Corriere della Sera
La mafia e il passato che non passa. Perché Riina parla adesso di Andreotti
4 settembre 2014 - Nessun Commento »
Corrado Stajano
Sembra davvero una condanna il passato, un certo passato che non passa. Ancora Andreotti. Perché? Sono rimasti tanti buchi neri nella storia della mafia. Un’organizzazione criminale che opera, ben vitale, in un grande Paese non può durare un secolo e più se non è sorretta da un potere politico complice. Vuol dire che quel potere politico è degradato, che nonostante le lotte e i tentativi dell’Italia civile la mafia è diventata un vero e proprio soggetto della politica e seguita ad agire in quattro regioni italiane e altrove dove, nel nome dei propri interessi particolari, impedisce sviluppo e crescita della Nazione. (Il problema della mafia, così grave, non sembra neppure esistere nelle ipotetiche agende ministeriali).
I magistrati di Palermo hanno fatto, a costo delle loro vite perdute, non poche, quel che potevano, dagli anni Ottanta-Novanta del Novecento a oggi, ma spesso sono rimasti soli, aggrediti da ogni parte, ritenuti, soprattutto nel ventennio berlusconiano, carnefici di povere vittime innocenti.
La storia non si fa nei palazzi di giustizia è stato lo slogan di un’opinione pubblica insufflata da buona parte di un’informazione corriva. Il «divo Giulio» è stato sempre guardato con benevolenza, un simpatico figurante dei film di Alberto Sordi. Era l’uomo delle battute pungenti che uscivano ammiccanti dalle sue labbra sottili: per decenni hanno deliziato mezza Italia e son parse sinistre all’altra mezza Italia. Quando, nel settembre 1995, fu imputato per mafia dal Tribunale di Palermo, il senatore a vita seguì seriamente il processo senza intralciare la Corte e senza far approvare indecenti «leggi ad personam». Dopo ogni udienza ritornava in fretta a Roma e frequentava più del solito il Senato che doveva considerare la sua vera guardia del corpo. Appena entrava nell’aula di Palazzo Madama per andare a sedere sempre nello stesso banco, sulla sinistra del corridoietto d’ingresso, cominciava ogni volta una processione di senatori — dai comunisti di Rifondazione all’allora Pds a Forza Italia agli ex-post fascisti di Alleanza nazionale — che andavano in fila indiana a ossequiarlo e a congratularsi caldamente con lui. Chissà perché. L’Italia malata dell’ambiguità.
Ma come mai adesso riaffiora di nuovo questa non nobile memoria della Repubblica? E’ successo che il capomafia Totò Riina, ergastolano al 41 bis da 21 anni, abbia parlato di Andreotti nel cortile del carcere di Opera, vicino a Milano, con un detenuto pugliese. Il famoso bacio non ci fu, ha detto, ma lui, quel 20 settembre 1987, incontrò veramente Andreotti: non rivelò la verità sul bacio, Balduccio Di Maggio — «il Riina salutò con un bacio tutte e tre le persone, Andreotti, Lima e Salvo» — ma la riunione ci fu, eccome.
I giudici non credettero a quell’incontro che sarebbe avvenuto a Palermo in piazza Vittorio Veneto, «alla statua», come dicono i palermitani, in casa di Ignazio Salvo. Ma non ebbero dubbi sulla mafiosità del leader e sui suoi colloqui con Stefano Bontate, ai suoi tempi capo della mafia, oltre che con Frank Coppola detto «Tre dita», con Tino Badalamenti e con un altro mafioso in un albergo di Mazara del Vallo.
Andreotti fu assolto in primo grado, il 23 ottobre 1999, dall’infamante accusa di mafia «ai sensi dell’articolo 530 comma 2 del Codice di procedura penale», una specie di insufficienza di prove. Che non avrebbe dovuto essere una medaglia al valore per un politico sette volte presidente del Consiglio e infinite volte ministro. La sentenza fu confermata in Appello, resa definitiva, il 15 ottobre 2004, dalla Corte di Cassazione che ritenne Giulio Andreotti responsabile del reato di associazione a delinquere commesso fino alla primavera del 1980 e caduto in prescrizione. Andreotti fu beatificato allora dalle folle: un povero perseguitato, un martire. Un cardinale lo paragonò a Gesù Cristo.
L’incontro del 1987, con questa nuova testimonianza ritardata, avrebbe potuto interrompere la prescrizione. Ma Andreotti è morto il 6 maggio 2013, pace all’anima sua. Anche se basterebbe il caso Ambrosoli per dare un giudizio politico oltre che etico e civile sul personaggio: pesano la sua ossessiva protezione al bancarottiere mafioso e piduista Michele Sindona e quel che disse il 9 settembre 2010 in un’intervista della Rai — «La storia siamo noi» — al giornalista Alberto Puoti. Fu sincero, quella volta Andreotti nel suo naturale cinismo. L’avvocato Ambrosoli? «Certo è una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando».
Totò Riina è un cavernicolo, ma la sua intelligenza è sottile. Si può quindi intuire che volesse far sapere — il colloquio è di un anno fa — quel che ha detto.
Non hanno molta importanza oggi, però, le sue invettive. È passato troppo tempo per ricattare qualche politico, preoccupanti piuttosto sono le minacce a don Ciotti. Parla ai suoi, Riina, vuol ribadire di essere sempre lui il capo, come ha detto (al Corriere ) Franco Roberti, il procuratore nazionale antimafia. Giancarlo Caselli ha ben spiegato (al Fatto Quotidiano ) come il bacio sia stato il ghiotto pretesto per delegittimare il processo. Al popolo italiano è stato fatto credere che Andreotti era stato assolto: «Non è bastata una sentenza della Cassazione».
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