre più ai 70 anni, mentre l’austera Germania la fa scendere a 63 e la Giorgio CremaschiFrancia la mantiene a 60». Mentre consolidiamo 6 milioni di disoccupati, «l’orario di chi un lavoro ancora ce l’ha cresce inesorabilmente: lavoriamo quasi 200 ore all’anno più dei tedeschi e 100 in più dei francesi». Idem i salari: quelli italiani «hanno avuto la dinamica peggiore del continente, cioè son calati di più come reale potere d’acquisto e a volte anche in valori assoluti». Unica eccezione, non certo consolante, la Grecia: «Che, per altro, se dovesse davvero definire per legge il salario minimo a 750 euro mensili, sopravanzerebbe molte regioni del nostro Mezzogiorno». Infine, con il Jobs Act abbiamo raggiunto la meta di avere il mercato del lavoro più flessibile del continente: «La libertà di licenziamento, la precarizzazione diffusa e incentivata, il potere di degradare il lavoratore e di controllarlo a distanza, l’appalto selvaggio e le cooperative di sfruttamento, l’elenco degli atti di ferocia contro il lavoro autorizzati qui da noi è interminabile».
I provvedimenti di Renzi «chiudono un percorso durato decenni, che alla fine ha portato il dipendente alla completa mercé dell’impresa», prosegue Cremaschi. «Come ha detto Crozza in Tv, i padroni non erano così felici dall’epoca di Kunta Kinte. La nostra caduta è stata la più rovinosa del continente, siamo diventati un esempio negativo per i diritti e le lotte sociali, siamo diventati il paese crumiro d’Europa». La Cgil? «Non pare intenzionata ad interrogarsi sulle ragioni di questa disfatta, ma soprattutto neppure a riconoscerla e a reagire ad essa». Il sindacato considerato più forte d’Europa «vive in una ritirata permanente che non può che condurre alla resa». Eppure non ha alcun feeling con Renzi, come invece la Cisl. «Neppure con il primo ispiratore delle politiche del lavoro del presidente del consiglio, neppure con Sergio Marchionne, a differenza della Cisl che invece lo applaude, la Cgil va d’accordo. Tuttavia il dissenso Cgil appare sempre più impotente». Per Renzi, secondo Cremaschi, una simile opposizione è la migliore augurabile: «La Cgil dice no ai suoi provvedimenti, ne lamenta tutto il male Crozza-Renzipossibile, ma poi non li contrasta davvero. È il modo migliore per dimostrare che il sindacato non conta nulla e fa solo proteste di facciata per ragioni d’immagine». Così, «Renzi ci va a nozze».
La questione non è solo quella della quantità e continuità delle lotte, che pure esiste. Il problema di fondo, aggiunge Cremaschi, è che il linguaggio e i comportamenti concreti dei dirigenti della Cgil non sono di opposizione. «Pensiamo allo sciopero di soli cinque lavoratori tra i comandati per lo straordinario a Pomigliano. Succedeva anche negli anni ‘50 che gli scioperi in Fiat fallissero clamorosamente. Ma la Cgil di allora non aveva difficoltà a dire che quei lavoratori non erano liberi di decidere perché in Fiat c’era il fascismo». Pochi giorni fa un servizio del Tg7, evidentemente sfuggito alle maglie della censura di regime, presentava una immagine agghiacciante della condizione dei lavoratori di Pomigliano: alle sei del mattino, le telecamere inseguivano operai a cui l’intervistatore chiedeva un parere sugli straordinari. «Domanda cautissima, non si chiedeva né un giudizio su Marchionne, né altro di compromettente. Eppure fuggivano tutti, come sudditi in uno Stato di polizia». Per Cremaschi, ormai, «nei luoghi di lavoro, non solo in Fiat, dilaga il fascismo aziendale, che con il Jobs Act viene istituzionalizzato. Questo la Cgil dovrebbe denunciare con tutta la forza che ha. E invece non lo fa».
Il gruppo dirigente del sindacato sostiene che il governo agisca sotto dettatura della Confindustria: è vero, «ma poi non si scontra per niente con gli autori di quel dettato». Anzi: con gli industriali, insieme a Cisl e Uil, la Cgil «continua a voler applicare l’accordo incostituzionale del 10 gennaio 2014, che sancisce che chi non firma accordi non può neppure partecipare alle elezioni delle rappresentanze aziendali». Alla Telecom, i tre sindacati maggiori «hanno firmato un accordo che applicava il Jobs Act prima ancora dei decreti attuativi e per fortuna i dipendenti hanno espresso un clamoroso no». Poi c’è «l’accordo scandaloso che autorizza il lavoro gratis per quella notoria impresa di beneficenza che è Expo», accordo che «ha la firma di Cgil, Cisl e Uil». E di fronte a un presidente del Consiglio che «minaccia i lavoratori della Scala perché vogliono festeggiare il Renzi e CamussoPrimo Maggio», le flebili parole dei dirigenti della Cgil «son state più rivolte ad auspicare una sottomissione dei lavoratori che un rifiuto della prepotenza reazionaria del capo del governo».
Proclami roboanti, ma poi un atteggiamento mite: troppe contraddizioni. Le ragioni? «Una è la complicità con il sistema delle imprese, che non a caso ha fatto sì che quando la Fiom si mise di traverso in Fiat, apparisse come qualcosa di diverso dalla organizzazione di cui fa parte». La seconda, anche più forte, «è che questa Cgil non può rompere con il Pd neppure se il suo segretario presidente la prende ogni giorno a pesci in faccia». Il corpo della struttura e degli apparati della Cgil «soffre e persino odia Renzi», ma lo fa «nella condizione di spirito e di sostanziale impotenza della minoranza Pd». E così, anche «nelle amministrazioni locali, negli enti pubblici, nelle cooperative, ovunque», la Cgil potrebbe, volendo, «far vedere i sorci verdi al renzismo», e invece «continua a collaborare come sempre». Per Cremaschi, «rompere davvero con la Confindustria che festeggia il Jobs Act, fare la stessa cosa con il Pd renziano e il suo sistema di potere, sono le due condizioni indispensabili per costruire una opposizione efficace alla politica che sta distruggendo i diritti del lavoro. Ma sono anche le uniche condizioni a cui l’attuale struttura della Cgil non vuole e non può sottostare». Dilaniata tra il voler contrastare Renzi e l’incapacità di farlo davvero, conclude Cremaschi, «la Cgil archivia lo sciopero generale e torna all’abulia confusa che oramai la possiede». Per il mondo del lavoro italiano, «questo stato passivo dei grandi sindacati è parte del disastro, è un vuoto che non si riempie con altro».
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Re: Un sindacato da rifare?
Il sindacato dovrebbe anche organizzarsi per realizzare una forte solidarietà di base verso chi è più esposto alla crisi e alle ingiustizie sociali.
Renzi elenca i successi del governo. “Sarò breve”.
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Re: Un sindacato da rifare?
50 sfumature di sinistra
Dal punto di vista storico, aveva ragione Francesco quando più di quattro mesi fa, rispondendo a coloro che tentavano di bloccarlo nella sua operazione di riscatto sociale rivolta agli ultimi, appiccicandogli l’etichetta di “comunista”, sostenne che la sinistra era certamente più vecchia dei tempi di Marx e Lenin. Risaliva ad oltre 2000 anni fa in Palestina ad opera di tal Jesus Cristi.
Stabilire che il Cristo fosse figlio di Dio, non è cosa facile. Diventa ovvio, quindi, che a chi è portato a credere nel trascendente non può non aderire alla religione ebraica, cristiana o islamica.
Più difficile stabilire che esiste un legame tra l’uomo ed il divino per chi è agnostico, oppure ateo.
Dal punto di vista, storico, se come viene diffusamente condiviso, quell’uomo palestinese chiamato Gesù, è stato il primo socialista della storia ( magari ad Antonio non piace questa definizione).
Di certo era un gran rompicoglioni, che andava in controtendenza rispetto al pensiero ed alla cultura dominante dell’epoca. Tanto che si rese necessario farlo fuori, per quanto andava predicando sobillando le masse.
E’ quello che sta succedendo oggi con Francesco.
Un altro autentico rompicoglioni che deve essere eliminato, costi quel che costi, perché come allora va in direzione opposta del pensiero dominante e della cultura del nostro tempo.
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Questa economia uccide: Landini la pensa come Bergoglio
Scritto il 07/4/15 •LIBRE nella Categoria: idee
Sono contento di sapere che una parte del sindacato, mi riferisco ovviamente a quella che fa capo a Maurizio Landini, non è complice e subalterna rispetto alle élite neoliberiste continentali che da anni violentano i diritti e comprimono i salari.
Quando, tra qualche anno, cercheremo di individuare le cause e i responsabili del declino italiano, non potremo esimerci dal puntare il dito anche contro il mondo sindacale, ora rappresentato da uomini e donne che sembrano più interessati a garantirsi un futuro in Parlamento che a difendere gli interessi degli associati.
Pensate per un attimo al ruolo svolto da Susanna Camusso nel puntellare un sistema di potere che esprimeva un premier come Mario Monti. Di fronte ad un attacco di rara violenza contro le classi lavoratrici, la Cgil di fatto non fiatava, fiancheggiando acriticamente il Pd di Bersani, a sua volta evidentemente eterodiretto da Giorgio Napolitano, massone oligarchico già affiliato presso la Ur-Lodge “Three Eyes” di Henry Kissinger e David Rockefeller.
Tale perverso intreccio contribuì a distruggere la vita di migliaia di esodati e precari, falcidiati dalle politiche promosse da un governo sadico, paradossalmente spalleggiato da chi, come Camusso, avrebbe dovuto difendere in automatico i contraenti più deboli.
Landini, a differenza di Camusso e Bersani, sembra un uomo perbene, autenticamente interessato a migliorare la vita di chi lavora anche attraverso la legittima riscoperta della lotta sindacale. Certo, il leader della Fiom non padroneggia le dinamiche e non conosce in profondità i veri protagonisti del progetto neo-oligarchico in atto, guidato con maestria e cattiveria da massoni contro-iniziati del calibro di Mario Draghi e Wolfang Schaeuble.
Landini però è in buona fede, e chi è in buona fede può capire domani quello che ancora non gli è chiaro oggi.
Per questo, al netto di una serie di divergenze programmatiche non trascurabili, saluto con soddisfazione la nascita della “coalizione sociale” promossa da Landini, nata per strappare la sinistra italiana dal controllo di un manipolo di nazisti tecnocratici bravi ed efficaci nel sostituire il mito della purezza della razza con quello della purezza del bilancio.
E’ giusto non esasperare gli animi e non enfatizzare inutilmente i toni, senza però negare o ammorbidire una realtà oggettivamente molto grave.
Questo non possiamo né vogliamo farlo.
Ho cominciato a sfogliare un libro regalatomi dall’amico GianMario Ferramonti e titolato “Papa Francesco, Questa Economia uccide”, scritto da Andrea Tornielli e Giacomo Galeazzi. Mi ha subito colpito il verbo scelto dal Pontefice per rappresentare gli effetti di un indirizzo politico ora tristemente maggioritario dal Portogallo alla Lettonia: “uccidere”. Papa Francesco non dice questa economia“impoverisce”, questa economia“è ingiusta” o questa economia“aumenta le diseguaglianze”.
Il Santo Padre, con apostolica franchezza, sceglie di dire la verità anche a costo di provocare la reazione stizzita dei moderni farisei, posti a protezione di un Tempio malefico che assume al giorno d’oggi le fattezze dell’Eurotower.
Per conoscere volti e nomi di chi muove dolosamente i fili di questa economiache intenzionalmente uccide basta leggere il libro “Massoni” scritto da Gioele Magaldi.
Strana la vita. Un tempo i seguaci del Vaticano erano prevalentemente bollati, nella migliore delle ipotesi, come sicuri reazionari e nostalgici passatisti.
Oggi chi si azzarda a sposare e a ripetere i concetti recentemente espressi da Bergoglio, tra l’altro chiaramente ispirati da una genuina interpretazione del Vangelo, rischia di guadagnarsi la patente di pericoloso sovversivo nonché nemico del giusto ordine costituito.
In conclusione, anche grazie all’instancabile lavoro intellettuale compiuto con zelo e passione da tanti cittadini ora uniti sotto le bandiere del Movimento Roosevelt, qualcosa finalmente si muove.
Se fino ad un paio di anni fa i Vescovi, per bocca di uomini come Bagnasco e Bertone, benedicevano la mano violenta del professore di Varese, oggi Papa Francesco inverte la rotta; se, fino ad un paio di anni fa, la Cgil di Camusso teneva fermi i lavoratori mentre Monti, Bersani e Fornero sferravano colpi tremendi contro i più deboli, oggi Maurizio Landini apre una breccia.
Questo a dimostrazione che non tutto è inutile.
Gli uomini di buona volontà possono cambiare il corso della Storia. E noi, nel nostro piccolo, lo stiamo già facendo.
(Francesco Maria Toscano, “Anche Landini sa che questa economia uccide”, dal blog “Il Moralista” del 29 marzo 2015).
Dal punto di vista storico, aveva ragione Francesco quando più di quattro mesi fa, rispondendo a coloro che tentavano di bloccarlo nella sua operazione di riscatto sociale rivolta agli ultimi, appiccicandogli l’etichetta di “comunista”, sostenne che la sinistra era certamente più vecchia dei tempi di Marx e Lenin. Risaliva ad oltre 2000 anni fa in Palestina ad opera di tal Jesus Cristi.
Stabilire che il Cristo fosse figlio di Dio, non è cosa facile. Diventa ovvio, quindi, che a chi è portato a credere nel trascendente non può non aderire alla religione ebraica, cristiana o islamica.
Più difficile stabilire che esiste un legame tra l’uomo ed il divino per chi è agnostico, oppure ateo.
Dal punto di vista, storico, se come viene diffusamente condiviso, quell’uomo palestinese chiamato Gesù, è stato il primo socialista della storia ( magari ad Antonio non piace questa definizione).
Di certo era un gran rompicoglioni, che andava in controtendenza rispetto al pensiero ed alla cultura dominante dell’epoca. Tanto che si rese necessario farlo fuori, per quanto andava predicando sobillando le masse.
E’ quello che sta succedendo oggi con Francesco.
Un altro autentico rompicoglioni che deve essere eliminato, costi quel che costi, perché come allora va in direzione opposta del pensiero dominante e della cultura del nostro tempo.
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Questa economia uccide: Landini la pensa come Bergoglio
Scritto il 07/4/15 •LIBRE nella Categoria: idee
Sono contento di sapere che una parte del sindacato, mi riferisco ovviamente a quella che fa capo a Maurizio Landini, non è complice e subalterna rispetto alle élite neoliberiste continentali che da anni violentano i diritti e comprimono i salari.
Quando, tra qualche anno, cercheremo di individuare le cause e i responsabili del declino italiano, non potremo esimerci dal puntare il dito anche contro il mondo sindacale, ora rappresentato da uomini e donne che sembrano più interessati a garantirsi un futuro in Parlamento che a difendere gli interessi degli associati.
Pensate per un attimo al ruolo svolto da Susanna Camusso nel puntellare un sistema di potere che esprimeva un premier come Mario Monti. Di fronte ad un attacco di rara violenza contro le classi lavoratrici, la Cgil di fatto non fiatava, fiancheggiando acriticamente il Pd di Bersani, a sua volta evidentemente eterodiretto da Giorgio Napolitano, massone oligarchico già affiliato presso la Ur-Lodge “Three Eyes” di Henry Kissinger e David Rockefeller.
Tale perverso intreccio contribuì a distruggere la vita di migliaia di esodati e precari, falcidiati dalle politiche promosse da un governo sadico, paradossalmente spalleggiato da chi, come Camusso, avrebbe dovuto difendere in automatico i contraenti più deboli.
Landini, a differenza di Camusso e Bersani, sembra un uomo perbene, autenticamente interessato a migliorare la vita di chi lavora anche attraverso la legittima riscoperta della lotta sindacale. Certo, il leader della Fiom non padroneggia le dinamiche e non conosce in profondità i veri protagonisti del progetto neo-oligarchico in atto, guidato con maestria e cattiveria da massoni contro-iniziati del calibro di Mario Draghi e Wolfang Schaeuble.
Landini però è in buona fede, e chi è in buona fede può capire domani quello che ancora non gli è chiaro oggi.
Per questo, al netto di una serie di divergenze programmatiche non trascurabili, saluto con soddisfazione la nascita della “coalizione sociale” promossa da Landini, nata per strappare la sinistra italiana dal controllo di un manipolo di nazisti tecnocratici bravi ed efficaci nel sostituire il mito della purezza della razza con quello della purezza del bilancio.
E’ giusto non esasperare gli animi e non enfatizzare inutilmente i toni, senza però negare o ammorbidire una realtà oggettivamente molto grave.
Questo non possiamo né vogliamo farlo.
Ho cominciato a sfogliare un libro regalatomi dall’amico GianMario Ferramonti e titolato “Papa Francesco, Questa Economia uccide”, scritto da Andrea Tornielli e Giacomo Galeazzi. Mi ha subito colpito il verbo scelto dal Pontefice per rappresentare gli effetti di un indirizzo politico ora tristemente maggioritario dal Portogallo alla Lettonia: “uccidere”. Papa Francesco non dice questa economia“impoverisce”, questa economia“è ingiusta” o questa economia“aumenta le diseguaglianze”.
Il Santo Padre, con apostolica franchezza, sceglie di dire la verità anche a costo di provocare la reazione stizzita dei moderni farisei, posti a protezione di un Tempio malefico che assume al giorno d’oggi le fattezze dell’Eurotower.
Per conoscere volti e nomi di chi muove dolosamente i fili di questa economiache intenzionalmente uccide basta leggere il libro “Massoni” scritto da Gioele Magaldi.
Strana la vita. Un tempo i seguaci del Vaticano erano prevalentemente bollati, nella migliore delle ipotesi, come sicuri reazionari e nostalgici passatisti.
Oggi chi si azzarda a sposare e a ripetere i concetti recentemente espressi da Bergoglio, tra l’altro chiaramente ispirati da una genuina interpretazione del Vangelo, rischia di guadagnarsi la patente di pericoloso sovversivo nonché nemico del giusto ordine costituito.
In conclusione, anche grazie all’instancabile lavoro intellettuale compiuto con zelo e passione da tanti cittadini ora uniti sotto le bandiere del Movimento Roosevelt, qualcosa finalmente si muove.
Se fino ad un paio di anni fa i Vescovi, per bocca di uomini come Bagnasco e Bertone, benedicevano la mano violenta del professore di Varese, oggi Papa Francesco inverte la rotta; se, fino ad un paio di anni fa, la Cgil di Camusso teneva fermi i lavoratori mentre Monti, Bersani e Fornero sferravano colpi tremendi contro i più deboli, oggi Maurizio Landini apre una breccia.
Questo a dimostrazione che non tutto è inutile.
Gli uomini di buona volontà possono cambiare il corso della Storia. E noi, nel nostro piccolo, lo stiamo già facendo.
(Francesco Maria Toscano, “Anche Landini sa che questa economia uccide”, dal blog “Il Moralista” del 29 marzo 2015).
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Re: Un sindacato da rifare?
Bonus Marchionne: come cambia il salario base dei dipendenti FCA
in Italiadi Valentina Pennacchio | 19 Aprile 2015 - 17:50
Rivoluzione in casa FIAT: nuovo sistema retributivo per i dipendenti. Ecco come funziona quello che è stato ribattezzato il «bonus Marchionne».
http://www.forexinfo.it/Bonus-Marchionne-come-cambia-il
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Han sempre saputo come dividere il sindacato. Quale momento più propizio?
Parafrasando una frase di Bobbio dico che : certo, hanno vinto costoro ma come(costoro) risolveranno in seguito tutti quei problemi per cui era nato il sindacato e i partiti dei lavoratori?
Un salutone
in Italiadi Valentina Pennacchio | 19 Aprile 2015 - 17:50
Rivoluzione in casa FIAT: nuovo sistema retributivo per i dipendenti. Ecco come funziona quello che è stato ribattezzato il «bonus Marchionne».
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Han sempre saputo come dividere il sindacato. Quale momento più propizio?
Parafrasando una frase di Bobbio dico che : certo, hanno vinto costoro ma come(costoro) risolveranno in seguito tutti quei problemi per cui era nato il sindacato e i partiti dei lavoratori?
Un salutone
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