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Forum per un "Congresso della Sinistra" ... sempre aperto • La lunga strada del migliorismo e la fine del PCI
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Re: La lunga strada del migliorismo e la fine del PCI

Inviato: 23/07/2012, 11:08
da Stratos58
Sarebbe quasi poter dire che ..... è stata la fase fondante per gettare le basi alla successiva "discesa in campo".
Ed ora ne conosciamo le conseguenze.

Re: La lunga strada del migliorismo e la fine del PCI

Inviato: 23/07/2012, 12:20
da mariok
A me sembra, quella proposta nella seconda parte dell'articolo, una lettura un po' semplificata della "evoluzione" del PCI a partire dagli anni '70.

E' pur vero che "parti importanti del partito, non solo nel gruppo dirigente, a iniziare dagli anni ’70 erano andate mutando molecolarmente la propria cultura politica e abbracciavano ormai punti di vista e culture politiche diverse. Erano divenuti parte (subalterna) di un diverso sistema egemonico.", ma non credo che tale fenomeno sia sufficiente a spiegare le posizioni che il PCI via via espresse negli anni '70 e '80 e che soprattutto una tale ricostruzione non tenga conto della figura di Enrico Berlinguer, della sua idea di "terza via", del tentativo, attraverso l'eurocomunismo, di andare al superamento delle contraddizioni del socialismo reale sovietico, ormai chiaramente in crisi, per non rinunciare all'idea di una società "alternativa" alle logiche ed al predominio del capitalismo.

La stessa concezione "sistemica" del salario e della necessità di un suo "governo" che tenesse conto delle implicazioni con il modello di sviluppo perseguito, non può essere vista al di fuori della proposta politica "dell'austerità", della sua portata non solo nazionale, dell'idea di un "compromesso" con le forze antagoniste per assicurare un passaggio democratico verso nuovi equilibri nei rapporti di classe interni ed internazionali.

Tale tentativo non fu privo di contraddizioni, di errori ed anche di sconfitte, di cui Berlinguer sembrò pienamente consapevole negli ultimi anni della sua vita, che lo vide "leader" abbastanza isolato nel suo stesso partito.

Può essere d'aiuto la seguente testimonianza di Luciana Castellina.

“Già durante il periodo dell’unità nazionale Berlinguer si rese conto che il compromesso non aveva funzionato. Ed è da allora che comincia la sua solitudine all’interno del gruppo dirigente. Vi rammento che, senza neanche avvertire il partito, nel 1978 Luciano Lama, a nome della Cgil, propose al governo e al padronato una tregua triennale che prevedeva la sterilizzazione della scala mobile e apriva al padronato sul tema dei licenziamenti. Fu proprio in quella circostanza che si cominciò ad usare l’orribile termine di “esuberi”. La “svolta” fu la risposta in avanti che Berlinguer diede al fallimento del “compromesso storico”. Era troppo tardi? Forse no, vi ricordo che nelle elezioni del 1983, quattro anni dopo la fine dell’unità nazionale e in pieno craxismo, il Pci era ancora al 30 per cento dei voti. Le sconfitte più dure vennero dopo. Ginsborg ha scritto che Berlinguer era arcaico? Per me era il più moderno dei leader della sinistra europea. Al confronto il modernismo di Craxi era assai vecchio e provinciale, conservatore. L’austerità, beceramente interpretata anche da parte della nuova sinistra, conteneva una critica anticipatrice al modello di sviluppo, a quello che è stato chiamato mercatismo. L’apertura di Berlinguer ai nuovi soggetti fu autentica: lo ricordo a Milano per un incontro con le donne. Sì studiò pile di documenti di Sottosopra, delle femministe di via Dogana vecchia. Ed erano di lettura tutt’altro che facile! Quanto alla questione morale non si trattava di accuse ai socialisti che qua e là rubavano; Berlinguer parlava di una degenerazione della democrazia, di partiti che avevano occupato lo Stato, le istituzioni, la Rai, gli ospedali. Una critica anticipatrice. Non lesinò critiche anche ai suoi: nei cinici anni 80 rivendicava la diversità per rifiutare i costumi e i valori che andavano prevalendo. Non voleva un partito che fosse ricercatore di consenso, ma costruttore di senso”.

Re: La lunga strada del migliorismo e la fine del PCI

Inviato: 23/07/2012, 15:03
da pancho
gennaio 2004
Nodi di storia del comunismo italiano

BERLINGUER UNO E DUE
Aldo Tortorella

Debbo ringraziare Rossana Rossanda che polemizzando (nel numero di novembre della rivista 1) con un mio articolo 2, ha riaperto la questione Berlinguer con una critica radicale e mi costringe, così, a ripensare cose antiche. È un esercizio non facile e un po' tormentoso. Ma, forse, può essere utile per capire meglio quel che succede oggi.
In quello scritto (dell'ottobre scorso) avevo replicato al giudizio del segretario dei Ds - Fassino - su Berlinguer, passatista e fallito, e su Craxi, modernizzatore e vincente 3. Quella sprezzante valutazione, spinta ai limiti della contumelia, riguardava il periodo ultimo della segreteria, e della vita, di Berlinguer: e solo su questo mi ero espresso.

Rossanda ha esteso il discorso. E conclude: «… difendere la figura morale di Berlinguer dall'attacco volgare della destra socialista ed ex comunista non dovrebbe precludere il giudizio su quel che il berlinguerismo è stato

Concordo pienamente. Avevo appunto fatto notare, in quell'articolo, che sono contrario a ogni visione acritica, per chiunque e in qualsiasi caso. Aggiungo che - se lo conoscevo bene - era questa anche la opinione di Berlinguer.
Proprio perciò non penso affatto quel che Rossanda mi fa dire e cioè che «se Berlinguer non fosse stato messo in difficoltà dalla morte di Aldo Moro e dalle manovre craxiane, la sorte del Pci sarebbe stata diversa». Non ho mai pensato e non ho scritto che «il declino e il dissolvimento del Pci» siano colpa di Craxi e della morte di Moro. Anzi se qualcuno sostenesse una tale tesi mi parrebbe uno sproposito e, riflettendo sulla fine del Pci 4 ho sostenuto tutt'altro, cercando di riandare, piuttosto, alla cultura costitutiva del vecchio Partito, piena di meriti, ma minata anche da contraddizioni divenute alla fine insuperabili.
Ma la mia argomentazione, dice Rossanda, «sembra suggerire» proprio quella tesi che io stesso giudicherei del tutto sbagliata. Il perché di quel «sembra suggerire» non viene dimostrato. Ma non importa. Su un «sembra», e cioè su una sensazione, è difficile ragionare. Mettiamo pure che la penna abbia tradito il pensiero. Dunque, ripeto. Ho replicato al giudizio di Fassino su Craxi e Berlinguer con tre argomenti. Il primo. La diversa eredità lasciata dai due dirigenti. Il secondo. La assurdità di definire «allo sbando», «senza bussola» eccetera un partito che, avendo visto il fallimento della sua politica (quella della solidarietà nazionale), se ne ritraeva e proponeva una nuova politica (quella dell'alternativa). Il terzo. La possibile fecondità della ricerca di fondamenti nuovi tentata da Berlinguer proprio in quell'ultimo periodo, dopo lo `strappo' con i sovietici.

Ma, obietta Rossanda, «il Berlinguer dal 1979 alla morte non è tutto Berlinguer, né quello storicamente più importante. Egli è l'uomo del compromesso storico». È certamente vero che la parte più lunga e più nota della segreteria Berlinguer è quella che prende il nome dal `compromesso storico', tradotto poi nei governi di solidarietà nazionale. Tuttavia, mi sentirei di discutere se la «parte più importante» nella vita di un politico (e di una persona) sia quella in cui segue una strada che si rivelerà infeconda o sbagliata o quella in cui riesce a criticare se stesso e a cercare una strada nuova. La cosa più difficile è correggersi. Tanto difficile che gli esempi sono rarissimi, da tutte le parti.

Che sia stato poco rilevante il tempo, successivo al '79, della autocorrezione o, come si dice, della `svolta', Rossanda lo pensa da sinistra ma non è la sola a pensarlo. Fassino definisce quella del compromesso storico «l'ultima strategia politica di Berlinguer degna di questo nome», ripetendo quello che hanno detto dirigenti del medesimo orientamento politico più anziani di lui. Molti esponenti del Pci ultrariformisti che poi diverranno fautori della democrazia dell'alternativa intesa come alternanza furono del tutto contrari - sebbene con la discrezione che si usava allora - alla rottura della solidarietà nazionale sostenuta da Berlinguer. E considerano gli anni successivi alla svolta, come accade a Rossanda, irrilevanti o peggio. Correggersi è veramente difficile.

Ma da dove veniva la politica cui Berlinguer darà il nome di `compromesso storico'? Chiarante (nel numero di dicembre 5) ha già posto in luce l'annuncio di quella politica nel Congresso (1972) che elesse Berlinguer segretario, ha ricordato la posizione anticipatrice di Chiaromonte sulla impossibilità di governare con il 51%, l'origine togliattiana della politica di `unità democratica'. Il dibattito nel gruppo dirigente del Pci da tempo non stava più soltanto - come ritiene Rossanda - tra Ingrao «più interrogato dai cambiamenti» e Amendola che «puntava alla unificazione con il Psi». Si era venuta formando un'altra posizione che convincerà alla fine la maggioranza del gruppo dirigente, una posizione nutrita fortemente della memoria dei governi unitari successivi alla Liberazione, troncati nel '47 dalla guerra fredda.

La linea - non nuova - dell'incontro tra socialisti, comunisti e cattolici per `rinnovare e risanare' l'Italia fu ripresa in quegli anni e aggiornata con il contributo decisivo di due dirigenti poco citati, Agostino Novella e Paolo Bufalini, che ebbero allora un peso rilevante nella posizione di centro del Partito. Novella era stato il più rigoroso interprete - in polemica con Amendola - proprio della politica togliattiana di unità democratica nella Resistenza, aveva diretto la Cgil fino al distacco dall'organizzazione sindacale mondiale di osservanza sovietica e sarà poi uno dei promotori della segreteria Berlinguer. Come Bufalini, cresciuto alla scuola di Togliatti, che aveva dato la sua impronta al partito siciliano e romano e sarà uno dei più attenti, da una posizione pienamente laica, ai rapporti con la Chiesa.

Ma sulla linea dell'incontro con i cattolici non mancò il contributo dei dirigenti considerati più a sinistra, anche se essi sottolineavano in particolare misura le novità rappresentate dai cattolici di avanguardia e dalla sinistra democristiana e con questi si ponevano in relazione, piuttosto che con la ufficialità vaticana. Fecero epoca i dibattiti di Ingrao con gli esponenti dei `basisti' che venivano allargando il loro spazio nella direzione della Dc. Fu dunque lunga la preparazione di quella nuova politica `unitaria', piena di ambiguità. Da un lato veniva concepita in contrapposizione con le suggestioni - soprattutto esterne - di `alternativa di sinistra' considerate irrealistiche e quasi pericolose. Ma c'era anche l'idea di un nuovo `blocco storico' trasformatore, di cui la base cattolica doveva essere parte.

Non fu, però, cosa da poco, nel linguaggio criptico e nella liturgia di allora, l'aggiunta dell'aggettivo `storico' da parte di Berlinguer alla parola `compromesso', la cui necessità era ben presente nella tradizione comunista internazionale e interna (da Brest Litovsk in poi 6). Quell'aggettivo nasceva dall'idea non solo che il `risanamento e rinnovamento' del Paese avesse bisogno di una concordia nazionale ma che l'attenuazione del contrasto di classe «per evitare la comune rovina delle classi in lotta» dovesse accompagnarsi a forme di mutamento nei rapporti tra lavoro e capitale di cui lo statuto dei diritti era stato una premessa considerata insufficiente e dovesse comportare un inizio di modificazione nel tipo di sviluppo attraverso un più forte sostegno ai consumi pubblici rispetto a quelli privati.

Berlinguer rifiutò sempre, fino alla fine, di considerare i governi di solidarietà nazionale come la traduzione del compromesso storico. Vi era, in questo, un po' del carattere della persona, fatto anche di timidezza e di ostinazione, e dunque una difficoltà reale di vedere la connessione tra le premesse e le conseguenze, tra le intenzioni e la realtà. Ma vi era anche qualcosa di vero, nel senso che non fu certo una libera scelta, una libera applicazione del compromesso storico quella che portò a governi composti solo da democristiani, sostenuti dall'esterno da tutta la sinistra (giunta ad essere il 50 per cento del Parlamento). Ed era vero che la traduzione concreta in termini di linea governativa, anche da parte dei dirigenti comunisti più integrati - sebbene dall'esterno - in quella esperienza, fu dettata da una linea scarsamente o per nulla distinguibile dal passato. Si vide alla fine il `risanamento' ma solo dei conti pubblici e, come sempre, essenzialmente a spese del lavoro. Di `rinnovamento' non vi fu traccia neppure per timidi cenni. Dal punto di vista di una forza anche solo progressista fu un fallimento indubbio.

Ma Rossanda non giudica quel tanto di distanza che ci fu tra progetto e concreto svolgimento della vicenda dei governi detti di solidarietà nazionale, sebbene è sul fallimento della esperienza di governo che si valuta il fallimento del progetto. Sicché ricade su Berlinguer anche la responsabilità che fu di altri e comunque dell'insieme. Non è un metodo giusto quello di trascurare le condizioni in cui si svolge un certo fatto per poterlo giudicare. Uno storico stimato come Paul Ginzborg - il quale pure dava un giudizio negativo sulla nascita dei governi di solidarietà nazionale - è venuto, poi, alla conclusione che era difficile fare diversamente nelle condizioni date.

Tuttavia il giudizio di fatto, che dovrebbe guardare alle condizioni concrete, non elimina la valutazione di principio. Ed è su questo soprattutto che Rossanda interviene: quella idea di compromesso storico del 1973 fu motivata dalla falsa previsione di involuzioni fascistiche che non vi furono, volle essere un accantonamento della lotta di classe da parte dei comunisti in cambio della rinuncia della Dc ad alleanze a destra e nella speranza di un rinnovamento democristiano che non vi fu, fu un brutto episodio di `autonomia del politico' contro i movimenti e le lotte sociali, fu la interpretazione del primato della politica come «primato degli accordi ed equilibri sulla scena politica» rispetto alla politica intesa «come governo della costituzione materiale del Paese», andò addirittura contro non solo le lotte nelle fabbriche ma «contro la Cgil di Lama dei primi anni '70». In più Berlinguer quando si dichiarò più sicuro sotto l'ombrello della Nato o aveva - sempre secondo Rossanda - ancora il timore di un «pericolo sovietico sempre più improbabile» oppure voleva esprimere «il riconoscimento che il capitalismo aveva vinto e doveva vincere». Il che costituisce, secondo Rossana, anche il filo di continuità fra la vicenda di Berlinguer e quella dei Ds.

Personalmente, negli anni della solidarietà nazionale, cercai di fare quel che potevo - forse perché ero il responsabile delle politiche per la cultura - perché ci si accorgesse e si dialogasse con i movimenti e poi per aiutare Berlinguer a portare fuori il Pci dalla esperienza della solidarietà nazionale. Sono ovviamente responsabile come tutti gli altri delle scelte della direzione di allora.

Ma come si vedrà poi, e fino a oggi, il mio orientamento personale non era uguale a quello di altri. Dunque, non mi considero in alcun modo un difensore del compromesso storico. Ma l'argomentazione di Rossanda mi pare che vada decisamente oltre il segno.

Se fosse compiutamente fondata la sua analisi sulla negazione della lotta di classe, della lotta sindacale, e persino della Cgil di

Lama, Berlinguer non avrebbe voluto e promosso la rottura davanti alla manifesta impossibilità di risultati innovativi. Se fosse stato convinto di una linea di abbandono del conflitto sociale, che pure esisteva nel Pci, mai egli sarebbe andato - per citare un fatto che volle essere emblematico - davanti ai cancelli della Fiat. Ma Rossanda anche su questo non si impietosisce: quando ci va è ormai tardi. Più che un'analisi, si rischia la requisitoria. Come nel romanzo popolare ottocentesco dove l'implacabile commissario perseguita, in nome della legge, il povero galeotto ormai redento e dedito alle opere di bene.

A me pare che scegliendo una visione parziale non si fa giustizia alla persona ma soprattutto non si legge la realtà. Berlinguer non è solo quello dell'ultima fase della sua segreteria, ma non è neppure solo quello della prima fase: dal punto di vista del tempo (7 anni e 5 anni) ma soprattutto per l'importanza dell'impresa. Il vero gesto di rottura della tradizione - che infatti la parte più conservatrice del Pci non gli ha mai perdonato da vivo come da morto - è proprio il rigetto della solidarietà nazionale o, se si vuole dire così, l'abbandono del compromesso storico. Esso era l'ultima propaggine di quella linea della grande unità che derivava dal rifiuto di abbandonare la `diversità' dei comunisti italiani in termini di collocazione internazionale (che faceva cadere su di loro l'interdizione al governo). Ma derivava anche dall'idea che solo con un `fronte largo', anzi larghissimo, si potesse avviare qualche riforma consistente. Solo una ormai scarsa conoscenza della realtà poteva - però - far supporre che si potesse ricominciare sulla stessa linea di trent'anni prima.

Ha ragione Rossanda che c'è una continuità tra la linea dell'unità democratica e i Ds: per esempio, nel tentativo di D'Alema per il mai nato governo Maccanico di unità nazionale e poi nel progetto fallito della Bicamerale con Berlusconi, entrambi presentati come se fossero in continuità con la politica togliattiana. Ma questa presunta continuità senza la grande unità antifascista (e senza l'Urss) si ripresentava stralunata e spaesata, fuori dal tempo e dallo spazio, come una scadente imitazione rapidamente messa fuori commercio. Bisogna però ricordare che per produrre questa imitazione si era dovuto provvedere, appunto, a ignorare, a irridere, a considerare poco importante la svolta che Berlinguer operò chiudendo con tutta la lunga tradizione che aveva avuto nella Resistenza il suo punto più alto.

La rottura con la tradizione unitaria avviene assieme con lo strappo definitivo dall'Urss. Ma anche questo era in ritardo e non abbastanza forte, secondo Rossanda. Dopo la morte di Togliatti - «che arrivò a votar contro la proposta di Conferenza internazionale degli 81 partiti comunisti» - il Pci si ferma sulla strada indicata nel memoriale di Yalta, che «prendeva le distanze» dall'Urss. Anzi Berlinguer «continuò a ricevere dall'Urss finanziamenti più compromettenti che decisivi per il bilancio del partito». E lasciò il partito ancora forte ma per poco, perché lo lasciò disarmato rispetto al crollo dell'89.

Spiace doverlo constatare ma i fatti non sono questi. Il memoriale lasciato da Togliatti alla sua morte a Yalta era segreto, destinato ad una discussione interna con il gruppo dirigente sovietico. È Longo che decide di pubblicarlo, prendendo le distanze. È Longo che si oppone alla Conferenza dei partiti comunisti per anni e, quando i sovietici la convocano ad ogni costo, vi manda Berlinguer, vice segretario, con la decisione di non votare nessuno dei documenti presentati. E Berlinguer in quella sede dichiarò (eravamo nel '69) che i comunisti non potevano concepire socialismo senza pluralismo politico, sollevando un caso internazionale clamoroso.

È Berlinguer segretario, non altri - come ha testimoniato in un suo libro Cervetti 7, allora organizzatore e amministratore del Pci - che ruppe nel '75 con i finanziamenti sovietici. Ed è ancora Berlinguer che - prima della Polonia e dell'Afganistan e dello `strappo', che sarà nell'80 - va a Mosca (era il '77) a fare una sorta di scomunica alla rovescia, proclamando il «valore universale della democrazia». Fu di nuovo un caso mondiale. Ugo la Malfa ebbe a dichiarare che bisognava smettere di chiedere al Pci altre prove di democraticità.

Si poteva, si doveva fare ancora di più? Senz'altro. Fino alla fine si sperò nella riformabilità dell'Unione Sovietica, ma non per colpa di Berlinguer che aveva scritto che non è socialismo quello che non garantisce neppure il grano per il pane. Si sperò perché, dopo la morte di Berlinguer, vennero Gorbaciov, la perestroika, la glasnost. Troppo comodo, semmai, per i dirigenti comunisti che sono rimasti - tra cui io stesso - nascondersi dietro Berlinguer perché non comprendemmo che Gorbaciov non ce l'avrebbe fatta, che la riforma sarebbe fallita o che l'avrebbero fatta fallire.

Ma se è comprensibile che da destra si rimproveri a Berlinguer di non aver concepito la rottura con l'Urss come il salto pieno dentro la accettazione del sistema dato, non mi sembra né giusto né utile, da sinistra, rimuovere quello che fu secondo me - ma credo di non sbagliare - il suo vero assillo finale. Ricostruire le fondamenta autonome di una sinistra capace di critica del sistema e di proposta riformatrice atta al governo. Anche a questo sforzo finale per distinguere il proprio partito da un sistema politico marcio e da una sinistra che sbandava nel ministerialismo si deve il mantenimento della forza del Pci, che è andata oltre la sua scomparsa: perché è su quella eredità che ancora vivono in larga misura le sinistre di oggi.

Certo, ricostruire dalle fondamenta implica un percorso difficile che non mi pare che qualcuno abbia compiuto, e che è ancora tutto davanti a noi. Fu uno sforzo complicato, per chi era cresciuto per tutta la giovinezza a fianco di Togliatti, intendere le correnti nuove che percorrevano il mondo e che il movimento operaio comunista e socialista non aveva neppure immaginato: dal femminismo della differenza all'ecologismo, al nuovo pacifismo, ai temi proposti dalla rivoluzione scientifica e tecnologica. Sono questioni che è difficile ancora oggi, a sinistra, maneggiare consapevolmente. Certo che va riscoperto lo scontro di classe. Ma non ci si può illudere che basta riprendere il discorso interrotto da quelli che potettero essere gli errori del Pci negli anni settanta. Non ci sarà niente da fare se non leggeremo il contrasto tra le classi dentro la nuova composizione sociale in una realtà globalmente trasformata e in connessione con le contraddizioni, i bisogni, i desideri nuovi. La crisi non è solo da una parte. Se la sinistra moderata sbanda al centro, quella alternativa non riesce a ricomporre la propria diaspora, il che è più grave, perché nega le speranze.
Penso che una ricerca storicamente fondata sul passato - senza preconcetti e senza rimozioni - possa aiutare a capire che cosa abbia portato il nostro paese nelle mani di Berlusconi e la sinistra italiana ed europea sino al punto in cui siamo oggi, tra la deriva moderata e la fragilità degli alternativi.
Non ho scritto questo articolo per tessere le lodi di un compagno scomparso che ha fatto anch'egli i suoi errori assieme a tante cose giuste. Ma perché, per guardare avanti, mi sembra indispensabile sfuggire all'esercizio consolatorio di dare tutta la colpa a chi non c'è più, guardando un po' di più dentro noi stessi.

http://www.larivistadelmanifesto.it/arc ... 40113.html
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Do' anch'io il mio piccolo contributo per approfondire questo tema importante posto da Giorgio. Tema, che come si suol dire oggi, si potrebbe chiamare la madre di tutta l'attuale politica Italiana e per un certo verso non solo Italiana poiche' avrebbe potuto ainfluenzare anche l'oltralpe.

Questo scriveva Tortorella nel 2004.
Son passati 8 anni da allora e non si e' volutamente fatto tesoro delle analisi anche critiche di quegli anni. Analisi che avrebbero potuto dare una svolta alla politica ma sopratutto alla sinistra ma che per incapacita' dirigenziale degli ultimi dirigenti figli del PCI e per il semplice fatto, come si e' detto, che un metro di ghiaccio non si fa in una sola notte gelida, ora ci troviamo dove ,allora, non avremmo mai pensato di trovarci.

Le nuove generazioni spesso si domandano cosa sta' succedendo alla sinistra ma se anche contoro non saranno in grado di rileggere la politica di quegli anni e quindi fare delle analisi profonde non potranno mi uscire da questa impasse. Rileggere la propria stroria per capirene gli errori, questa e' vera politica ed e' questo la sinistra lo dovrebbe capire se non vuol cadere nell'oblio per sempre.

Fare analisi solo partendo soltanto da questi ultimi anni non daranno mai una visione corretta di questa evoluzione politica che fara' poi nascere questo PD e altre correnti politiche.


Un salutone da Juan

Re: La lunga strada del migliorismo e la fine del PCI

Inviato: 23/07/2012, 16:00
da pancho
Sempre per chi ha voglia di approfondimenti

Ancora su Enrico Berlinguer

ALLE ORIGINI DEL COMPROMESSO STORICO
Giuseppe Chiarante

1.Il dibattito sulla politica di Enrico Berlinguer avviato da Aldo Tortorella e da Rossana Rossanda nei due precedenti numeri di questa rivista (su questi stessi temi Tortorella ritornerà anche nel prossimo fascicolo) sollecita a riprendere e approfondire l'analisi dei drammatici quindici anni - quelli fra il 1971 e il 1984, nei quali Enrico Berlinguer fu alla testa del suo partito - che segnarono la fase di massima espansione del Pci e insieme l'avvio del suo declino. In questo intervento mi propongo di fermare l'attenzione su alcuni momenti della prima metà degli anni settanta. In particolare sulla discussione che precedette e accompagnò l'elaborazione della proposta del `compromesso storico'; sulle ripercussioni che quella linea ebbe nella società italiana, in particolare nel rapporto con le forze di ispirazione cattolica; sulla successiva traduzione della formula del compromesso nella pratica della `solidarietà nazionale', che fu a mio avviso il vero grande errore di Enrico Berlinguer, dal quale egli cercò poi di uscire (ma purtroppo era tardi) con la svolta del 1979-80 e con le innovazioni politiche e culturali degli ultimi anni.

È chiaro che, nel ricostruire le vicende di quel periodo e nel parlare dei limiti e degli errori del Pci, mi assumo la mia parte di responsabilità per il ruolo da me allora ricoperto - in verità un ruolo piuttosto marginale, sino alla fine degli anni settanta - nel gruppo dirigente comunista. Sono convinto, però, che sia dovere di tutti - e innanzitutto di coloro che possono portare una testimonianza personale - dare il proprio contributo per ricostruire la realtà dei fatti e insieme per cercar di comprendere meglio le cause di quegli accadimenti. Sarebbe funesto, invece, abbandonare il campo (come in parte è già avvenuto) alla storiografia non soltanto di indirizzo revisionista, ma schiettamente anticomunista che è venuta di moda in questi ultimi anni. Così come sarebbe sbagliato non cercare di opporre un'analisi più attenta e meditata alle rozze strumentalizzazioni con le quali anche dirigenti `diessini' (compreso Piero Fassino, nel suo recentissimo libro) hanno tentato e tentano di giustificare con i presunti `errori' di Berlinguer - il suo `conservatorismo', contrapposto alla `modernità' di Craxi - i gravi cedimenti al moderatismo e al liberismo che nell'ultimo decennio hanno caratterizzato la politica dei Democratici di sinistra.

2. Un primo punto che mi pare opportuno sottolineare è che la proposta del compromesso storico, se fu formulata da Enrico Berlinguer nell'autunno del 1973 nei tre famosi articoli su «Rinascita» 1 dedicati al colpo di stato - sostenuto dagli Stati Uniti - che aveva abbattuto in Cile il legittimo governo democratico di Salvador Allende, era però già venuta maturando, nel gruppo dirigente comunista, nel corso del dibattito che precedette, accompagnò, seguì il XIII Congresso del Pci, svoltosi a Milano dal 13 al 17 marzo 1972, negli stessi giorni della tragica morte di Giangiacomo Feltrinelli.

La proposta uscita da quel congresso, rilanciata con chiarezza da Berlinguer nel rapporto al Comitato centrale del 7-9 febbraio 1973 2, era infatti quella di «un programma di rinnovamento e risanamento nazionale», che per realizzarsi richiedeva «l'incontro e la collaborazione di tutte le forze democratiche e anzitutto delle tre grandi componenti del movimento popolare italiano: quella comunista, quella socialista e quella cattolica» 3. Della possibilità di tale incontro Berlinguer vedeva una conferma nella convergenza fra Cgil, Cisl e Uil, nella larga partecipazione di forze cattoliche alle manifestazioni per il Vietnam e alla battaglia antifascista, nelle comuni iniziative per le riforme soprattutto in sede regionale e locale.

Nel 1973 la discussione nel partito si sviluppò largamente - e anche con varietà di accenti, come vedremo - sulla linea da seguire per far maturare la prospettiva indicata dal Congresso. Un particolare rilievo assunse, in quella discussione, l'impegno con cui fu preparato un numero speciale del «Contemporaneo» (allora supplemento mensile di «Rinascita») dedicato all'analisi e al dibattito sulla `questione democristiana'. Ricordo bene quell'episodio, perché a quella pubblicazione fui chiamato a partecipare sin dall'impostazione, essendo considerato un `esperto' nelle vicende democristiane e sulla questione cattolica.

Il «Contemporaneo» uscì, con dodici articoli che affrontavano vari aspetti della realtà democristiana 4, inserito nel numero di «Rinascita» del 25 maggio 1973. L'articolo principale, che apriva il fascicolo, era opera di Gerardo Chiaromonte, che non era soltanto il direttore di «Rinascita» in quel periodo, ma uno dei principali esponenti della destra comunista, il cui peso era allora determinante nelle scelte politiche del partito. È particolarmente significativo che in quell'editoriale, che pure precede di diversi mesi il colpo di stato in Cile, Chiaromonte anticipava quasi alla lettera (persino sul tema, che più tardi susciterà tante polemiche, dell'impossibilità di governare col 51 per cento) le analisi e le argomentazioni con cui in autunno Enrico Berlinguer, nei tre articoli su «Rinascita», avrebbe presentato la proposta del compromesso storico. Infatti Chiaromonte, dopo aver sottolineato i pericoli di contrapposizione frontale con la Dc, che spingeva quel partito a un alleanza organica con la destra, così proseguiva: «Diciamo di più: ammesso che le sinistre laiche, socialiste e comuniste conquistassero il 51 per cento dei voti, superassero le loro divergenze e riuscissero a mantenere la loro compattezza e a formare un governo di sinistra, il progresso democratico e sociale dell'Italia non potrebbe essere assicurato in una contrapposizione frontale contro l'altro 49 per cento, al di fuori, cioè, della ricerca del consenso e della collaborazione con il grosso delle masse cattoliche e con le loro rappresentanze sindacali e politiche. […] Perciò il punto vero dal quale dipende, in grande parte, la realizzazione della svolta democratica è che la Dc cambi profondamente la sua politica e che alla sua testa vi siano uomini e gruppi schiettamente democratici e antifascisti, che abbiano una visione democratica e nazionale dei problemi del paese». Operare perché nella Dc si determinasse questo cambiamento, e si creassero così le condizioni per un nuovo incontro fra le forze antifasciste doveva dunque essere, per Chiaromonte, l'impegno fondamentale del Pci 5.

Come si vede, nell'editoriale di Chiaromonte che nel maggio '73 apriva il numero del «Contemporaneo» sulla `questione democristiana' era già lucidamente esposta, a parte la formula specifica del `compromesso storico', tutta la sostanza della proposta che Berlinguer avrebbe formulato quattro mesi dopo, nei tre famosi articoli su «Rinascita». Ciò dimostra che la tragedia cilena, se indubbiamente destò grande emozione, ebbe però un ruolo accidentale nella scelta della politica del compromesso storico. Quella scelta, infatti, era già compiutamente maturata, da diversi mesi, nella maggioranza del gruppo dirigente del Pci, con particolare impegno da parte della destra comunista.

In ogni caso nel numero del «Contemporaneo» non mancavano altri accenti. Si differenziava, in particolare, l'articolo di Pietro Ingrao. Mentre l'articolo di Chiaromonte poneva l'accento sul tema, tipico della destra del PCI 6, dell'`arretratezza italiana' (arretratezza economica, sociale, politica, che poteva dar fondamento allo scivolamento a destra della Dc), viceversa Ingrao muoveva, nella sua analisi, dal ruolo che la Dc aveva avuto nella modernizzazione del paese e dalla mediazione da essa esercitata, attraverso le strutture dell'interclassismo, fra trasformazione capitalistica e interessi di ampi ceti popolari. La crisi della Dc, e dello stesso centro-sinistra, nasceva dall'esaurirsi di queste mediazioni, di fronte ai nuovi problemi che si ponevano nello sviluppo del paese. È dunque nel cuore della società che occorreva soprattutto agire, secondo Ingrao 7, per incidere su questa crisi: puntando su una crescita della «democrazia organizzata, che allarghi la partecipazione delle masse, le faccia uscire dalla delega ai notabili e le coinvolga in grandi esperienze politiche unitarie». Tale crescita democratica, e lo sviluppo dell'esperienza «dell'unità e dell'autonomia delle classi lavoratrici» sono anche «la condizione per spostare verso un nuovo orizzonte, verso un altro tipo di sviluppo, anche forze borghesi, cioè per incidere su un'area vasta (e non soltanto su frange) della Democrazia cristiana».

Quanto al mio articolo 8, esso proponeva una visione pessimistica del dibattito aperto nella Dc in vista del congresso che si sarebbe svolto di lì a poco. Rilevavo, infatti, la povertà culturale e politica di quel dibattito, che non dava risposta né ai grandi interrogativi emersi dal Concilio, né ai problemi posti dall'esaurimento dello sviluppo degli anni '50 e '60, né alle domande dei nuovi movimenti nati dal '68. Concludevo che non era detto che la Dc trovasse la capacità di uscire da questa crisi.
In ogni caso, come era ovvio, fu l'editoriale di Chiaromonte a indicare la prospettiva ufficialmente proposta dal gruppo dirigente. Il dibattito che ne derivò servì a preparare il terreno, anche alla base del partito, alla proposta del compromesso storico così come fu formulata da Berlinguer negli articoli sul Cile.

3. Ma perché, nonostante la forte spinta verso sinistra che attraversava in quel momento la realtà sociale e politica italiana e che scuoteva in profondità le radici dell'egemonia della Dc, il gruppo dirigente comunista fu sostanzialmente compatto (con le ben note eccezioni di Luigi Longo e di Umberto Terracini) attorno alla proposta del compromesso storico, a parte le sfumature nell'interpretarla e applicarla? E perché, in particolare, Enrico Berlinguer insistette con tanta tenacia nel ricercare l'intesa con la Dc come condizione necessaria per una svolta di risanamento e rinnovamento?

Rossana Rossanda avanza in proposito, nel suo intervento sull'ultimo numero di questa rivista, l'interpretazione che sia stato un «surplus gramsciano, o presunto tale» a spingere Berlinguer ad annebbiare l'analisi di classe e a privilegiare la considerazione etica che vi fosse una maggiore possibilità di intesa con i cattolici, perché «meno assatanati dai consumi che non i centristi laici». Ho già detto che condivido (e ho sottolineato il significato anche autocritico che, per quel che erano le mie responsabilità, attribuisco a questa condivisione) il giudizio severo che Rossanda dà sui guasti prodotti dal compromesso storico e soprattutto della sua traduzione nell'esperienza della solidarietà nazionale. Non sono invece d'accordo con l'interpretazione proposta circa le motivazioni di quella scelta. Sembra a me, infatti, che un sia pur malinteso gramscismo avrebbe spinto a dedicare molta maggiore attenzione a ciò che si muoveva (e dopo il '68 era davvero molto) nella società e nella cultura, e in particolare alle nuove domande espresse dai movimenti giovanili, dalle esperienze femministe, dalla nuova problematica espressa dalle stesse lotte operaie. In effetti nei primi anni settanta Enrico Berlinguer riservò maggiore interesse, rispetto ad altri dirigenti del Pci (basta pensare alla dura critica di Amendola contro il '68), a quest'insieme di fatti: in particolare ai movimenti delle donne, alle tematiche dell'ambiente, all'emergere di nuove soggettività collettive che non erano riducibili ai partiti. Ma su questo interesse finì per prevalere, sotto l'incalzare della crisi, l'idea che un'azione di rinnovamento potesse realizzarsi promuovendo una ripresa dell'unità antifascista tra le grandi correnti popolari che avevano fatto la Costituzione: dando vita così a quella seconda tappa della rivoluzione democratica e antifascista in cui, per Berlinguer, si sarebbe dovuta tradurre la politica del compromesso storico. Pare a me, perciò, che quella proposta rispondesse, più che a un'ispirazione gramsciana, ai fondamenti unitari della politica di Togliatti: ma un Togliatti riletto, secondo la mentalità di quelli che potremmo chiamare i suoi `nipotini', in chiave fortemente riduttiva e verticistica.

Ma quali furono, dunque, le motivazioni di fondo che determinarono la scelta di Berlinguer e del gruppo dirigente comunista? Due, fondamentalmente, a me pare. La prima - che nessuno potrebbe considerare del tutto infondata - riguardava i pesanti condizionamenti negativi sia interni (i `poteri forti', compresa una parte della gerarchia ecclesiastica) sia internazionali (non solo gli Stati Uniti: basta pensare al ruolo ostile svolto in quegli anni dal governo socialdemocratico tedesco di Helmut Schmidt 9) contro la prospettiva di un accesso dei comunisti al governo dell'Italia. Non può perciò sorprendere che Berlinguer potesse pensare - tanto più nel clima di crescente tensione che caratterizzò quegli anni - che fosse possibile superare quegli ostacoli attraverso un accordo con la Dc o almeno con una sua parte importante.

La seconda motivazione si fondava, invece, su una valutazione che si sarebbe dimostrata errata: ossia la valutazione di Berlinguer (e non solo sua) che le incertezze e le difficoltà che a partire dal 1970 si erano venute accentuando nell'economia occidentale fossero il segno - a parte lo choc della crisi petrolifera - del palesarsi di una crescente incapacità del capitalismo, aggravata in Italia dalla debolezza e dal conservatorismo della borghesia nostrana, di far fronte alle sue interne contraddizioni, evitare la recessione, avviare un nuovo sviluppo. In realtà quella non era per nulla - come poi è apparso evidente - una fase di stagnazione.

Certo, giungeva a conclusione l'espansione economica che aveva caratterizzato i decenni successivi alla Seconda guerra mondiale: ma dietro l'apparente arresto dello sviluppo già si stava avviando (anche se, sul momento, non molti se ne rendevano conto) un processo di riorganizzazione e ristrutturazione economica che sarebbe sfociato nella fase del postfordismo. Di questo non si accorgeva Enrico Berlinguer, che anche su questo terreno era allora fortemente condizionato dalle posizioni della destra comunista, chiaramente illustrate dalla visione stagnazionista che ispirava in quegli anni le analisi di Giorgio Amendola 10. Questa interpretazione delle ragioni della crisi economico-sociali del paese portava Berlinguer, e la maggioranza del gruppo dirigente comunista, a ritenere che la proposta di un'intesa con una Dc che correggesse la sua politica era anche la strada obbligata per stabilire almeno con la parte più illuminata della borghesia italiana un diverso rapporto, che evitasse `la comune rovina' delle due classi in lotta e consentisse di riprendere, nella democrazia, un cammino di risanamento e di progresso sociale ed economico.
Si determinava però, in questo modo, una situazione paradossale: proprio nel momento in cui giungeva a poter contare in modo più incisivo nella direzione politica del paese, il movimento operaio italiano offriva una mano alla borghesia per aiutarla a uscire dalle difficoltà, vere o presunte, in cui essa era venuta a trovarsi.

4. C'è però un altro aspetto da considerare - ed è certamente un aspetto di grande rilievo - per comprendere perché, nonostante tutto, la proposta del compromesso storico raccolse tanto consenso, almeno fino alle elezioni del 1976, dentro e fuori dal Partito comunista e fu certamente uno dei fattori che maggiormente contribuirono a portare il Pci al massimo delle sue fortune elettorali. Mi riferisco alla `felice ambiguità' presente in quella proposta: che da un lato, presentandosi come un'apertura verso il centro laico e cattolico, consentiva al Pci di penetrare anche in settori di orientamento moderato e comunque faceva cadere vecchi pregiudizi anticomunisti; ma d'altro lato continuava ad essere accompagnata da una severa polemica e da una lotta dura contro la Dc, il suo sistema di potere, la politica delle clientele e delle mance, la corruzione e il malgoverno: e appariva perciò come una proposta di alternativa, in ogni caso di profondo cambiamento nella direzione dell'Italia.

Non va al riguardo dimenticato che il lancio della formula del compromesso storico fu quasi immediatamente seguito dallo scontro sul divorzio, nel quale tutto lo schieramento laico e di sinistra si oppose alla Dc e alla destra, ma la forza del Pci fu fondamentale nel determinare la sconfitta del referendum abrogativo 11; e che poi la preparazione della campagna per le elezioni regionali e amministrative del '75 si intrecciò sia con la crescita di un movimento sindacale che aveva il suo punto di forza nella stretta unità tra Cgil, Cisl e Uil sia con grandi battaglie di riforma sui temi della scuola, della sanità, dei servizi sociali, del decentramento democratico sia, infine, con la tematica delle `mani pulite', con la lotta alle clientele e al malgoverno, con la rivendicazione di un modo nuovo di amministrare e governare.

Un punto che, a proposito di queste vicende, va particolarmente sottolineato - in rapporto alla questione, mai ben risolta nella formulazione della proposta del compromesso storico, del rapporto tra questione cattolica e questione democristiana - è il rilievo che assume in questa fase una vasta area di cattolici 12 (il cosiddetto `dissenso', in tal modo qualificato dalla stampa in termini per la verità impropri), che si differenzia esplicitamente e anzi si contrappone alla linea ufficiale della Dc; e che innanzitutto sulla questione del divorzio, ma più in generale sui temi della pace, della democrazia, del risanamento e del diverso sviluppo del paese si colloca su una linea di aperta collaborazione con i comunisti. Alla base di questa scelta c'erano, evidentemente, le istanze di rinnovamento che erano frutto del grande risveglio conciliare; ma c'era anche, in termini molto concreti, l'insofferenza che era venuta crescendo nel corso degli anni nei confronti del malgoverno di tanti esponenti democristiani. L'importanza del contributo che settori anche estesi del mondo cattolico diedero alle battaglie di quegli anni e il rilievo di alcune delle personalità che furono alla testa di quel movimento (ricordo solo i nomi di Raniero La Valle, di Piero Pratesi, di Giovanni Gozzini, di Paolo Brezzi, di Adriano Ossicini e su un altro piano di Claudio Napoleoni) stanno a dimostrare che un'azione meno preoccupata di giungere rapidamente a intese di vertice col gruppo dirigente della Dc e invece rivolta - anche con la necessaria gradualità e pazienza - a fare maturare il dialogo con i settori del mondo cattolico più sensibili alle istanze di un reale rinnovamento, avrebbe forse potuto dare un diverso sbocco alla stessa strategia del compromesso storico.

In ogni caso anche la campagna per le elezioni amministrative del 1975 e la gestione del risultato altamente positivo ottenuto dal Pci in quell'occasione 13 apparvero ispirate più alla logica della costruzione di un'alternativa che a quella della ricerca a ogni costo di un'intesa unitaria tra tutte le forze democratiche e antifasciste. In questo clima anche la preparazione delle elezioni politiche del 20 giugno 1976, che portarono il Pci al suo massimo storico, avvenne sotto la spinta di una diffusa e radicale domanda di cambiamento, sebbene già fosse avviato il dialogo con Moro per la ricerca di una soluzione concordata. Il successo del Pci nel voto del 20 giugno 14 esprimeva, perciò, nel sentimento delle grandi masse (particolarmente nel Nord e nel Centro del paese) la richiesta di perseguire e costruire coerentemente - senza dubbio anche col contributo di forze di ispirazione cattolica, in particolare quelle animate dagli impulsi del rinnovamento conciliare - un'alternativa culturale, morale, politica alla gestione dello Stato messa in atto dai governi democristiani e al tipo di sviluppo che questi governi avevano dato al paese.

In rapporto a questa domanda, la decisione adottata da Berlinguer e dal gruppo dirigente comunista dopo le elezioni, quella cioè di consentire con l'astensione, assieme agli altri partiti democratici, la formazione di un monocolore democristiano presieduto da Andreotti, non poteva non suscitare, in larghi settori del partito e dell'elettorato, dubbi, sconcerto, delusione: che erano rapidamente destinati a crescere, di fronte alla sconfortante esperienza pratica della solidarietà nazionale.

Ma perché la strada scelta fu, quasi senza discutere, quella dell'astensione? Quali furono le ragioni di fondo che portarono a questa decisione? E davvero non erano possibili, pur nell'ambito della strategia sin allora seguita, altre soluzioni o, per lo meno, l'avvio di un diverso percorso? Su questi interrogativi conviene ritornare, con adeguata analisi, in una prossima occasione.
http://www.larivistadelmanifesto.it/arc ... 31213.html
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Questo articolo avrebbe dovuto essere dovuto inserito stata prima del precedente sopra. Cmq e' del tutto ininfluente per questa discussione

un salutone da Juan

Re: La lunga strada del migliorismo e la fine del PCI

Inviato: 24/07/2012, 0:15
da Stratos58
Grazie Pancho, mi hai fatto tornare giovane !

Re: La lunga strada del migliorismo e la fine del PCI

Inviato: 28/08/2012, 9:04
da aaaa42
Una nuova economia per una nuova Europa (“il manifesto”, 25 luglio 2012)

Inserito da Guido Viale on luglio 25, 2012

Una classe dirigente inetta, incolta, arrogante, asservita sta portando alla rovina l’Europa e con essa le principali conquiste che il movimento operaio e la cultura democratica avevano realizzato nel corso di un secolo di lotte: contrattazione collettiva, “pieno impiego”, diritti sindacali, sanità, pensione, istruzione, ricerca e cultura come diritti universali: promossi per il bene di tutti e non nel solo interesse di chi li paga o ne beneficia. La combinazione e l’emersione contemporanea di tante manchevolezze nelle nostre classi dirigenti è riconducibile all’adesione di tutte, per molti esplicita e per gli altri sottintesa (in base all’assunto che “non c’è alternativa”) alla teoria liberista che affida il governo della società al mercato; anzi, ai “mercati”: sempre meno identificati come un sistema di relazioni tra soggetti indipendenti e sempre più come un insieme di potenze imperscrutabili nelle cui mani è riposto il destino del mondo. Sotto la copertura di questa pseudoteoria che ha impregnato di sé i vertici di imprese, istituzioni finanziarie, governi, partiti e mondo accademico si sono andati realizzando, nel corso dell’ultimo trentennio, l’asservimento totale della vita di intere popolazioni e dei loro governi, da un lato, al potere della finanza (e un gigantesco trasferimento di risorse dal lavoro al capitale) e, dall’altro, a uno spirito proprietario (condito di nazionalismo e razzismo: “padroni in casa nostra”) che quelle stesse classi dirigenti sono andate diffondendo per “fidelizzare” il loro elettorato. La politica è stata così ridotta a mera contabilità: dapprima sostenendo che solo il mercato promuove il benessere; da quando è scoppiata la crisi, terrorizzando la gente con la prospettiva di disastri crescenti se non si obbedisce ai “mercati”, sacrificando loro ogni volta qualcosa. “Sacrifici” che non bastano mai: ogni nuova misura viene prospettata come risolutiva per poi scoprire che non basta ancora e che ce ne vogliono altre. In questa rincorsa alle richieste dei mercati anche l’unione politica dell’Europa è stata declassata al rango di mera misura per far fronte agli spread: una misura contabile da affiancare all’unione bancaria, agli eurobond, al “fondo salva-stati”, alla mutualizzazione dei debiti, alla trasformazione della BCE in prestatore di ultima istanza, ecc. Non c’è progetto; non ci sono valori condivisi; non c’è road-map; non c’è alcuna idea né considerazione per la democrazia. Confrontate questo non-pensiero con gli ideali dei “padri spirituali” o con la cultura dei fondatori della Comunità Europea: avrete una misura della caduta dello Zeitgeist di tutto l’Occidente.

Di questa cultura da contabili Monti e Draghi sono oggi gli esponenti di punta, per molti versi intercambiabili. Solo mere contingenze temporali hanno assegnato all’uno il governo dell’Italia e all’altro quello della BCE. Qualche mese in più o in meno avrebbe potuto invertire le loro carriere e i loro ruoli: sono entrambi espressione dello spirito predatorio della banca Goldman Sachs che li ha allevati. Formula, missione e filosofia del “governo tecnico” di Monti sono la traduzione in lingua odierna di un cartello che ornava gli uffici pubblici del ventennio fascista: “Qui si lavora e non si fa politica”. La politica, cioè il governo e l’autogoverno della società, erano stati da tempo aboliti dai partiti che hanno preparato l’avvento di Monti e che oggi ne sostengono il governo. Sappiamo dove ci ha portato quel cartello: cultura soffocata, libertà distrutta, leggi razziali, guerra, milioni di morti, distruzione del paese. Non sappiamo ancora – ma possiamo immaginarlo guardando la Grecia, che ci precede di qualche mese lungo un cammino segnato – dove ci porterà un “governo tecnico” che si adegua ai diktat della finanza internazionale.

È evidente che lungo questo tragitto non solo la Grecia o la Spagna, ma l’Europa intera, Germania e satelliti compresi, sono votati al disastro. In tempi di globalizzazione non esiste una via di ritorno alle sovranità dei singoli paesi, come non esiste via di ritorno alle valute nazionali che non siano un disastro ancora peggiore. Il mondo è cambiato e ripercorrere le vie battute nei cosiddetti “trent’anni gloriosi” (1945-1975) non è più un’alternativa praticabile. Bisogna convertire il sistema a nuove produzioni compatibili con i limiti ambientali del nostro pianeta; ma anche questo non basta. Perché per poterlo fare ci vogliono una nuova cultura e una nuova classe dirigente che se ne faccia interprete (quelle attuali sono quasi interamente da rottamare); e la corresponsabilizzazione di una vasta cittadinanza attiva a loro supporto. Una svolta epocale. Saremo mai in grado di farcene promotori? Sì; e per molti motivi:

Innanzitutto, gli attuali esponenti dell’establishment europeo e occidentale – come l’apprendista stregone che non riesce a controllare le potenze occulte che lui stesso ha evocato – sono incapaci di trovare una soluzione alla strapotenza della finanza a cui hanno sciolto le briglie. L’impotenza della BCE non è il frutto di un errore di progettazione, ma della scelta di sottrarre ai governi il controllo di uno strumento fondamentale della sovranità – la creazione di moneta – per contenere le rivendicazioni salariali e l’espansione del welfare finanziato con la spesa pubblica;

In secondo luogo non bisogna sopravvalutare nemmeno le loro competenze: creare un GAS (Gruppo di acquisto solidale) o dirigere un cooperativa sociale o un quotidiano come il manifesto è spesso più difficile che diventare amministratore delegato di una grande banca grazie agli appoggi politici di persone altrettanto incompetenti. E i risultati si vedono!

Poi possiamo e dobbiamo ricostituire delle scuole di auto formazione – quel ruolo una volta svolto dai partiti, e da tempo abbandonato – contando su una molteplicità di competenze e di buone pratiche oggi completamente ignorate, svalorizzate, se non derise, dalla cultura ufficiale.

Ma soprattutto dobbiamo fare nostra l’idea che non esiste democrazia politica senza democrazia economica, cioè autogoverno nei e sui luoghi della produzione e del lavoro. È questo il grande buco nero del pensiero politico del secolo scorso: l’idea che si possa contare nella società anche se le decisioni su cosa, come, dove e per chi produrre vengono sottratte alla comunità che ne dipende. La storia del ventesimo secolo è stata di fatto un percorso di progressiva espropriazione delle classi popolari e lavoratrici dalle componenti più significative della loro esistenza. Da un lato, il fordismo, che dalla fabbrica ha progressivamente investito tutta la società, ha svuotato il lavoro del suo contenuto, della possibilità di far valere i propri saperi e il proprio saper fare nella determinazione dei rapporti con le altre componenti della società e, in particolare, nei rapporti di forza con il capitale. Dall’altro il consumismo ha svuotato la vita quotidiana, la riproduzione della vita sociale, l’insieme del lavoro di cura, riducendole all’acquisto di merci e al consumo di servizi sempre più “mercificati”: quelli che il mercato offre, che la pubblicità impone e che il nostro reddito consente. Ma da tempo questi processi sono arrivati al capolinea: non sono più sostenibili, né economicamente né ambientalmente, e milioni di persone si sono già messi alla ricerca di soluzioni alternative, di un “mondo diverso”.

Un recupero di democrazia, di possibilità e capacità di autogoverno, non può basarsi solo su aspetti formali, sulla possibilità di concorrere a decidere sulle leggi e sul loro rispetto, che pure sono aspetti essenziali. Una vera democrazia ha bisogno di affiancare alla rappresentanza formale sedi e strutture di partecipazione sostanziale in tutti gli ambiti: e innanzitutto in quelli della produzione, del lavoro e della cura. Partecipare non vuol dire solo “scegliere”, delegando alle proprie rappresentanze o al mercato il compito di rendere operative le nostre scelte. Vuol dire contribuire, con l’interezza delle nostre persone, dei nostri corpi, dei nostri affetti, dei nostri saperi, della nostra esperienza, alla realizzazione delle nostre scelte.

Se l’”uomo artigiano”, che riunisce nella stessa figura competenza tecnica, manualità e affettività – o per lo meno, grande attenzione – nei confronti dell’oggetto del suo lavoro (pensiamo al lavoro di chi ripara o mantiene oggetti o impianti non più funzionanti) è l’emblema di una figura professionale che va oltre – in positivo – al fordismo; e se il consumo critico, nella sua accezione più ampia, a partire dalle forme di condivisione promosse nei gruppi di acquisto solidale, adombra la strada di un modello di cura della vita quotidiana che va oltre la ripartizione tradizionale dei ruoli tra i generi, il cuore di una riconversione ecologica del sistema sarà il processo attraverso cui una intera comunità, coinvolgendo in esso i governi locali, l’associazionismo e l’imprenditoria disponibile, prende in carico le sorti delle produzioni che insistono sul proprio territorio di riferimento, a partire dai servizi pubblici locali, dalle aziende in crisi e votate alla scomparsa, dall’agricoltura di prossimità.

Certamente una nuova idea di Europa non può prescindere da un confronto a tutto campo con il potere della finanza, imponendo una radicale ristrutturazione dei debiti (una soluzione che ormai cominciano a prendere in considerazione anche diversi economisti mainstream), prima che sia la finanza a portare allo stremo, una dopo l’altra, le economie di tutti i paesi. Ma una prospettiva del genere ha senso solo alla luce di un programma di respiro globale che miri, insieme alla riconversione su nuove basi del sistema economico, all’instaurazione di un autentico autogoverno di ogni comunità sulla base di un recupero dell’autonomia personale di tutti i suoi membri.

Re: La lunga strada del migliorismo e la fine del PCI

Inviato: 28/08/2012, 9:42
da mariok
Certamente una nuova idea di Europa non può prescindere da un confronto a tutto campo con il potere della finanza, imponendo una radicale ristrutturazione dei debiti (una soluzione che ormai cominciano a prendere in considerazione anche diversi economisti mainstream), prima che sia la finanza a portare allo stremo, una dopo l’altra, le economie di tutti i paesi. Ma una prospettiva del genere ha senso solo alla luce di un programma di respiro globale che miri, insieme alla riconversione su nuove basi del sistema economico, all’instaurazione di un autentico autogoverno di ogni comunità sulla base di un recupero dell’autonomia personale di tutti i suoi membri.
Pienamente d'accordo. Ma ancora una volta, siamo fermi alla premessa. Manca il "corpo" del discorso, cioè l'esplicitazione delle forme e delle modalità (e soprattutto delle garanzie contro il riprodursi di caste di burocrati) con cui dovrebbe prender corpo "un autentico autogoverno" di tutte le comunità.

E' un discorso che resta a mezz'aria e che non riesce ad andare oltre una velata nostalgia per un'improbabile riaffermazione de "l'uomo artigiano" e di una società preindustriale.

Re: La lunga strada del migliorismo e la fine del PCI

Inviato: 28/08/2012, 9:52
da Maucat
Manca come sempre da diversi decenni il passaggio dalla teoria alla pratica...
Affermazioni di principio condivisibili ma poi nessuna indicazione sul come metterli in pratica e sulla loro applicazione sulla società attuale...
Su questa dicotomia teorico/pratica del Riformismo il Capitalismo/Consumismo continua a gettare le basi della sua vittoria che ci sta riportando indietro di quasi 150 anni...

Re: La lunga strada del migliorismo e la fine del PCI

Inviato: 28/08/2012, 15:35
da paolo11
Stratos58 ha scritto:Sarebbe quasi poter dire che ..... è stata la fase fondante per gettare le basi alla successiva "discesa in campo".
Ed ora ne conosciamo le conseguenze.
Caro Stratos58 .Nel 1985 il PCI indette il referendun per la scala mobile.E lama non era daccordo.Quello è stato un errore che fece il PCI.
Non avendo fatto i conti che andavano a votare tutti i cittadini.Preti suore artigiani commencianti industriali eccc..
Quindi lo perse.
Oggi siamo andati oltre, non abbiamo nessuna copertura sull'inflazioni per due anni.Ne di quella programmata o reale.
Ciao
Paolo11