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camillobenso
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Messaggio da camillobenso »

20 DIC 2014 13:40
- SE MOSCA PIANGE, LONDRA NON RIDE

- LA FUGA DEI MAGNATI RUSSI DALLA “CITY”, A CAUSA DELLA CRISI ECONOMICA SOTTO IL CREMLINO, COLPISCE IL MERCATO IMMOBILIARE: I PREZZI SONO FERMI DOPO SETTE ANNI DI BOOM - -
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Christie’s International Real Estate ha registrato un improvviso calo del 70% nel numero di cittadini russi che si registrano per acquistare una casa - Nelle vie del lusso non si vedono più russi, perché oligarchi come Abramovich hanno perso centinaia di milioni di sterline in poche ore a causa della crisi di Mosca, e perché il peso dei russi sull’economia della città non è trascurabile…



La crisi del rublo causa non poche preoccupazioni anche a Londongrad, quella parte di Londra così chiamata perché ci vivono i russi. Va dalla City agli eleganti quartieri di Mayfair e Belgravia, passando per Piccadilly, Regent Street e New Bond Street, dove si fanno gli acquisti tornando a casa.

Le agenzie immobiliari di Londongrad hanno qualche problema: per la prima volta da decenni i prezzi delle abitazioni in città crescono meno che altrove: solo lo 0,5 % negli ultimi tre mesi. Cinque città, Southampton, Glasgow, Edimburgo, Bristol e Birmingham hanno fatto meglio, con la capitale scozzese che festeggia il no al referendum per l’indipendenza con un brillante + 1,8.

Chi ha comprato casa a Londra qualche anno fa non ha da lamentarsi, visto che i prezzi sono saliti del 30,5% dal 2007 e che il costo medio di una abitazione ha raggiunto le 403.000 sterline, 514 mila euro. Ma la frenata preoccupa, anche perché le previsioni per il prossimo anno non sono buone: nel resto del Paese i prezzi delle case saliranno del 3%, a Londra saranno stabili.

Dare la colpa solo alla fuga dei russi travolti dalla crisi sarebbe sbagliato, ma è certo che Christie’s International Real Estate ha registrato un improvviso calo del 70% nel numero di cittadini russi che si registrano per acquistare una casa. Le principali agenzie, come Knight Frank e Beauchamp Estates, dicono di avere ancora moltissime richieste per le residenze tra i 20 e i 200 milioni di sterline, ma i russi nel mercato al di sotto dei 10 milioni sono scomparsi, superati da francesi e italiani.

Londongrad è preoccupata, perché nelle vie del lusso non si vedono più russi, perché oligarchi come Roman Abramovich hanno perso centinaia di milioni di sterline in poche ore a causa della crisi di Mosca, e perché il peso dei russi sull’economia della città non è trascurabile. Non si tratta solo degli investimenti nella City, nelle squadre di calcio o in giornali come l’Independent e l’Evening Standard. Una casa su dieci al di sotto di 2 milioni di sterline è stata acquistata negli ultimi anni dai russi. I russi donano mediamente ogni anno al partito conservatore del premier Cameron 1,5 milioni di sterline.

AVVOCATI PREOCCUPATI
I russi arricchiscono non solo il mercato immobiliare e i negozi di lusso, ma anche gli studi legali. Solo la causa tra Abramovich e Boris Berezovsky ha fruttato agli avvocati 150 milioni di sterline e il 60% dei procedimenti della London commercial court riguarda ancora conflitti sulle spoglie dell’ex Urss. Ci sono poi i divorzi: i numerosi oligarchi che volevano una compagna più magra e più giovane pagavano un prezzo molto alto, con apprezzabili ricadute economiche. Londongrad non può più fare a meno dei russi e, segretamente, fa il tifo per Putin.
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DOSSIER
Siamo tutti sudditi di Google e Facebook
I big della Rete possiedono più informazioni su di noi di quanto immaginiamo. Hanno capitali ormai sconfinati e decidono cosa possiamo pubblicare 
on line e cosa no. 
E stanno diventando più potenti delle democrazie
DI ALESSANDRO GILIOLI

23 dicembre 2014



Qualcuno lo dice da tempo, come il venture capitalist Peter Thiel, già cofondatore di PayPal: «La libertà non è compatibile con la democrazia». Altri ci sono arrivati più di recente, come l’ingegnere di Google Justine Tanney, che ha proposto di trasferire tutto il potere amministrativo Usa all’industria hi-tech, con un Ceo al posto del presidente eletto.

Qualcun altro ci ha creato un progetto, come Patri Friedman, nipote dell’economista Milton e inventore dello SeaSteading Institute, la cui missione è costruire città nell’Oceano dove sperimentare sistemi politico-tecnologici senza aver tra i piedi lo Stato, con le sue noiose regole. Insomma, è il momento di «assaltare la cattedrale» e di mettere in dubbio «il dogma delle democrazia», considerata una forma di governo ormai inadatta «al libero sviluppo» delle menti migliori, della nuova élite che sta al piano più alto della Silicon Valley. E che, se liberata dai famosi “laccioli”, sarebbe in grado di sconfiggere i mali dell’umanità molto meglio dei politici.

Il fondatore di WikiLeaks su "Big G."Negli ultimi 15 anni Google è cresciuto dentro Internet come un parassita"
Quella dei “tecnolibertarian” californiani e dei loro finanziatori può sembrare la battaglia eccentrica di una frangia estrema: gente che ha fatto troppi soldi passando troppe ore sui pc. Ma non è proprio così. Perché se qualche tycoon digitale lo scrive apertamente, altri stanno spostando la realtà verso lo stesso obiettivo senza dichiarazioni pubbliche né “think tank”. Semplicemente facendolo, cioè rendendo le aziende della Silicon Valley centri di potere effettivo, come e più degli Stati nei quali operano. Una trasformazione silenziosa che passa attraverso il controllo dei dati personali di miliardi di persone, un accumulo di capitali che non ha precedenti e l’immensa forza derivante dal fatto che i loro prodotti - motori di ricerca, mail, social network etc - sono sempre più indispensabili nella vita quotidiana di tutti. E se oggi si facesse un referendum per chiedere se rinunciare a Facebook o al Parlamento, chissà come andrebbe a finire.

«Sì, la nostra ambizione è questa. E lo faremo con la Rete, i robot, l’intelligenza artificiale». Parla il cofondatore di Google
La questione va un po’ oltre l’annoso dibattito fra “tecnoscettici” e “tecnoentusiasti”: cioè fra chi enfatizza le conseguenze positive della Rete e chi quelle negative. È ormai scontato che il Web è parte della nostra vita: e la possibilità di rimanere senza è confinata a romanzi di fantascienza come il recente “Internet Apocalypse”, di Wayne Gladstone. Il problema non è quindi se essere “a favore o contro” la Rete, ma è capire se i suoi principali attori - cioè le big company della tecnologia - non stiano andando oggi oltre ogni prevedibile ruolo, incidendo un po’ troppo nella nostra esistenza individuale e collettiva. Per poi decidere, eventualmente, se così va bene a tutti o se qualcosa si può e si deve governare.

Il potere dei dati
Sappiamo da tempo che i comportamenti on line e i dati degli utenti vengono tracciati dai big della Rete per profilarli dal punto di vista pubblicitario, cioè per far apparire sui monitor di ciascuno inserzioni sempre più vicine ai suoi interessi: è in questo modo che Google ha conquistato quasi un terzo della torta pubblicitaria mondiale on line, seguita a distanza da Facebook, Yahoo e Microsoft; in Italia, l’azienda di Mountain View controlla una quota stimata addirittura al 55 per cento.


Da qualche tempo il padre di Facebook ha avviato un'"operazione simpatia" che guarda verso la Cina, che ha messo al bando il social network dal 2009. E si spera che non porti a un compromesso al ribasso sui diritti degli utenti
Quello che invece fino a poco tempo fa non si sapeva era che l’enorme quantità di informazioni su ognuno di noi che viene raccolta da queste aziende non solo può essere passata ai servizi di un governo (scandalo Nsa) ma può anche finire nelle mani di altri soggetti privati, dato che il modo con cui le company gestiscono questi dati è sempre più ramificato, complesso ed esteso. L’ultima questione, ad esempio, riguarda le nuove policy di Facebook, che ampliano il potere di tracciamento da parte del social network in modo così ampio che l’utente difficilmente potrà raccapezzarsi e tenerne controllo.

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book si riserva ad esempio la possibilità di usare, nello stesso insieme di dati con cui poi crea il “profilo utente” che vende agli sponsor, anche le nostre attività su siti o app diversi da Facebook. Basta che il sito o l’app abbia il codice di Facebook (il “mi piace”, “condividi”, “fai log in con Facebook” etc) e l’azienda di Zuckerberg tiene traccia di ciò che l’utente fa anche su quel sito.

Anche i recinti del tracciamento di Google sono sempre più vasti: vi rientrano i dati della nostra navigazione, il numero di telefono, la carta di credito, i contenuti della mail (se usiamo Gmail) e altro ancora. Il profilo utente si combina di un tutt’uno degli altri servizi di Google, quindi anche le nostre ricerche su Youtube.

L’ultima frontiera, sia per Google sia per Facebook, è riuscire a capire che un utente da computer è lo stesso che usa lo smartphone. L’obiettivo insomma è schedare una persona su tutti i dispositivi, sfruttando vari metodi (log in nell’account Google e Facebook o calcoli probabilistici). Entrambe le aziende, così come le altre che tracciano i nostri dati, dichiarano di non venderli - con nome e cognome - agli sponsor (ufficiale invece è che vendono profili anonimi).

Tuttavia secondo Raymond Wacks, giurista e tra i massimi esperti mondiali di privacy on line, «rinunciando al controllo sulle nostre informazioni personali, stiamo dichiarando la nostra fiducia totale verso chi le colleziona». In pratica, ci mettiamo nelle loro mani. In più, nota Wacks, «le aziende Web ammettono di usare i nostri dati per le richieste delle agenzie governative: certo, dicono di concederli loro solo nei limiti di legge, ma è difficile stabilire se questo sia vero».

Anche il garante italiano per la privacy Antonello Soro è netto: «L’uso pubblicitario è solo uno degli effetti dell’attività di profilazione sistematica degli utenti che avviene a loro insaputa», dice. «Le capacità di elaborazione e di analisi dei dati, comprese quelle di reidentificazione di quelli anonimi, consentono a soggetti privati di costruire le nostre identità in ragione delle esigenze del momento: ad esempio, per accertare la nostra solvibilità economica, lo stato di salute, l’affidabilità nel luogo di lavoro etc».

La questione della riservatezza violata, nel suo complesso, si trascina da anni senza che nessuno abbia mai opposto vera resistenza. Anzi, la visione di Mark Zuckerberg - secondo il quale «la privacy è solo un retaggio del passato» - è stata nell’ultimo quinquennio quella dominante, che ha fatto “egemonia culturale”. Ora, forse, qualcosa nelle coscienze (e quindi nelle politiche) sta cambiando, anche per via dello scandalo Nsa. Secondo Fulvio Sarzana, avvocato esperto di diritto digitale, «l’Europa ha cominciato a far capire che violazioni dei dati personali compiute nei confronti dei cittadini comunitari dovranno e potranno essere trattate anche nei Paesi dell’Unione». Anche il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks, vuole rinegoziare gli accordi con gli Usa sulla privacy, perché « la sorveglianza segreta può distruggere la democrazia, anziché difenderla ». E la bozza di “Carta dei diritti della Rete” italiana, appena uscita dall’apposita commissione della Camera, al punto 4 è chiara sul tema dei dati personali. Finora, piccoli passi. E, come spesso accade nei rapporti tra tecnologia e legislatori, i secondi viaggiano in ritardo rispetto alla prima.

Chi decide sull’oblio
Le perplessità su un’efficace azione dell’Unione europea nei confronti dei big della Rete crescono se si pensa a quanto accaduto con la questione del diritto all’oblio . Un tema delicato: da un lato c’è il diritto della persona a non far apparire link “superati dal tempo” quando qualcuno digita il suo nome su Google (ad esempio, una condanna in primo grado poi seguita da un’assoluzione; o semplicemente una vertenza fiscale poi regolarizzata); d’altro canto, c’è il diritto dei cittadini a non veder cancellati dei pezzi di cronaca e di realtà su persone che poi magari vogliono accedere a cariche pubbliche o con cui si deve interagire in affari.

Come se ne esce? La soluzione più logica sarebbe forse quella di non cancellare niente, imponendo tuttavia che ogni pagina “superata” sia resa evidente come tale, con un link molto visibile alla notizia che la rende, appunto, sorpassata. Invece la Corte di Giustizia dell’Ue (su richiesta di un cittadino spagnolo che voleva far cancellare da Google la notizia di un vecchio pignoramento subito) il 14 maggio scorso ha deciso che ogni cittadino Ue ha diritto a chiedere a Google di deindicizzare ogni contenuto che lo riguardi, pubblicato su qualsiasi sito europeo. In altri termini, la Corte del Lussemburgo ha stabilito che a decidere sul diritto d’oblio, caso per caso, non sarà un giudice ma una corporation privata, la stessa Google. Se Mountain View insindacabilmente ritiene che una pagina deve essere “scordata”, la nasconderà dai risultati del motore di ricerca.

Diversa è la proposta della “Carta dei diritti della Rete italiana”, secondo la quale si può almeno «impugnare davanti all’autorità giudiziaria la decisione (di deindicizzare un link) per garantire l’interesse pubblico all’informazione». Qui infatti è in gioco una scelta di fondo: su temi così importanti si può lasciare che il “giudice” sia un’azienda privata? Non è che due o tre secoli di cultura sulla suddivisione dei poteri, così, rischiano di essere sepolti - questi sì - nell’oblio?

La dittatura delle policy
Se in un ristorante vi servissero da mangiare in mezzo agli scarafaggi, probabilmente chiamereste i Nas. Perché un esercente, per quanto sia un imprenditore privato, ha l’obbligo di seguire alcune norme pubbliche, ad esempio in materia di igiene. Lo stesso non si può dire dei giganti della Rete, social network in testa: le regole di censura o di espulsione sono stabilite solo dal fornitore, che a piacimento può cambiarle come e quando crede.

L’internauta ha un unico diritto: andarsene, se questo non gli costa troppo in termini di relazioni sociali, economiche etc. È la dittatura delle policy: una volta cliccato “sì” alle condizioni di servizio, si diventa parte di uno Stato in cui non si è cittadini, ma sudditi.

Prendiamo il caso di Facebook: i termini sono unilateralmente imposti dal social network al suo miliardo e mezzo di utenti e la loro violazione conferisce ai proprietari del sito il diritto di rimuovere ogni tipo di contenuto. Facebook è al contempo legislatore, poliziotto e giudice: in caso di ricorso contro una rimozione di contenuti, infatti, a decidere sullo stesso è sempre Facebook. Non dissimili sono i termini d’uso di Google e peggio ancora è Twitter, che si riserva «il diritto di rimuovere o rifiutare, in ogni momento, la distribuzione di contenuti, di sospendere o chiudere utenze senza alcuna responsabilità». Si reclama insomma un principio di assolutezza, perché “una società privata può fare quello che vuole”.

Il problema non è irrilevante in quanto alcuni di questi siti, come Facebook e Google, hanno ormai una potenza e una diffusione tale che per milioni di persone sono quasi entrati nella “sfera del bisogno”: in molti settori, un’azienda che non è su Facebook è come se fosse morta; lo stesso dicasi per un politico o per un giornalista, per un cantante, per un artista; e altre professioni ancora, per le quali l’esistenza sul social network di Zuckerberg è ormai una condizione vitale. Ma, a parte questi casi, senza Facebook o Google oggi una buona fetta della popolazione mondiale si sentirebbe deprivata in termini di relazioni sociali, amicali, affettive. Che sono quindi alla mercé di un gruppo di misteriosi decisori che stanno da qualche parte nel mondo, tra l’Irlanda e la California, e che decidono se, quanto, quando “bannarci”.

Capitali senza freni
Un anno fa il deputato del Pd Francesco Boccia propose una norma - la “Web tax” - per costringere le multinazionali digitali a pagare le tasse in Italia sui profitti realizzati nel nostro Paese. Infatti attraverso un sistema di triangolazioni e fatturazioni estere (specie in Irlanda, Olanda e Lussemburgo), le aziende tecnologiche riescono a eludere le imposte in modo molto robusto: in media, di quasi un terzo. Non solo Google e Facebook, ma anche Apple, Microsoft, LinkedIn, eBay, Twitter e altre. Si calcola che, esteso a tutto il mondo, il sistema consenta a Google di tenere nelle proprie casse ogni anno circa 9 miliardi di euro che altrimenti dovrebbe versare agli Stati in cui opera.

La norma proposta da Boccia aveva buone intenzioni ma alcuni limiti, tra cui quello di costringere di fatto migliaia di aziende di ogni Paese - comprese le startup - ad aprire una partita Iva in Italia per vendere qualsiasi cosa nel nostro Paese. Il risultato prevedibile sarebbe stato che la gran parte di queste società straniere (specie le più piccole, che sono spesso anche le più innovative) avrebbero preferito rinunciare a vendere nel nostro Paese: un disclaimer “il servizio non è disponibile in Italia” e fine. Di fronte alle moltissime proteste (di questi servizi diffusi on line si serve la parte più sveglia della piccola e media impresa italiana) la proposta di legge fu poi ristretta alle sole aziende «che vendono spazi pubblicitari online e link sponsorizzati»; ma anche in questa versione a molti sembrò un freno alla Rete, tanto che Renzi, appena diventato leader del Pd, decise di non farne niente perché i temi «della Web tax vanno posti in Europa altrimenti rischiamo di dare l’immagine di un Paese che rifiuta l’innovazione».

Tuttavia, un anno dopo, l’Unione europea non si è ancora mossa e le multinazionali hi-tech ringraziano. Commenta oggi Boccia: «È noto quanto le principali lobby al servizio delle multinazionali del Web lavorino per rinviare qualsiasi scelta di superamento delle asimmetrie fiscali tra i diversi paesi. L’Ue su questo produce solo gruppi di lavoro. Va così dalla direttiva del 2006: sono passati quasi 9 anni». Va anche notato che nessuno stimolo in questo senso è arrivato nemmeno dal semestre italiano di presidenza Ue, ormai in chiusura, come nota ancora Boccia: «Il governo Renzi che si era impegnato davanti all’intera opinione pubblica nel trovare una soluzione europea nell’ambito del semestre italiano, non ha fatto assolutamente nulla. E credo che sia stata una scelta politica, profondamente sbagliata».

Se sulle tasse l’Ue è ferma, un po’ meno timido sembra il suo atteggiamento in termini di Antitrust: l’europarlamento ha infatti approvato la mozione proposta dal dc tedesco Andreas Schwab che chiede la separazione del motore di ricerca di Google dalle altre attività del gruppo, per evitare posizioni dominanti. Incerta è tuttavia anche la fine che farà questa richiesta: che non ha effetti operativi e non è vincolante per la Commissione, la quale si è presa tempo per decidere. Come sempre.

In cerca di una governance
Maurizio Costa, come presidente degli editori italiani (Fieg) è ovviamente parte in causa, specie per la questione dei diritti sui contenuti dei giornali on line usati da Google che in Spagna è recentemente scoppiata. La sua lettura della sitazione tuttavia sembra fondata nelle argomentazioni: «C’è un filo rosso che tiene insieme tutto ed è l’opacità dei comportamenti di Google, così come di altri “over the top” della Rete», dice. «Sono misteriosi i meccanismi di indicizzazione dei motori di ricerca, è misterioso il sistema di profilamento degli internauti, è misterioso il percorso con cui la nostra navigazione viene tracciata e quindi usata per i servizi commerciali. Ed è misteriosa anche l’entità dei ricavi pubblicitari, basati su meccanismi con cui vengono eluse le tasse fatturando dall’Irlanda». Conclude Costa: «È un paradosso: la Rete, che per natura dovrebbe essere sinonimo di trasparenza, ha tra i suoi principali attori dei soggetti che non sono per nulla trasparenti».

Di qui le tensioni e le (difficili) trattative in corso. Sul fronte della privacy, ad esempio, il Garante europeo Giovanni Buttarelli ha detto in una recente intervista che «per i prossimi 5-6 anni il dialogo sulle regole sarà tra Bruxelles e la Silicon Valley». Da un lato, è l’ammissione del ruolo ormai politico che svolgono le big corporation digitali, sdoganate come un potere statuale. D’altro lato, c’è l’attribuzione alla Ue di una funzione di controparte forte. Certo, se l’Europa davvero facesse qualcosa, avrebbe un potere contrattuale maggiore dei singoli Stati. Ma finora non è stato così.

E nel frattempo le multinazionali del Web, Google in testa, per espandersi guardano sempre di più ai Paesi emergenti, Asia e Africa in testa: il prossimo miliardo di persone collegate alla Rete, che fa sembrare poca cosa i 300 milioni di internauti europei. Questo non deve costituire un altro alibi per la Ue, ma fa pensare che forse la prima arma possibile contro lo strabordare di potere delle aziende tecnologiche sia la coscienza collettiva. Cioè la consapevolezza di ciascuno di noi - cittadino e navigatore, quindi “netizen” - delle dinamiche in cui è immerso, quindi dei propri diritti. Solo con la precondizione forte e globale di questa coscienza si può pensare a una governance della Rete che sia democratica anziché oligarchica, trasparente anziché opaca, al servizio di tutti anziché di pochi.

ha collaborato Alessandro Longo
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Yemen, scontri tra ribelli ed esercito. Ministro: “Vicini al colpo di Stato”
Mondo
Dopo che i ribelli sciiti houdi hanno assaltato il palazzo presidenziale e oscurato i media ufficiali del Paese, al-Sakkaf, a capo del ministero dell'Informazione, ha ammesso il golpe imminente. Su Twitter l’attivista Hisham Al-Omeisy denuncia: "Corpi per strada".
di F. Q. | 19 gennaio 2015 COMMENTI


“Siamo a un passo dal golpe. Potremmo vedere un altro Yemen entro stasera”.

Lo ha detto il ministro dell’Informazione, Nadia al-Sakkaf, dopo gli scontri tra l’esercito e i ribelli sciiti houthi, che avrebbero tentato l’assalto al palazzo del governo.

“Parte dell’esercito – ha aggiunto ai microfoni di Al Jazira – non obbedisce agli ordini del presidente Abed Rabbo Mansur Hadi.

Credo che nessuno abbia il controllo di San’a (la capitale, ndr) in questo momento”. I media ufficiali yemeniti sono interrotti, ma stando alle notizie che circolano sul web nella capitale ci sono stati morti ed è in corso un viavai di ambulanze nella zona della sede del governo. Su Twitter l’attivista Hisham Al-Omeisy ha parlato di “corpi per strada”.

Lunedì mattina sono scoppiati disordini tra i ribelli e i soldati governativi vicino al palazzo presidenziale nella capitale. I testimoni hanno riferito di aver udito colpi di mortaio e intense sparatorie. Secondo una fonte sono stati usati fucili automatici e lanciarazzi portatili e la polizia ha chiuso l’accesso alla zona degli scontri. Le due fazioni si sono accusate a vicenda di aver provocato la guerriglia. Il canale tv dei ribelli, al-Maseera, ha incolpato l’esercito di avere aperto il fuoco contro i miliziani nell’area del palazzo, mentre un alto funzionario militare affermava che erano stati gli houthi ad attaccare per primi, colpendo alcuni checkpoint militari. I media statali non hanno riportato la notizia a causa di un’improvvisa interruzione della corrente elettrica. Inizialmente si è pensato a un guasto, ma Sakkaf ha poi dichiarato che gli houti hanno assaltato la sede dell’agenzia di stampa statale Saba e la tv.

Il presidente, che al momento degli scontri si trovava nella sua residenza privata, distante dai combattimenti, ha quindi tentato di siglare un accordo per un cessate il fuoco. Successivamente ha organizzato un vertice con i suoi consiglieri politici e i rappresentanti dei ribelli. Dopo l’incontro, in cui erano presenti anche il consigliere houdi del presidente, Saleh al-Samad, e il primo ministro Khaled Bahah, il convoglio di quest’ultimo è stato attaccato con colpi di arma da fuoco da parte dei miliziani. Secondo quanto riportato da al-Sakkaf su Twitter, nessuno è rimasto ferito.

Fallito questo tentativo di mediazione, il ministro dell’Informazione ha quindi ammesso che ormai i ribelli, che esercitavano da settembre un parziale controllo sulla capitale, stanno per prendere il potere. Al-Sakkaf ha poi aggiunto che il presidente e gli altri ministri non abbandoneranno San’a.


http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01 ... o/1351137/


La domanda sorge spontanea.

Sono in molti a considerare lo Yemen un finanziatore occulto del terrorismo.

Se ci sarà un colpo di Stato, il terrorismo diminuirà i suoi effetti o verrà incrementato?
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Renzi elenca i successi del governo. “Sarò breve”.
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Renzi elenca i successi del governo. “Sarò breve”.
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Re: World News

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Celente: le banche (e i loro politici) ci stanno rubando tutto
Scritto il 01/4/15 • nella Categoria: segnalazioni di LIBRE



Non è mai accaduto niente di simile nella storia del mondo. Sotto gli occhi di tutti, e a spese di tutti, i governi continuano a razziare ingenti ricchezze per arricchire i responsabili dei più efferati crimini e nefandezze economico-finanziarie. Prima c’era la Tarp. Come pretesto per arginare le turbolenze nel mercato azionario dopo il collasso di Lehman Brothers nel settembre 2008, il presidente George W. Bush approvò solo un mese dopo il “Troubled Asset Relief Program”. Il piano permise al Tesoro degli Stati Uniti di assicurare 700 miliardi di dollari di “beni in difficoltà”, un eufemismo che in realtà significa coprire le nefandezze finanziarie commesse dalle grandi banche e dai grandi speculatori di Wall Street. Poco dopo, il neo-eletto presidente Barack Obama appioppò alla sua nazione nel 2009 il “Recovery and Reinvestment Act”, un piano da 900 miliardi, il più vasto programma finanziario del genere nell’intera storia americana.Obama dichiarò: «Quattrocentomila uomini e donne stanno per mettersi al lavoro per la ricostruzione delle nostre strade e dei nostri ponti fatiscenti, per la riparazione delle nostre dighe e i nostri argini instabili, per portare la banda larga alle imprese e alle famiglie in quasi tutte le comunità degli Stati Uniti d’America, per ammodernare i nostri sistemi di trasporto di massa e per la costruzione di linee ferroviarie ad alta velocità in grado di migliorare gli spostamenti e il commercio in tutta la nostra nazione». Le uniche ‘strade’ che quel trilione di dollari ha riparato veramente sono quelle di Wall Street. Allo stesso tempo, la Federal Reserve statunitense ha portato i tassi di interesse ai minimi storici e ha lanciato politiche di allentamento monetario senza precedenti, che hanno alimentato un boom di Wall Street al costo di Main Street. Il Dow è salito da 8.000 nel 2009 a 18.000 nel 2014, mentre si stima che il 95% dei guadagni è andato all’1% della popolazione degli Stati Uniti.Tuttavia, nello stesso periodo, il prodotto interno lordo ha arrancato intorno a una media del 2,2 %, senza mai dar segno di quel rialzo di cui tanto parlano e si vantano quelli di Washington e la stampa finanziaria. A seguito del piano della Fed, il programma monetario ‘Abenomico’ giapponese annunciato nel dicembre del 2012, ha ottenuto risultati simili. Il Nikkei recentemente ha raggiunto picchi mai toccati da 15 anni a questa parte, mentre il Pil del Giappone oscilla tra cadute improvvise e tiepidi rialzi. Ora, la Banca Centrale Europea ha avviato un programma di Qe (quantitative easing, allentamento monetario) che inietterà 1.300 miliardi di dollari nel sistema finanziario nel corso dei prossimi 16 mesi – e forse anche più a lungo, se sarà ritenuto necessario. Il risultato finale, come per Usa e Giappone, sarà lo stesso: i tassi d’interesse ai minimi storici e il flusso di denaro ‘facile’ faranno rialzare temporaneamente i mercati azionari, mentre le economie dell’Eurozona oscilleranno tra moderata crescita e nuova recessione.I più grandi perdenti in tutto questo saranno i comuni cittadini, senza più un posto sicuro dove mettere i propri risparmi e con sempre più banche europee che ‘pagano’ alcuni selezionati clienti per poter tenere il loro denaro. E con le obbligazioni che ripagano i rendimenti negativi, le compagnie di assicurazione che vendono prodotti e rendite e investono quel denaro in obbligazioni governative e societarie – con l’aspettativa che il rendimento delle obbligazioni sia maggiore di quello che dovranno pagare per l’assicurato – il danno è assicurato. In previsione del piano di Qe del presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi, che ammette si tratti di un piano “non convenzionale”, gli investitori (o meglio i giocatori d’azzardo di alto bordo) hanno già pompato circa 36 miliardi di dollari nei mercati azionari europei.Nel frattempo, l’uomo della strada ha appena visto il suo potere d’acquisto scendere drammaticamente a mano a mano che l’euro continua la sua caduta libera, da 1,39 dollari lo scorso marzo a un recente minimo di 1,04 , con la previsione che nel futuro – non troppo lontano – vada in parità o scenda anche al di sotto del dollaro. Breaking Point 2.0. Le iniezioni multi-trilionarie di dollari da parte delle banche centrali, le politiche a tasso zero, i tassi d’interesse negativi, i rendimenti obbligazionari negativi e i fiumi di dollari a basso prezzo che gonfiano artificialmente i mercati azionari e alimentano i giochi perversi di investimenti di capitali/private equity/hedge fund, hanno già avuto dei precedenti nella storia del mondo. E quando sulla terra esplode la Grande Bolla Speculativa, lo scoppio si avverte in tutto il mondo – e per generazioni.(Gerald Celente, “Il tuo denaro, la tua vita”, da “Information Clearing House” del 26 marzo 2015, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Fondatore e direttore del “Trends Research Institute”, autore di “Trends 2000” e “Trend Tracking” nonché editore del “The Trends Journal”, Celente fa previsioni economiche e finanziarie fin dal 1980 e di recente ha pubblicato “Il Collasso del ‘09”).
Non è mai accaduto niente di simile nella storia del mondo. Sotto gli occhi di tutti, e a spese di tutti, i governi continuano a razziare ingenti ricchezze per arricchire i responsabili dei più efferati crimini e nefandezze economico-finanziarie. Prima c’era la Tarp. Come pretesto per arginare le turbolenze nel mercato azionario dopo il collasso di Lehman Brothers nel settembre 2008, il presidente George W. Bush approvò solo un mese dopo il “Troubled Asset Relief Program”. Il piano permise al Tesoro degli Stati Uniti di assicurare 700 miliardi di dollari di “beni in difficoltà”, un eufemismo che in realtà significa coprire le nefandezze finanziarie commesse dalle grandi banche e dai grandi speculatori di Wall Street. Poco dopo, il neo-eletto presidente Barack Obama appioppò alla sua nazione nel 2009 il “Recovery and Reinvestment Act”, un piano da 900 miliardi, il più vasto programma finanziario del genere nell’intera storia americana.

Obama dichiarò: «Quattrocentomila uomini e donne stanno per mettersi al lavoro per la ricostruzione delle nostre strade e dei nostri ponti fatiscenti, per la riparazione delle nostre dighe e i nostri argini instabili, per portare la banda larga alle imprese e Barack Obamaalle famiglie in quasi tutte le comunità degli Stati Uniti d’America, per ammodernare i nostri sistemi di trasporto di massa e per la costruzione di linee ferroviarie ad alta velocità in grado di migliorare gli spostamenti e il commercio in tutta la nostra nazione». Le uniche ‘strade’ che quel trilione di dollari ha riparato veramente sono quelle di Wall Street. Allo stesso tempo, la Federal Reserve statunitense ha portato i tassi di interesse ai minimi storici e ha lanciato politiche di allentamento monetario senza precedenti, che hanno alimentato un boom di Wall Street al costo di Main Street. Il Dow è salito da 8.000 nel 2009 a 18.000 nel 2014, mentre si stima che il 95% dei guadagni è andato all’1% della popolazione degli Stati Uniti.

Tuttavia, nello stesso periodo, il prodotto interno lordo ha arrancato intorno a una media del 2,2 %, senza mai dar segno di quel rialzo di cui tanto parlano e si vantano quelli di Washington e la stampa finanziaria. A seguito del piano della Fed, il programma monetario ‘Abenomico’ giapponese annunciato nel dicembre del 2012, ha ottenuto risultati simili. Il Nikkei recentemente ha raggiunto picchi mai toccati da 15 anni a questa parte, mentre il Pil del Giappone oscilla tra cadute improvvise e tiepidi rialzi. Ora, la Banca Centrale Europea ha avviato un programma di Qe (quantitative easing, allentamento monetario) che inietterà 1.300 miliardi di dollari nel sistema finanziario nel corso dei prossimi 16 mesi – e forse anche più a lungo, se sarà ritenuto necessario. Il risultato finale, come per Usa e Giappone, sarà lo stesso: i tassi d’interesse ai minimi storici e il flusso di Shinzo Abedenaro ‘facile’ faranno rialzare temporaneamente i mercati azionari, mentre le economie dell’Eurozona oscilleranno tra moderata crescita e nuova recessione.

I più grandi perdenti in tutto questo saranno i comuni cittadini, senza più un posto sicuro dove mettere i propri risparmi e con sempre più banche europee che ‘pagano’ alcuni selezionati clienti per poter tenere il loro denaro. E con le obbligazioni che ripagano i rendimenti negativi, le compagnie di assicurazione che vendono prodotti e rendite e investono quel denaro in obbligazioni governative e societarie – con l’aspettativa che il rendimento delle obbligazioni sia maggiore di quello che dovranno pagare per l’assicurato – il danno è assicurato. In previsione del piano di Qe del presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi, che ammette si tratti di un piano “non convenzionale”, gli investitori (o meglio i giocatori d’azzardo di alto bordo) hanno già pompato circa 36 miliardi di dollari nei mercati azionari europei.

Nel frattempo, l’uomo della strada ha appena visto il suo potere d’acquisto scendere drammaticamente a mano a mano che l’euro continua la sua caduta libera, da 1,39 dollari lo scorso marzo a un recente minimo di 1,04 , con la previsione che nel Gerald Celentefuturo – non troppo lontano – vada in parità o scenda anche al di sotto del dollaro. Breaking Point 2.0. Le iniezioni multi-trilionarie di dollari da parte delle banche centrali, le politiche a tasso zero, i tassi d’interesse negativi, i rendimenti obbligazionari negativi e i fiumi di dollari a basso prezzo che gonfiano artificialmente i mercati azionari e alimentano i giochi perversi di investimenti di capitali/private equity/hedge fund, hanno già avuto dei precedenti nella storia del mondo. E quando sulla terra esplode la Grande Bolla Speculativa, lo scoppio si avverte in tutto il mondo – e per generazioni.

(Gerald Celente, “Il tuo denaro, la tua vita”, da “Information Clearing House” del 26 marzo 2015, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Fondatore e direttore del “Trends Research Institute”, autore di “Trends 2000” e “Trend Tracking” nonché editore del “The Trends Journal”, Celente fa previsioni economiche e finanziarie fin dal 1980 e di recente ha pubblicato “Il Collasso del ‘09”)
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Re: World News

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IL MONDO IN UN CLICK
Riforme greche, riarmo Nato e quote migranti
Le notizie internazionali che dovete conoscere

Le posizioni tra Grecia e Troika sono più vicine e l'accordo sembra possibile. In Europa arrivano nuove armi americane e la Russia risponde allertando la sua flotta
DI LUCA STEINMANN
23 giugno 2015


Ottimismo Grecia
Il nuovo piano presentato da Tsipras alla Troika include grossi tagli e riforme che hanno ottenuto l'assenso dei leader europei. Il piano è stato definito "una buona base" per trovare un accordo con i creditori internazionali ( Reuters ), che sembrano meno intransigenti rispetto alle scorse settimane. La situazione è infatti diventata delicata e implica grossi rischi politici. Qualora la Grecia fallisse uscirebbe dall'euro e incentiverebbe il collasso di tutta l'eurozona e, per evitare che ciò accada, l'Europa deve continuare a sostenere la stabilità del governo ellenico ( Financial Times ).

Quote migranti, vince la posizione francese
I leader europei stanno discutendo su come risolvere l'emergenza migranti. In questi giorni sta circolando una bozza che verrà presentato al vertice Ue di giovedì. In esso prevale la posizione francese, che sostiene il trattato di Dublino II, che prevede che “sulle quote migranti decidano i governi” ( La Stampa ).

Riarmo europeo

Gli Stati Uniti metteranno a disposizione ulteriori forze speciali, aerei e armi alle basi Nato in Europa per rispondere a possibili aggressioni da parte di Mosca ( Russia Today ). In risposta il governo russo ha dato ordine alle proprie flotte nel Mar Nero di tenersi pronte per delle manovre militari nell'Oceano Atlantico ( Sputnik News ).

Attacco terroristico a Kabul

Un'automobile imbottita di esplosivo è stata fatta saltare davanti al parlamento afghano e sei uomini armati hanno cercato di colpire il palazzo durante una riunione causando un morto e una trentina di feriti. Il commando è stato neutralizzato ed è risultato essere composto da talebani radicali ( Reuters ).
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Re: World News

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QUESTO PIANETA FUNZIONA SULLE BALLE

Già la Cia spiava il kaiser Merkel



Wikileaks: “Usa spiavano i presidenti francesi”
Da Casa Bianca smentita a metà: “Hollande no”

Nel mirino dell’Nsa da Chirac a Sarkozy fino all’attuale inquilino dell’Eliseo. I file riguarderebbero
fra l’altro la crisi greca e i rapporti con la Germania. Il portavoce Price: “Non indo
Le rivelazioni riportate da Libération e Mediapart. Tra i documenti, anche i numeri di cellulare degli inquilini dell’Eliseo. Il portavoce della Casa bianca Price nega, ma solo riguardo all’attuale presidente. Tra i file frutto del’attività di intelligence, i colloqui sulla possibile uscita della Grecia dall’euro e le trattative israelo-palestinesi tercettiamo il presidente”


http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/06 ... o/1809531/
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Re: World News

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REDMOND
Microsoft taglia altri 7.800
posti di lavoro


Nel ridimensionamento coinvolta soprattutto la divisione telefonia acquistata nel 2014 da Nokia

http://www.corriere.it/tecnologia/econo ... 3bf9.shtml
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Re: World News

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Donald Trump insiste: “Non mi pento, basta musulmani in Usa”. WP: “E’ il Mussolini d’America, usa toni fascisti”

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/12 ... i/2289154/
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