Capitale nel XXI secolo
Inviato: 23/04/2014, 16:48
Un francese a New York dà lezioni di economia
Thomas Piketty con il suo studio sulle disuguaglianze sta conquistando l’America,
compresi Krugman e Stiglitz con cui si è confrontato.
di Federico Rampini, da Repubblica, 18 aprile 2014
NEW YORK - Era dai tempi dell’inglese John Maynard Keynes, oltre 80 anni fa, che l’America non si lasciava conquistare da un economista europeo. La nazione più ricca e più avanzata del mondo riteneva di non aver nulla da imparare dalla vecchia Europa, almeno nella scienza economica. Oggi si ricrede. È merito di un quarantenne francese, Thomas Piketty, autore del Capitale nel XXI secolo, un monumentale studio su due secoli di diseguaglianze, la loro storia e le loro cause. L’editore americano ha dovuto anticiparne la traduzione dal francese, perché sommerso di prenotazioni online (e le prime edizioni sono già esaurite).
Il think tank democratico più vicino a Barack Obama, il Center for America Progress, lo ha invitato lunedì a Washington e il presidente ha mandato diversi consiglieri ad ascoltarlo. Harvard lo aspetta per stasera. In mezzo, la sua tappa di 48 ore a New York è stata un fuoco d’artificio. All’università Cuny, il francese è riuscito a fare un piccolo miracolo: riunire i due premi Nobel dell’economia Paul Krugman e Joseph Stglitz, due superstar inclini al protagonismo e noti per la loro rivalità accademica. Per Stiglitz lo studio di Piketty «è un contributo fondamentale», Krugman si dice «affascinato». In cerca di un nuovo «pensiero forte» dopo la grande crisi del 2008, l’America sembra averlo trovato in questo francese che l’ha ripudiata anni fa. Appena ventenne, Piketty insegnò qui al prestigioso Massachusetts Institute of Technology. Poi preferì tornare in Francia, perché diffidente verso la «deriva matematica» dei suoi colleghi americani. Verso i quali non lesina le critiche, accusando molti di loro di essere prigionieri di conflitti d’interessi, al servizio di un’ideologia che perpetua i privilegi delle oligarchie.
L’originalità di Piketty da una parte sta nell’aver ricostruito (guidando una squadra mondiale di oltre trenta economisti) l’andamento secolare delle diseguaglianze, sia nei redditi sia nei patrimoni. Dopo la descrizione, l’interpretazione. Una causa delle diseguaglianze odierne sta nel fatto che un’élite – prevalentemente di top manager – ha «fatto secessione » dal resto della società, si è conquistata il potere di fissare i propri stipendi in modo autonomo, senza alcun collegamento con la propria produttività. Il secondo fattore è perfino più importante: quando la crescita economica e demografica ristagna, prende il sopravvento la rendita finanziaria, automaticamente chi ha patrimoni accumulati diventa sempre più ricco e distanzia il resto. Ecco i passaggi più significativi del dibattito al Cuny.
Thomas Piketty: «Questo studio collettivo è cominciato 15 anni fa ed è composto di due parti. Da un lato abbiamo raccolto dati sui redditi, in quei paesi dov’è esistita da tempo un’imposta personale sui redditi. Cioè tutti i paesi occidentali ed anche Cina, India, molte nazioni dell’America latina. Dall’altro lato abbiamo raccolto i dati sui patrimoni, usando anche le statistiche sulle tasse di successione. Europa e Giappone sono due esempi illuminanti per capire come si crea una società “patrimoniale”, dove contano le ricchezze ereditarie: bassa natalità e bassa crescita economica rendono prevalenti le ricchezze già accumulate. Questa sta diventando la regola nel mondo intero. La chiave di tutto sta nel rapporto tra due variabili: da una parte il rendimento netto del capitale, dall’altra la crescita economica (a sua volta legata anche a quella demografica). Se il rendimento del capitale supera la crescita economica, come sta accadendo, ecco che il XXI secolo assomiglia sempre di più all’Ottocento: si va verso delle società oligarchiche. L’eccezione, l’anomalia più importante, l’abbiamo avuta per un lungo periodo del Novecento, dopo le due guerre mondiali, e in particolare nel “trentennio dorato” che va dalla ricostruzione post-bellica agli anni Settanta. Le diseguaglianze diminuirono sia per la forte crescita economica e demografica, sia per gli aumenti nella tassazione dei ricchi. Ci furono prelievi fiscali straordinari sui patrimoni, spesso legati allo sforzo bellico. E ci fu un forte aumento della tassazione progressiva sui redditi. A partire dagli Stati Uniti. Oggi può stupire, ma fu l’America a inventare una patrimoniale progressiva, con questa giustificazione: non voleva diventare una società ineguale come quella europea. E gli americani dopo la seconda guerra mondiale esportarono la loro elevata tassazione nelle due potenze sconfitte, Germania e Giappone, come un segno distintivo di civiltà».
Joseph Stiglitz: «Molti di noi studiarono all’università proprio nel trentennio magico, l’Età dell’Oro della crescita, e abbiamo finito per credere che quello fosse lo stato naturale. È importante l’attenzione che Piketty rivolge all’eredità come fonte di diseguaglianze. La successione ereditaria riguarda il capitale finanziario, immobiliare, e anche il capitale umano, visto l’accesso sempre più ineguale all’istruzione di alto livello. Noi qui in America crediamo di vivere in una società meritocratica per eccellenza, invece stiamo diventando una società di tipo ereditario, con una mobilità sociale perfino inferiore ad alcune nazioni europee. Le diseguaglianze, come dimostra Piketty, non sono il risultato di forze economiche ineluttabili, ma sono il prodotto delle politiche. La politica a sua volta è plasmata dalle diseguaglianze, viviamo in un sistema dove il potere politico è concentrato verso l’alto, e assistiamo a uno svuotamento del ceto medio. Oltre al rapporto tra rendimento del capitale e crescita, illustrato da Piketty, gli altri fattori che pesano sulle diseguaglianze sono la distribuzione del capitale stesso, le norme sulla successione ereditaria, la “segregazione economica” che deriva dagli accessi selettivi alle università o dai matrimoni “endogamici”, infine la tassazione del capitale. È importante capire che creando una società più equa, andremmo anche verso un’economia più efficiente e dinamica».
Paul Krugman: «Il lavoro di Piketty apre una nuova frontiera intellettuale. Se stasera siete venuti così numerosi ad ascoltarlo qui, se il suo libro ci colpisce con tanta forza, è perché ne sentivamo il bisogno. Le élite hanno avuto la capacità di imporre un’ideologia che giustifica i loro privilegi. Per esempio hanno descritto le diseguaglianze come l’ineluttabile conseguenza di livelli d’istruzione diversi: non è affatto decisiva questa spiegazione, tant’è che un prof di liceo e un top manager hanno una preparazione culturale comparabile. Le performance individuali non hanno più un nesso con i guadagni dei top manager, che costituiscono gran parte dello 0,1% degli straricchi. Qui non siamo più nel mondo di Gordon Gekko, il personaggio di Oliver Stone nel film Wall Street di 27 anni fa, qui siamo in un capitalismo patrimoniale dove i protagonisti sono i figli di Gordon Gekko che hanno ereditato la sua fortuna. Mi colpisce l’analogia ideologica con la Terza Repubblica francese che descrive Piketty. I privilegiati della Belle Époque usavano questo argomento: c’è stata la Rivoluzione francese, come possiamo definirci una società diseguale se abbiamo tutti gli stessi diritti? È lo stesso discorso che fanno i privilegiati nell’America del XXI secolo. Mi piace questa espressione di Piketty: il passato divora il futuro. Cattura l’essenza di ciò che è una società patrimoniale».
Stiglitz: «Nei grafici di Piketty si vede che l’imposta marginale Usa scese negli anni Venti del secolo scorso, proprio quando le diseguaglianze erano già estreme e si sarebbe dovuto fare l’esatto contrario per ovviarvi. Questo conferma la forza dell’ideologia. Oggi viviamo in America sotto un’ideologia sintetizzata da una sentenza della Corte suprema secondo cui “le imprese sono come persone”, hanno gli stessi diritti meritevoli di tutela».
Piketty: «Non siamo giunti alla fine di questo processo di divaricazione. Le diseguaglianze cresceranno ancora, rendendoci simili alla Francia pre-rivoluzionaria, dove i nobili rappresentavano l’1% della popolazione. È decisiva l’importanza dell’apparato di persuasione, con cui i privilegiati possono rendere la diseguaglianza accettabile, o inevitabile. Il XX secolo per invertire la tendenza alle diseguaglianze e imporre un cambiamento di direzione, ebbe bisogno di due guerre mondiali».
Il secolo delle diseguaglianze
di Anna Maria Merlo, da il manifesto
L’ex galeotto Vautrin, rivelando cinicamente allo studente spiantato Eugène de Rastignac i meccanismi sociali, gli aveva spiegato che era molto più conveniente sposare un’ereditiera che studiare e lavorare. Balzac scrive Le Père Goriot nel 1835. Per tutto il XIX secolo e l’inizio del XX, fino alla Belle Epoque, questo suggerimento resta valido. Ai tempi di Proust, a Parigi viveva un ventesimo della popolazione francese, ma la capitale concentrava un quarto dei patrimoni del paese. La “prima mondializzazione” (1870-1914) ha accresciuto le diseguaglianze sociali. Poi le due guerre mondiali, le distruzioni materiali, l’inflazione e anche alcune scelte politiche hanno ridotto il peso dei patrimoni. Ma oggi, nell’epoca di un’altra mondializzazione, il XXI secolo rischia di tornare al passato e di assomigliare al XIX.
È la tesi di un poderoso volume dal titolo ambizioso, Le capital au XXIe siècle, che l’economista Thomas Piketty pubblica da Seuil (969 pag., 25€). “All’inizio del XXI secolo l’eredità non è lontana dal ritrovare l’importanza che aveva all’epoca del Père Goriot” afferma Piketty. La spiegazione economica di questa minaccia è la seguente: “poiché il tasso di rendimento del capitale oltrepassa durevolmente il tasso di crescita della produzione e del reddito, situazione che è durata fino alla fine del XIX secolo e che rischia fortemente di tornare ad essere la norma nel XXI secolo, il capitalismo produce meccanicamente delle ineguaglianze insostenibili, arbitrarie, rimettendo radicalmente in causa i valori meritocratici sui quali si fondano le società democratiche”.
Piketty, basandosi su una considerevole massa di dati statistici (soprattutto di Francia, Gran Bretagna, Usa, ma anche dei paesi emergenti grazie alla World Top Incomes Database), analizza la questione della ripartizione delle ricchezze e, quindi, dell’ineguaglianza. Tra Marx, che aveva analizzato l’accumulazione del capitale che avrebbe condotto a una concentrazione in mano di pochi e Kuznets, che ottimisticamente credeva nelle forze equilibratrici della crescita, della concorrenza e del progresso tecnico, che avrebbe dovuto portare spontaneamente alla riduzione delle ineguaglianze.
Gli spari dei poliziotti contro i minatori, a Marikana vicino a Johannesburg il 16 agosto 2012, che hanno fatto 34 morti tra i lavoratori che chiedevano un aumento di stipendio che la compagnia mineraria con sede a Londra non voleva concedere per poter versare maggiori dividendi agli azionisti, ci ricorda l’attualità dello scontro tra redditi da lavoro e redditi da capitale. A Heymarket Square, a Chicago, il 1° maggio 1886 c’erano state violenze analoghe. “Lo scontro tra capitale e lavoro appartiene al passato oppure sarà una delle chiavi del XXI secolo?” si chiede Piketty.
La questione della ripartizione delle ricchezze è già al centro delle analisi dell’economia politica classica. Malthus, a fine ‘700, vede la minaccia nella sovrappopolazione. Ricardo si inquieta del prezzo della terra, bene raro, e dell’evoluzione della rendita fondiaria. Cinquant’anni dopo Ricardo, Marx analizza la dinamica del capitalismo in piena crescita. I dati statistici dicono che “una crescita debole permette di equilibrare solo debolmente il principio marxista di accumulazione permanente”. Storicamente, nei paesi europei industrializzati i salari cominciano a crescere, molto debolmente, solo nell’ultimo terzo del XIX secolo: ma “dal momento in cui il tasso di crescita della popolazione e della produttività è relativamente debole, i patrimoni accumulati nel passato assumono naturalmente un’importanza considerevole, potenzialmente smisurata e destabilizzatrice per le società”.
L’happy-end prevista dalla curva a U di Simon Kuznets a metà del secolo scorso – le ineguaglianze di reddito destinate a diminuire nella fase avanzata dello sviluppo capitalistico – non ha luogo all’inizio del XXI secolo. Certo, c’è stata una forte riduzione delle ineguaglianze di reddito tra la prima guerra mondiale e la fine della seconda: negli Usa, per esempio, il 10% degli americani più ricchi concentrava ogni anno il 45-50% del reddito nazionale negli anni ’10. Alla fine degli anni ’40, questa percentuale è caduta al 30-35% (oltre alle guerre e all’inflazione, un ruolo l’ha avuto anche l’imposta progressiva sul reddito, introdotta nel 1913 negli Usa, nel 1909 in Gran Bretagna, nel 1914 in Francia, nel 1922 in India, nel 1932 in Argentina). Ma dagli anni ’70-’80, la tendenza si è invertita. Dal secondo dopoguerra c’è stato il tempo per ricostruire i patrimoni e la svolta di Reagan, con l’abbassamento delle tasse, ha fatto il resto. Le ineguaglianze crescono: negli Usa, dimostra Piketty, “la concentrazione dei redditi ha ritrovato negli anni 2000-2010, o addirittura leggermente oltrepassato, il livello record degli anni 1910-1920”. Negli anni 2000-2010 nei paesi ricchi è stato ritrovato il livello di capitalizzazione di Borsa (in proporzione alla produzione interna o al reddito nazionale) esistente a Parigi o a Londra negli anni 1900-1910.
Oggi, il valore del capitale finanziario, immobiliare – cioè del capitale non umano – nei paesi ricchi è equivalente a sei anni di produzione e di reddito nazionale, un rapporto simile a quello che esisteva nel XIX secolo. Piketty si chiede: “il mondo del 2050 o 2100 sarà posseduto dai traders, dai super dirigenti e da chi controlla patrimoni importanti, oppure dai paesi petroliferi, o ancora dalla Banca di Cina, a meno che non siano i paradisi fiscali, che ospitano, in un modo o nell’altro, l’insieme di questi attori?”.
Per evitare questa deriva – sempre più accentuata dallo squilibrio tra tassi di crescita che non vanno più al di là dell’1-2% nel mondo ricco, di fronte a una rendita del capitale, finanziario e immobiliare, intorno al 4-5% - Pikeyy invoca scelte politiche, poiché “non esiste nessun processo naturale e spontaneo che permetta di evitare che le tendenze destabilizzatrici e che portano all’ineguaglianza con l’abbiano vinta durevolmente”. La principale fonte di convergenza dei redditi è la diffusione delle conoscenze e l’investimento nella scuola per tutti, sia all’interno di ogni paese che tra paesi. A questo Pikeyy suggerisce di aggiungere un’imposta mondiale progressiva sui redditi da capitale, perché l’eguaglianza formale dei diritti di fronte alla forza del mercato non è sufficiente per garantire una società più giusta. Ma la vicenda della Tassa sulle transazioni finanziarie, che avrebbe dovuto essere introdotta in nove paesi della Ue, ma che progressivamente è svuotata di ogni contenuto e di fatto abbandonata, ci dice che la battaglia sarà lunga e difficile, senza nessuna certezza di vincerla.
(18 aprile 2014)
http://temi.repubblica.it/micromega-onl ... -economia/
Thomas Piketty con il suo studio sulle disuguaglianze sta conquistando l’America,
compresi Krugman e Stiglitz con cui si è confrontato.
di Federico Rampini, da Repubblica, 18 aprile 2014
NEW YORK - Era dai tempi dell’inglese John Maynard Keynes, oltre 80 anni fa, che l’America non si lasciava conquistare da un economista europeo. La nazione più ricca e più avanzata del mondo riteneva di non aver nulla da imparare dalla vecchia Europa, almeno nella scienza economica. Oggi si ricrede. È merito di un quarantenne francese, Thomas Piketty, autore del Capitale nel XXI secolo, un monumentale studio su due secoli di diseguaglianze, la loro storia e le loro cause. L’editore americano ha dovuto anticiparne la traduzione dal francese, perché sommerso di prenotazioni online (e le prime edizioni sono già esaurite).
Il think tank democratico più vicino a Barack Obama, il Center for America Progress, lo ha invitato lunedì a Washington e il presidente ha mandato diversi consiglieri ad ascoltarlo. Harvard lo aspetta per stasera. In mezzo, la sua tappa di 48 ore a New York è stata un fuoco d’artificio. All’università Cuny, il francese è riuscito a fare un piccolo miracolo: riunire i due premi Nobel dell’economia Paul Krugman e Joseph Stglitz, due superstar inclini al protagonismo e noti per la loro rivalità accademica. Per Stiglitz lo studio di Piketty «è un contributo fondamentale», Krugman si dice «affascinato». In cerca di un nuovo «pensiero forte» dopo la grande crisi del 2008, l’America sembra averlo trovato in questo francese che l’ha ripudiata anni fa. Appena ventenne, Piketty insegnò qui al prestigioso Massachusetts Institute of Technology. Poi preferì tornare in Francia, perché diffidente verso la «deriva matematica» dei suoi colleghi americani. Verso i quali non lesina le critiche, accusando molti di loro di essere prigionieri di conflitti d’interessi, al servizio di un’ideologia che perpetua i privilegi delle oligarchie.
L’originalità di Piketty da una parte sta nell’aver ricostruito (guidando una squadra mondiale di oltre trenta economisti) l’andamento secolare delle diseguaglianze, sia nei redditi sia nei patrimoni. Dopo la descrizione, l’interpretazione. Una causa delle diseguaglianze odierne sta nel fatto che un’élite – prevalentemente di top manager – ha «fatto secessione » dal resto della società, si è conquistata il potere di fissare i propri stipendi in modo autonomo, senza alcun collegamento con la propria produttività. Il secondo fattore è perfino più importante: quando la crescita economica e demografica ristagna, prende il sopravvento la rendita finanziaria, automaticamente chi ha patrimoni accumulati diventa sempre più ricco e distanzia il resto. Ecco i passaggi più significativi del dibattito al Cuny.
Thomas Piketty: «Questo studio collettivo è cominciato 15 anni fa ed è composto di due parti. Da un lato abbiamo raccolto dati sui redditi, in quei paesi dov’è esistita da tempo un’imposta personale sui redditi. Cioè tutti i paesi occidentali ed anche Cina, India, molte nazioni dell’America latina. Dall’altro lato abbiamo raccolto i dati sui patrimoni, usando anche le statistiche sulle tasse di successione. Europa e Giappone sono due esempi illuminanti per capire come si crea una società “patrimoniale”, dove contano le ricchezze ereditarie: bassa natalità e bassa crescita economica rendono prevalenti le ricchezze già accumulate. Questa sta diventando la regola nel mondo intero. La chiave di tutto sta nel rapporto tra due variabili: da una parte il rendimento netto del capitale, dall’altra la crescita economica (a sua volta legata anche a quella demografica). Se il rendimento del capitale supera la crescita economica, come sta accadendo, ecco che il XXI secolo assomiglia sempre di più all’Ottocento: si va verso delle società oligarchiche. L’eccezione, l’anomalia più importante, l’abbiamo avuta per un lungo periodo del Novecento, dopo le due guerre mondiali, e in particolare nel “trentennio dorato” che va dalla ricostruzione post-bellica agli anni Settanta. Le diseguaglianze diminuirono sia per la forte crescita economica e demografica, sia per gli aumenti nella tassazione dei ricchi. Ci furono prelievi fiscali straordinari sui patrimoni, spesso legati allo sforzo bellico. E ci fu un forte aumento della tassazione progressiva sui redditi. A partire dagli Stati Uniti. Oggi può stupire, ma fu l’America a inventare una patrimoniale progressiva, con questa giustificazione: non voleva diventare una società ineguale come quella europea. E gli americani dopo la seconda guerra mondiale esportarono la loro elevata tassazione nelle due potenze sconfitte, Germania e Giappone, come un segno distintivo di civiltà».
Joseph Stiglitz: «Molti di noi studiarono all’università proprio nel trentennio magico, l’Età dell’Oro della crescita, e abbiamo finito per credere che quello fosse lo stato naturale. È importante l’attenzione che Piketty rivolge all’eredità come fonte di diseguaglianze. La successione ereditaria riguarda il capitale finanziario, immobiliare, e anche il capitale umano, visto l’accesso sempre più ineguale all’istruzione di alto livello. Noi qui in America crediamo di vivere in una società meritocratica per eccellenza, invece stiamo diventando una società di tipo ereditario, con una mobilità sociale perfino inferiore ad alcune nazioni europee. Le diseguaglianze, come dimostra Piketty, non sono il risultato di forze economiche ineluttabili, ma sono il prodotto delle politiche. La politica a sua volta è plasmata dalle diseguaglianze, viviamo in un sistema dove il potere politico è concentrato verso l’alto, e assistiamo a uno svuotamento del ceto medio. Oltre al rapporto tra rendimento del capitale e crescita, illustrato da Piketty, gli altri fattori che pesano sulle diseguaglianze sono la distribuzione del capitale stesso, le norme sulla successione ereditaria, la “segregazione economica” che deriva dagli accessi selettivi alle università o dai matrimoni “endogamici”, infine la tassazione del capitale. È importante capire che creando una società più equa, andremmo anche verso un’economia più efficiente e dinamica».
Paul Krugman: «Il lavoro di Piketty apre una nuova frontiera intellettuale. Se stasera siete venuti così numerosi ad ascoltarlo qui, se il suo libro ci colpisce con tanta forza, è perché ne sentivamo il bisogno. Le élite hanno avuto la capacità di imporre un’ideologia che giustifica i loro privilegi. Per esempio hanno descritto le diseguaglianze come l’ineluttabile conseguenza di livelli d’istruzione diversi: non è affatto decisiva questa spiegazione, tant’è che un prof di liceo e un top manager hanno una preparazione culturale comparabile. Le performance individuali non hanno più un nesso con i guadagni dei top manager, che costituiscono gran parte dello 0,1% degli straricchi. Qui non siamo più nel mondo di Gordon Gekko, il personaggio di Oliver Stone nel film Wall Street di 27 anni fa, qui siamo in un capitalismo patrimoniale dove i protagonisti sono i figli di Gordon Gekko che hanno ereditato la sua fortuna. Mi colpisce l’analogia ideologica con la Terza Repubblica francese che descrive Piketty. I privilegiati della Belle Époque usavano questo argomento: c’è stata la Rivoluzione francese, come possiamo definirci una società diseguale se abbiamo tutti gli stessi diritti? È lo stesso discorso che fanno i privilegiati nell’America del XXI secolo. Mi piace questa espressione di Piketty: il passato divora il futuro. Cattura l’essenza di ciò che è una società patrimoniale».
Stiglitz: «Nei grafici di Piketty si vede che l’imposta marginale Usa scese negli anni Venti del secolo scorso, proprio quando le diseguaglianze erano già estreme e si sarebbe dovuto fare l’esatto contrario per ovviarvi. Questo conferma la forza dell’ideologia. Oggi viviamo in America sotto un’ideologia sintetizzata da una sentenza della Corte suprema secondo cui “le imprese sono come persone”, hanno gli stessi diritti meritevoli di tutela».
Piketty: «Non siamo giunti alla fine di questo processo di divaricazione. Le diseguaglianze cresceranno ancora, rendendoci simili alla Francia pre-rivoluzionaria, dove i nobili rappresentavano l’1% della popolazione. È decisiva l’importanza dell’apparato di persuasione, con cui i privilegiati possono rendere la diseguaglianza accettabile, o inevitabile. Il XX secolo per invertire la tendenza alle diseguaglianze e imporre un cambiamento di direzione, ebbe bisogno di due guerre mondiali».
Il secolo delle diseguaglianze
di Anna Maria Merlo, da il manifesto
L’ex galeotto Vautrin, rivelando cinicamente allo studente spiantato Eugène de Rastignac i meccanismi sociali, gli aveva spiegato che era molto più conveniente sposare un’ereditiera che studiare e lavorare. Balzac scrive Le Père Goriot nel 1835. Per tutto il XIX secolo e l’inizio del XX, fino alla Belle Epoque, questo suggerimento resta valido. Ai tempi di Proust, a Parigi viveva un ventesimo della popolazione francese, ma la capitale concentrava un quarto dei patrimoni del paese. La “prima mondializzazione” (1870-1914) ha accresciuto le diseguaglianze sociali. Poi le due guerre mondiali, le distruzioni materiali, l’inflazione e anche alcune scelte politiche hanno ridotto il peso dei patrimoni. Ma oggi, nell’epoca di un’altra mondializzazione, il XXI secolo rischia di tornare al passato e di assomigliare al XIX.
È la tesi di un poderoso volume dal titolo ambizioso, Le capital au XXIe siècle, che l’economista Thomas Piketty pubblica da Seuil (969 pag., 25€). “All’inizio del XXI secolo l’eredità non è lontana dal ritrovare l’importanza che aveva all’epoca del Père Goriot” afferma Piketty. La spiegazione economica di questa minaccia è la seguente: “poiché il tasso di rendimento del capitale oltrepassa durevolmente il tasso di crescita della produzione e del reddito, situazione che è durata fino alla fine del XIX secolo e che rischia fortemente di tornare ad essere la norma nel XXI secolo, il capitalismo produce meccanicamente delle ineguaglianze insostenibili, arbitrarie, rimettendo radicalmente in causa i valori meritocratici sui quali si fondano le società democratiche”.
Piketty, basandosi su una considerevole massa di dati statistici (soprattutto di Francia, Gran Bretagna, Usa, ma anche dei paesi emergenti grazie alla World Top Incomes Database), analizza la questione della ripartizione delle ricchezze e, quindi, dell’ineguaglianza. Tra Marx, che aveva analizzato l’accumulazione del capitale che avrebbe condotto a una concentrazione in mano di pochi e Kuznets, che ottimisticamente credeva nelle forze equilibratrici della crescita, della concorrenza e del progresso tecnico, che avrebbe dovuto portare spontaneamente alla riduzione delle ineguaglianze.
Gli spari dei poliziotti contro i minatori, a Marikana vicino a Johannesburg il 16 agosto 2012, che hanno fatto 34 morti tra i lavoratori che chiedevano un aumento di stipendio che la compagnia mineraria con sede a Londra non voleva concedere per poter versare maggiori dividendi agli azionisti, ci ricorda l’attualità dello scontro tra redditi da lavoro e redditi da capitale. A Heymarket Square, a Chicago, il 1° maggio 1886 c’erano state violenze analoghe. “Lo scontro tra capitale e lavoro appartiene al passato oppure sarà una delle chiavi del XXI secolo?” si chiede Piketty.
La questione della ripartizione delle ricchezze è già al centro delle analisi dell’economia politica classica. Malthus, a fine ‘700, vede la minaccia nella sovrappopolazione. Ricardo si inquieta del prezzo della terra, bene raro, e dell’evoluzione della rendita fondiaria. Cinquant’anni dopo Ricardo, Marx analizza la dinamica del capitalismo in piena crescita. I dati statistici dicono che “una crescita debole permette di equilibrare solo debolmente il principio marxista di accumulazione permanente”. Storicamente, nei paesi europei industrializzati i salari cominciano a crescere, molto debolmente, solo nell’ultimo terzo del XIX secolo: ma “dal momento in cui il tasso di crescita della popolazione e della produttività è relativamente debole, i patrimoni accumulati nel passato assumono naturalmente un’importanza considerevole, potenzialmente smisurata e destabilizzatrice per le società”.
L’happy-end prevista dalla curva a U di Simon Kuznets a metà del secolo scorso – le ineguaglianze di reddito destinate a diminuire nella fase avanzata dello sviluppo capitalistico – non ha luogo all’inizio del XXI secolo. Certo, c’è stata una forte riduzione delle ineguaglianze di reddito tra la prima guerra mondiale e la fine della seconda: negli Usa, per esempio, il 10% degli americani più ricchi concentrava ogni anno il 45-50% del reddito nazionale negli anni ’10. Alla fine degli anni ’40, questa percentuale è caduta al 30-35% (oltre alle guerre e all’inflazione, un ruolo l’ha avuto anche l’imposta progressiva sul reddito, introdotta nel 1913 negli Usa, nel 1909 in Gran Bretagna, nel 1914 in Francia, nel 1922 in India, nel 1932 in Argentina). Ma dagli anni ’70-’80, la tendenza si è invertita. Dal secondo dopoguerra c’è stato il tempo per ricostruire i patrimoni e la svolta di Reagan, con l’abbassamento delle tasse, ha fatto il resto. Le ineguaglianze crescono: negli Usa, dimostra Piketty, “la concentrazione dei redditi ha ritrovato negli anni 2000-2010, o addirittura leggermente oltrepassato, il livello record degli anni 1910-1920”. Negli anni 2000-2010 nei paesi ricchi è stato ritrovato il livello di capitalizzazione di Borsa (in proporzione alla produzione interna o al reddito nazionale) esistente a Parigi o a Londra negli anni 1900-1910.
Oggi, il valore del capitale finanziario, immobiliare – cioè del capitale non umano – nei paesi ricchi è equivalente a sei anni di produzione e di reddito nazionale, un rapporto simile a quello che esisteva nel XIX secolo. Piketty si chiede: “il mondo del 2050 o 2100 sarà posseduto dai traders, dai super dirigenti e da chi controlla patrimoni importanti, oppure dai paesi petroliferi, o ancora dalla Banca di Cina, a meno che non siano i paradisi fiscali, che ospitano, in un modo o nell’altro, l’insieme di questi attori?”.
Per evitare questa deriva – sempre più accentuata dallo squilibrio tra tassi di crescita che non vanno più al di là dell’1-2% nel mondo ricco, di fronte a una rendita del capitale, finanziario e immobiliare, intorno al 4-5% - Pikeyy invoca scelte politiche, poiché “non esiste nessun processo naturale e spontaneo che permetta di evitare che le tendenze destabilizzatrici e che portano all’ineguaglianza con l’abbiano vinta durevolmente”. La principale fonte di convergenza dei redditi è la diffusione delle conoscenze e l’investimento nella scuola per tutti, sia all’interno di ogni paese che tra paesi. A questo Pikeyy suggerisce di aggiungere un’imposta mondiale progressiva sui redditi da capitale, perché l’eguaglianza formale dei diritti di fronte alla forza del mercato non è sufficiente per garantire una società più giusta. Ma la vicenda della Tassa sulle transazioni finanziarie, che avrebbe dovuto essere introdotta in nove paesi della Ue, ma che progressivamente è svuotata di ogni contenuto e di fatto abbandonata, ci dice che la battaglia sarà lunga e difficile, senza nessuna certezza di vincerla.
(18 aprile 2014)
http://temi.repubblica.it/micromega-onl ... -economia/