referendum costituzionale 2016 -SE VINCE IL NO

E' il luogo della libera circolazione delle idee "a ruota libera"
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camillobenso
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Re: referendum costituzionale 2016 -SE VINCE IL NO

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2 MAG 2016 18:27
MAGNA MAGNA CON LA TRILATERAL! - LUIGI DI MAIO A PRANZO CON IL PRESIDENTE E IL SEGRETARIO DELL'ORGANIZZAZIONE (E MONTI) E I GRILLINI VANNO IN TILT: MA COME? NON ERA UNA LOGGIA DEDITA A SCHIACCIARE I CITTADINI E FAVORIRE I POTERI FORTI? - E FICO SI ARRAMPICA SUGLI SPECCHI
Di Maio ha incontrato i vertici dell'Ispi, che coincidentalmente sono anche i leader italiani della Trilateral. Che con Bilderberg è considerato dai grillini (spesso non a torto) una para-massoneria che difende gli interessi dei più forti - Quando la Boschi ha parlato alla riun
ione romana, è stata sommersa di critiche grilline...


1. LUIGI DI MAIO, L’ISPI, LA TRILATERAL E IL BOOMERANG DEL COMPLOTTISMO A 5 STELLE
Michele Arnese per www.formiche.net

http://www.dagospia.com/rubrica-3/polit ... 123876.htm
camillobenso
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Re: referendum costituzionale 2016 -SE VINCE IL NO

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m5s



POLITICA
Luigi Di Maio, il M5s e le logiche del potere
di Stefano Feltri | 3 maggio 2016
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Stefano Feltri
Vicedirettore de Il Fatto Quotidiano


Twitter
Luigi Di Maio ha l’ambizione di fare il premier, più che legittima visto che guida il secondo (o primo?) partito italiano. Però anche il resto del Movimento Cinque Stelle deve decidere se vuole davvero governare il Paese o rimanere prigioniero di alcune ingenuità che si possono accettare da una formazione improvvisata, di novizi della politica. Non da un partito che può arrivare al governo.

dI MAIO 675

La vicenda del pranzo di Di Maio all’Ispi, l’istituto studi per la politica internazionale, è interessante in questo senso. Di Maio sta facendo lo stesso tour di presentazione che toccò a Renzi qualche anno fa (andò perfino da Angela Merkel, da sindaco di Firenze, ricordate?). E’ normale e fisiologico: tutti i soggetti, soprattutto stranieri, che devono avere rapporti con l’Italia vogliono capire se hanno davanti un’altra Marine Le Pen oppure un altro Jeremy Corbin o magari qualcosa di nuovo, un leader che sa usare le tecniche del populismo per conquistare il potere ma che non è esposto al rischio di derive estremiste. Anzi, che magari può incanalare quel disagio che in altri Paesi alimenta movimenti anti-democratici.

Ambasciate, think tank, network transatlantici di ogni genere, salotti tra politica e affari: tutti cercano di capire quanto possono fidarsi di Di Maio. Non per controllarlo o manipolarlo, ma per sapere (e riferire ai propri interlocutori) chi hanno davanti. Il pranzo di Di Maio all’Ispi si inserisce in questa logica. Niente di male, anzi, utile a tutti: agli interlocutori di Di Maio a farsi un’idea di lui, all’aspirante premier a sondare che tipo di accoglienza possono avere le sue proposte, a raccogliere spunti, a sviluppare il linguaggio e lo stile adatto ad affrontare le situazioni che sono la norma per un capo di governo.

All’Ispi il 22 aprile c’erano alcuni degli stessi protagonisti della riunione romana della Trilateral Commission la settimana prima: Carlo Secchi, che della Trilateral è il presidente italiano, Paolo Magri, direttore della Trilateral in Italia, Mario Monti, presiedente onorario della Trilateral europea, i vertici di aziende che finanziano la Trilateral (come Intesa San Paolo), il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana. Cioè le stesse persone che hanno animato l’assemblea plenaria della Trilateral a Roma, tra il 14 e il 16 aprile. Uno scandalo? Assolutamente no. L’Ispi è il migliore think tank italiano – io ho frequentato a lungo i suoi corsi, molti degli articoli dei ricercatori Ispi appaiono anche sulle pagine del Fatto Quotidiano, lì lavorano o collaborano accademici e ricercatori brillanti, anche giovani – e Di Maio ha fatto benissimo ad andarci.

Il punto è un altro: il Movimento Cinque Stelle ha montato una campagna per solleticare la propria base (o almeno la sua parte più ingenua) con una campagna contro la partecipazione dei ministri Maria Elena Boschi e Paolo Gentiloni alla riunione della Trilateral a Roma. Evento così segreto e inquietanti che i presidenti della Trilateral hanno fatto pure una conferenza stampa, i membri più autorevoli hanno fatto interviste con i giornali italiani, il programma era pubblico e così via. Ma a un pezzo del mondo grillino piace agitare il mito del complotto giudo-pluto-massonico.

Perfino il collega di direttorio di Di Maio, Roberto Fico, si è esposto addirittura dal blog di Beppe Grillo: “Il ministro Boschi convocato alla riunione dei potenti non è che il simbolo di un Governo senza autonomia, una misera pedina al servizio di interessi altri, non della volontà popolare”. Poi, dopo che è uscita la notizia del pranzo di Di Maio in Ispi, Fico ha aggiunto: “Luigi non è andato dalla commissione trilaterale è andato a parlare di immigrazione, di politiche migratorie in un istituto, l’Ispi. Non erano segreti né il pranzo né il contenuto”.

Fico dimostra così di perseverare nell’ossessione complottista. Allora proviamo a spiegargli: alla Trilateral la Boschi è andata a fare esattamente le stesse cose che Di Maio ha fatto all’Ispi. Esporre le proprie idee, raccontare cosa sta facendo e cosa vuole fare, ascoltare domande (che, in un ambiente dove la riservatezza è garantita, possono essere franche e pretendere risposte altrettanto franche) e replicare. Non c’è differenza alcuna. Funziona così dappertutto: regola Chatham House, cioè non si attribuiscono le informazioni raccolte, e scambio di idee molto diretto, per risultare utile, con la garanzia che qualche battuta o analisi puntuta non finisca virgolettata sui giornali.

Di Maio ha capito come funziona, sta imparando le regole. E come lui Virginia Raggi, la candidata sindaco di Roma. O forse Fico pensa che gli articoli positivi di Financial Times e Guardian nascano dal nulla? Bisogna seminare per raccogliere, spiegare, possibilmente in inglese. Non significa vendersi alle lobby, asservirsi a qualche cupola internazionale o rinunciare alla propria purezza. Questa piccola vicenda è utile perché ha dimostrato che continua la coesistenza di due anime nel partito fondato da Beppe Grillo. Una è pronta a governare, l’altra continua a confinarsi in quella (ridicola ma rassicurante) oasi di appassionati di scie chimiche, microchip e semplificazioni. Anche Beppe Grillo una volta prendeva a martellate i computer, poi ha iniziato a usarli e ha creato un fenomeno politico. Fico – con un pezzo non piccolo di M5S – è ancora fermo al martello.

di Stefano Feltri | 3 maggio 2016
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Luigi Di Maio, il M5s e le logiche del potere
di Stefano Feltri | 3 maggio 2016
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Luigi Di Maio ha l’ambizione di fare il premier, più che legittima visto che guida il secondo (o primo?) partito italiano. Però anche il resto del Movimento Cinque Stelle deve decidere se vuole davvero governare il Paese o rimanere prigioniero di alcune ingenuità che si possono accettare da una formazione improvvisata, di novizi della politica. Non da un partito che può arrivare al governo.

dI MAIO 675

La vicenda del pranzo di Di Maio all’Ispi, l’istituto studi per la politica internazionale, è interessante in questo senso. Di Maio sta facendo lo stesso tour di presentazione che toccò a Renzi qualche anno fa (andò perfino da Angela Merkel, da sindaco di Firenze, ricordate?). E’ normale e fisiologico: tutti i soggetti, soprattutto stranieri, che devono avere rapporti con l’Italia vogliono capire se hanno davanti un’altra Marine Le Pen oppure un altro Jeremy Corbin o magari qualcosa di nuovo, un leader che sa usare le tecniche del populismo per conquistare il potere ma che non è esposto al rischio di derive estremiste. Anzi, che magari può incanalare quel disagio che in altri Paesi alimenta movimenti anti-democratici.

Ambasciate, think tank, network transatlantici di ogni genere, salotti tra politica e affari: tutti cercano di capire quanto possono fidarsi di Di Maio. Non per controllarlo o manipolarlo, ma per sapere (e riferire ai propri interlocutori) chi hanno davanti. Il pranzo di Di Maio all’Ispi si inserisce in questa logica. Niente di male, anzi, utile a tutti: agli interlocutori di Di Maio a farsi un’idea di lui, all’aspirante premier a sondare che tipo di accoglienza possono avere le sue proposte, a raccogliere spunti, a sviluppare il linguaggio e lo stile adatto ad affrontare le situazioni che sono la norma per un capo di governo.

All’Ispi il 22 aprile c’erano alcuni degli stessi protagonisti della riunione romana della Trilateral Commission la settimana prima: Carlo Secchi, che della Trilateral è il presidente italiano, Paolo Magri, direttore della Trilateral in Italia, Mario Monti, presiedente onorario della Trilateral europea, i vertici di aziende che finanziano la Trilateral (come Intesa San Paolo), il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana. Cioè le stesse persone che hanno animato l’assemblea plenaria della Trilateral a Roma, tra il 14 e il 16 aprile. Uno scandalo? Assolutamente no. L’Ispi è il migliore think tank italiano – io ho frequentato a lungo i suoi corsi, molti degli articoli dei ricercatori Ispi appaiono anche sulle pagine del Fatto Quotidiano, lì lavorano o collaborano accademici e ricercatori brillanti, anche giovani – e Di Maio ha fatto benissimo ad andarci.

Il punto è un altro: il Movimento Cinque Stelle ha montato una campagna per solleticare la propria base (o almeno la sua parte più ingenua) con una campagna contro la partecipazione dei ministri Maria Elena Boschi e Paolo Gentiloni alla riunione della Trilateral a Roma. Evento così segreto e inquietanti che i presidenti della Trilateral hanno fatto pure una conferenza stampa, i membri più autorevoli hanno fatto interviste con i giornali italiani, il programma era pubblico e così via. Ma a un pezzo del mondo grillino piace agitare il mito del complotto giudo-pluto-massonico.

Perfino il collega di direttorio di Di Maio, Roberto Fico, si è esposto addirittura dal blog di Beppe Grillo: “Il ministro Boschi convocato alla riunione dei potenti non è che il simbolo di un Governo senza autonomia, una misera pedina al servizio di interessi altri, non della volontà popolare”. Poi, dopo che è uscita la notizia del pranzo di Di Maio in Ispi, Fico ha aggiunto: “Luigi non è andato dalla commissione trilaterale è andato a parlare di immigrazione, di politiche migratorie in un istituto, l’Ispi. Non erano segreti né il pranzo né il contenuto”.

Fico dimostra così di perseverare nell’ossessione complottista. Allora proviamo a spiegargli: alla Trilateral la Boschi è andata a fare esattamente le stesse cose che Di Maio ha fatto all’Ispi. Esporre le proprie idee, raccontare cosa sta facendo e cosa vuole fare, ascoltare domande (che, in un ambiente dove la riservatezza è garantita, possono essere franche e pretendere risposte altrettanto franche) e replicare. Non c’è differenza alcuna. Funziona così dappertutto: regola Chatham House, cioè non si attribuiscono le informazioni raccolte, e scambio di idee molto diretto, per risultare utile, con la garanzia che qualche battuta o analisi puntuta non finisca virgolettata sui giornali.

Di Maio ha capito come funziona, sta imparando le regole. E come lui Virginia Raggi, la candidata sindaco di Roma. O forse Fico pensa che gli articoli positivi di Financial Times e Guardian nascano dal nulla? Bisogna seminare per raccogliere, spiegare, possibilmente in inglese. Non significa vendersi alle lobby, asservirsi a qualche cupola internazionale o rinunciare alla propria purezza. Questa piccola vicenda è utile perché ha dimostrato che continua la coesistenza di due anime nel partito fondato da Beppe Grillo. Una è pronta a governare, l’altra continua a confinarsi in quella (ridicola ma rassicurante) oasi di appassionati di scie chimiche, microchip e semplificazioni. Anche Beppe Grillo una volta prendeva a martellate i computer, poi ha iniziato a usarli e ha creato un fenomeno politico. Fico – con un pezzo non piccolo di M5S – è ancora fermo al martello.

di Stefano Feltri | 3 maggio 2016
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Re: referendum costituzionale 2016 -SE VINCE IL NO

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L'INTERVENTO
Referendum costituzionale: "Perché non dobbiamo seguire Renzi nelle polemiche"

«Tra Italicum e plebiscito Renzi vuole un potere ancor più illimitato», scrive il professore. E il “no” alla riforma deve dunque restare nel merito della crisi democratica, visto che «già ora non esiste più un controllo di partito, il parlamento è sfibrato e delegittimato, non si avverte una stampa libera e plurale»
DI MICHELE PROSPERO
31 maggio 2016



Referendum costituzionale: Perché non dobbiamo seguire Renzi nelle polemiche
Se il governo riesce a far passare l’idea secondo cui con il referendum non sono in gioco grandi nodi di democrazia, allora a ottobre avrà facilmente partita vinta. Rinunciando a mobilitare l’opinione pubblica attorno al (fondato) pericolo di una restrizione della rappresentanza e degli equilibri sistemici di garanzia, il fronte del no rimarrebbe infatti privo della sua carta principale. Perché non è dei toni della comunicazione, ciò di cui si deve discutere: è la tenuta della carta, come valore essenziale della Repubblica, il tema vero della contesa.

Invece ottenendo di espellere dall’agenda lo spettro del rischio del dispotismo di minoranza , il governo intasca una carta pesante e costringe i sostenitori del no a cimentarsi su questioni tecniche poco rilevanti. La malattia mortale delle riforme è l’Italicum e vano sarebbe limitarsi, come vuole il governo, a parlare solo di dettagli relativi all’organizzazione del Senato, lasciando così fuori dal confronto pubblico il nodo più grande del contendere.
Una questione democratica è infatti aperta ab origine, da quando il governo ha monopolizzato il lavoro per le riforme come affare di partito. Renzi dichiara esplicitamente di aver avuto il mandato dal Quirinale: ma può il Capo dello Stato conferire un incarico di parte per le riforme, appaltando così la Carta al governo? Il pericolo per la democrazia non è dunque consegnato in un indistinto futuro, ma è percepibile già ora una temibile regressione della cultura delle regole.

La Costituzione appare come una Carta deprivata di ogni normatività, ridotta a volontà di potenza che erode il sistema delle garanzie. Non a caso Renzi fa prove muscolari, respinge il dialogo e poi si gioca il suo destino personale, la sua leadership, con il referendum. Con questa esasperazione, la Costituzione stessa diventa oggetto di competizione. E per il premier è il terreno perfetto. La Costituzione smarrisce ogni normatività e si scioglie nel processo politico. Ma se il governo impone le riforme e il referendum diventa l’occasione per legittimare il titolare del potere, cade già il senso minimo delle istituzioni in uno Stato costituzionale di diritto.

Spinose questioni di democrazia sono dunque già aperte. E se chi è contrario alle decisioni del governo è assimilato ai fascisti del terzo millennio, il potere compie una operazione tipica delle mentalità autoritarie: delegittimare l’altro, negare cittadinanza al diverso, che diventa il radicale nemico, la forza estranea che sta fuori dalla norma. E la norma non è la Carta, ma ciò che il potere ritiene utile ai propri disegni. Quando si dice che a Renzi non ci sono alternative, si completa un cortocircuito molto preoccupante. Una democrazia senza alternative non è più tale. Ma nel tombale silenzio dei custodi, nell’afonia dei presidenti delle camere, l’inquilino di palazzo Chigi può permettersi di affermare: «I parlamentari della Lega e M5s li capisco, rischiano il posto. Sono terrorizzati dalla idea mistica di tornare a lavorare».

In un sistema di pesi e contrappesi, con meccanismi di controllo e argini operanti, queste parole verrebbero stigmatizzate come attentati all’autorevolezza, alla dignità delle istituzioni repubblicane. E invece tutto il populismo di governo viene tollerato quando aggredisce le prerogative di istituzioni essenziali della Repubblica. Senza ricevere alcun richiamo formale, Renzi presenta i candidati delle liste d’opposizione alla stregua di «chi firma un contratto della Casaleggio, come fosse un co.co.pro». E come fa il presidente del Consiglio a garantire la normalità della competizione elettorale se l’opposizione viene delegittimata, e addirittura, come soggetto non libero, viene raffigurato chiunque la voti?

Ma in una democrazia già minore, nessuno osa difendere gli organi della Repubblica e Renzi - che nessuno ha mai eletto in cariche di rappresentanza - si può proporre come il vero rappresentante degli umori del popolo, mentre i deputati d’opposizione, che sono stati regolarmente eletti, non sono ritenuti rappresentativi del vero animo della gente. Anzi. Sono soltanto delle inutili figure incollate alle poltrone e operano contro gli autentici impulsi popolari.

Questa sottrazione di rappresentanza a chi svolge la funzione di opposizione è di una estrema pericolosità. Renzi attacca il decoro delle funzioni pubbliche e quindi mina alla radice la dignità delle istituzioni differenziate. A nessuno sfugge che con l’Italicum e il plebiscito d’autunno Renzi tende ad assumere un potere ancor più illimitato. Già ora non esiste un controllo di partito, il parlamento è sfibrato da operazioni di quotidiano trasformismo e delegittimato, non si percepisce la sorveglianza degli organi di garanzia, non si avverte una stampa libera e plurale.

Il “no”, in questo quadro, nel merito, è un estremo tentativo di proteggere la normatività della Carta, la rigidità della Costituzione. La difesa della democrazia dagli appetiti del governo personale sregolato, è la vera posta in gioco del referendum. Democrazia o forme postmoderne di autocrazia: torna d’attualità il dilemma di Kelsen.

http://espresso.repubblica.it/palazzo/2 ... =HEF_RULLO
camillobenso
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Re: referendum costituzionale 2016 -SE VINCE IL NO

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S.M.S. per iospero

Silvietto tenta di dare una risposta al tuo quesito: referendum costituzionale 2016 -SE VINCE IL NO



"Il piano per il dopo Renzi"
"Dopo il referendum Renzi a casa, poi un governo d'emergenza anche con il Pd per cambiare la legge elettorale"

di Chiara Sarra
46 minuti fa

Silvio Berlusconi: "Se vince il no pronti a un governo di unità nazionale"

Il Cavaliere: "FI non è solo disponibile ma è necessario che lo faccia". E sulla leadership del centrodestra: "Non sarò premier, ma solo federatore"


Chiara Sarra - Gio, 02/06/2016 - 13:08
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Cosa succede se a ottobre vincerà il "no" al referendum sulle riforme costituzionali?


Se Renzi dovesse - come promesso - lasciare, dovrebbe nascere secondo Silvio Berlusconi un governo di unità nazionale.


Si tratterebbe, nelle intenzioni del leader di Forza Italia, di un governo d'emergenza sostenuto da un Parlamento che modifichi di nuovo - e in meglio - l'Italicum. "Forza Italia è disponibile" a votare anche col Pd, ha detto Berlusconi a L'Aria che Tira: "Forza Italia non è solo disponibile ma è necessario che lo faccia", spiega il Cavaliere.

Per quanto riguarda il futuro del centrodestra, invece, la strada è una sola: "Il centrodestra ha una sola possibilità di vincere le elezioni: farlo al primo turno superando il 40%". E le polemiche con Giorgia Meloni e Matteo Salvini? "Solo chiacchiere elettorali", assicura, "Tutti sanno che c’è una probabilità di vincere solo se stiamo tutti insieme, altrimenti è sconfitta sicura. Salvini quando sta con me è ragionevole, c’è cordialità e non c’è alcun timore per i nostri rapporti futuri. In Italia ormai ci sono 3 poli. Il centrodestra non può pensare di vincere al ballottaggio, perché se andasse al ballottaggio contro M5S gli elettori del Pd voterebbero per questi, mentre se andasse al ballottaggio con il Pd tutti gli elettori di di M5S voterebbero per il Pd".

In un'ipotetica coalizione di centrodestra, comunque, il leader non sarebbe Berlusconi. "Io sono stato dichiarato incandidabile per 6 anni e non ho alcuna intenzione di propormi come candidato premier", ha detto, "Berlusconi non è un problema, vuole solo tenere insieme tutti, Berlusconi è il federatore".

Poi, parlando della sua situazione sentimentale, ha aggiunto: Se ho intenzione di sposarmi presto? No, assolutamente no"
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Re: referendum costituzionale 2016 -SE VINCE IL NO

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Referendum, tutti contro Renzi: se perde, dovrà andarsene

Scritto il 21/3/16 • nella Categoria: idee


Questo articolo potrebbe ridursi a pochissime parole: Renzi ha la maggioranza relativa dei simpatizzanti, ma la maggioranza assoluta degli odiatori. Non c’è dubbio che, fra i politici attualmente in corsa, Renzi sia quello che conta il maggior numero di simpatizzanti, magari non più il mitico 41% delle europee di due anni fa, ma, comunque, è al di là del 30%, un livello che non raggiunge nessun altro esponente politico attuale. Però è anche molto odiato da tutti gli altri. Dai sostenitori del M5s a quelli della Lega, da quelli di Sel e Rifondazione a quelli di Forza Italia e raccoglie una nutrita schiera di antipatizzanti anche nell’area di chi non vota. Detto così potrebbe essere un’ affermazione ovvia: ogni uomo politico raccoglie il maggior numero dei suoi simpatizzanti fra gli elettori del suo partito, mentre ha più numerosi antipatizzanti fra quelli che votano per gli altri partiti. Ma non si tratta di questo: Renzi è un caso particolare, come lo fu Berlusconi (quando ancora era vivo). Il fiorentino non suscita solo ovvi dissensi, freddezza o semplici antipatie come qualsiasi altro politico, lui accende ostilità feroci.Fra gli elettori di altri partiti, uno come Veltroni, Bersani, Franceschini può attirare antipatie, ma anche molta indifferenza, freddezza, forse anche una vaga commiserazione, mentre Renzi non risulta mai indifferente: è detestato. Neppure D’Alema è mai riuscito a riscuotere tanta avversione. A rendere il fiorentino tanto inviso sono la sua arroganza, rozzezza, maleducazione, la sua incapacità di trattare in modo civile con chi non è un suo fan, la cialtroneria nel vantare successi inesistenti o non suoi, lo stile da telepromozioni commerciali dei suoi discorsi, la sua andatura pavoneggiante, ma, più di tutto, il suo sfrenato narcisismo. Renzi si sente bravo, è convinto di essere meglio di Napoleone, Cavour e De Gaulle messi insieme. E questo può costargli molto. In qualche modo è quello che spiega la “maledizione del secondo turno” per il il Pd: di solito, vince quando vince al primo turno, mentre al secondo spesso perde anche con avversari che partono da 20 o 25 punti in meno.Il segreto è questo: gli elettori della sinistra preferiscono astenersi o votare M5s piuttosto che votare Pd. Gli elettori della destra preferiscono il M5s o l’astensione ma non votano mai per il Pd. Quello del M5s preferiscono l’astensione, più raramente la destra e quasi mai il Pd. Al secondo turno l’elettorato dei partiti che non sono arrivati al ballottaggio non votano per qualcuno, ma contro l’altro, quello più odiato. Ed il Pd, con l’immagine di Renzi è il più odiato. La cosa divertente è che il doppio turno è sempre stato il sistema preferito ad Pci-Pds-Pd sino all’Italicum. Dicevamo che questo può costare molto a Renzi e c’è già un’occasione in cui verificarlo: il referendum di ottobre sulla riforma istituzionale. Sul merito del referendum scriveremo ad hoc, qui ci limitiamo ad affermate che Renzi parte in forte vantaggio: stante il tasso di spoliticizzazione della gente, il sentire comune degli elettori è dalla parte sua perché la gente capisce solo che Renzi vuol tagliare le spese per la politica ed, in qualche modo, dare un ceffone alla casta e questo suscita simpatie.Stare a spiegare il progetto autoritario che c’è dietro per il combinato disposto con l’infame legge elettorale (la Boschi-Acerbo) è cosa complicata e da specialisti, per cui affrontare il referendum su quel fianco (come propongono gli ottuagenari costituzionalisti della sinistra) significa perderlo con sicurezza. E sai che novità: l’unica cosa che la sinistra sa fare con stile e competenza è perdere. Dunque, per il presidente del Consiglio potrebbe essere una partita di tutto riposo, da affrontare in scioltezza, ma il “fiorentino spirito buzzurro” ha vellicato il suo imbattibile narcisismo suggerendogli di trasformare il referendum in un plebiscito sulla sua augusta persona, in modo che la vittoria lo incoroni Re d’Italia a vita. Dopo pochi mesi andremmo a votare e, con un successo referendario alle spalle, per lui sarebbe un gioco da ragazzi: la destra sarebbe impreparata (e temo lo sarebbe anche il M5s che sarebbe comunque dalla parte degli sconfitti ai referendum anche lui), nel partito nessuno oserebbe fare un bliz e lui potrebbe massacrare la sinistra uomo per uomo (e questo sarebbe l’unico dato positivo) e poi andare a vincere le elezioni in tutta tranquillità. Per di più, se si votasse nel 2017 si scanserebbe anche il giudizio della Corte Costituzionale sull’Italicum.Il punto è che fare il referendum non sulla riforma ma su Renzi è, per il valente statista, l’unico modo serio di rischiare di perdere. La sua sfida va raccolta e nel referendum bisogna parlare poco del merito della riforma e molto dei disastri combinati da questo governo, delle sue mirabolanti promesse e dei sui desolanti risultati, delle figuracce internazionali, ecc. Ai giovano precari ed ai lavoratori bisogna parlare del job act, agli insegnanti ed agli studenti della legge sulla buona scuola, ai risparmiatori ed ai piccoli azionisti delle banche degli scandali bancari e delle strane riforme sulle popolari e le Bcc, e così via. Poi gli eruditi giuristi della sinistra intrattengano pure le signore bene, all’ora del the, con le loro dotte disquisizioni: va bene, servono anche quei quattro voti. Dobbiamo accontentalo: Renzi deve essere il centro della campagna referendaria. Slogan centrale: “Renzi ha detto che se perde se ne va: un’occasione da non perdere!”.
(Aldo Giannuli, “Il referendum di ottobre: il punto debole di Renzi”, dal blog di Giannuli del 14 marzo 2016).
camillobenso
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Re: referendum costituzionale 2016 -SE VINCE IL NO

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Referendum riforme – Cronache marziane
di Marco Travaglio | 3 giugno 2016
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Ogni tanto il marziano Kunt, quello di Ennio Flaiano, riatterra a Roma, dà un’occhiata ai giornali (è un uomo all’antica, un po’ come noi) e scuote il testone sconsolato, sentendosi sempre più marziano.

Ieri, per esempio, non riusciva a staccare gli occhi da Repubblica.

In prima pagina, esordiva come editorialista Michele Ainis, giurista brillante, di quelli che si fanno sempre leggere e che fino all’altroieri scriveva sull’Espresso (continuerà) e sul Corriere (non più).

Solo che – notava Kunt, sempre molto informato – Ainis è anche commissario dell’autorità Antitrust. E il gruppo editoriale Repubblica-Espresso, a marzo, ha incorporato l’Itedi (Fiat- Chrysler) che pubblica Stampa e Il Secolo XIX.

Una fusione che assomma tre quotidiani nazionali, vari locali e un settimanale, che occupano il 23% del mercato (contro il 20% massimo fissato per legge).

Infatti si attende il sì o il no dell’Antitrust.

Dove siede Ainis, editorialista (si spera, retribuito) del gruppo che deve controllare. Bel conflitto d’interessi.

E quale autorità si occupa dei conflitti d’interessi? Ma l’Antitrust, naturalmente.

Sempre su Repubblica, Kunt è rimasto abbacinato dal titolo di prima pagina: “Sfida sul referendum, la lista dei 250 per il Sì.

Mattarella: più unità”.

A parte la terza frase del titolo, che non c’entra nulla con le prime due, il marziano ci è rimasto un po’ male: ma come – si è detto – i “professori” non erano una categoria maledetta dal governo, assimilabile ai gufi, ai rosiconi, ai falsi partigiani e ai nazi di CasaPound?

Beata ingenuità: questo vale per i professori del No, cioè per i costituzionalisti che hanno letto il ddl Boschi, ma soprattutto l’hanno capito e dunque hanno deciso di respingerlo con orrore.

Poi ci sono i professori del Sì, che insegnano tutto lo scibile umano tranne il diritto costituzionale, oppure nessuna materia (c’è persino Federico Moccia): quindi la “riforma” non l’hanno letta, o forse non l’hanno capita, quindi sono perfetti: averne! Kunt, che legge anche il Fatto, è andato a controllare lo spazio riservato da Repubblica a una delle firme del Sì: l’ex presidente della Cassazione Vincenzo Carbone, cioè il magistrato preferito dalla loggia P3 di Verdini, Dell’Utri e Carboni (con la i). “Vedrai – ha detto fra sé e sé, memore delle inchiestone di Repubblica sulla P3 e i poteri occulti– quanti pezzi dedicherà Repubblica a questa bella personcina.


Invece, sorpresa: nemmeno una citazione, nel pezzo sulla lista dei 250 prof buoni. Moccia sì, Carbone no. E pazienza.

Avendo letto sul Fatto che il giudice costituzionale Pd Augusto Barbera è indagato e sta per essere imputato (primo caso nella storia) per i concorsi universitari truccati, Kunt si è ricordato che lo scandalo era stato svelato proprio da Repubblica il 5 ottobre 2013, quando Barbera non era ancora inquisito, ma solo denunciato ai pm dalla Gdf, e soprattutto non era ancora giudice costituzionale.

Paginate gonfie di verbali e vibranti di sdegno, con titoli del tipo: “Denunciati cinque saggi di Letta: ‘Hanno truccato i concorsi’. Sotto inchiesta il gotha dei costituzionalisti”, “La cupola”, “L’ombra di Banco”.

Chissà – ha pensato il marziano – quanto spazio darà Repubblica allo scandalo, ora che l’indagine si è chiusa col deposito degli atti che prelude alla richiesta di giudizio per la “Cupola”!

Invece, sorpresa: nemmeno una riga in due giorni, come del resto su tutti i giornali (tranne il Fatto), i tg e le agenzie di stampa.


Silenzio di tomba.

Allora Kunt s’è chiesto: cos’è cambiato dal 2013 a oggi?

Semplice: Barbera, non più solo denunciato, ma indagato, ora è giudice costituzionale e il Pd spera che dia una mano ad Amato per far pendere la bilancia della Consulta verso il Sì all’Italicum, cioè per ribaltare l’orientamento contrario espresso nel 2014 sul Porcellum, per gli stessi vizi di incostituzionalità ora contenuti nell’Italicum.

A questo punto Kunt s’è tuffato nell’intervista di Ezio Mauro a Roberto Benigni, memore dell’annuncio dell’attore il 3 maggio scorso: “Sarei orientato a votare no al referendum di ottobre sulle riforme costituzionali, per proteggere la nostra meravigliosa Costituzione”.

Invece, sorpresa: 29 giorni dopo Benigni ritratta (“ho dato una risposta frettolosa”) e comunica che voterà Sì: “Col cuore mi viene da scegliere il no, ma con la mente scelgo il sì”.

Una mente piuttosto confusa, visto che a suo dire “la Costituzione farebbero bene ad attuarla, prima di pensare a cambiarla”, il ddl Boschi “è pasticciato” e “scritto male rispetto alla lingua meravigliosa della Costituzione”.

Però la riforma pasticciata e scritta male è “meglio del nulla”: dove il “nulla” è la Costituzione del 1948, scritta meravigliosamente, che sarebbe meglio attuare prima di riformarla.

E votare No sarebbe “conformismo dell’anticonformismo”.

Invece votare Sì è conformismo e basta, quindi gli piace.

Cosa sarà cambiato dal 3 maggio al 2 giugno?, si è domandato il povero Kunt, sempre più disorientato.

Che il 2 giugno, cioè ieri, Rai1 ha trasmesso la replica de La più bella del mondo, il recital di Benigni del 2012 in difesa della Costituzione.

Il rischio era che, rivedendolo, gl’italiani si facessero l’idea che lui stesse difendendo proprio la Costituzione vera, quella del ’48, quella scritta meravigliosamente che andrebbe attuata prima che cambiata.


Invece Benigni, quattro anni fa, prima ancora che fosse scritta e pensata, già intendeva esaltare la Costituzione di Renzi, Boschi & Verdini: quella pasticciata e scritta coi piedi.

Non sappiamo come l’abbia presa Kunt.


Ma ieri, a Roma, c’è chi ha visto un’astronave decollare verso Marte.

di Marco Travaglio | 3 giugno 2016
iospero
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Re: referendum costituzionale 2016 -SE VINCE IL NO

Messaggio da iospero »

camillobenso ha scritto:S.M.S. per iospero

Silvietto tenta di dare una risposta al tuo quesito: referendum costituzionale 2016 -SE VINCE IL NO



"Il piano per il dopo Renzi"
"Dopo il referendum Renzi a casa, poi un governo d'emergenza anche con il Pd per cambiare la legge elettorale"

di Chiara Sarra
46 minuti fa

Silvio Berlusconi: "Se vince il no pronti a un governo di unità nazionale"

Il Cavaliere: "FI non è solo disponibile ma è necessario che lo faccia". E sulla leadership del centrodestra: "Non sarò premier, ma solo federatore"


Chiara Sarra - Gio, 02/06/2016 - 13:08
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Cosa succede se a ottobre vincerà il "no" al referendum sulle riforme costituzionali?


Se Renzi dovesse - come promesso - lasciare, dovrebbe nascere secondo Silvio Berlusconi un governo di unità nazionale.


Si tratterebbe, nelle intenzioni del leader di Forza Italia, di un governo d'emergenza sostenuto da un Parlamento che modifichi di nuovo - e in meglio - l'Italicum. "Forza Italia è disponibile" a votare anche col Pd, ha detto Berlusconi a L'Aria che Tira: "Forza Italia non è solo disponibile ma è necessario che lo faccia", spiega il Cavaliere.

Per quanto riguarda il futuro del centrodestra, invece, la strada è una sola: "Il centrodestra ha una sola possibilità di vincere le elezioni: farlo al primo turno superando il 40%". E le polemiche con Giorgia Meloni e Matteo Salvini? "Solo chiacchiere elettorali", assicura, "Tutti sanno che c’è una probabilità di vincere solo se stiamo tutti insieme, altrimenti è sconfitta sicura. Salvini quando sta con me è ragionevole, c’è cordialità e non c’è alcun timore per i nostri rapporti futuri. In Italia ormai ci sono 3 poli. Il centrodestra non può pensare di vincere al ballottaggio, perché se andasse al ballottaggio contro M5S gli elettori del Pd voterebbero per questi, mentre se andasse al ballottaggio con il Pd tutti gli elettori di di M5S voterebbero per il Pd".

In un'ipotetica coalizione di centrodestra, comunque, il leader non sarebbe Berlusconi. "Io sono stato dichiarato incandidabile per 6 anni e non ho alcuna intenzione di propormi come candidato premier", ha detto, "Berlusconi non è un problema, vuole solo tenere insieme tutti, Berlusconi è il federatore".

Poi, parlando della sua situazione sentimentale, ha aggiunto: Se ho intenzione di sposarmi presto? No, assolutamente no"
Penso che non sarà questa la soluzione, ritengo invece che Mattarella DARà un incarico esplorativo forse al presidente Grasso per fare un governo di minoranza e adempiere al normale disbrigo amministrativo e
fare una legge elettorale con la partecipazione della sinistra PD ,M5S, e il contributo di tutti.
Fatta la legge elettorale si andrà alle elezioni e vinca il migliore.
camillobenso
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Re: referendum costituzionale 2016 -SE VINCE IL NO

Messaggio da camillobenso »

AVVISO DI SFRATTO


Anche se necessariamente non lo dà a vedere, Matteuccio Mussoloni, deve stare incazzato ai massimi livelli.

Il Giornale ha calcolato che:
In 18 grandi città il fronte del No ha incassato il 62,5% dei consensi.

Il suo tempo di stà per finire.

Questa volta si balla.

I padroni del vapore, i poteri forti che controllano il pianeta, avevano spinto per la guida di loro uomini per condizionare una serie di eventi.

Questo ignorando le regole minime della democrazia.

Prima Monti, poi Letta, ed infine Renzi.

Con il chiacchierone funambolico, illusionista fiorentino, avevano pensato di risolvere il problema per un altro ventennio.

Come è accaduto per la Mummia Cinese di Hardcore, dopo il crollo della prima Repubblica, anche per il nuovo illusionista è arrivata la fine del tempo massimo.

E la domanda di iospero, che caratterizza questo 3D, diventa più pressante.

Chi metteranno ora, facendo finta che la scelta la facciano i tricolori?????

Il problema è stato anticipato.



Con questi risultati elettorali Renzi perde il referendum

In 18 grandi città il fronte del No ha incassato il 62,5% dei consensi. Un avviso al premier, che spera di conquistare il popolo degli astenuti
Gian Maria De Francesco - Mar, 07/06/2016 - 21:00
commenta
La battaglia per il referendum costituzionale parte molto in salita per il premier Matteo Renzi.

Analizzando gli esiti del voto di lista nei diciotto principali capoluoghi emerge che circa due italiani su tre, attualmente, voterebbero no alle riforme istituzionali disegnate dal ministro Maria Elena Boschi.
In particolare, il Giornale ha esaminato un campione di oltre 3 milioni di preferenze espresse su un totale di 3,5 milioni (affluenza del 59%). Lo scarto di circa 550mila voti è ascrivibile alla fiducia conquistata da formazioni e liste civiche di estrema destra, estrema sinistra o altrimenti non catalogabili. Ebbene, scomponendo i risultati in base alle formazioni politiche e alla loro collocazione rispetto al referendum, emerge che il Pd e i suoi alleati centristi della maggioranza di governo hanno ottenuto 1,125 milioni, il 37,5% del totale. Il composito fronte del «No» che spazia da M5S a Forza Italia e dalla Lega a Sinistra italiana ha, invece, ottenuto 1,877 milioni di voti (62,5%).
La prima conseguenza è che i democratici sono sostanzialmente soli nell'affrontare questa sfida. Le formazioni centriste (Ncd, Udc, Scelta civica, Ala) si fermano poco sotto i 100mila voti, mentre Partito socialista, Centro democratico e Fare! del sindaco veronese Tosi non hanno radicamento nazionale. La derivata seconda di questo stato di cose è la necessità di puntare sull'ampio bacino dell'astensione, attestatasi al 41% in questi grandi centri, per cercare di riequilibrare la partita. E non è un caso che la comunicazione renziana punti a battere l'Italia metro per metro per conquistare indecisi e indifferenti. Le 18 grandi città con i loro 6 milioni di elettori rappresentano poco meno della metà dei 13 milioni di italiani chiamati domenica alle urne. Piccole città e paesini potrebbero, pertanto, fare la differenza.
Sbaglierebbe il centrodestra a pensare che sia sufficiente sommari i 900mila voti conquistati ai 670mila dei grillini e ai 310mila della sinistra radicale per mandare a casa il presidente del Consiglio. Il partito di Renzi e i suoi alleati sulle riforme non sono forti solo dove sono storicamente radicati come a Bologna (55,6% al fronte del «Sì») e a Salerno (plebiscito per De Luca&Co. con l'82,8%). Anche in una tradizionale roccaforte della Lega come Varese i «revisionisti» sono in vantaggio con il 55%, mentre in grandi centri come Milano (47,4% di «Sì») e Torino (46,8%) la partita è aperta.
I renziani scontano, in pratica, le débâcle di Roma e di Napoli, città nelle quali la fazione pro-riforme è ridotta ai minimi termini, rispettivamente al 27,3 e al 23,9 per cento. Lo stesso vale per Cagliari (24%) e Trieste (non compresa nel campione perché non rilevata dal ministero dell'Interno ma con il «sì» poco al di sopra del 20%), capoluoghi nei quali le componenti autonomiste sono forti e hanno assunto una posizione critica nei confronti di una revisione costituzionale che aumenta i poteri del governo centrale.
Non ha torto il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta a sostenere che gli esiti del voto siano «un avviso di sfratto» per il premier che ha legato le sue sorti al referendum. Allo stesso tempo, occorre tener presente, però, che il voto di opinione alla prova dei fatti è spesso minoritario rispetto a quello espresso in base a convenienze personali. Soprattutto se l'interlocutore è un governo che ha emanato numerosi provvedimenti volti a «comperare» il consenso popolare.
camillobenso
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Iscritto il: 06/04/2012, 20:00

Re: referendum costituzionale 2016 -SE VINCE IL NO

Messaggio da camillobenso »

camillobenso ha scritto:AVVISO DI SFRATTO


Anche se necessariamente non lo dà a vedere, Matteuccio Mussoloni, deve stare incazzato ai massimi livelli.

Il Giornale ha calcolato che:
In 18 grandi città il fronte del No ha incassato il 62,5% dei consensi.

Il suo tempo di stà per finire.

Questa volta si balla.

I padroni del vapore, i poteri forti che controllano il pianeta, avevano spinto per la guida di loro uomini per condizionare una serie di eventi, devono correre ai ripari.

Questo ignorando le regole minime della democrazia.

Prima Monti, poi Letta, ed infine Renzi.

Con il chiacchierone funambolico, illusionista fiorentino, avevano pensato di risolvere il problema per un altro ventennio.

Come è accaduto per la Mummia Cinese di Hardcore, dopo il crollo della prima Repubblica, anche per il nuovo illusionista è arrivata la fine del tempo massimo.

E la domanda di iospero, che caratterizza questo 3D, diventa più pressante.

Chi metteranno ora, facendo finta che la scelta la facciano i tricolori?????

Il problema è stato anticipato.



Con questi risultati elettorali Renzi perde il referendum

In 18 grandi città il fronte del No ha incassato il 62,5% dei consensi. Un avviso al premier, che spera di conquistare il popolo degli astenuti
Gian Maria De Francesco - Mar, 07/06/2016 - 21:00
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La battaglia per il referendum costituzionale parte molto in salita per il premier Matteo Renzi.

Analizzando gli esiti del voto di lista nei diciotto principali capoluoghi emerge che circa due italiani su tre, attualmente, voterebbero no alle riforme istituzionali disegnate dal ministro Maria Elena Boschi.
In particolare, il Giornale ha esaminato un campione di oltre 3 milioni di preferenze espresse su un totale di 3,5 milioni (affluenza del 59%). Lo scarto di circa 550mila voti è ascrivibile alla fiducia conquistata da formazioni e liste civiche di estrema destra, estrema sinistra o altrimenti non catalogabili. Ebbene, scomponendo i risultati in base alle formazioni politiche e alla loro collocazione rispetto al referendum, emerge che il Pd e i suoi alleati centristi della maggioranza di governo hanno ottenuto 1,125 milioni, il 37,5% del totale. Il composito fronte del «No» che spazia da M5S a Forza Italia e dalla Lega a Sinistra italiana ha, invece, ottenuto 1,877 milioni di voti (62,5%).
La prima conseguenza è che i democratici sono sostanzialmente soli nell'affrontare questa sfida. Le formazioni centriste (Ncd, Udc, Scelta civica, Ala) si fermano poco sotto i 100mila voti, mentre Partito socialista, Centro democratico e Fare! del sindaco veronese Tosi non hanno radicamento nazionale. La derivata seconda di questo stato di cose è la necessità di puntare sull'ampio bacino dell'astensione, attestatasi al 41% in questi grandi centri, per cercare di riequilibrare la partita. E non è un caso che la comunicazione renziana punti a battere l'Italia metro per metro per conquistare indecisi e indifferenti. Le 18 grandi città con i loro 6 milioni di elettori rappresentano poco meno della metà dei 13 milioni di italiani chiamati domenica alle urne. Piccole città e paesini potrebbero, pertanto, fare la differenza.
Sbaglierebbe il centrodestra a pensare che sia sufficiente sommari i 900mila voti conquistati ai 670mila dei grillini e ai 310mila della sinistra radicale per mandare a casa il presidente del Consiglio. Il partito di Renzi e i suoi alleati sulle riforme non sono forti solo dove sono storicamente radicati come a Bologna (55,6% al fronte del «Sì») e a Salerno (plebiscito per De Luca&Co. con l'82,8%). Anche in una tradizionale roccaforte della Lega come Varese i «revisionisti» sono in vantaggio con il 55%, mentre in grandi centri come Milano (47,4% di «Sì») e Torino (46,8%) la partita è aperta.
I renziani scontano, in pratica, le débâcle di Roma e di Napoli, città nelle quali la fazione pro-riforme è ridotta ai minimi termini, rispettivamente al 27,3 e al 23,9 per cento. Lo stesso vale per Cagliari (24%) e Trieste (non compresa nel campione perché non rilevata dal ministero dell'Interno ma con il «sì» poco al di sopra del 20%), capoluoghi nei quali le componenti autonomiste sono forti e hanno assunto una posizione critica nei confronti di una revisione costituzionale che aumenta i poteri del governo centrale.
Non ha torto il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta a sostenere che gli esiti del voto siano «un avviso di sfratto» per il premier che ha legato le sue sorti al referendum. Allo stesso tempo, occorre tener presente, però, che il voto di opinione alla prova dei fatti è spesso minoritario rispetto a quello espresso in base a convenienze personali. Soprattutto se l'interlocutore è un governo che ha emanato numerosi provvedimenti volti a «comperare» il consenso popolare.
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