scandalo dieselgate

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Volkswagen, analisti: “E’ in grado di reggere l’urto di multe e richiami. Ma solo se le vendite non calano”

Economia

Il gruppo tedesco è abbastanza solido per assorbire fino a 50 miliardi di perdite legate al diesel gate. A patto però che i ricavi non crollino a causa del danno di immagine. Nelle ultime settimane il costo dei contratti derivati che permettono di assicurarsi contro il suo fallimento è triplicato
di Mauro Del Corno | 6 ottobre 2015


Quanto deve essere forte la botta per far vacillare un gigante? Volkswagen è un gruppo estremamente solido, poco indebitato e con una liquidità di circa 25 miliardi di euro. Ma qualche domanda sulla capacità di resistenza della casa tedesca alle conseguenze del diesel gate inizia a circolare. Dallo scorso 18 settembre ha bruciato 30 miliardi di capitalizzazione di borsa e accantonato 6,5 miliardi per far fronte alle prime sanzioni. E si appresta a richiamare 11 milioni di veicoli con un costo che gli analisti stimano in almeno 6 miliardi di euro. Dovrà inoltre fronteggiare oltre una ventina di class action negli Stati Uniti dove il giudice può comminare multe anche punitive, ossia che eccedono il puro e semplice risarcimento del danno. Non per niente martedì il gruppo ha annunciato che effettuerà “tagli massicci” per fronteggiare i costi dello scandalo, cancellando o rimandando ogni investimento non indispensabile. E il nuovo numero uno Matthias Mueller ha affermato che Volkswagen supererà lo scandalo solo attraverso un “percorso doloroso“.

Basandosi esclusivamente sui dati dell’ultimo bilancio annuale del gruppo un team di analisti della società di consulenza finanziaria Ambromobiliare ha provato a stimare la perdita massima che la casa di Wolfsburg è in grado di assorbire. Lo scenario ipotizzato è quello in cui non si verifica un crollo delle vendite e pertanto i ricavi non subiscono riduzioni drastiche rispetto ai circa 200 miliardi di euro attuali. La conclusione è che la casa automobilistica sarebbe in grado di reggere, senza stravolgimenti della sua struttura finanziaria, perdite per circa 50 miliardi di euro. Cerchiamo di capire perché.

La posizione finanziaria netta del gruppo, ossia le attività finanziarie e i soldi che ha in cassa meno i debiti, è negativa per circa 12 miliardi di euro. L’Ebitda (acronimo inglese che indica in sostanza l’utile prima che vengano pagate interessi sul debiti, tasse e ammortamenti) è di 29,4 miliardi di euro. Secondo parametri finanziari comunemente accettati un rapporto tra posizione finanziaria netta ed Ebitda inferiore a 4 indica una situazione di rischio accettabile. Da questo punto di vista il gruppo tedesco potrebbe portare la sua posizione finanziaria in negativo fino a 117 miliardi, in sostanza potrebbe sobbarcarsi altri 100 miliardi di euro di debito senza eccessivi squilibri. C’è però anche un altro parametro da tenere in considerazione per valutare la tenuta di un’azienda, ed è il rapporto tra posizione finanziaria netta e patrimonio. Per il comparto industriale valori al di sotto di 3 sono indici di relativa sicurezza. Il patrimonio di VW ammonta a 90 miliardi di euro. Visto che la posizione finanziaria è di -12,5 miliardi, il patrimonio potrebbe ridursi fino a 39 miliardi e rimanere entro limiti tollerabili. Esiste quindi un cuscinetto di circa 50 miliardi di euro per assorbire le perdite.

Nelle ultime settimane il costo dei credit default swap su Volkswagen, strumenti finanziari che permettono di assicurarsi contro il default di una società o di un paese, è balzato da 75 a oltre 240 punti. Si tratta di livelli ancora non critici, considerato che un valore di 400 indicherebbe una possibilità su quattro di fallimento nel giro di cinque anni. Per avere un ulteriore termine di paragone, i Cds su un gruppo effettivamente in grave difficoltà come il colosso petrolifero brasiliano Petrobras superano i 1000 punti. Al momento, quindi, il gruppo tedesco non sembra eccessivamente sotto pressione. Ma le incognite ovviamente ci sono, a cominciare dall’impatto sulle vendite future che al momento è davvero difficile da prevedere.

E’ possibile che in tempi relativamente brevi la società possa procedere a un aumento di capitale allo scopo di mettere più fieno in cascina. Gli analisti di Credit Suisse la considerano un’ipotesi plausibile, anche perché ritengono che la liquidità di cui dispone il gruppo sarà alla fine insufficiente per far fronte a tutte le conseguenze economiche dello scandalo.


http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/10 ... o/2100587/
iospero
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Volkswagen e il mistero di Fca sparita dai titoli dei giornali

La Fiat non si chiama più Fiat. La Chrysler non si chiama più Chrysler. Le hanno fuse e adesso c’è un gruppo automobilistico tra i maggiori nel mondo che si chiama Fca: Fiat Chrysler Automobiles. È successo il 29 gennaio 2014, tra poco saranno due anni. Ma la notizia non è arrivata nelle redazioni dei grandi giornali italiani, a quanto pare. Cosicché i loro lettori potrebbero non aver capito che il gruppo guidato da John Elkann e Sergio Marchionne è coinvolto come tutti gli altri giganti mondiali dell’auto nello scandalo detto diesel-gate. Se i lettori del Fatto hanno amici o parenti tra i lettori del Corriere della Sera, della Repubblica o della Stampa facciano un’opera buona, li informino. Perché ieri il Corriere titolava “Indagine su altri cinque marchi”, per poi specificare che trattasi di Bmw, Chrysler, Gm, Land Rover e Mercedes Benz.

Anche la Repubblica annuncia “Usa, indagini allargate”, ma tralascia di ricordare che quella Chrysler distrattamente nominata è quella meravigliosa azienda salvata da Marchionne per farne un orgoglio dell’industria italiana che si afferma all’estero. Naturalmente non si poteva aspettare maggior precisione giornalistica da parte della Stampa, che come gli altri mette nel mirino la Chrysler, senza ricordare che è un marchio della Fca, ex Fiat, padrona del giornale.

Per fortuna c’è Il Sole 24 Ore che nella foga di dare un’informazione economica completa inciampa nell’imperdonabile errore. Dopo aver accuratamente evitato la parola Fca in articoli e titoli, piazza lì la tabella della auto che saranno controllate anche in Italia. E gli scappa il nome di Fca che c’è dentro fino al collo. Anche perché l’elenco dei modelli non perdona: Panda, Punto, 500, Giulietta… Ah ecco. Come diceva Totò, questa faccia non mi è nuova.

Il Fatto Quotidiano, 4 ottobre 2015
camillobenso
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Re: scandalo dieselgate

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Volkswagen, perquisita la sede di Wolfsburg. Numero uno del gruppo in Usa: “Sapevamo dal 2014″
La procura di Braunschweig, che indaga per frode nella vendita di veicoli con emissioni superiori al dichiarato, cerca dati e documenti sulla truffa. Michael Horn, amministratore delegato di Volkswagen America, si è "scusato" davanti alla Commissione del Congresso Usa ma ha scaricato la responsabilità su "qualche ingegnere informatico"
di F. Q. | 8 ottobre 2015


Sono in corso perquisizioni nella sede di Wolfsburg e in altri uffici di Volkswagen in Germania. A disporle è stata la procura di Braunschweig, che indaga sulle accuse di frode nella vendita di veicoli con emissioni superiori a quanto dichiarato. L’obiettivo è trovare e archiviare dati e documenti sulla manipolazione dei test. Tre procuratori stanno lavorando in collaborazione con lo stato federale della Bassa Sassonia. Intanto il gruppo ha fatto sapere di aver a sua volta sporto denuncia, il 23 settembre, per trovare i “responsabili interni” dello scandalo.

Sempre giovedì il capo di Volkswagen negli Stati Uniti, Michael Horn, ha deposto davanti al Congresso scusandosi per i trucchi con i quali la casa tedesca manipolava i dati. “A nome dell’azienda e dei miei colleghi in Germania e mio personale, voglio offrire sincere scuse per l’uso da parte della Volkswagen di un software che serviva ad aggirare i test”, ha detto Horn davanti ai membri della Commissione energia e commercio della Camera dei Rappresentanti. Ma ha sostenuto, sotto giuramento, che la decisione di installare il software truffaldino non è stata presa da Volkswagen, ma “da singoli individui”: “E’ stato qualche ingegnere informatico che l’ha fatto, qualunque fosse la ragione”.

Poi ha annunciato che la casa tedesca ha per il momento sospeso le domande di omologazione per i modelli 2016 presentate alle autorità statunitensi, in attesa che venga fatta piena luce sul diesel gate. Horn ha assicurato ai membri della Commissione “piena collaborazione” e affermato che “lavorerà per garantire che questo non accada mai più”. In un documento depositato prima della testimonianza si legge che “Volkswagen è disposta ad accettare le conseguenze dei propri atti” e “sa che saremo giudicati non dalle parole, ma con le azioni che porteremo avanti nelle prossime settimane e mesi”.

Secondo il Guardian, che ha letto il testo della deposizione, Horn ammetterà di essere stato a conoscenza dei trucchi per mascherare le reali emissioni delle auto già a partire dalla primavera 2014. Anche il New York Times dà conto del fatto che il manager era stato avvertito, ma riporta che gli era stato detto che gli ingegneri della società avrebbero lavorato con l’Environmental Protection Agency (Epa) per risolvere il problema. Sempre nel 2014, scrive ancora il Nyt, a Horn fu assicurato che i team tecnici di Volkswagen avevano un piano specifico per rendere i veicoli conformi. I due funzionari dell’autorità ambientale Usa, anche loro in audizione, hanno depositato una testimonianza in cui spiegano che il loro obiettivo è capire “i benefici economici” ottenuti da Volkswagen con la manipolazione dei dati sulle emissioni diesel. L’inchiesta del Congresso potrebbe coinvolgere anche altre case automobilistiche per scoprire se abbiano fatto uso di software analoghi a quello installato nei motori della casa tedesca.

Sul fronte italiano il viceministro ai Trasporti Riccardo Nencini, in audizione in commissione alla Camera, ha detto che “nonostante le continue sollecitazioni del ministero dei Trasporti verso l’ente di omologazione Kba, Volkswagen ed Epa, ad oggi dati formali ed ufficiali non sono pervenuti al ministero che rappresento”.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/10 ... e/2108873/
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Volkswagen, scandalo made in Usa: guai se Berlino scappa

Scritto il 08/10/15 • LIBRE nella Categoria: idee Condividi


Anno movimentato per il gruppo Volkswagen: prima un bilancio dagli utili record ed il traguardo da primo produttore mondiale in vista, poi la notizia delle centraline manipolate che nel giro di pochi giorni brucia metà della capitalizzazione in borsa.

Ad innescare lo scandalo è la statunitense Environmental Protection Agency che accusa i diesel tedeschi di emettere ossidi d’azoto oltre i limiti consentiti: le teste dei vertici di Wolfsburg cadono e l’affidabilità teutonica incassa un duro colpo.

Scrupolosità ambientalistica delle agenzie americane? Sgambetto industriale?

«No. Come lo scandalo Fifa, la “scoperta” di illeciti su cui si è sempre chiuso un occhio, ha finalità politiche.

Berlino, nonostante la gestione di Angela Merkel, è per gli americani l’incognita dirimente», scrive Federico Dezzani.

«Se la Germania si sganciasse dal blocco atlantico, Washington perderebbe il teatro europeo e, di conseguenza, l’egemonia globale».

Per questo, sostiene Dezzani, è inevitabile individuare una precisa regia statunitense nell’esplosione dello scandalo che sta demolendo la credibilità di una Germania che si è fatta detestare per il trattamento riservato alla Grecia.

Ein Volk, ein Wagen, ein Skandal: diesel e Germania fanno un distico, scrive Dezzani sul suo blog.

«Se si volesse una terzina, allora sarebbe Diesel, Germania e Volkswagen».

È nella febbricitante Germania guglielmina, apripista della seconda rivoluzione industriale, che Rudolf Diesel inventa un motore basato sulla compressione dell’aria: l’impiego non tarda nell’industria bellica ma bisogna attendere gli anni ’30 perché una vettura di lusso, la Mercedes-Benz W138, monti un pesante e costoso motore a gasolio.

«Quando Adolf Hitler affida al geniale Ferdinand Porsche la progettazione di un’auto per la motorizzazione di massa, la scelta cade non a caso su un più economico motore a benzina: sono le versioni da 1,1-1,6 litri che monta la Volkswagen Typ 1, meglio nota come il “Maggiolino”.

Per abbattere i costi di produzione e rendere il prezzo abbordabile, si adottano le più moderne tecniche fordiste e si erigono fabbriche ex-novo: attorno a loro nasce la cittadina di Wolfsburg, sede dell’attuale gruppo Volkswagen».

La casa tedesca segue da subito le fortune della Germania: gli impianti, convertiti ad uso bellico, crollano sotto le bombe alleate del ’44-’45.

Le forze d’occupazione inglesi, resistendo alle pressioni di chi vuole “ruralizzare” la Germania sconfitta, acconsentono ad un rapida ripresa dell’attività: esportare, per i tedeschi, significa tornare a vivere, nell’immediato dopoguerra.

E il mito felice del Maggiolino si afferma solo col “miracolo economico”.

Il decollo però coincide con l’inizio della parabola discendente per la Fiat e passa per la prima Golf del 1974, disegnata da Giorgetto Giugiaro.

«Protetta dalla “legge Volkswagen” che ne impedisce le scalate ostili e blindata dai pacchetti azionari in mano al land della Bassa Sassonia ed i discendenti di Porsche – continua Dezzani – la casa di Wolfsburg fa da polo aggregante per l’industria meccanica, inglobando marchi (Audi, Seat, Skoda, Bentley, Bugatti, Lamborghini, Porsche, Ducati, Scania, Man) che consentono una diversificazione per prodotto, fascia di prezzo e paese».

Sono le proprio le vetture di lusso e la trentennale presenza in Cina (oggi secondo mercato per il gruppo) a regalare un bilancio 2014 da record: un fatturato da 200 miliardi di euro, 14 miliardi di utili e il traguardo come primo produttore mondiale in vista.

Quando nel marzo 2015 è presentato il bilancio consolidato, le azioni Volkswagen sono scambiate a 250 euro: «La casa di Wolfsburg è all’apice del successo, specchio di una Germania sempre più sicura della propria forza economica e dell’influenza politica derivante».

Man mano che dalla Cina giungono segnali di rallentamento, le azioni Vw danno segnali di malessere, attestandosi a 170 euro a metà settembre.

«Poi ha inizio il bagno di sangue, un assalto speculativo in grande stile che ricalca le recenti ondate ribassiste contro il rublo e la borsa cinese». Lunedì 21 settembre le azioni perdono il 20% del valore, bruciando 14 miliardi, e nell’arco di una settimana la capitalizzazione in borsa è pressoché dimezzata, con le azioni scambiate il 30 settembre a 95 euro.

A innescare il crollo è la notizia che l’agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (Epa) ha individuato un software nelle centraline delle Volkswagen che spegne il controllo delle emissioni durante la guida e lo riaccende per i test.

Il gruppo tedesco, minaccia l’Epa, rischia una multa fino a 18 miliardi, 37.500 dollari per ognuna delle 480.000 auto turbodiesel incriminate.

Immediata la campagna mediatica sul fallimento del sistema-paese della Germania, piuttosto che sui presunti danni all’ambiente: trascurando il fatto che i diesel ammontino solo al 24% delle vendite Volkswagen negli Usa e che l’inquinamento prodotto dal veicolo medio americano sia di gran lunga maggiore, viene «sferrato un tale bombardamento mediatico da obbligare la casa automobilistica a correre ai ripari: l’amministratore delegato Martin Winterkorn rassegna le dimissioni ed è annunciato uno “spietato repulisti” nell’azienda».

Il Credit Suisse stima tra i 25 e i 75 miliardi di euro il costo dello scandalo, paventando la necessità di un aumento di capitale per la casa di Wolfsburg.

La multa da 18 miliardi minacciata dall’Epa? «Un importo talmente alto da far pensare ad una provocazione, utile ad alimentare la tempesta mediatica».

E’ la stessa somma appena pagata alle autorità americane dalla British Petroleum per il disastro ambientale della piattaforma Deepwater Horizon che nel 2010 causò la più grande fuoriuscita di petrolio della storia nel Golfo del Messico, con 500.000 tonnellate di greggio sversate in mare.
«L’inflessibilità delle autorità americane e l’accanimento dei media sono poi doppiamente sospette se paragonate ad uno scandalo che ha recentemente coinvolto un’altra casa automobilistica, la General Motors», aggiunge Dezzani. Nel febbraio del 2014, Gm è stata costretta a richiamare 800.000 auto per un difetto al blocchetto d’accensione, che aveva provocato almeno 13 incidenti mortali. Per risparmiare pochi centesimi, la casa di Detroit aveva montato una molla difettosa che poteva ruotare la chiave sulla posizione di spegnimento ad auto in corsa, «spegnendo il motore, bloccando il servosterzo e disattivando gli airbag». Reazioni in Borsa? Nessuna. E una multa di appena 35 milioni di dollari. Fatte le debite proporzioni, la sanzione ipotizzate dall’Epa contro la Volkswagen equivarrebbero a «500 morti per avvelenamento da ossido d’azoto, peggio di una testata chimica su un centro abitato». Di certo non si ricorda un attivismo pari a quello prodigato oggi da Parigi e Londra sul caso dell’auto tedesca: il governo francese che invoca un’inchiesta europea, quello britannico definisce «inaccettabili le azioni di Vw», il “Financial Times” che alza il tiro, scrivendo che a casa di Wolfsburg è impunita, nell’Unione Europea sotto il tallone tedesco.
«Lo scandalo Vw è una rappresaglia americana contro Berlino, che su troppi dossier, dall’eurocrisi alla Russia passando per il Medio Oriente, pecca di “eccesso di sicurezza”», scrive Dezzani, che denuncia anche la «strisciante retorica anti-tedesca», diffusa anche in Italia «dai media ossequiosi alle direttive d’Oltreoceano». Ovvero: «Man mano che l’eurocrisi evolveva differentemente da come preventivato, il marcescente estabilshment italiano è stato ben felice di scaricare su Berlino (a mezzo stampa) parte delle tensioni accumulate durante l’interminabile crisi economica». Dezzani invoca «un minimo di verità storica». E ricorda: «La Germania esce sconfitta dall’ultima guerra insieme all’Italia e al Giappone, e alla stregua di una potenza occupata è trattata: dispiegamento permanente di forze armate statunitensi, subalternità dell’apparato di sicurezza a quello angloamericano, pesanti limitazioni alla politica estera ed economica (vedi l’ostilità di Henry Kissinger alla Ostpolitik e gli accordi di Plaza del 1985 che, imponendo la rivalutazione del marco sul dollaro, misero a dura prova l’economia tedesca nel decennio successivo)».
A differenza dell’Italia, continua Dezzan, la Germania è dotata di una classe dirigente «compatta, istruita e conscia degli interessi del paese». Mentre gli anni di piombo hanno messo in crisi l’Italia con lo smantellamento dell’economia mista, «tra bombe e assalti speculativi», la Germania è emersa nei primi anni ’90 con un manifatturiero accresciuto e «risorse tali da comprarsi la Ddr». Poi la Germania «subisce sì l’euro», ma mantiene una posizione di dominio sulla Bce. E ora «dispone di un mercato europeo senza barriere e di un enorme sistema a cambi fissi (l’euro) che consente di tosare le quote di mercato dei concorrenti (Italia in primis) ed accrescere l’attivo della bilancia commerciale». Perché gli Usa non solo acconsentono all’operazione ma addirittura la guidano? «Innanzitutto la Germania resta un paese militarmente occupato e le figure apicali dello Stato sono accuratamente selezionate in base ai criteri di Washington, poi la moneta unica non avrebbe dovuto essere fine a se stessa, bensì fonte presto o tardi di una crisi (quella attuale) che avrebbe dovuto sfociare negli Stati Uniti d’Europa, alter ego di Washington».
«L’euro, come prevedibile, rende più ricca e sicura di sé la Germania, che almeno in tre riprese tenta di strappare agli angloamericani un nuovo status, non più potenza sconfitta e subalterna ma potenza alla pari», continua Dezzani. Prima, Deutsche Börse tenta di acquistare l’americana Nyse Euronext. Poi, nel 2003, Berlino cerca (senza riuscirci) di entrare nel super-esclusivo club di spionaggio “Five Eyes”, che riunisce i paesi anglosassoni (Usa, Uk, Nuova Zelanda, Australia e Canada). Infine c’è il tentativo, anch’esso fallito, da parte dell’editore tedesco Axel Springer (di provata fede atlantica) di acquistare nell’estate 2015 il pacchetto di controllo del “Financial Times”. «Il messaggio che gli angloamericani inviano alla Germania è chiaro: al tavolo con noi non vi sedete, restate nel mucchio con gli altri europei e pensate a risolvere la crisi dell’euro». Gli Usa restano scontenti di Berlino: approvano la svolta neoliberista dell’Ue, ma sanno che la moneta unica «è presto o tardi destinata a spezzarsi, se Berlino non accetta la condivisione dei debiti pubblici, la nascita di un Tesoro europeo e, a ruota, di un governo federale».
Invece di imboccare la via delle federazione continentale, la Germania prima rifiuta gli eurobond nel 2011, poi si asserraglia sull’austerità che scarica tutto il peso dell’euro-regime sulla periferia: tagli ai salari e inasprimento fiscale per uccidere l’import e riequilibrare le bilance commerciali. «Quando Alexis Tsipras, che gode del palese appoggio di Washington e Londra, minaccia di rifiutare le politiche d’austerità, i falchi di Berlino non esitano a dire: bene, la porta è quella, esci dall’euro! Solo il clamoroso retromarcia di Alexis Tsipras (testimoniando quali interessi si celano dietro i vari Syriza e Movimento 5 Stelle) evitano che la Grecia abbandoni l’Eurozona, sancendo la reversibilità della moneta unica». Per Dezzani è sintomatico l’atteggiamento di Romano Prodi, il padre italiano dell’euro, che «da posizioni filo-tedesche ed anti-americane ai tempi della guerra in Iraq del 2003, si è riposizionato durante l’eurocrisi di 180 gradi ed abbraccia ora una linea anti-tedesca e filo-americana». In una recente intervista ad Eugenio Scalfari, dichiara: «I tedeschi non soltanto non credono negli Stati Uniti d’Europa, ma non li vogliono. Vogliono una Germania sola. Hanno accettato l’euro perché lo considerano soprattutto la loro moneta, il marco che ha cambiato nome, tant’è vero che la Bundesbank, la Banca centrale tedesca, si oppone alla politica di Draghi che invece considera l’euro come la vera moneta europea».
Draghi, aggiunge Prodi, è uno dei pochissimi che vogliono gli Stati Uniti d’Europa, e utilizza gli strumenti a sua disposizione per spingere su quella strada. Lo stesso Prodi rincara la dose in un’intervista all’“Huffington Post”: «Il potere tedesco è arrogante. Quando arrivi a un livello di sicurezza, chiamiamola anche di arroganza, così forte, i freni inibitori sono a rischio. In Germania non c’è contraddittorio tra i vari attori sociali, c’è un sistema molto compatto. Oggi con il caso Dieselgate emerge una crisi di un sistema, molto più complicata di una crisi politica che interessa solo la Merkel. Non a caso le irregolarità legate alla Volkswagen sono state scoperte da un’autorità americana. La cosa è stata messa fuori da una struttura non europea». Come gli americani, anche Prodi «sa che l’euro è un aereo in stallo, sorretto solo dall’allentamento quantitativo di Mario Draghi e destinato a schiantarsi non appena verranno meno gli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce (cui peraltro Berlino ha imposto che l’80% del debito acquistato finisse in pancia alle rispettive banche centrali nazionali)». Aggiunge Dezzani: «Quale investitore sano di mente acquisterebbe un Btp a 10 anni che rende l’1,6%, quando il paese flirta con la deflazione, ha un rapporto debito/Pil del 140% e istituti bancari appesantiti da 200 miliardi di crediti inesigibili?».
Ma i motivi di tensione tra Berlino e Washington non si esauriscono qui e spaziano dalla questione del surplus commerciale tedesco all’Ucraina, passando per il Medio Oriente. Il primo a dissociarsi dall’appoggio garantito da Angela Merkel al cambio di regime a Kiev è stato il potentissimo mondo dell’industria, «che ha interessi da difendere a Mosca ben di più che a Kiev». Poi, continua Dezzani, è stato lo stesso governo tedesco a criticare i crescenti toni bellicistici contro la Russia del generale Philip Breedlove, responsabile del comando delle forze armate americane in Europa, con sede a Stoccarda. Non va meglio in Medio Oriente «dove la Germania, su posizioni sempre meno atlantiche e sempre più vicine ai Brics, prima si dichiara contro l’intervento militare in Libia (con la clamorosa astensione sulla risoluzione Onu 1973 che impone la “no-fly zone”) poi, è storia di questi giorni, quando la Russia opta per un intervento militare risolutivo in Siria, Berlino capovolge la politica finora seguita e afferma che Bashar Assad (la cui caduta è agognata da Washington e Tel Aviv sin dal 2011) è un interlocutore imprescindibile».
Per Washington, occorre quindi “riportare all’ordine” la Germania. Come? «Ad agosto è aperta la via balcanica che, attraverso Macedonia, Serbia ed Ungheria, riversa in Austria e Germania decine di migliaia di persone nel lasso di poche settimane: benché Angela Merkel si dica pronta a ricevere 800.000 immigrati all’anno (esternazione che la fa precipitare nei sondaggi) il paese dà forti segnali di stress sotto l’improvvisa ondata migratoria (270.000 persone solo a settembre, più che nell’intero 2014). Non solo si moltiplicano gli attacchi dei gruppi di estrema destra contro le strutture d’accoglienza, dove peraltro aumenta la tensione tra immigrati, ma l’intero sistema di ricezione dei profughi si avvicina al punto di ebollizione: il presidente Joachim Gauck è costretto a rettificare le parole della cancelliera, chiarendo che c’è un limite all’accoglienza». Infine, arriva lo scandalo Volkswagen, «un vero attacco al sistema-paese». Domanda: «Basteranno queste rappresaglie a “riportare l’umiltà” in Germania?».
Con l’attuale situazione internazionale, sempre più dinamica (l’intervento militare russo in Siria e il saldarsi dell’asse Mosca-Teheran-Baghdad-Damasco) la Germania «è il peso determinante, ovvero la potenza che sbilanciandosi verso uno schieramento (gli angloamericani e quel che resta della Francia) o l’altro (russi e cinesi) ne determina la vittoria». Se la Germania si saldasse con Russia e Cina, sostiene Dezzani, gli Usa sarebbero espulsi dall’Eurasia, e perderebbero la “testa di ponte” per proiettarsi nell’Hearthland. L’intervento di Putin in Siria «assegna, al momento, l’intero teatro mediorientale alla Russia, che spinge la propria influenza a latitudini così basse da stabilire un nuovo record». È molto difficile che Washington incassi in silenzio la sconfitta. «Più probabile, invece, è un contrattacco in Ucraina tramite le forze nazionaliste, con lo scopo di sottoporre Mosca al logorio di due fronti, oppure imboccare la via dell’escalation militare». Dalla risoluzione del dilemma di Berlino tra Mosca e Washington, conclude Dezzani, dipenderà l’esito del conflitto, che si sta spostando rapidamente dalla Borsa e dalla stampa ai teatri operativi.
camillobenso
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Re: scandalo dieselgate

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Zonaeuro
Volkswagen, quanti fallimenti nella vicenda ‘dieselgate’
di Lavoce.info | 10 ottobre 2015


La frode commessa da Volkswagen con l’installazione dei dispositivi di manipolazione dei sistemi di disinquinamento sul motore diesel è la spia di una discutibile cultura aziendale. Ma rivela anche un fallimento del sistema regolatorio europeo. Pressioni delle lobby e dubbia efficacia dei test.

di Federico Boffa* e Diego Piacentino** (lavoce.info)

Il fallimento della governance di Vw

La frode commessa da Volkswagen con l’installazione di dispositivi di manipolazione dei sistemi di disinquinamento sul motore diesel di sua produzione EA189 Euro 5 rivela un fallimento molto grave non solo della governance aziendale, ma anche del sistema regolatorio europeo.
Del fallimento della governance aziendale ha già scritto Fabiano Schivardi definendolo “incredibile” e foriero, in prospettiva, di conseguenze drammatiche per la gestione della casa automobilistica. Via via che arrivano nuovi dettagli sulla vicenda, si chiarisce che il fallimento è scaturito dall’intenzione di Volkswagen di ottenere, mediante l’installazione del dispositivo, un risparmio dei costi, che secondo talune valutazioni potrebbe essere stato nell’ordine di circa 300 euro a motore. Non poco, se, per esempio, si considera che, nel maggio di quest’anno, VW ha vinto, in Italia, la gara d’appalto per la fornitura di automobili a carabinieri e polizia in virtù dell’offerta di un prezzo unitario inferiore di 83 euro rispetto a quello del principale concorrente, Fca. Emergono anche indicazioni secondo le quali i vertici di VW avrebbero ignorato o represso i dissensi. Allo stesso tempo, cominciano a vedersi le prime conseguenze del fallimento: mentre i vertici aziendali vengono rimaneggiati, le autorità svizzere vietano la vendita delle automobili su cui sia installato il motore EA189, e la stessa Volkswagen dà ai propri concessionari l’indicazione o la disposizione (a seconda dei mercati) di sospenderne le vendite.
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Il fallimento delle regole

Ma il fallimento della governance aziendale è stato propiziato da quello del sistema regolatorio, compromesso da battaglie politiche e lobbystiche che hanno portato a soluzioni poco credibili e inefficienti, oltre che macchinose.
Per esempio, nel 2013, una nuova normativa restrittiva delle emissioni di CO2, già approvata dalla Commissione, dal Consiglio e dal parlamento europeo, e posta all’ordine del giorno della riunione del Consiglio europeo del 27-28 giugno, fu accantonata a seguito di pressioni esercitate personalmente dal cancelliere tedesco sullo stesso presidente del consiglio e sul primo ministro britannico. L’accantonamento fu solo temporaneo, ma il risultato è stato il differimento al 2021 del nuovo limite.
Ci sono, però, anche altri aspetti rilevanti. Come hanno notato Federico Pontoni e Antonio Sileo, ci sono differenze significative fra la normativa americana e quella europea: quest’ultima è più restrittiva sugli inquinanti globali (gas di effetto serra), ma lo è di meno su quelli locali – dunque, alla fine, è più accomodante nei confronti dei motori diesel. Il trattamento di favore che l’Europa riserva alla motorizzazione diesel è discutibile sotto il profilo ambientale e verosimilmente legato alle esigenze dei costruttori europei che hanno puntato su questo tipo di motore (si veda il rapporto dell’azienda di componentistica Delphi.Le descrizioni delle procedure di verifica delle emissioni mettono d’altronde in evidenza condizioni di effettuazione delle prove in laboratorio artificiali e molto lontane da quelle di utilizzazione effettiva. Viene anche accettato che le automobili vengano preparate per le prove con accorgimenti volti a ridurne le emissioni (per esempio, distacco dell’alternatore, equipaggiamento con pneumatici speciali, ipergonfiaggio degli pneumatici, speciale lubrificazione, alterazione dell’allineamento delle ruote), e che vengano pienamente sfruttate le tolleranze previste dalla normativa.
In particolare sui dispositivi di manipolazione delle emissioni, è anche emerso che il divieto europeo, deciso nel 2007 (regolamento (Cc) n. 715 del 20 giugno 2007), non era (forse) rispettato appieno, tanto che nel 2013 un rapporto del Joint Research Centre della Commissione europea avvertiva, per altro senza trovare risonanza, dei rischi connessi alla loro installazione.
L’installazione dei dispositivi di manipolazione delle emissioni da parte di Volkswagen è spia di una discutibile cultura aziendale, e sarà interessante vedere come le decisioni interne provvederanno a rimediarvi (il fatto che il nuovo amministratore delegato abbia alle spalle trent’anni di carriera all’interno dell’azienda non sembra, da questo punto di vista, rassicurante).
Tra le reazioni esterne, invece, dovrebbe esservi quella di una cruciale correzione della governance regolatoria europea, che nei suoi metodi attuali appare poco credibile, e forse eccessivamente remissiva nei confronti degli interessi dei costruttori regolati.

*Dopo aver conseguito la laurea in Economics presso l’università di Torino nel 2001, Federico Boffa ha, l’anno seguente, conseguito il Master of Arts in Economics presso la Northwestern University, Evanston, Illinois; nella stessa università, nel 2006, ha conseguito il Ph.D in Economics. Attualmente è professore associato in Applied Economics presso la Libera Università di Bolzano.

**Diego Piacentino ha insegnato scienza delle finanze nelle Università di Urbino, Roma-Sapienza e Macerata. I suoi interessi di studio riguardano l’economia della regolazione e la political economy dell’intervento pubblico.

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Volkswagen taglia investimenti di 1 miliardo. “Occorre riposizionare marchio”
Numeri & News

Dopo il taglio del rating, il marchio della casa di Wolfsburg ha annunciato un'accelerazione del programma di riduzione dei costi

di F. Q. | 13 ottobre 2015


Volkswagen prevede di ridurre gli investimenti annuali di 1 miliardo di euro, su 17 complessivi, per far fronte ai costi legati allo scandalo sulle emissioni truccate dei suoi motori a gasolio. La decisione è stata presa dal consiglio dei manager del marchio Volkswagen, guidato da Herbert Diess, il giorno dopo la revisione al ribasso del rating della casa di Wolfsburg da parte dell’agenzia Standard & Poor’s. La stretta toccherà modelli, tecnologie e impianti di produzione fino al 2019. Il gruppo tedesco ha anche anticipato una nuova strategia sul fronte dello sviluppo del diesel e dei motori elettrici. “Il marchio Volkswagen si sta riposizionando pensando al futuro”, ha detto Diess. Spiegando che tutte queste innovazioni potranno essere realizzate in modo efficace solo se “il nostro programma di efficientamento e la nuova focalizzazione della nostra gamma di prodotti avranno successo”.

Fonti interne hanno riferito al giornale tedesco Handelsblatt che Volkswagen ha intenzione di ridurre di 3 miliardi di euro i pagamenti ai fornitori per mitigare i contraccolpi finanziari dello scandalo, oltre a tagliare le spese per il marketing, le sponsorizzazioni e le retribuzioni, e che anche i marchi Audi, Porsche, Seat e Skoda stanno lavorando a piani simili di razionalizzazione. La scorsa settimana altri fonti avevano riferito a Reuters che la divisione Vw si appresta a chiudere il 2015 in perdita per i costi dello scandalo delle emissioni truccate.

Intanto Stephan Weil, presidente del Landa la Bassa Sassonia che è tra i maggiori azionisti del gruppo, ha criticato davanti al Parlamento locale la gestione dello scandalo da parte dell’azienda, dicendo che “le ammissioni sarebbero dovute arrivare chiaramente molto prima” e questo è stato “un altro grave errore” della casa di Wolfsburg. Le indagini sulle manipolazioni dei test antismog dureranno mesi, ha spiegato.


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Volkswagen smentisce l’Antitrust: “Istruttoria su dati non reali”. Investimenti in Italia confermati
Numeri & News
L'amministratore delegato Nordio ha detto in audizione che l'autorità ha chiesto chiarimenti sulle emissioni di ossido di azoto, quelle truccate con il software truffaldino. Ma nella Penisola le case auto sono tenute a informare solo sulla Co2. Poi ha garantito che le attività italiane non saranno ridimensionate
di F. Q. | 14 ottobre 2015


Volkswagen contro l’Antitrust. Massimo Nordio, amministratore delegato del gruppo tedesco in Italia, riferendo alle commissioni Ambiente e Trasporti del Senato sul diesel gate ha detto che le richieste di chiarimento dell’autorità garante della concorrenza si basano su una “comunicazione non reale di dati di emissioni“. L’authority il 2 ottobre ha aperto un’istruttoria per verificare se la casa di Wolfsburg abbia messo in atto pratiche commerciali scorrette vendendo macchine che inquinano più di quanto dichiarato. Cosa che avrebbe potuto indurre in errore i consumatori. Ma Nordio fa notare che le emissioni di ossido di azoto (Nox), quelle risultate fuori norma e finite nel mirino dell’autorità americana per la protezione dell’ambiente, “non sono assolutamente utilizzate nella comunicazione nei confronti dei nostri clienti”. Perché non fanno parte delle informazioni che le case auto devono dare in Italia, che invece riguardano la C02. Insomma, secondo il manager l’Antitrust, che si è mossa in seguito alle segnalazioni ricevute da parte di alcune associazioni di consumatori, ha preso un granchio.

Nordio ha poi riferito che i veicoli “sospesi in via precauzionale” dalla rete di vendita in Italia sono 1.300, tutti con motori diesel euro 5, mentre le auto coinvolte che circolano nella Penisola “sono circa 640.000”, anche se il viceministro ai Trasporti Riccardo Nencini aveva parlato di circa 1 milione. Secondo il manager l’effetto sulle vendite per ora è “modesto”. “Non stiamo riscontrando cali da definire preoccupanti”, ha detto. “Il marchio Volkswagen è quello che sta avendo più impatto” anche per una certa “influenza” mediatica. Ma il contraccolpo, ha ammesso, ”sarà molto influenzato dalla velocità con la quale sapremo dare la soluzione. Vedremo nei prossimi mesi le contromisure necessarie per un impatto che sia il minore possibile e per proteggere dal contraccolpo l’azienda e le concessionarie”. Quanto alla “riduzione della valutazione delle auto”, “è un tema che si risolve con l’intervento che noi faremo richiamando le automobili coinvolte e trattandole in maniera tale che il problema del software sia eliminato”.

Quanto all’impatto sulle attività nella Penisola, dove il gruppo controlla Lamborghini e Ducati, Nordio ha affermato che “Volkswagen conferma tutti gli investimenti in Italia”. Il presidente di Audi Rupert Stadler ha inviato una lettera al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e ai ministri dell’Economia e dello Sviluppo economico, Pier Carlo Padoan e Federica Guidi, confermando che “il piano previsto di investimenti in Italia del gruppo è confermato totalmente, questo a fronte di notizie su ridimensionamenti che non toccheranno l’Italia“.

Sempre mercoledì il gruppo ha smentito la notizia, riportata dall’edizione online dello Spiegel, che i manager coinvolti nello scandalo siano più di 30, un numero assai più alto rispetto a quanto finora sostenuto dalla casa tedesca.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/10 ... i/2128484/
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Re: scandalo dieselgate

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DIESELGATE
Verona, perquisizioni alla Volkswagen
Indagati alcuni manager dell’azienda

Operazione della Guardia di Finanza nella sede veronese. Controlli anche alla Lamborghini di Bologna

VERONA La Guardia di Finanza sta eseguendo una serie di perquisizioni nella sede della Volkswagen Group a Verona. Le perquisizioni sarebbero state disposte dalla procura di Verona che ipotizza il reato di frode in commercio e truffa. Ci sono già alcuni nomi nel registro degli indagati della procura di Verona che ha aperto un fascicolo sulla Volkswagen Italia e ha disposto una serie di perquisizioni. Ad essere indagati, secondo quanto si apprende, sarebbero alcune figure apicali del management.

Perquisizioni anche nella sede della Lamborghini a Bologna. Le perquisizioni, secondo quanto si apprende, sono state disposte dalla procura di Verona che ha aperto un fascicolo su Volkswagen Italia in quanto Lamborghini fa parte del gruppo della casa automobilistica tedesca.

«È stata accolta in pieno la nostra istanza», afferma il Codacons. «Solo pochi giorni fa avevamo chiesto di disporre perquisizioni a tappeto nelle sedi italiane di Volkswagen e presso le abitazioni private di dipendenti e manager, allo scopo di acquisire documentazione circa lo scandalo delle emissioni falsificate, al pari di quanto disposto dalla magistratura tedesca. La nostra ipotesi - spiega l’associazione - era proprio quella di una possibile frode in commercio a danno dei consumatori, per la quale ci siamo rivolti alla magistratura e all’Antitrust». «Se dalle indagini della Procura di Verona dovessero emergere illeciti, si rafforzerebbe ancor di più la class action avviata dal Codacons dinanzi al Tribunale di Venezia, che al momento registra la pre-adesione di oltre 12.000 automobilisti», conclude il presidente Carlo Rienzi.
15 ottobre 2015
© RIPRODUZIONE RISERVATA


http://corrieredelveneto.corriere.it/ve ... 9939.shtml
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Re: scandalo dieselgate

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NON SOLO DIESELGATE

Da Patate e crauti a Speghetti e mandolino



17 ott 2015 14:09
1.RICORDATE I MONDIALI DI CALCIO DEL 2006 VINTI, CON MERITO, DALL’ITALIA? NON SI DOVEVANO TENERE IN GERMANIA

http://www.dagospia.com/rubrica-3/polit ... 110831.htm


Ps.
Franz Beckenbauer è quel vecchio signore a fianco del Kaiser Merkel???
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Re: scandalo dieselgate

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Volkswagen, grandi azionisti verso causa da 40 miliardi al gruppo. Che ora vuole tagliare 6mila contratti a termine
Economia

Una società specializzata in class action si è rivolta allo studio legale Quinn Emanuel per intentare un'azione legale su larga scala. Coinvolgendo anche i fondi sovrani di Qatar e Norvegia. L'avvocato: "Calcoleremo i danni dal 2009, quando hanno iniziato a usare il software truffaldino". Intanto i sindacati annunciano battaglia contro il licenziamento dei precari
di F. Q. | 18 ottobre 2015


Non solo le multe e le class action dei consumatori. Dopo il diesel gate. Volkswagen va incontro anche a una causa da 40 miliardi di euro dei suoi grandi azionisti, inclusi i fondi sovrani di Qatar e Norvegia. A rivelarlo è il Sunday Telegraph, secondo cui la società specializzata in class action Hagens Berman si è rivolta allo studio legale Quinn Emanuel (noto per aver fatto riconoscere ai propri clienti risarcimenti per un totale di quasi 50 miliardi di euro in procedimenti legali contro grandi aziende) per intentare un’azione legale su larga scala a favore dei maggiori investitori del gruppo automobilistico tedesco. Pesantemente danneggiati dal crollo del valore del titolo, visto che in seguito allo scoppio dello scandalo sul software che trucca le emissioni di inquinanti Volkswagen ha lasciato sul terreno oltre 25 miliardi di capitalizzazione. L’azione legale sarà avviata in Germania e lo studio intende sostenere che aver omesso di rivelare l’utilizzo del software truffaldino nei motori ha costituito “grave negligenza da parte del management”. L’obiettivo è coinvolgere gli investitori istituzionali, a partire appunto dai fondi sovrani: quello del Qatar ha il 17% del gruppo, quello della Norvegia il 2%. Seguono Suzuki, Axa e Blackrock.

Secondo Richard East, co-managing partner di Quinn Emanuel, “le perdite per gli azionisti causate dal fatto che Volkswagen non ha dato informazioni rilevanti al mercato possono ammontare a 40 miliardi di euro e suscitano domande sulla fondamentale disonestà” dell’azienda. Il cui ex amministratore delegato Martin Winterkorn solo sabato ha lasciato anche le redini di Porsche, holding controllata dalle famiglie Porsche e Piech che ha in mano il 52% delle azioni con diritto di voto di Volkswagen. Il suo posto sarà preso dal presidente di Volkswagen, Dieter Poetsch. East ha aggiunto che i danni potrebbero essere calcolati a partire dal 2009, quando VW ha iniziato a montare i dispositivi sui suoi motori Euro 5.

La tegola delle cause legali degli azionisti non è del resto del tutto inattesa: negli Stati Uniti, dove la truffa è stata scoperta, la prima causa contro la casa di Wolfsburg è stata intentata da un fondo pensione del Michigan che ha deciso di rappresentare in giudizio gli investitori che si ritengono danneggiati dal calo del prezzo delle azioni. Il conto finale per il gruppo, tra sanzioni e risarcimenti, può arrivare secondo il presidente dell’istituto tedesco per la ricerca economica a 100 miliardi di euro. E sabato si è saputo che per correre ai ripari, oltre a tagliare gli investimenti, Volkswagen sta valutando di tagliare i suoi circa 6mila lavoratori a tempo determinato: lo ha annunciato un portavoce del comitato aziendale della casa automobilistica, aggiungendo che sosterrà gli sforzi per garantire i posti di lavoro a tempo determinato ma che è consapevole che il board della compagnia sta discutendo “diversi scenari”. Il sindacato dei metalmeccanici, Ig Metall, ha annunciato di essere pronto a dare battaglia contro eventuali piani di taglio dei costi a carico dei lavoratori di Volkswagen. “I lavoratori non hanno alcuna responsabilità nello scandalo” e “il sindacato farà tutto il possibile per garantire che gli impiegati non debbano pagare per i danni provocati dai manager”, ha detto in un’intervista alla Bild am Sonntag l’esponente sindacale Joerg Hofmann.

Nel frattempo, mentre in Italia la casa tedesca continua a comprare pagine sui giornali per scusarsi con i clienti spiegando che “non si fermerà fino a quando non avrà riconquistato pienamente la fiducia” dei clienti, lo scandalo continua ad allargarsi. Tre fonti hanno riferito a Reuters che il software utilizzato per manipolare i test sulle emissioni era disponibile in diverse versioni e, nei sette anni in cui la casa automobilistica ha ammesso di avere truccato i test, è stato usato in quattro tipi di motori. Tra le fonti ci sono un manager di Volkswagen e un funzionario Usa vicino a un’indagine sulla società. I portavoce di Vw per Europa e Usa si sono rifiutati di commentare.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/10 ... o/2137940/
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