Sempre per chi ha voglia di approfondimenti
Ancora su Enrico Berlinguer
ALLE ORIGINI DEL COMPROMESSO STORICO
Giuseppe Chiarante
1.Il dibattito sulla politica di Enrico Berlinguer avviato da Aldo Tortorella e da Rossana Rossanda nei due precedenti numeri di questa rivista (su questi stessi temi Tortorella ritornerà anche nel prossimo fascicolo) sollecita a riprendere e approfondire l'analisi dei drammatici quindici anni - quelli fra il 1971 e il 1984, nei quali Enrico Berlinguer fu alla testa del suo partito - che segnarono la fase di massima espansione del Pci e insieme l'avvio del suo declino. In questo intervento mi propongo di fermare l'attenzione su alcuni momenti della prima metà degli anni settanta. In particolare sulla discussione che precedette e accompagnò l'elaborazione della proposta del `compromesso storico'; sulle ripercussioni che quella linea ebbe nella società italiana, in particolare nel rapporto con le forze di ispirazione cattolica; sulla successiva traduzione della formula del compromesso nella pratica della `solidarietà nazionale', che fu a mio avviso il vero grande errore di Enrico Berlinguer, dal quale egli cercò poi di uscire (ma purtroppo era tardi) con la svolta del 1979-80 e con le innovazioni politiche e culturali degli ultimi anni.
È chiaro che, nel ricostruire le vicende di quel periodo e nel parlare dei limiti e degli errori del Pci, mi assumo la mia parte di responsabilità per il ruolo da me allora ricoperto - in verità un ruolo piuttosto marginale, sino alla fine degli anni settanta - nel gruppo dirigente comunista. Sono convinto, però, che sia dovere di tutti - e innanzitutto di coloro che possono portare una testimonianza personale - dare il proprio contributo per ricostruire la realtà dei fatti e insieme per cercar di comprendere meglio le cause di quegli accadimenti. Sarebbe funesto, invece, abbandonare il campo (come in parte è già avvenuto) alla storiografia non soltanto di indirizzo revisionista, ma schiettamente anticomunista che è venuta di moda in questi ultimi anni. Così come sarebbe sbagliato non cercare di opporre un'analisi più attenta e meditata alle rozze strumentalizzazioni con le quali anche dirigenti `diessini' (compreso Piero Fassino, nel suo recentissimo libro) hanno tentato e tentano di giustificare con i presunti `errori' di Berlinguer - il suo `conservatorismo', contrapposto alla `modernità' di Craxi - i gravi cedimenti al moderatismo e al liberismo che nell'ultimo decennio hanno caratterizzato la politica dei Democratici di sinistra.
2. Un primo punto che mi pare opportuno sottolineare è che la proposta del compromesso storico, se fu formulata da Enrico Berlinguer nell'autunno del 1973 nei tre famosi articoli su «Rinascita» 1 dedicati al colpo di stato - sostenuto dagli Stati Uniti - che aveva abbattuto in Cile il legittimo governo democratico di Salvador Allende, era però già venuta maturando, nel gruppo dirigente comunista, nel corso del dibattito che precedette, accompagnò, seguì il XIII Congresso del Pci, svoltosi a Milano dal 13 al 17 marzo 1972, negli stessi giorni della tragica morte di Giangiacomo Feltrinelli.
La proposta uscita da quel congresso, rilanciata con chiarezza da Berlinguer nel rapporto al Comitato centrale del 7-9 febbraio 1973 2, era infatti quella di «un programma di rinnovamento e risanamento nazionale», che per realizzarsi richiedeva «l'incontro e la collaborazione di tutte le forze democratiche e anzitutto delle tre grandi componenti del movimento popolare italiano: quella comunista, quella socialista e quella cattolica» 3. Della possibilità di tale incontro Berlinguer vedeva una conferma nella convergenza fra Cgil, Cisl e Uil, nella larga partecipazione di forze cattoliche alle manifestazioni per il Vietnam e alla battaglia antifascista, nelle comuni iniziative per le riforme soprattutto in sede regionale e locale.
Nel 1973 la discussione nel partito si sviluppò largamente - e anche con varietà di accenti, come vedremo - sulla linea da seguire per far maturare la prospettiva indicata dal Congresso. Un particolare rilievo assunse, in quella discussione, l'impegno con cui fu preparato un numero speciale del «Contemporaneo» (allora supplemento mensile di «Rinascita») dedicato all'analisi e al dibattito sulla `questione democristiana'. Ricordo bene quell'episodio, perché a quella pubblicazione fui chiamato a partecipare sin dall'impostazione, essendo considerato un `esperto' nelle vicende democristiane e sulla questione cattolica.
Il «Contemporaneo» uscì, con dodici articoli che affrontavano vari aspetti della realtà democristiana 4, inserito nel numero di «Rinascita» del 25 maggio 1973. L'articolo principale, che apriva il fascicolo, era opera di Gerardo Chiaromonte, che non era soltanto il direttore di «Rinascita» in quel periodo, ma uno dei principali esponenti della destra comunista, il cui peso era allora determinante nelle scelte politiche del partito. È particolarmente significativo che in quell'editoriale, che pure precede di diversi mesi il colpo di stato in Cile, Chiaromonte anticipava quasi alla lettera (persino sul tema, che più tardi susciterà tante polemiche, dell'impossibilità di governare col 51 per cento) le analisi e le argomentazioni con cui in autunno Enrico Berlinguer, nei tre articoli su «Rinascita», avrebbe presentato la proposta del compromesso storico. Infatti Chiaromonte, dopo aver sottolineato i pericoli di contrapposizione frontale con la Dc, che spingeva quel partito a un alleanza organica con la destra, così proseguiva: «Diciamo di più: ammesso che le sinistre laiche, socialiste e comuniste conquistassero il 51 per cento dei voti, superassero le loro divergenze e riuscissero a mantenere la loro compattezza e a formare un governo di sinistra, il progresso democratico e sociale dell'Italia non potrebbe essere assicurato in una contrapposizione frontale contro l'altro 49 per cento, al di fuori, cioè, della ricerca del consenso e della collaborazione con il grosso delle masse cattoliche e con le loro rappresentanze sindacali e politiche. […] Perciò il punto vero dal quale dipende, in grande parte, la realizzazione della svolta democratica è che la Dc cambi profondamente la sua politica e che alla sua testa vi siano uomini e gruppi schiettamente democratici e antifascisti, che abbiano una visione democratica e nazionale dei problemi del paese». Operare perché nella Dc si determinasse questo cambiamento, e si creassero così le condizioni per un nuovo incontro fra le forze antifasciste doveva dunque essere, per Chiaromonte, l'impegno fondamentale del Pci 5.
Come si vede, nell'editoriale di Chiaromonte che nel maggio '73 apriva il numero del «Contemporaneo» sulla `questione democristiana' era già lucidamente esposta, a parte la formula specifica del `compromesso storico', tutta la sostanza della proposta che Berlinguer avrebbe formulato quattro mesi dopo, nei tre famosi articoli su «Rinascita». Ciò dimostra che la tragedia cilena, se indubbiamente destò grande emozione, ebbe però un ruolo accidentale nella scelta della politica del compromesso storico. Quella scelta, infatti, era già compiutamente maturata, da diversi mesi, nella maggioranza del gruppo dirigente del Pci, con particolare impegno da parte della destra comunista.
In ogni caso nel numero del «Contemporaneo» non mancavano altri accenti. Si differenziava, in particolare, l'articolo di Pietro Ingrao. Mentre l'articolo di Chiaromonte poneva l'accento sul tema, tipico della destra del PCI 6, dell'`arretratezza italiana' (arretratezza economica, sociale, politica, che poteva dar fondamento allo scivolamento a destra della Dc), viceversa Ingrao muoveva, nella sua analisi, dal ruolo che la Dc aveva avuto nella modernizzazione del paese e dalla mediazione da essa esercitata, attraverso le strutture dell'interclassismo, fra trasformazione capitalistica e interessi di ampi ceti popolari. La crisi della Dc, e dello stesso centro-sinistra, nasceva dall'esaurirsi di queste mediazioni, di fronte ai nuovi problemi che si ponevano nello sviluppo del paese. È dunque nel cuore della società che occorreva soprattutto agire, secondo Ingrao 7, per incidere su questa crisi: puntando su una crescita della «democrazia organizzata, che allarghi la partecipazione delle masse, le faccia uscire dalla delega ai notabili e le coinvolga in grandi esperienze politiche unitarie». Tale crescita democratica, e lo sviluppo dell'esperienza «dell'unità e dell'autonomia delle classi lavoratrici» sono anche «la condizione per spostare verso un nuovo orizzonte, verso un altro tipo di sviluppo, anche forze borghesi, cioè per incidere su un'area vasta (e non soltanto su frange) della Democrazia cristiana».
Quanto al mio articolo 8, esso proponeva una visione pessimistica del dibattito aperto nella Dc in vista del congresso che si sarebbe svolto di lì a poco. Rilevavo, infatti, la povertà culturale e politica di quel dibattito, che non dava risposta né ai grandi interrogativi emersi dal Concilio, né ai problemi posti dall'esaurimento dello sviluppo degli anni '50 e '60, né alle domande dei nuovi movimenti nati dal '68. Concludevo che non era detto che la Dc trovasse la capacità di uscire da questa crisi.
In ogni caso, come era ovvio, fu l'editoriale di Chiaromonte a indicare la prospettiva ufficialmente proposta dal gruppo dirigente. Il dibattito che ne derivò servì a preparare il terreno, anche alla base del partito, alla proposta del compromesso storico così come fu formulata da Berlinguer negli articoli sul Cile.
3. Ma perché, nonostante la forte spinta verso sinistra che attraversava in quel momento la realtà sociale e politica italiana e che scuoteva in profondità le radici dell'egemonia della Dc, il gruppo dirigente comunista fu sostanzialmente compatto (con le ben note eccezioni di Luigi Longo e di Umberto Terracini) attorno alla proposta del compromesso storico, a parte le sfumature nell'interpretarla e applicarla? E perché, in particolare, Enrico Berlinguer insistette con tanta tenacia nel ricercare l'intesa con la Dc come condizione necessaria per una svolta di risanamento e rinnovamento?
Rossana Rossanda avanza in proposito, nel suo intervento sull'ultimo numero di questa rivista, l'interpretazione che sia stato un «surplus gramsciano, o presunto tale» a spingere Berlinguer ad annebbiare l'analisi di classe e a privilegiare la considerazione etica che vi fosse una maggiore possibilità di intesa con i cattolici, perché «meno assatanati dai consumi che non i centristi laici». Ho già detto che condivido (e ho sottolineato il significato anche autocritico che, per quel che erano le mie responsabilità, attribuisco a questa condivisione) il giudizio severo che Rossanda dà sui guasti prodotti dal compromesso storico e soprattutto della sua traduzione nell'esperienza della solidarietà nazionale. Non sono invece d'accordo con l'interpretazione proposta circa le motivazioni di quella scelta. Sembra a me, infatti, che un sia pur malinteso gramscismo avrebbe spinto a dedicare molta maggiore attenzione a ciò che si muoveva (e dopo il '68 era davvero molto) nella società e nella cultura, e in particolare alle nuove domande espresse dai movimenti giovanili, dalle esperienze femministe, dalla nuova problematica espressa dalle stesse lotte operaie. In effetti nei primi anni settanta Enrico Berlinguer riservò maggiore interesse, rispetto ad altri dirigenti del Pci (basta pensare alla dura critica di Amendola contro il '68), a quest'insieme di fatti: in particolare ai movimenti delle donne, alle tematiche dell'ambiente, all'emergere di nuove soggettività collettive che non erano riducibili ai partiti. Ma su questo interesse finì per prevalere, sotto l'incalzare della crisi, l'idea che un'azione di rinnovamento potesse realizzarsi promuovendo una ripresa dell'unità antifascista tra le grandi correnti popolari che avevano fatto la Costituzione: dando vita così a quella seconda tappa della rivoluzione democratica e antifascista in cui, per Berlinguer, si sarebbe dovuta tradurre la politica del compromesso storico. Pare a me, perciò, che quella proposta rispondesse, più che a un'ispirazione gramsciana, ai fondamenti unitari della politica di Togliatti: ma un Togliatti riletto, secondo la mentalità di quelli che potremmo chiamare i suoi `nipotini', in chiave fortemente riduttiva e verticistica.
Ma quali furono, dunque, le motivazioni di fondo che determinarono la scelta di Berlinguer e del gruppo dirigente comunista? Due, fondamentalmente, a me pare. La prima - che nessuno potrebbe considerare del tutto infondata - riguardava i pesanti condizionamenti negativi sia interni (i `poteri forti', compresa una parte della gerarchia ecclesiastica) sia internazionali (non solo gli Stati Uniti: basta pensare al ruolo ostile svolto in quegli anni dal governo socialdemocratico tedesco di Helmut Schmidt 9) contro la prospettiva di un accesso dei comunisti al governo dell'Italia. Non può perciò sorprendere che Berlinguer potesse pensare - tanto più nel clima di crescente tensione che caratterizzò quegli anni - che fosse possibile superare quegli ostacoli attraverso un accordo con la Dc o almeno con una sua parte importante.
La seconda motivazione si fondava, invece, su una valutazione che si sarebbe dimostrata errata: ossia la valutazione di Berlinguer (e non solo sua) che le incertezze e le difficoltà che a partire dal 1970 si erano venute accentuando nell'economia occidentale fossero il segno - a parte lo choc della crisi petrolifera - del palesarsi di una crescente incapacità del capitalismo, aggravata in Italia dalla debolezza e dal conservatorismo della borghesia nostrana, di far fronte alle sue interne contraddizioni, evitare la recessione, avviare un nuovo sviluppo. In realtà quella non era per nulla - come poi è apparso evidente - una fase di stagnazione.
Certo, giungeva a conclusione l'espansione economica che aveva caratterizzato i decenni successivi alla Seconda guerra mondiale: ma dietro l'apparente arresto dello sviluppo già si stava avviando (anche se, sul momento, non molti se ne rendevano conto) un processo di riorganizzazione e ristrutturazione economica che sarebbe sfociato nella fase del postfordismo. Di questo non si accorgeva Enrico Berlinguer, che anche su questo terreno era allora fortemente condizionato dalle posizioni della destra comunista, chiaramente illustrate dalla visione stagnazionista che ispirava in quegli anni le analisi di Giorgio Amendola 10. Questa interpretazione delle ragioni della crisi economico-sociali del paese portava Berlinguer, e la maggioranza del gruppo dirigente comunista, a ritenere che la proposta di un'intesa con una Dc che correggesse la sua politica era anche la strada obbligata per stabilire almeno con la parte più illuminata della borghesia italiana un diverso rapporto, che evitasse `la comune rovina' delle due classi in lotta e consentisse di riprendere, nella democrazia, un cammino di risanamento e di progresso sociale ed economico.
Si determinava però, in questo modo, una situazione paradossale: proprio nel momento in cui giungeva a poter contare in modo più incisivo nella direzione politica del paese, il movimento operaio italiano offriva una mano alla borghesia per aiutarla a uscire dalle difficoltà, vere o presunte, in cui essa era venuta a trovarsi.
4. C'è però un altro aspetto da considerare - ed è certamente un aspetto di grande rilievo - per comprendere perché, nonostante tutto, la proposta del compromesso storico raccolse tanto consenso, almeno fino alle elezioni del 1976, dentro e fuori dal Partito comunista e fu certamente uno dei fattori che maggiormente contribuirono a portare il Pci al massimo delle sue fortune elettorali. Mi riferisco alla `felice ambiguità' presente in quella proposta: che da un lato, presentandosi come un'apertura verso il centro laico e cattolico, consentiva al Pci di penetrare anche in settori di orientamento moderato e comunque faceva cadere vecchi pregiudizi anticomunisti; ma d'altro lato continuava ad essere accompagnata da una severa polemica e da una lotta dura contro la Dc, il suo sistema di potere, la politica delle clientele e delle mance, la corruzione e il malgoverno: e appariva perciò come una proposta di alternativa, in ogni caso di profondo cambiamento nella direzione dell'Italia.
Non va al riguardo dimenticato che il lancio della formula del compromesso storico fu quasi immediatamente seguito dallo scontro sul divorzio, nel quale tutto lo schieramento laico e di sinistra si oppose alla Dc e alla destra, ma la forza del Pci fu fondamentale nel determinare la sconfitta del referendum abrogativo 11; e che poi la preparazione della campagna per le elezioni regionali e amministrative del '75 si intrecciò sia con la crescita di un movimento sindacale che aveva il suo punto di forza nella stretta unità tra Cgil, Cisl e Uil sia con grandi battaglie di riforma sui temi della scuola, della sanità, dei servizi sociali, del decentramento democratico sia, infine, con la tematica delle `mani pulite', con la lotta alle clientele e al malgoverno, con la rivendicazione di un modo nuovo di amministrare e governare.
Un punto che, a proposito di queste vicende, va particolarmente sottolineato - in rapporto alla questione, mai ben risolta nella formulazione della proposta del compromesso storico, del rapporto tra questione cattolica e questione democristiana - è il rilievo che assume in questa fase una vasta area di cattolici 12 (il cosiddetto `dissenso', in tal modo qualificato dalla stampa in termini per la verità impropri), che si differenzia esplicitamente e anzi si contrappone alla linea ufficiale della Dc; e che innanzitutto sulla questione del divorzio, ma più in generale sui temi della pace, della democrazia, del risanamento e del diverso sviluppo del paese si colloca su una linea di aperta collaborazione con i comunisti. Alla base di questa scelta c'erano, evidentemente, le istanze di rinnovamento che erano frutto del grande risveglio conciliare; ma c'era anche, in termini molto concreti, l'insofferenza che era venuta crescendo nel corso degli anni nei confronti del malgoverno di tanti esponenti democristiani. L'importanza del contributo che settori anche estesi del mondo cattolico diedero alle battaglie di quegli anni e il rilievo di alcune delle personalità che furono alla testa di quel movimento (ricordo solo i nomi di Raniero La Valle, di Piero Pratesi, di Giovanni Gozzini, di Paolo Brezzi, di Adriano Ossicini e su un altro piano di Claudio Napoleoni) stanno a dimostrare che un'azione meno preoccupata di giungere rapidamente a intese di vertice col gruppo dirigente della Dc e invece rivolta - anche con la necessaria gradualità e pazienza - a fare maturare il dialogo con i settori del mondo cattolico più sensibili alle istanze di un reale rinnovamento, avrebbe forse potuto dare un diverso sbocco alla stessa strategia del compromesso storico.
In ogni caso anche la campagna per le elezioni amministrative del 1975 e la gestione del risultato altamente positivo ottenuto dal Pci in quell'occasione 13 apparvero ispirate più alla logica della costruzione di un'alternativa che a quella della ricerca a ogni costo di un'intesa unitaria tra tutte le forze democratiche e antifasciste. In questo clima anche la preparazione delle elezioni politiche del 20 giugno 1976, che portarono il Pci al suo massimo storico, avvenne sotto la spinta di una diffusa e radicale domanda di cambiamento, sebbene già fosse avviato il dialogo con Moro per la ricerca di una soluzione concordata. Il successo del Pci nel voto del 20 giugno 14 esprimeva, perciò, nel sentimento delle grandi masse (particolarmente nel Nord e nel Centro del paese) la richiesta di perseguire e costruire coerentemente - senza dubbio anche col contributo di forze di ispirazione cattolica, in particolare quelle animate dagli impulsi del rinnovamento conciliare - un'alternativa culturale, morale, politica alla gestione dello Stato messa in atto dai governi democristiani e al tipo di sviluppo che questi governi avevano dato al paese.
In rapporto a questa domanda, la decisione adottata da Berlinguer e dal gruppo dirigente comunista dopo le elezioni, quella cioè di consentire con l'astensione, assieme agli altri partiti democratici, la formazione di un monocolore democristiano presieduto da Andreotti, non poteva non suscitare, in larghi settori del partito e dell'elettorato, dubbi, sconcerto, delusione: che erano rapidamente destinati a crescere, di fronte alla sconfortante esperienza pratica della solidarietà nazionale.
Ma perché la strada scelta fu, quasi senza discutere, quella dell'astensione? Quali furono le ragioni di fondo che portarono a questa decisione? E davvero non erano possibili, pur nell'ambito della strategia sin allora seguita, altre soluzioni o, per lo meno, l'avvio di un diverso percorso? Su questi interrogativi conviene ritornare, con adeguata analisi, in una prossima occasione.
http://www.larivistadelmanifesto.it/arc ... 31213.html
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Questo articolo avrebbe dovuto essere dovuto inserito stata prima del precedente sopra. Cmq e' del tutto ininfluente per questa discussione
un salutone da Juan