Re: PUTIN,SOCIALISMO,IL SOLE,LA TENEBRE
Inviato: 05/03/2022, 21:15
da aaa42
SAGGIO SU UCRAINA DI Francesco Maria Feltri
Un ricordo personale
Prima di avventurarci nella storia vera e propria dell’Ucraina, vorrei ricordare con voi alcune
impressioni di un recente viaggio in quel Paese; in particolare, vorrei condividere la memoria di
alcuni segnali che hanno portato me e i miei compagni di viaggio a dirci: <<Ma questo è un paese
che sta attaccato con la colla!>>.
Primo segnale: a Kiev ci sono due importantissimi luoghi simbolici, di segno diame-tralmente
opposto l’uno rispetto all’altro.
Uno è il Museo della guerra patriottica (come sapete, guerra patriottica è il modo con cui veniva
chiamata la seconda guerra mondiale in ambito sovietico), che è un museo tradizionale, molto
classico, in cui viene celebrata la vittoria dell’Unione Sovietica sulla Germania di Hitler.
Il secondo luogo, a poca distanza, è un monumento al cosiddetto Holomodor, neologismo con cui,
dopo l’indipendenza, si è tentato di definire l’esperienza più traumatica dell’Ucraina nel Novecento.
Verrebbe da tradurlo con grande carestia, ma vedremo fra un minuto che questa traduzione è
inesatta; comunque, l’evento a cui si fa riferimento cade negli anni 1932-33.
C’è poi un terzo luogo importante che ci è capitato di visitare, questa volta a Leopoli (città che
può avere vari nomi a seconda della lingua in cui la citiamo: L’viv, L’vov, Leopoli; la citerò per
tutta la sera in italiano, sia per chiarezza sia perché così non faccio oltraggio a nessuno). Il luogo in
questione è un ristorante, che si chiama Il Partigiano e che vuole presentarsi come il più tipico di
Leopoli. Dopo un quarto d’ora che si è dentro (anche solo guardandosi intorno) si capisce dalla
compagnia un po’ particolare, dai clienti e dal personale, insomma, che il termine partigiano non
corrisponde affatto a ciò che noi abbiamo in mente: i partigiani a cui allude il nome del ristorante
non combattevano contro i nazisti, ma contro l’Armata Rossa.
Capite che, dal punto di vista occidentale, siamo di fronte ad un rovesciamento di prospettive che
non è da poco. Per capire l’Ucraina, dunque, dobbiamo entrare in logiche che sono davvero molto
distanti dalla nostra.
Tutto inizia a Kiev
Sostanzialmente, il mio obiettivo è quello di spiegare queste realtà contraddittorie in cui ci siamo
imbattuti; ma, per farlo, dovrò partire da lontanissimo.
Preciso subito una cosa, come sempre faccio in queste occasioni: io faccio lo storico; non
chiedetemi come andrà a finire, perchè non ho la sfera di cristallo e di conseguenza non conosco il
futuro. Io guardo al passato, un passato che deve iniziare da molto lontano.
La città di Kiev viene fondata nel cuore dell’Alto Medioevo, prendiamo come punto di
riferimento orientativo l’anno 814, cioè l’anno della morte di Carlo Magno.
In quel periodo gli scandinavi di Danimarca o di Norvegia, che noi conosciamo come vichinghi, si
rovesciano sulle coste della Francia, della Germania, dell’Inghilterra, mentre un altro gruppo
importante, prevalentemente svedese (i vareghi o variaghi) comincia un’avventura di segno diverso;
sono prevalentemente dei mercanti e si accorgono ben presto di una caratteristica fisica tipica delle
regioni dell’Est dell’Europa, (quelle che, per capirci, sono occupate dalla Russia, dall’Ucraina e
dalla Bielorussia moderne): è uno spazio immenso, ma relativamente facile da percorrere, perchè
pieno di laghi e fiumi navigabili.
Il Volga, il Dniepr o il Don costituiscono una specie di autostrada fluviale, che collega l’estremo
nord dell’Europa al mar Nero o, nel caso del Volga, al mar Caspio.
A quel tempo, il Nord Europa era una delle zone più povere d’Europa; però, era ricca di materie
prime estremamente interessanti: legname, pellicce, miele, tutti prodotti molto richiesti nel Sud
bizantino o musulmano.
Vi ricordo che, nel IX secolo, sono queste le regioni più ricche dell’Europa e del mondo. Sono
queste le regioni in cui si usa ancora la moneta d’oro, mentre nel mondo europeo Carlo Magno ha
abolito la moneta pregiata, tipica dell’epoca romana. Nell’impero di Carlo Magno circolano solo
spiccioli d’argento o di metallo ancora più vile, perché il volume degli scambi commerciali è troppo
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scarso e discontinuo, per sostenere uno strumento impegnativo e pesante, come la moneta d’oro.
Kiev nasce come emporio, come luogo fortificato, al centro di una specie di impero commerciale,
che di solito viene paragonato a quello della Compagnia delle Indie.
Pensate all’impero britannico quando si insedia in India: sono pochi uomini coraggiosi, ben
determinati, che in qualche modo conquistano un impero.
Dopo qualche generazione, i figli delle prime unioni miste tra questi nuovi conquistatori svedesi e
la popolazione slava locale cominciano ad esser chiamati russi.
Il termine Russia è usato prima di tutto per gli abitanti di Kiev, per la classe dominante di questo
impero commerciale che nasce nell’Alto Medioevo. Infine, nell’anno 988, questa nuova realtà
etnica e politica che sta nascendo, composta da svedesi assimilati al mondo slavo, decide di
integrarsi ancora meglio nel grande mondo delle civiltà evolute del tempo, scegliendo una religione
monoteista.
Avrebbe avuto una serie di opportunità importanti: poteva, ad esempio, scegliere l’ebraismo.
Guardate che non sto dicendo una sciocchezza, perché il popolo asiatico dei Cazari, che si colloca
sul Mar Caspio, quindi relativamente a poca distanza dalla nostra Kiev, sceglierà proprio il
giudaismo. L’altra opzione naturalmente era l’islam, che in quel momento si trovava all’apice della
propria potenza politica ed economica. C’erano due ulteriori possibilità: la cristianità nella sua
forma latina e la cristianità nella sua forma bizantina.
La scelta che viene fatta è quest’ultima, per cui la Rus di Kiev si converte all’ortodossia, cioè alla
versione bizantina del cristianesimo. Solo molti secoli più tardi il cuore dell’ortodossia dell’Est
Europa si sposterà a Mosca. A quest’epoca Mosca, che dal 1300 comincerà a diventare una realtà
politicamente ed economicamente significativa a seguito della conquista mongola, praticamente non
esiste.
Le radici religiose della Russia, possiamo già cominciare a chiamarla così, si trovano a Kiev.
Capite allora che questo discorso, così lungo, che ho fatto sul Medioevo, in realtà è di stringente
attualità: dopo il crollo del comunismo, Putin e molti importanti ambienti russi hanno recuperato la
nazione e la religione come fattori identitari.
Capite già dove andiamo a parare, perché abbiamo un’esperienza recentissima e pericolosissima
di religioni che si trasformano in fattori identitari: la ex-Jugoslavia. In quelle terre essere cristiani
latini, cristiani ortodossi o musulmani è stato fonte di odi formidabili che (naturalmente mescolati a
tantissimi altri elementi di ordine nazionale, politico ed economico) hanno dato luogo a terribili
conflitti.
Le similitudini tra la Russia e la Serbia sono abbastanza forti, perché nella Serbia di oggi
l’ortodossia è un fattore identitario molto forte, ma i luoghi simbolo della fede ortodossa serba sono
in Kossovo, cioè in un territorio che la Serbia rivendica con particolare determinazione. Ora, la
cenere sembra aver ricoperto le braci dell’incendio jugoslavo, ma può darsi che queste braci si
accendano nuovamente, soprattutto se si soffia su fattori identitari di tipo nazional-regioso. Il
Kossovo è ancora un problema molto serio, perché la Serbia non ne ha riconosciuto l’indipendenza
e lì ci sono i monasteri più importanti per le origini della fede ortodossa serba. Faccio, per capirci,
ancora un altro esempio: immaginate un mondo come quello italiano dell’Ottocento, quando l’idea
di nazione era ben più sentita che ai giorni nostri, a cui mancasse Roma.
Roma era concepita come la culla, come l’elemento identitario essenziale dell’Italia. Figure come
Mazzini o Garibaldi erano profondamente convinte che all’Italia, senza Roma, mancasse qualcosa:
o Roma o morte!, gridavano i loro seguaci.
Potete allora capire perché alcuni nazionalisti, come Putin, non hanno mai digerito che il nocciolo
originario della Russia sia diventato indipendente e sia oggi fuori dai confini della Russia
politicamente intesa. Agli occhi di un nazionalista russo, Kiev non è e non sarà mai un’entità
davvero autonoma dalla Russia storica, perché è la culla della cultura russa. Può darsi che, anche in
questo caso, il tempo aggiusti le cose, ma per chi ragiona in termini nazionalisti l’uscita
dell’Ucraina dall’Unione Sovietica, nel momento della sua disgregazione, è stato qualcosa di
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assolutamente insopportabile, un oltraggio da lavare.
Vedete come, nella vicenda di cui ci occupiamo, Medioevo ed attualità si legano
immediatamente.
Dobbiamo ora, con un clamoroso salto temporale, riflettere anche su una vicenda della quale,
come Graffette, abbiamo già parlato in un altro momento: il disastro nucleare di Chernobyl (1986).
Il modo pessimo in cui Mosca gestì l’emergenza di Chernobyl (che è in Ucraina) aveva urtato
talmente tanto tutto il Paese, comprese le sue componenti russofone e meno nazionaliste, che a
livello di opinione pubblica, cinque-sei anni dopo (al momento del collasso dell’URSS) aveva
prevalso questa idea: <<Non dobbiamo mai più lasciare che a decidere di questioni vitali come
questa sia qualcun altro, lontano dal territorio ucraino>>. A causa del trauma prodotto dalla tragedia
di Chernobyl, anche numerosi soggetti che non erano particolarmente legati agli ideali nazionali
ucraini, ma anzi si sentivano per molti versi russi, avevano accettato l’idea dell’indipendenza,
perchè rimanere ancora legati al carrozzone moscovita sembrava pericoloso, suicida, prima ancora
che inopportuno.
La terra vicino al confine
A questo punto siamo in grado di capire un altro elemento importante: il significato del nome
Ucraina. Pare, o almeno è opinione ampiamente diffusa, che il termine Ucraina significhi la terra
vicino al confine, e in effetti quello che colpisce nella storia di questo paese è il diretto
coinvolgimento nelle lotte tra i suoi potenti vicini. L’Ucraina è stata, nella storia, il classico vaso di
coccio vicino a vasi di ferro: paesi molto più grandi e più potenti di lei ne hanno deciso il destino.
I confini dell’Ucraina, come li vediamo oggi sull’atlante, sono una delle eredità più controverse
della seconda guerra mondiale. In particolare vi ricordo che un’ampia fascia di terra, profonda più o
meno 300 chilometri e posta tra il confine polacco e il cuore del paese, è stata contesa (per due
secoli) da almeno tre soggetti: il regno di Polonia (o se preferite il Regno di Polonia-Lituania),
l’impero austriaco e l’impero russo.
Qui dobbiamo fare un attimo mente locale su un dato: noi siamo abituati a vedere la Lituania
come un francobollo sulla carta geografica nell’estremo nord europeo; ma, storicamente parlando,
per secoli il granducato di Lituania fu uno stato enorme, che si estendeva da Vilnius, cioè
dall’attuale Lituania, fino al Mar Nero, attraversando gran parte della Bielorussia e dell’Ucraina
attuali. Poi, quest’enorme granducato di Lituania si è unito per via matrimoniale con il Regno di
Polonia, dando vita ad una grande entità che, fino a quando la Russia è rimasta una regione
periferica e scarsamente potente, è stata egemone nell’Est Europa. Quindi il regno di Polonia ha
avuto, nel cuore dell’età moderna (parlo del Cinquecento, fino al Seicento inoltrato), un ruolo
importantissimo, soprattutto quando si è unito al Granducato di Lituania, coprendo gran parte delle
terre di cui stiamo parlando.
Poi le cose cambiano, la ruota gira, ed ecco che emergono ai confini due giganti: Pietro il Grande
fonda la Russia moderna, mentre l’impero austriaco acquista sempre più importanza. Il risultato è la
progressiva decadenza, e infine la disgregazione, del regno di Polonia, che viene a più riprese
spartito nel corso del Settecento.
Quando parliamo di spartizione della Polonia, tenete presente che essa riguarda almeno tutte le
regioni occidentali dell’Ucraina attuale, in particolare Leopoli e la regione che prende il nome di
Galizia, ovviamente da non confondere con altre regioni dal nome simile. Perdonate se sono banale;
c’è una regione affine nella penisola iberica, e c’è il mondo della Galazia nell’Asia Minore:
sgombriamo il campo da questi equivoci.
Il termine Galizia indica una regione storicamente a cavallo tra Polonia e Russia, della quale
Leopoli, che poi passa sotto l’impero austro-ungarico, è un elemento essenziale. L’impero austriaco,
che era un vero gigante, arrivava dunque fino all’Ucraina attuale.
Un articolo recente su La Repubblica faceva notare che, se prendiamo la distanza in linea d’aria
tra Trieste e Leopoli, essa è minore di quella tra Trieste e Reggio Calabria: questo sta ad indicare
che, in realtà, queste tematiche non riguardano la fine del mondo, un luogo remotissimo, ma una
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regione che si rivela relativamente vicina, non appena utilizziamo parametri che ci sono un po’ più
familiari.
Entrando oggi a Leopoli, proverete subito due impressioni. La prima può essere espressa con le
parole: <<Sono a Vienna! Sono in una città che mi è perfettamente familiare, sento un’atmosfera
tipicamente mitteleuropea; mi trovo in una città latina, nel senso del mondo latino cattolico>>. Per
capirci, qui non siamo affatto in quel mondo ortodosso che, per tanti versi, ci appare differente e
perfino ostile. Nello stesso tempo, (seconda impressione) a Leopoli quasi nessuno parla russo.
Naturalmente, questo non è per noi immediatamente percepibile, ma te lo fanno capire subito. La
lingua che si parla a Leopoli è prevalentemente, per non dire unicamente, l’ucraino. È una lingua
affine al russo, ma con una sua identità precisa, conservata in modo geloso e assolutamente ferreo.
Kiev invece è una città ibrida, mista, in cui prevale la parlata russa, ma anche l’ucraino è
diffusissimo; più si va ad est e più, naturalmente, prevale la componente russofona.
Teniamo però presente che, come molti osservatori si sono affrettati a precisare, anche in varie
aree russofone il Partito delle Regioni, cioè il partito del deposto presidente Yanukovich, non aveva
vinto le elezioni: segno che c’è un’importante componente della popolazione, che parla russo, che
ha molti legami culturali con la Russia, ma che è ben lieta di essere indipendente da Mosca.
Tornando alla storia, vorrei ricordare anche che queste terre di confine, tra la Russia propriamente
detta e l’Europa occidentale, nel tardo Medioevo sono state oggetto di emigrazione massiccia da
parte di migliaia di ebrei provenienti dalla Germania. Ovviamente, sono totalmente assenti dalla
demografia attuale, perché sono stati spazzati via dalla Shoah, ma non possiamo prescindere dalla
componente ebraica, all’interno della storia globale dell’Ucraina, fino a tempi relativamente recenti.
Dobbiamo ricordare che, sia qui che in Polonia, gli ebrei svolgevano spesso il ruolo di classe
media, di ceto borghese se volete, a metà strada tra la grande nobiltà agraria e i servi della gleba, i
contadini. Quando poi scoppiava qualche rivolta, ecco che il contadino oppresso se la prendeva con
l’ebreo, soprattutto in certe situazioni limite in cui i contadini erano ortodossi e i nobili erano
polacchi cattolici; quindi gli ebrei apparivano come servi dell’oppressore, del nemico. Gli ebrei
sono oggetto, già a partire dal Seicento, di violenze estreme. Ma quello che mi interessa più di tutto
è farvi notare che in Ucraina c’era, o meglio c’è tuttora, anche in assenza sostanziale di ebrei, un
antisemitismo strisciante molto forte. L’Ucraina è una terra terribile e affascinante allo stesso
tempo, perché ha vissuto tutte le tragedie e conservato tutti i fantasmi del Novecento.
Il terribile Novecento ucraino
È tempo di introdurre due o tre questioni delicate, riguardanti appunto il Novecento. Nel 1914 la
Russia entra nella Prima guerra mondiale, ma la perde rovinosamente. Non è assolutamente pronta,
dal punto di vista industriale, ad affrontare un conflitto così complesso come la Grande Guerra.
Mentre sul fronte occidentale le trincee bloccano la guerra, che sostanzialmente non si schioda per
quattro anni, nel caso del fronte orientale la Germania e l’Austria vincono clamorosamente. La
Germania è il soggetto più importante e obbliga la Russia (che nel 1917 compie due rivoluzioni e
infine, dopo quella di ottobre, diventa comunista) alla resa. L’Ucraina è il prezzo da pagare. Nel
1918, la Russia comunista perde questo vastissimo territorio, che è un enorme bacino minerario e
anche un’enorme risorsa dal punto di vista agricolo. Per la Germania, dominare l’Ucraina
significava una fonte di ricchezza formidabile, per cui l’Ucraina viene pensata come uno stato
indipendente, ma di fatto vassallo della Germania che l’ha strappata alla Russia. Poi però, nell’arco
di un anno, la Germania perde la guerra, e allora è il caos assoluto.
La grande guerra civile tra bianchi e rossi, una guerra di una violenza sconvolgente, si combatte
soprattutto in queste terre. È una guerra dall’altissimo tenore ideologico: i bianchi e i rossi
rappresentano due mondi, sono la luce e le tenebre, ognuno dei due si considera il difensore del
progresso e dell’umanità, o comunque il difensore del mondo civile contro le barbarie. I bianchi,
cioè gli avversari dei bolscevichi, fanno enormi stragi di ebrei già durante la guerra civile. Gli ebrei
sono accusati di essere servi di Mosca e del bolscevismo; non sappiamo quanti ne siano stati uccisi,
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c’è chi dice 75 mila, c’è chi dice 150 mila; comunque, resta il fatto che è già un macello.
Durante questa violentissima guerra, se ho contato bene, in Ucraina si succedono 14 governi in 4
anni: questo dato, da solo, ci dà la misura del caos in cui si trova il paese. Il governo comunista di
Mosca cerca di imporre di nuovo il suo controllo sull’Ucraina, perché non c’è nessun governo russo
che possa concepire, l’abbiamo detto in apertura, la totalità del territorio russo senza Kiev. Per
qualunque russo, si tratti dello zar, di Lenin, o di Putin, se alla Russia viene tolta l’Ucraina, viene
amputata una parte essenziale; per cui, anche per questi che, in teoria, sono dei rivoluzionari, ma in
realtà molte volte ragionano più da russi che da comunisti, la riconquista dell’Ucraina è vitale, e
viene effettivamente portata a termine.
I problemi veri arriveranno quando, negli anni Trenta, Stalin deciderà la collettivizza-zione
forzata, che è la violenza più atroce da lui compiuta nei confronti dei popoli dell’Unione Sovietica.
La prima operazione che viene compiuta è quella della deportazione in massa delle élites
contadine. Materialmente vuol dire che circa 2 milioni di persone vengono bollate con un epiteto
infamante, cioè chiamate kulaki (un insulto molto pesante, traducibile con strozzino, ladro,
imbroglione, truffatore). Costoro, in realtà, sono i contadini più stimati, i capi dei villaggi che, con
l’avanzare del processo di collettivizzazione, potrebbero diventare anche i capi di un eventuale
movimento di resistenza. Le storie che ci sono arrivate, che ora sono storie ufficiali, nel senso che
provengono da materiali trovati negli archivi ufficiali del KGB e del Cremlino, sono agghiaccianti.
Dal punto di vista letterario, la dekulakizza-zione è stata raccontata dal grande scrittore Vasilij
Grossman1
, in particolare nei due romanzi Vita e destino e Tutto scorre... Attenzione, non cadete in
equivoco con il cognome identico a quello di David Grossman, che è lo scrittore israeliano vivente.
Che si chiami Grossman indica che anche lui è un ebreo: un ebreo che nasce a Berdicev, una città
dell’Ucraina.
La dekulakizzazione, concretamente, vuol dire caricare 2 milioni di persone su dei treni e
scaricarle in mezzo alla foresta, nell’estremo nord della Russia o in Siberia, dicendo: <<Da oggi voi
abitate qua. Prima o poi, arriveranno i rifornimenti>>. Quando non si sa. Capite bene che, se questi
rifornimenti arrivano dopo uno o due mesi, per quel drammatico periodo intermedio è l’inferno: i
bambini muoiono tutti immediatamente, con ritmi brutali; ci sono clamorosi casi di cannibalismo e
la disperazione è assoluta, perché in quelle terre non c’è assolutamente nulla.
Tolti di mezzo i cosiddetti kulaki, Stalin riunisce i contadini in gigantesche fattorie collettive. Se
volete una definizione brutale, i contadini tornano ad essere servi della gleba, non più dei nobili, ma
del sistema, dello Stato sovietico: ormai sono lì soltanto per coltivare terre per lo Stato sovietico.
Il ragionamento di Stalin è il seguente: grazie alla massiccia esportazione dei cereali, la Russia,
che è ancora un paese prevalentemente agricolo, riuscirà ad importare dall’estero quei capitali e
quella tecnologia che le permetteranno di trasformarsi in una grande potenza industriale. Il dramma
è che, nel 1932, l’annata è cattiva, per cui il raccolto non è sufficiente per alimentare i contadini e,
simultaneamente, raggiungere la quota prevista per l’esportazione.
La decisione tragica, terrificante, di Stalin sarà quella di esportare comunque milioni di quintali di
grano (dato che servono per ottenere in cambio tecnologia e capitali) e lasciare letteralmente morire
di fame tra i cinque e i sette milioni di persone. Questo, che è il crimine supremo del sistema
staliniano, ha il suo epicentro in Ucraina e questa sarà per l’Ucraina l’esperienza più traumatica del
Novecento.
A questo punto capite perché la domanda identitaria di base: <<Chi siamo? Cosa vogliamo per il
nostro futuro?>> trova negli ucraini prima di tutto questa risposta: <<Noi siamo i figli di
quell’enorme tragedia; e con chi l’ha provocata, cioè con Mosca, non vogliamo più avere
assolutamente niente a che fare>>.
Fra un po’ parleremo di gas, parleremo di questioni molto biecamente legate al capitale, questioni
che certo hanno un peso; però non dobbiamo mai ridurre le passioni delle persone al portafoglio,
perché in realtà capita spesso che le persone compiano azioni assolutamente contrarie ai propri
interessi, mosse da motivazioni clamorosamente irrazionali. La religione o l’identità nazionale, ad
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esempio, sono a volte motori molto potenti e perfino controproducenti.
Tutto questo, a Kiev, è evidentissimo: mentre per la componente russa l’identità fondamentale è:
<<Siamo quelli che, grazie a Stalin e alla sua industrializzazione, hanno sconfitto i tedeschi>>, per
gli altri è: <<Sì, questo è vero. Ma il prezzo di questa industrializzazione l’hanno pagato i nostri
nonni. Ed è stato un prezzo talmente alto che noi, con chi l’ha fatto pagare al nostro popolo, non
vogliamo più avere nulla a che fare>>. Ecco spiegati i due simboli di cui parlavamo all’inizio: il
monumento che ricorda l’Holomodor (letteralmente sterminio per fame) e il museo della Grande
guerra patriottica.
A questo punto, siete in grado di capire anche tutta un’altra serie di dettagli importanti che vedete
o sentite sui giornali, ad esempio il motivo per cui ucraini e filo-russi si accusano reciprocamente di
essere stalinisti o fascisti: sono i fantasmi del passato che riemergono, almeno a livello di insulto o
di propaganda politica immediatamente spendibile.
Sempre su queste basi, capite anche perché nel 1941, quando invadono l’Ucraina, i nazisti sono
accolti quasi come liberatori. Molti sperano che i tedeschi permetteranno la nascita di un’Ucraina
indipendente, anche se noi sappiamo che Hitler non ne aveva la minima intenzione. Ecco allora che
questi famosi partigiani ucraini, di cui parlavo all’inizio, combattono sia contro i tedeschi che
contro l’Armata Rossa, cioè continuano a combattere l’Armata Rossa dopo il suo arrivo, nel 1944,
perché il loro obiettivo è l’indipendenza dell’Ucraina. Un dramma nel dramma è costituito dal fatto
che, durante l’occupazione tedesca, molti ucraini partecipano alla Shoah. Moltissimi, quando Hitler
apre loro le porte, si arruolano in reparti operativi che hanno ruoli di rastrellamento o di guardia ai
treni o ai campi di concentramento.
Vedete, quindi, che quella di cui parliamo è una realtà aggrovigliata e contorta. Quando si parla di
conflitti, alla fine scatta in ognuno di noi una dimensione, diciamo così, calcistica: cerco di vedere
chi è il buono e chi è il cattivo; poi, più o meno consciamente, mi schiero con qualcuno. Questa,
tuttavia, è una storia intrisa di sangue e di fantasmi, con un miscuglio di bene, male, violenze, in
cui veramente c’è da perdere la testa.
Una democrazia debole, in una terra di sangue
Vi ricordo ora un particolare. La prima fase della Shoah in Ucraina, nel 1941, è stata
particolarmente truculenta e confusa. Negli anni Novanta, quando il paese era da poco indipendente,
vi fece un viaggio di studio un sacerdote cattolico francese, Patrick Desbois2
, che aveva avuto il
nonno (non ebreo) deportato in un lager ucraino, in quanto membro della resistenza francese. Nel
villaggio che si trovava nei pressi del campo di suo nonno, si radunarono numerose persone ormai
anziane che gli dissero: <<Ma lei vuole davvero sentire delle storie della seconda guerra mondiale?
Noi avevamo 15 anni, ma c’eravamo, ci ricordiamo perfettamente>>.
Il risultato è che Desbois ha raccolto un archivio impressionante di storie orali e, soprattutto, ha
scovato più di 500 fosse comuni di cui si ignorava l’esistenza, obbligando gli specialisti a ripensare
tutti i numeri. Questo dimostra ancora una volta quanto confusa e complessa sia questa storia. Uno
dei volumi più interessanti usciti recentemente sull’Europa orientale è intitolato Terre di sangue3
ed è una ricostruzione delle vicende di Polonia, Bielorussia, Ucraina e Paesi Baltici, cioè di quella
striscia che va dal Baltico al Mar Nero e che ha visto gli orrori dello stalinismo, della seconda
guerra mondiale, dell’occupazione sovietica post-bellica.
Ora, questo è il quadro che in qualche modo siamo riusciti a delineare: un’Ucraina che durante e
immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale vive, in larga misura come conseguenza
dell’esperienza traumatica del 1932-33, una situazione caotica, confusa, alla quale dobbiamo
aggiungere, come ulteriore dettaglio importante, la questione della Crimea.
La Crimea è un penisola che viene occupata dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale e
che, fino a quel momento, aveva fatto parte della Russia. In prevalenza, gli abitanti della Crimea
erano ancora i discendenti dei mongoli, gli invasori che avevano raso al suolo la Kiev medievale e
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dominato la Russia per un paio di secoli. Questi mongoli venivano chiamati in vari modi, tra cui
Tartari (storpiatura, nelle lingue europee, di Tatari) perché la loro ferocia era talmente
impressionante che sembravano vomitati dall’inferno, cioè appunto dal Tartaro.
Dopo la seconda guerra mondiale, i Tatari di Crimea vennero accusati da Stalin di aver collaborato
con gli occupanti tedeschi, furono deportati in massa e sostituiti con popolazione in larga misura
russa e in misura minore ucraina. Nel 1954, poi, Krusciov prese un’altra importante decisione,
quella di cambiare la collocazione amministrativa della Crimea, che dunque, da quel momento, non
fece più parte della Repubblica Russa, ma della Repubblica di Ucraina. Faceva però sempre parte
dell’Unione Sovietica; è come, per capirci, se una contea dallo stato dell’Arizona passasse sotto lo
stato della California. A quell’epoca, dunque, questa decisione non suscitò grandi problemi, perché
in ultima analisi era tutta Unione Sovietica. Ovviamente, il cambiamento diventò determinante nel
1991, quando la Crimea, essendo parte integrante dell’Ucraina, entrò a far parte del nuovo stato
indipendente. Si trattava però di una situazione ibrida, perché nel porto di Sebastopoli rimase la
flotta da guerra russa.
Quando sono improvvisamente venuti a mancare i mercati dell’URSS e dell’impero socialista, che
aveva in Mosca il proprio centro di riferimento, la maggioranza delle imprese ucraine si è trovata in
grave difficoltà. Lo Stato non ha intrapreso radicali riforme finalizzate a introdurre l’economia di
mercato e a privatizzare le terre, le miniere o le industrie. Lo Stato ha temuto che il passaggio
troppo repentino dal socialismo al capitalismo avrebbe sconvolto la società (e i tradizionali equilibri
di potere). Così l’Ucraina si è trovata, almeno all’inizio della sua nuova storia, in una specie di
limbo stagnante, né socialista né capitalista, mentre l’inflazione continuava a crescere (giungendo a
toccare la quota del 900%, nel 1994) e il PIL a precipitare (-16,8 nel 1992; -14,2 nel 1993; -22,90
nel 1994).
La diffusa insoddisfazione popolare ha portato al potere Leonid Kuchma, che ha vinto le elezioni
presidenziali nel giugno 1994; nel giro di breve tempo, tuttavia, Kuchma ha trasformato l’Ucraina
in una democrazia di facciata, in cui i processi decisionali erano sempre più fortemente
centralizzati, a scapito del Parlamento, mentre i mezzi di comunicazione di massa erano asserviti ai
desideri del presidente. Almeno 18 giornalisti che avevano esposto giudizi critici nei confronti di
Kuchma furono eliminati. Il caso più clamoroso riguardò Heorhij Gongadze, che in un giornale on
line denunciava la corruzione dilagante, tale per cui era possibile comprare un titolo accademico (un
dottorato costava 2-3000 dollari), evitare l’arresto per guida in stato di ebbrezza (100-300 dollari) o
riuscire ad essere arruolati in un contingente internazionale (3000 dollari). Sequestrato nel centro di
Kiev il 16 settembre 2000, fu decapitato ed ucciso. Poiché Gongadze aveva denunciato anche gli
stretti legami esistenti tra Kuchma e la malavita organizzata (che col suo appoggio era riuscita a
mettere le mani su interi importanti segmenti della vita economica del Paese), il presidente stesso fu
sospettato di aver ordinato l’omicidio.
La rivoluzione arancione
A partire dal 2000, il PIL riprese a crescere, soprattutto grazie alle esportazioni; l’Ucraina,
tuttavia, nel 2002 era ancora uno dei paesi più poveri d’Europa (al terzultimo posto, seguita solo da
Moldavia ed Albania). Nel 2004, secondo un rapporto stilato dall’Unione Europea, un quarto della
popolazione viveva al di sotto della soglia di povertà.
In tale anno si sono svolte le nuove elezioni presidenziali, alle quali Kuchma, al potere dal 1994,
non poteva più presentarsi, in quanto la nuova Costituzione post-sovietica prevede un massimo di
due mandati. Come suo uomo di fiducia, Kuchma propose Viktor Janukovyc, che venne
ampiamente finanziato anche dalla principale società russa produttrice di gas naturale, Gazprom;
l’opposizione, invece, candidò Viktor Jushenko, che dal 1993 al 1999 aveva diretto la Banca
nazionale ucraina ed era stimato anche in Occidente per le sue competenze in ambito economico. La
campagna elettorale si è svolse in un clima di aperta intimidazione, nei confronti di tutti coloro che
dichiaravano di sostenere Jushenko. E questi non solo fu regolarmente accusato di essere un servo
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prezzolato degli Stati Uniti e dell’Occidente, ma rischiò addirittura di morire avvelenato.
Dopo il decisivo ballottaggio del 21 novembre 2004, la commissione elettorale annunciò la
vittoria di Janukovyc in un tempo sorprendentemente breve; inoltre, risultò decisamente sospetto
che nella regione di origine di Janukovyc, il bacino del Donec’k, risultasse un’affluenza alle urne
eccezionalmente alta (96%) e che tutti gli elettori senza eccezione (100%) avessero votato per lui.
Quando emerse con chiarezza che in questa regione dell’Ucraina orientale, e – più in generale – in
tutto il Paese – erano stati compiuti clamorosi brogli elettorali, esplose una serie di vaste
manifestazioni popolari che ha ricevuto il nome di rivoluzione arancione (dal colore scelto dal
partito di Jushenko nelle proprie bandiere e nei propri distintivi). Secondo alcune stime, solo a Kiev
scese in piazza un milione e mezzo di persone, in larga maggioranza giovani e studenti; vaste
dimostrazioni, tuttavia, si ebbero anche in vari centri dell’Ucraina orientale, abitati in maggioranza
da cittadini russofoni. Il 3 dicembre, la Corte Suprema annullò i risultati elettorali e ordinò di
ripetere il ballottaggio tra Janukovyc e Jushenko; alle votazioni del 26 dicembre 2004 si presentò il
77,3% degli aventi diritto, e Jushenko fu eletto con il 51,99%.
Alle elezioni del 2009, tuttavia, Janukovyc è risultato vincitore, nella competizione con la nuova
candidata dell’opposizione, Julija Tymoshenko. Il margine molto ristretto (di appena 3 punti in
percentuale: 48 contro 45%) che ha permesso la vittoria, ed ancor più la distribuzione geografica dei
voti dimostra che il Paese è diviso e indeciso sul suo futuro. Infatti, mentre Janukovyc è molto forte
nelle regioni orientali, la Tymoshenko raccoglie consensi soprattutto in quelle centrali ed
occidentali. Questa spaccatura geografica esprime simbolicamente i dilemmi dell’Ucraina di oggi,
di fatto impossibilitata a scegliere tra Unione Europea e Russia, mentre un numero elevatissimo di
persone vive ancora nella miseria più nera.
La rivoluzione arancione ha avuto senza dubbio un importante risultato: obbligare un governo
accusato di brogli elettorali a riconvocare nuove elezioni. Poco dopo, però, la Timoshenko è stata
accusata di corruzione e incarcerata: quindi, di fatto, il principale leader dell’opposizione è stato
messo fuori gioco. E quindi siamo in una situazione estremamente delicata, in una democrazia che è
decisamente sofferente.
Putin e il nuovo disegno imperiale
Arriviamo così ai giorni nostri, e possiamo dire che la Russia nazionalista di Putin è sicuramente
desiderosa di acquistare nuova potenza e nuovo prestigio: non dico di ricostruire l’impero dello Zar
né l’Unione Sovietica, ma comunque di creare una vasta area in cui alcuni paesi limitrofi siano
nominal-mente indipendenti, ma sotto l’influenza politica ed economica di Mosca. Il ragionamento
di Putin è quello di ridare nuova forza e prestigio a quella che fu l’Unione Sovietica, dopo
l’implosione degli anni Novanta, sfruttando in primo luogo le immense risorse energetiche e
minerarie della Russia. Tutti i cosiddetti oligarchi, cioè i grandi imprenditori privati che in Russia
erano riusciti a ricavarsi un loro impero economico, sono stati eliminati: si inventavano frodi fiscali
e li si metteva in carcere in maniera brutale, in modo tale che i settori davvero importanti della
Russia sono passati di nuovo sotto il controllo statale. Formalmente non è più un’economia
socialista, nel senso che i pesci piccoli possono sopravvivere (in un regime comunista non potevano
neanche quelli), ma i veri centri di potere sono stati di nuovo ripresi sotto il controllo dello stato.
Il secondo disegno di Putin è, ovviamente, ridare importanza alla Russia a livello internazionale.
Il progetto complessivo di Putin è di riportare la Russia ad essere una grande potenza politica,
rispettata ed economicamente, potente, in un mondo che non sia più unipolare.
Pensate ai primi anni 2000: quando Bush decide, di propria iniziativa, di invadere l’Iraq, non c’è
nessuno che può fermarlo. Nel disegno di Putin, il mondo del futuro non dovrà essere unipolare e
neppure bipolare (USA e Cina), ma avere un terzo polo importante. Oltre a Stati Uniti e Cina, il
terzo centro decisionale dovrà essere la Russia, grazie alla sua economia e al suo prestigio
geopolitico. Naturalmente, se l’Ucraina (che per un nazionalista russo non ha neppure diritto ad
esistere, perché parte integrante della Russia) sfugge al controllo geopolitico, il progetto di Putin
subisce uno scacco formidabile. Ecco che allora si può rispettare l’indipendenza formale
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dell’Ucraina, ma a patto che quel paese guardi verso Est e non verso Ovest (come la Bielorussia):
proprio ciò che – dopo la carestia, dopo la guerra, dopo Chernobyl: insomma, dopo l’esperienza
traumatica del Novecento – la componente autenticamente ucraina del paese non vuole più fare.
Intanto la mossa di Putin è stata quella di mostrare i muscoli in Crimea, ma il terrore di tutti è che
la crisi non si fermi alla farsa del referendum e all’annessione di fatto della Crimea: il problema
vero (e il terrore di tutti) è che all’interno del paese gli odi nazionali, gli odi identitari, alimentati
anche da componenti religiose forti e dagli spettri del passato, mettano in moto uno scenario alla
jugoslava.
Lo scenario più apocalittico che tutti noi temiamo (siamo nel centenario della Prima guerra
mondiale…) è che ognuno veda in un gesto compiuto da una controporte una sfida assolutamente
inaccettabile. Soprattutto, la paura di tutti è che la difesa dei russofoni – il pretesto che ha portato
all’annessione russa della Crimea – spinga la Russia a invadere l’Ucraina orientale; nel qual caso,
saremmo di fronte allo scenario più tragico, si arriverebbe ad uno scontro armato estremamente
duro e violento.
Come agirà Putin? Questa è una domanda alla quale, nell’immediato, non riesco a rispondere.
Posso dire che ci sono molti analisti russi che ritengono che Putin sta giocando una partita molto
rischiosa, ma non vuole giocarla fino in fondo, perché poi alla lunga potrebbe essere
controproducente anche per la Russia. Bisogna vedere fino a che punto tutti gli attori sono disposti
ad esporsi. Capite che il problema è proprio questo. Quindi che cosa accadrà, purtroppo, non siamo
in grado di dirlo, fino a che punto uno bluffa o invece fino a che punto è disposto a giocare per
davvero.
Purtroppo, l’unica cosa che posso dire è che questo discorso è già stato fatto nel 1914. Ognuno
giocava al rialzo dicendo: <<Vedrai che poi, se io alzo ancora la posta, sarà lui a cedere>>. Ecco,
non vorremmo che ciò capitasse di nuovo. Naturalmente, non sto pensando che il mondo
sprofonderà presto in un nuovo conflitto apocalittico: però, senza dubbio, perfino una guerra
limitata sarebbe una tragedia gigantesca. E da questo punto di vista dobbiamo essere onesti: il
rischio è serio.