Tav. E' proprio "riformismo" contro "cavernicoli"?
Inviato: 11/08/2013, 18:48
Da diversi anni mi interesso alle vicende "grandi opere", anche in relazione a come vengono trattate dai media.
Non sono un estremista di sinistra e non ho nostalgie "silvo pastorali", come dice qualche noto editorialista.
Il fatto è che il binomio grandi opere - sviluppo, malgrado ripetuti e ipnotici mantra, forse proprio non funziona, non fosse altro che una legge Lunardi - tra le altre cose - è una greppia per lauti pasti inconfessabili.
Faccio un minimo di autopromozione postando una mia recensione, già apparsa online, sul libro "Binario morto", ottima sintesi di quello che molti di noi - invano - tentano di far capire da anni.
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"Anche ad avere idee del tutto diverse su temi come sviluppo, ambiente e stato dei conti pubblici una constatazione è comunque valida per tutti: non si è a favore di un progetto Tav perché si sappia nel dettaglio cosa accadrà, oppure perché si abbia un’idea precisa del suo rapporto costi-benefici, ma perché ci sono dei violenti – pochi, molti o moltissimi – che lo contrastano. Tanto basta, spesso a prescindere da tutto il resto. C’è soltanto da prendere atto come, appunto per questa ragione, il dissenso riguardo un’opera pubblica, in qualsiasi forma sia espresso, venga considerato (non da tutti ma certo da molti) alla stregua di un oggettivo sostegno ad attività terroristiche, con conseguente evocazione degli anni ‘70. Certi discorsi si sentono, leggiamo editoriali che lo teorizzano con molta spavalderia, anche qui a prescindere dal credo politico di chi contesta. Oppure accusando i contestatori di essere uomini d’altri tempi e di voler tornare al calesse. Insomma, un po’ come il sottoscritto che coerentemente viaggia in groppa al somarello e comunica col piccione viaggiatore.
Non è questo il luogo adatto per elencare la provenienza politica e culturale di coloro che hanno espresso la propria contrarietà al sistema italiano delle cosiddette grandi opere, non fosse altro che alla fin fine appare un po’ singolare etichettare un progetto ingegneristico come di destra o di sinistra (altro la responsabilità politica per aver approvato una legge obiettivo ed aver perpetuato procedimenti a dir poco opachi); ma è un dato evidente che i contestatori, tra i quali docenti universitari, ingegneri del Politecnico, cittadini italiani di ogni latitudine, sono persone di sinistra, di destra, liberali, cattolici e via e via. Discorso ben diverso riguarda le posizioni ufficiali dei partiti, tutti formalmente “riformisti” e tutti impegnati a dispensare numeri e cifre mirabolanti, che però cambiano di volta in volta come numeri al lotto. Forse perché il project financing prevede che gli interessi sui mutui siano pagati con i soldi pubblici e nel contratto di concessione è previsto che “se” la domanda si rivelerà inferiore al previsto comunque le ferrovie statali faranno fronte ai debiti (quindi potenziali e non verificabili effetti positivi forse dopo il 2070 con inferno delle generazioni future e paradiso di quei pochi che possiedono quote di società coinvolte nel trapanare la montagna.
Quindi al di là del considerare quest’opera, il Tav Lione-Torino, come necessaria senza se e senza ma, è legittimo verificare quanto rispondano a verità affermazioni che in questi anni abbiamo ascoltato come autentici mantra, a cominciare da quel lontano 2001 quando Berlusconi dal fido Vespa, al momento di sottoscrivere il “contratto con gli italiani”, si mise a disegnare sulla lavagna le grandi opere da realizzare. Tra queste fu evocata la grande ferrovia, tutta in alta velocità, Lisbona-Kiev. Agli autori di “Binario morto” evidentemente queste affermazioni non sono bastate ed hanno voluto vedere con i propri occhi a che punto siamo col mirabolante progetto, tale da creare sviluppo, occupazione e un’Italia pienamente europea.
Questa volta poco a che vedere con gli studi di Calafati che, nel suo saggio del 2006, ha rilevato l’incapacità dell’informazione italiana di fare il suo mestiere proprio in relazione ad argomenti come le grandi opere pubbliche; poco a che vedere anche con quanto ha scritto l’ingegner Ivan Cicconi nel suo indispensabile “Storia del futuro di tangentopoli, il quale, con quasi venti anni di anticipo, ha perfettamente analizzato i nuovi sistemi corruttivi post “mani pulite”, difficilmente perseguibili, e che vedono protagonisti partiti, finanziamenti illeciti, opere pubbliche, imprenditori (e cooperative) complici, debito pubblico per le generazioni future. Non un’analisi puntuale delle devastazioni ambientali in quel del Mugello o della legislazione e dei tanti aspetti tecnici controversi che ancora Cicconi ha ottimamente raccontato in “Le grandi opere del cavaliere” e in “Il libro nero dell’Alta velocità, ovvero il futuro di tangentopoli diventato storia”.
“Binario morto”, come scrivono Rastello e De Benedetti, è innanzitutto il racconto di un viaggio e il tentativo di rispondere a delle domande che in Italia nessuno si pone: “Un viaggio da un capo all’altro del Vecchio Continente per verificare di persona lo stato di avanzamento dei progetti e dei lavori del cosiddetto “Corridoio 5”, la linea ferroviaria che, nei piani dell’Unione europea, risalenti all’inizio anni ’90, avrebbe dovuto mettere in comunicazione l’Europa occidentale con quella orientale, unendo Lisbona a Kiev. Peraltro il Corridoio 5, così come gli altri nove previsti dal progetto europeo, non è destinato al trasporto dei passeggeri, ma a quello delle merci. E qui inevitabile ricordare le affermazioni sul breve segmento italo-francese quale principale ostacolo al completarsi dell’opera. Non dimentichiamolo: ci hanno detto che l’Europa aspettava solo noi. Che se non apriamo il varco sotto le Alpi rimarremo tagliati fuori dal commercio, dal turismo, dal consesso sociale. Affermazioni nette, senza appello. Altra storia con la lettura del libro di Rastello e De Benedetti; tanto più nel leggere – ma già lo sapevamo- che la sostenibilità del progetto si regge su previsioni a lunghissimo termine già disattese dalla crisi del 2008 ed in particolare su un aumento costante del PIL (italiano ed europeo) e l’aumento costante dei volumi di traffico sulla linea Italia-Francia. Un viaggio, come scrivono ancora gli autori, nelle contraddizioni del Vecchio Continente, “unito e coeso finché si tratta di prendere decisioni dall’alto, ma irrimediabilmente sdrucito e frammentato al momento di metterle in pratica. Il corridoio 5 ne è solo un esempio. Anche se tra i più imbarazzanti” (pag. 6).
I dibattiti italiani per ora hanno guardato solo e soltanto alla Torino-Lione, ai suoi costi (3 miliardi e mezzo solo per il tunnel se andrà bene), all’impatto ambientale, ai numeri che vanno e vengono quando si tratta di affrontare il tema costi-benefici (dai citati 3 miliardi ad almeno 50 miliardi fino al 2070, debiti e interessi compresi); ma che hanno del tutto trascurato il resto del progetto, ammesso sia ancora tale, “al tercer carril tra Algeciras e Ronda, alla cortina ferroviaria eretta dalla Slovenia, ai 108-140 chilometri all’ora dei (nuovissimi) treni ucraini, e persino al cul de sac dell’alta velocità all’altezza di Vicenza e all’immane pasticcio della Gronda Nord sotto Torino, una manciata di chilometri a valle della tratta Torino-Lione” (pag. 201).
Praticamente a ovest una ragnatela di infrastrutture, mentre a est, partendo da Trieste a Lubiana in corriera, si viaggia con mezzi di fortuna, strade e stradine per giungere a stazioni che non sanno cosa sia l’alta velocità. Il diario di viaggio di De Benedetti e Rastello inizia in Portogallo (nazione che nel marzo scorso ha annunciato l'abbandono definitivo di ogni progetto di Alta velocità), precisamente alla stazione di Lisbona, e da qui è continuato di treno in treno in cerca della linea fantasma: il corridoio 5. Ricerca non del tutto vana perché qualche – dicesi qualche – tratto di alta velocità, tra tanti trenini “di ineffabile lentezza”, tra progetti abbandonati, tra nuovi investimenti su diverse linee ferroviarie, i nostri due giornalisti l’hanno trovato. Viaggio anche fatto di incontri con ingegneri ed esperti del ramo trasporti e dai quali sono scaturite interviste ricche di affermazioni piuttosto forti e sicuramente non tali da entusiasmare l’on. Esposito. Alcuni esempi: Germà Bel, Docente dell’Università autonoma di Barcellona: “Far viaggiare i treni merci su linee ad alta velocità non ha alcun senso. Primo perché i treni merci sono intrinsecamente più lenti, secondo perché i binari ad alta velocità hanno costi di mantenimento elevatissimi che inciderebbero pesantemente anche sul costo del trasporto merci” (pag. 60-61); Didier Migaud, presidente della Corte dei conti francese, nel novembre 2012: “E’ importante rapportare i costi dell’alta velocità con le reali possibilità di crescita che darebbe al paese. Ma il valore netto è negativo in tutti gli scenari” (pag. 131); un consulente tecnico della Direzione Trasporti e Ambiente Regione Piemonte: “Non è necessario l’opera. Sono necessari i soldi che derivano da cantieri e progetti […] Il Tav è un ‘Momendol’ economico. Come le olimpiadi. Diciamo che grazie ai lavori olimpici imprese e località che erano allo stremo hanno trovato prospettive di sopravvivenza per almeno cinque anni” (pag. 139); Luca Giunti, animatore del Movimento contro l’alta velocità in Piemonte: “Devastiamo il paese per aprire la strada agli Eurostar ma avevamo il Pendolino che era un gioiello tecnologico, veloce e superconfortevole, perfettamente adatto all’accidentata orografia italiana” [ndr: le argomentazioni tecniche e contrattuali in materia sono esposte in maniera esaustiva soprattutto nelle opere di Cicconi]; ancora Germà Bel: “tanti fanno affari su promesse a scadenza non verificabile: costruttori, politici, consulenti…. Si arricchiscono qui e ora, assicurano miracoli tra decenni […] quando tutto questo sarà in esercizio ci muoveremo col teletrasporto” (pag.64); prof. Sergio Bologna, storico e consulente per grandi imprese e istituzioni: “L’80 per cento delle merci che entrano in Italia o ne escono su rotaia transita dai valichi di Domossola, Chiasso, Luino, Brennero, Tarvisio. Cioè attraverso la Svizzera o l’Austria. Non siamo capaci di agganciarci a infrastrutture già esistenti, ma non ci facciamo problemi a chiedere all’Europa ulteriori capitali per realizzare la Torino-Lione […] L’alta velocità non riguarda le merci. Sanno tutti che è un imbroglio confondere i due argomenti. Al di sopra degli ottanta chilometri orari il logorio dei carri aumenta in maniera esponenziale e gonfia a dismisura i costi di manutenzione […] I problemi veri stanno nei progetti industriali di servizio che possono giustificare investimenti infrastrutturali, e nella gestione delle tecnologie […] Grandi infrastrutture la cui razionalità economica è dubbia producono comunque due indubbi vantaggi: a livello locale la soddisfazione immediata di appetiti economici di aziende interessate ai lavori e alle commesse; a livello globale, l’illusione che chi governa un territorio abbia un’idea strutturata non a cortissimo raggio di che cosa farne. Gli effetti saranno verificabili quando la classe politica sarà cambiata, ma nell’immediato è garantito un certo consenso. Scommettere sul cemento come motore delle sviluppo è un vizio italiano ma non solo” (pag. 66-74).
Fin qui gli esperti del settore, che spesso non hanno aggiunto molto, rispetto quanto già detto dalla Commissione Tecnica della Comunità montana della Val di Susa e Val Sangone: a fronte delle famigerate quattordici domande e risposte predisposte dal governo Monti, pubblicate il 9 marzo 2012 sul sito governo.it (della serie “si faccia una domanda e si sia una risposta”), la citata Commissione, integrata da esperti esterni, seguendo lo schema governativo, replicò illustrando le proprie ragioni e letteralmente sommergendo di dati il compiutuccio stitico della presidenza del consiglio.
Piuttosto interessante semmai un passaggio in merito ad un altro argomento, spesso dimenticato in queste discussioni basate su alti principi, e che meriterebbe ulteriori approfondimenti, non fosse altro che nel viaggio di De Benedetti e Rastello abbiamo avuto dimostrazione dell’esistenza di parecchi paradossi, compresa la volontà di velocizzare un traffico che non c’è: “tutti i finanziamenti per la rete Ten-T di infrastrutture viarie prevista dell’Unione, che comprende il nostro corridoio comunque lo si voglia chiamare, non implicano alcuna opzione a favore dell’alta velocità o dell’alta capacità, tant’è che alcuni paesi investono i finanziamenti relativi quasi interamente (Ungheria per esempio) o in laga parte (la Spagna) in progetti relativi alla realizzazione di strade ed autostrade. Con buona pace del mantra secondo cui la realizzazione dell’alta velocità fra Lione e Torino costituisce il tassello di un piano europeo di spostamento del traffico merci da gomma a rotaia” (pag. 87).
Alla fine di questo viaggio finalmente l’arrivo a Kiev (dopo aver visitato trenini lenti lenti e stazioni ancien régime). Qui “l’Eldorado” evocato dall’on. Fassino (“Trieste è la nostra porta d’ingresso in Oriente. L’Europa dell’Est è il nostro Eldorado”) i nostri Rastello e De Benedetti non sono riusciti a vederlo. Lo vedranno nel 2070 grazie alla Torino-Lione? Giusto leggere un libro d’inchiesta ma poi certe domande, pretendendo risposte puntuali, andrebbero fatte ad altri. Ad esempio ai Ministri Alfano e Lupi. Nomi non del tutto casuali.
Sappiamo tutti che in Italia esiste una percentuale di diversamente abili, ma anche tanti diversamente onesti ed ancor di più tante persone diversamente informate. Con una certa coerenza quindi i ministri Alfano e Lupi, in virtù del loro uditorio e della loro onestà intellettuale, hanno recentemente affermato:“lo Stato c'è, ascolta e decide”. E che non si fermerà un’opera fondamentale e strategica per l'Italia e per l'Europa. Fermo restando la condanna per la violenza, a noi in questa sede importa capire il significato di “fondamentale” e “strategica”, magari con qualche dettaglio in più e alla luce di quanto abbiamo letto in questi anni, “Binario morto” compreso. Quanto meno per evitare interpretazioni maligne tali da tradurre “lo Stato c’è”, con “lo Stato c’è, i partiti, i loro protetti e la mafia pure”.
“Non abbiamo un problema in cerca di soluzione, ma una soluzione in cerca di un problema” (cit. “Report”).
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EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Luca Rastello è nato a Torino il 9 luglio 1961. Giornalista de «la Repubblica», specializzato in economia criminale e relazioni internazionali, è stato direttore di «Narcomafie» e del mensile «L’Indice», e ha lavorato come inviato per il settimanale «Diario». Oltre che nei Balcani, di cui si è occupato nel volume La guerra in casa (Einaudi 1998) e in vari saggi – alcuni dei quali in Introduzione al mondo nuovo. Scenari, attori e strategie della politica internazionale (a cura di Fabio Armao e Anna Caffarena, Guerini 2006), in Kosovo 1999-2000: la pace intrattabile (a cura di Francesco Strazzari, Asterios 2000) e su varie riviste fra cui «Limes» e «Lo straniero» – ha lavorato in Asia centrale, Caucaso, Corno d’Africa e in Centro e Sudamerica, in particolare in Argentina, Bolivia, Venezuela e Antille olandesi. Per molti anni ha collaborato a progetti di cooperazione con le Agenzie della Democrazia locale nei paesi balcanici e con l’Italian Consortium of Solidarity. Oltre ai testi citati, ha all’attivo il romanzo Piove all’insù (Bollati Boringhieri 2006), la raccolta di racconti Undici buone ragioni per una pausa (Bollati Boringhieri 2009) e il saggio La frontiera addosso (Laterza 2010). Per Chiarelettere ha pubblicato nel 2009 “Io sono il mercato. Teoria, metodi e stile di vita del perfetto narcotrafficante”
Andrea De Benedetti è nato a Torino il 1° novembre 1970. Laureato in Grammatica italiana, dal 1997 al 2006 ha insegnato Lingua italiana all’Università di Granada (Spagna) e nello stesso periodo ha cominciato a collaborare come corrispondente per diverse testate italiane («il manifesto», «Guerin Sportivo», «Tuttosport»). Dopo il rientro in Italia, ha insegnato nei corsi Ssis dell’Università di Torino, nei master in traduzione editoriale dell’agenzia formativa TuttoEuropa e nei corsi di Italiano L2 dell’Università di Pavia. Contemporaneamente ha allargato la sua rete di collaborazioni giornalistiche firmando inchieste, interviste e articoli di sport e costume per testate quali «GQ», «D la Repubblica delle Donne» e «Pubblico». Tra le sue pubblicazioni, L’informazione liofilizzata (Franco Cesati, 2004), Ogni bel gioco (Nerosubianco 2006) e Val più la pratica. Piccola grammatica immorale della lingua italiana (Laterza 2009). È coautore, con Mimmo Genga, di una grammatica italiana per le scuole superiori (E ora, l’italiano) pubblicata da Laterza (2011). Sempre per Laterza, ha tradotto gli ultimi due saggi di Fernando Savater: Storia della filosofia raccontata da Fernando Savater e Tauroetica. È presidente e socio cofondatore dell’associazione culturale Slow Food. Prima del reportage di cui è frutto questo libro non si era mai occupato di Tav.
Luca Rastello, Andrea De Benedetti, “Binario morto. Lisbona-Kiev. Alla scoperta del Corridoio 5 e dell'alta velocità che non c'è”, Chiarelettere (collana Reverse), Milano 2013, pag. 203.
Luca Menichetti.
Non sono un estremista di sinistra e non ho nostalgie "silvo pastorali", come dice qualche noto editorialista.
Il fatto è che il binomio grandi opere - sviluppo, malgrado ripetuti e ipnotici mantra, forse proprio non funziona, non fosse altro che una legge Lunardi - tra le altre cose - è una greppia per lauti pasti inconfessabili.
Faccio un minimo di autopromozione postando una mia recensione, già apparsa online, sul libro "Binario morto", ottima sintesi di quello che molti di noi - invano - tentano di far capire da anni.
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"Anche ad avere idee del tutto diverse su temi come sviluppo, ambiente e stato dei conti pubblici una constatazione è comunque valida per tutti: non si è a favore di un progetto Tav perché si sappia nel dettaglio cosa accadrà, oppure perché si abbia un’idea precisa del suo rapporto costi-benefici, ma perché ci sono dei violenti – pochi, molti o moltissimi – che lo contrastano. Tanto basta, spesso a prescindere da tutto il resto. C’è soltanto da prendere atto come, appunto per questa ragione, il dissenso riguardo un’opera pubblica, in qualsiasi forma sia espresso, venga considerato (non da tutti ma certo da molti) alla stregua di un oggettivo sostegno ad attività terroristiche, con conseguente evocazione degli anni ‘70. Certi discorsi si sentono, leggiamo editoriali che lo teorizzano con molta spavalderia, anche qui a prescindere dal credo politico di chi contesta. Oppure accusando i contestatori di essere uomini d’altri tempi e di voler tornare al calesse. Insomma, un po’ come il sottoscritto che coerentemente viaggia in groppa al somarello e comunica col piccione viaggiatore.
Non è questo il luogo adatto per elencare la provenienza politica e culturale di coloro che hanno espresso la propria contrarietà al sistema italiano delle cosiddette grandi opere, non fosse altro che alla fin fine appare un po’ singolare etichettare un progetto ingegneristico come di destra o di sinistra (altro la responsabilità politica per aver approvato una legge obiettivo ed aver perpetuato procedimenti a dir poco opachi); ma è un dato evidente che i contestatori, tra i quali docenti universitari, ingegneri del Politecnico, cittadini italiani di ogni latitudine, sono persone di sinistra, di destra, liberali, cattolici e via e via. Discorso ben diverso riguarda le posizioni ufficiali dei partiti, tutti formalmente “riformisti” e tutti impegnati a dispensare numeri e cifre mirabolanti, che però cambiano di volta in volta come numeri al lotto. Forse perché il project financing prevede che gli interessi sui mutui siano pagati con i soldi pubblici e nel contratto di concessione è previsto che “se” la domanda si rivelerà inferiore al previsto comunque le ferrovie statali faranno fronte ai debiti (quindi potenziali e non verificabili effetti positivi forse dopo il 2070 con inferno delle generazioni future e paradiso di quei pochi che possiedono quote di società coinvolte nel trapanare la montagna.
Quindi al di là del considerare quest’opera, il Tav Lione-Torino, come necessaria senza se e senza ma, è legittimo verificare quanto rispondano a verità affermazioni che in questi anni abbiamo ascoltato come autentici mantra, a cominciare da quel lontano 2001 quando Berlusconi dal fido Vespa, al momento di sottoscrivere il “contratto con gli italiani”, si mise a disegnare sulla lavagna le grandi opere da realizzare. Tra queste fu evocata la grande ferrovia, tutta in alta velocità, Lisbona-Kiev. Agli autori di “Binario morto” evidentemente queste affermazioni non sono bastate ed hanno voluto vedere con i propri occhi a che punto siamo col mirabolante progetto, tale da creare sviluppo, occupazione e un’Italia pienamente europea.
Questa volta poco a che vedere con gli studi di Calafati che, nel suo saggio del 2006, ha rilevato l’incapacità dell’informazione italiana di fare il suo mestiere proprio in relazione ad argomenti come le grandi opere pubbliche; poco a che vedere anche con quanto ha scritto l’ingegner Ivan Cicconi nel suo indispensabile “Storia del futuro di tangentopoli, il quale, con quasi venti anni di anticipo, ha perfettamente analizzato i nuovi sistemi corruttivi post “mani pulite”, difficilmente perseguibili, e che vedono protagonisti partiti, finanziamenti illeciti, opere pubbliche, imprenditori (e cooperative) complici, debito pubblico per le generazioni future. Non un’analisi puntuale delle devastazioni ambientali in quel del Mugello o della legislazione e dei tanti aspetti tecnici controversi che ancora Cicconi ha ottimamente raccontato in “Le grandi opere del cavaliere” e in “Il libro nero dell’Alta velocità, ovvero il futuro di tangentopoli diventato storia”.
“Binario morto”, come scrivono Rastello e De Benedetti, è innanzitutto il racconto di un viaggio e il tentativo di rispondere a delle domande che in Italia nessuno si pone: “Un viaggio da un capo all’altro del Vecchio Continente per verificare di persona lo stato di avanzamento dei progetti e dei lavori del cosiddetto “Corridoio 5”, la linea ferroviaria che, nei piani dell’Unione europea, risalenti all’inizio anni ’90, avrebbe dovuto mettere in comunicazione l’Europa occidentale con quella orientale, unendo Lisbona a Kiev. Peraltro il Corridoio 5, così come gli altri nove previsti dal progetto europeo, non è destinato al trasporto dei passeggeri, ma a quello delle merci. E qui inevitabile ricordare le affermazioni sul breve segmento italo-francese quale principale ostacolo al completarsi dell’opera. Non dimentichiamolo: ci hanno detto che l’Europa aspettava solo noi. Che se non apriamo il varco sotto le Alpi rimarremo tagliati fuori dal commercio, dal turismo, dal consesso sociale. Affermazioni nette, senza appello. Altra storia con la lettura del libro di Rastello e De Benedetti; tanto più nel leggere – ma già lo sapevamo- che la sostenibilità del progetto si regge su previsioni a lunghissimo termine già disattese dalla crisi del 2008 ed in particolare su un aumento costante del PIL (italiano ed europeo) e l’aumento costante dei volumi di traffico sulla linea Italia-Francia. Un viaggio, come scrivono ancora gli autori, nelle contraddizioni del Vecchio Continente, “unito e coeso finché si tratta di prendere decisioni dall’alto, ma irrimediabilmente sdrucito e frammentato al momento di metterle in pratica. Il corridoio 5 ne è solo un esempio. Anche se tra i più imbarazzanti” (pag. 6).
I dibattiti italiani per ora hanno guardato solo e soltanto alla Torino-Lione, ai suoi costi (3 miliardi e mezzo solo per il tunnel se andrà bene), all’impatto ambientale, ai numeri che vanno e vengono quando si tratta di affrontare il tema costi-benefici (dai citati 3 miliardi ad almeno 50 miliardi fino al 2070, debiti e interessi compresi); ma che hanno del tutto trascurato il resto del progetto, ammesso sia ancora tale, “al tercer carril tra Algeciras e Ronda, alla cortina ferroviaria eretta dalla Slovenia, ai 108-140 chilometri all’ora dei (nuovissimi) treni ucraini, e persino al cul de sac dell’alta velocità all’altezza di Vicenza e all’immane pasticcio della Gronda Nord sotto Torino, una manciata di chilometri a valle della tratta Torino-Lione” (pag. 201).
Praticamente a ovest una ragnatela di infrastrutture, mentre a est, partendo da Trieste a Lubiana in corriera, si viaggia con mezzi di fortuna, strade e stradine per giungere a stazioni che non sanno cosa sia l’alta velocità. Il diario di viaggio di De Benedetti e Rastello inizia in Portogallo (nazione che nel marzo scorso ha annunciato l'abbandono definitivo di ogni progetto di Alta velocità), precisamente alla stazione di Lisbona, e da qui è continuato di treno in treno in cerca della linea fantasma: il corridoio 5. Ricerca non del tutto vana perché qualche – dicesi qualche – tratto di alta velocità, tra tanti trenini “di ineffabile lentezza”, tra progetti abbandonati, tra nuovi investimenti su diverse linee ferroviarie, i nostri due giornalisti l’hanno trovato. Viaggio anche fatto di incontri con ingegneri ed esperti del ramo trasporti e dai quali sono scaturite interviste ricche di affermazioni piuttosto forti e sicuramente non tali da entusiasmare l’on. Esposito. Alcuni esempi: Germà Bel, Docente dell’Università autonoma di Barcellona: “Far viaggiare i treni merci su linee ad alta velocità non ha alcun senso. Primo perché i treni merci sono intrinsecamente più lenti, secondo perché i binari ad alta velocità hanno costi di mantenimento elevatissimi che inciderebbero pesantemente anche sul costo del trasporto merci” (pag. 60-61); Didier Migaud, presidente della Corte dei conti francese, nel novembre 2012: “E’ importante rapportare i costi dell’alta velocità con le reali possibilità di crescita che darebbe al paese. Ma il valore netto è negativo in tutti gli scenari” (pag. 131); un consulente tecnico della Direzione Trasporti e Ambiente Regione Piemonte: “Non è necessario l’opera. Sono necessari i soldi che derivano da cantieri e progetti […] Il Tav è un ‘Momendol’ economico. Come le olimpiadi. Diciamo che grazie ai lavori olimpici imprese e località che erano allo stremo hanno trovato prospettive di sopravvivenza per almeno cinque anni” (pag. 139); Luca Giunti, animatore del Movimento contro l’alta velocità in Piemonte: “Devastiamo il paese per aprire la strada agli Eurostar ma avevamo il Pendolino che era un gioiello tecnologico, veloce e superconfortevole, perfettamente adatto all’accidentata orografia italiana” [ndr: le argomentazioni tecniche e contrattuali in materia sono esposte in maniera esaustiva soprattutto nelle opere di Cicconi]; ancora Germà Bel: “tanti fanno affari su promesse a scadenza non verificabile: costruttori, politici, consulenti…. Si arricchiscono qui e ora, assicurano miracoli tra decenni […] quando tutto questo sarà in esercizio ci muoveremo col teletrasporto” (pag.64); prof. Sergio Bologna, storico e consulente per grandi imprese e istituzioni: “L’80 per cento delle merci che entrano in Italia o ne escono su rotaia transita dai valichi di Domossola, Chiasso, Luino, Brennero, Tarvisio. Cioè attraverso la Svizzera o l’Austria. Non siamo capaci di agganciarci a infrastrutture già esistenti, ma non ci facciamo problemi a chiedere all’Europa ulteriori capitali per realizzare la Torino-Lione […] L’alta velocità non riguarda le merci. Sanno tutti che è un imbroglio confondere i due argomenti. Al di sopra degli ottanta chilometri orari il logorio dei carri aumenta in maniera esponenziale e gonfia a dismisura i costi di manutenzione […] I problemi veri stanno nei progetti industriali di servizio che possono giustificare investimenti infrastrutturali, e nella gestione delle tecnologie […] Grandi infrastrutture la cui razionalità economica è dubbia producono comunque due indubbi vantaggi: a livello locale la soddisfazione immediata di appetiti economici di aziende interessate ai lavori e alle commesse; a livello globale, l’illusione che chi governa un territorio abbia un’idea strutturata non a cortissimo raggio di che cosa farne. Gli effetti saranno verificabili quando la classe politica sarà cambiata, ma nell’immediato è garantito un certo consenso. Scommettere sul cemento come motore delle sviluppo è un vizio italiano ma non solo” (pag. 66-74).
Fin qui gli esperti del settore, che spesso non hanno aggiunto molto, rispetto quanto già detto dalla Commissione Tecnica della Comunità montana della Val di Susa e Val Sangone: a fronte delle famigerate quattordici domande e risposte predisposte dal governo Monti, pubblicate il 9 marzo 2012 sul sito governo.it (della serie “si faccia una domanda e si sia una risposta”), la citata Commissione, integrata da esperti esterni, seguendo lo schema governativo, replicò illustrando le proprie ragioni e letteralmente sommergendo di dati il compiutuccio stitico della presidenza del consiglio.
Piuttosto interessante semmai un passaggio in merito ad un altro argomento, spesso dimenticato in queste discussioni basate su alti principi, e che meriterebbe ulteriori approfondimenti, non fosse altro che nel viaggio di De Benedetti e Rastello abbiamo avuto dimostrazione dell’esistenza di parecchi paradossi, compresa la volontà di velocizzare un traffico che non c’è: “tutti i finanziamenti per la rete Ten-T di infrastrutture viarie prevista dell’Unione, che comprende il nostro corridoio comunque lo si voglia chiamare, non implicano alcuna opzione a favore dell’alta velocità o dell’alta capacità, tant’è che alcuni paesi investono i finanziamenti relativi quasi interamente (Ungheria per esempio) o in laga parte (la Spagna) in progetti relativi alla realizzazione di strade ed autostrade. Con buona pace del mantra secondo cui la realizzazione dell’alta velocità fra Lione e Torino costituisce il tassello di un piano europeo di spostamento del traffico merci da gomma a rotaia” (pag. 87).
Alla fine di questo viaggio finalmente l’arrivo a Kiev (dopo aver visitato trenini lenti lenti e stazioni ancien régime). Qui “l’Eldorado” evocato dall’on. Fassino (“Trieste è la nostra porta d’ingresso in Oriente. L’Europa dell’Est è il nostro Eldorado”) i nostri Rastello e De Benedetti non sono riusciti a vederlo. Lo vedranno nel 2070 grazie alla Torino-Lione? Giusto leggere un libro d’inchiesta ma poi certe domande, pretendendo risposte puntuali, andrebbero fatte ad altri. Ad esempio ai Ministri Alfano e Lupi. Nomi non del tutto casuali.
Sappiamo tutti che in Italia esiste una percentuale di diversamente abili, ma anche tanti diversamente onesti ed ancor di più tante persone diversamente informate. Con una certa coerenza quindi i ministri Alfano e Lupi, in virtù del loro uditorio e della loro onestà intellettuale, hanno recentemente affermato:“lo Stato c'è, ascolta e decide”. E che non si fermerà un’opera fondamentale e strategica per l'Italia e per l'Europa. Fermo restando la condanna per la violenza, a noi in questa sede importa capire il significato di “fondamentale” e “strategica”, magari con qualche dettaglio in più e alla luce di quanto abbiamo letto in questi anni, “Binario morto” compreso. Quanto meno per evitare interpretazioni maligne tali da tradurre “lo Stato c’è”, con “lo Stato c’è, i partiti, i loro protetti e la mafia pure”.
“Non abbiamo un problema in cerca di soluzione, ma una soluzione in cerca di un problema” (cit. “Report”).
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EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Luca Rastello è nato a Torino il 9 luglio 1961. Giornalista de «la Repubblica», specializzato in economia criminale e relazioni internazionali, è stato direttore di «Narcomafie» e del mensile «L’Indice», e ha lavorato come inviato per il settimanale «Diario». Oltre che nei Balcani, di cui si è occupato nel volume La guerra in casa (Einaudi 1998) e in vari saggi – alcuni dei quali in Introduzione al mondo nuovo. Scenari, attori e strategie della politica internazionale (a cura di Fabio Armao e Anna Caffarena, Guerini 2006), in Kosovo 1999-2000: la pace intrattabile (a cura di Francesco Strazzari, Asterios 2000) e su varie riviste fra cui «Limes» e «Lo straniero» – ha lavorato in Asia centrale, Caucaso, Corno d’Africa e in Centro e Sudamerica, in particolare in Argentina, Bolivia, Venezuela e Antille olandesi. Per molti anni ha collaborato a progetti di cooperazione con le Agenzie della Democrazia locale nei paesi balcanici e con l’Italian Consortium of Solidarity. Oltre ai testi citati, ha all’attivo il romanzo Piove all’insù (Bollati Boringhieri 2006), la raccolta di racconti Undici buone ragioni per una pausa (Bollati Boringhieri 2009) e il saggio La frontiera addosso (Laterza 2010). Per Chiarelettere ha pubblicato nel 2009 “Io sono il mercato. Teoria, metodi e stile di vita del perfetto narcotrafficante”
Andrea De Benedetti è nato a Torino il 1° novembre 1970. Laureato in Grammatica italiana, dal 1997 al 2006 ha insegnato Lingua italiana all’Università di Granada (Spagna) e nello stesso periodo ha cominciato a collaborare come corrispondente per diverse testate italiane («il manifesto», «Guerin Sportivo», «Tuttosport»). Dopo il rientro in Italia, ha insegnato nei corsi Ssis dell’Università di Torino, nei master in traduzione editoriale dell’agenzia formativa TuttoEuropa e nei corsi di Italiano L2 dell’Università di Pavia. Contemporaneamente ha allargato la sua rete di collaborazioni giornalistiche firmando inchieste, interviste e articoli di sport e costume per testate quali «GQ», «D la Repubblica delle Donne» e «Pubblico». Tra le sue pubblicazioni, L’informazione liofilizzata (Franco Cesati, 2004), Ogni bel gioco (Nerosubianco 2006) e Val più la pratica. Piccola grammatica immorale della lingua italiana (Laterza 2009). È coautore, con Mimmo Genga, di una grammatica italiana per le scuole superiori (E ora, l’italiano) pubblicata da Laterza (2011). Sempre per Laterza, ha tradotto gli ultimi due saggi di Fernando Savater: Storia della filosofia raccontata da Fernando Savater e Tauroetica. È presidente e socio cofondatore dell’associazione culturale Slow Food. Prima del reportage di cui è frutto questo libro non si era mai occupato di Tav.
Luca Rastello, Andrea De Benedetti, “Binario morto. Lisbona-Kiev. Alla scoperta del Corridoio 5 e dell'alta velocità che non c'è”, Chiarelettere (collana Reverse), Milano 2013, pag. 203.
Luca Menichetti.