Un'Europa vera, federalista, patria comune.

E' il luogo della libera circolazione delle idee "a ruota libera"
peanuts
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Re: Un'Europa vera, federalista, patria comune.

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Filippo, quando ripassi vorrei sapere come si stanno orientando i radicali per il 2013 alla luce degli ultimi sviluppi
"Ma anche i furbi commettono un errore quando danno per scontato che tutti gli altri siano stupidi. E invece non tutti sono stupidi, impiegano solo un po' più di tempo a capire, tutto qui".
Robert Harris, "Archangel"
mariok

Re: Un'Europa vera, federalista, patria comune.

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IL COMMENTO

Il Mediterraneo senza Europa
di BARBARA SPINELLI

Scrive il narratore greco Petros Markaris che l'Europa vive una strana insidiosa stagione: del suo sconquasso non parlano che gli economisti, i banchieri centrali.

Con il risultato che la moneta unica diventa la sostanza stessa dell'Unione, non uno strumento ma la sua ragion d'essere, l'unica sua finalità: "L'unità dell'Ue è stata sostituita dall'unità dell'eurozona. Per questo il dibattito rimane così superficiale, come la maggior parte dei dirigenti europei, e unidimensionale, come il tradizionale discorso degli economisti". Priva di visione del mondo, l'Europa ha interessi senza passioni, e non può che dividersi tra creditori nobili e debitori plebei. "Stiamo correndo verso una sorta di guerra civile europea".

Come un improvviso sparo nel silenzio è giunto il nuovo sisma nei paesi musulmani, sotto forma di una vasta offensiva dell'integralismo musulmano contro l'Occidente e i suoi esecrabili video: la violenza s'addensa nel Mediterraneo, e l'Europa - in proprie casalinghe faccende affaccendata - d'un tratto s'accorge che fuori casa cadono bombe. S'era addormentata compiaciuta sulle primavere arabe, ed ecco irrompe l'inverno. Aveva immaginato che le liberazioni fossero sinonimo di libertà, e constata che le rivoluzioni son sempre precedute da scintille fondamentaliste (lo spiega bene Marco d'Eramo, sul Manifesto di ieri), prima di produrre istituzioni e costituzioni stabili. Come Calibano nella Tempesta di Shakespeare, i manifestanti ci gridano: "Mi avete
insegnato a parlare come voi: e quel che ho guadagnato è questo: ora so maledire. Vi roda la peste rossa per avermi insegnato la vostra lingua!".

L'Europa potrebbe dire e fare qualcosa, se non continuasse ad affidare i compiti all'America: non solo in Afghanistan, dove molti europei partecipano a una guerra persa, non solo in Iran, ma nel nostro Mediterraneo. È da noi che corrono i fuggitivi dell'Africa del Nord, quando non muoiono in mare con una frequenza tale, che c'è da sospettare una nostra volontaria incuria. L'Europa potrebbe agire se avesse una sua politica estera, capace di quel che l'America lontana non sa fare: dominare gli eventi, fissare nuove priorità, indicare una prospettiva che sia di cooperazione organizzata e non solo di parole o di atti bellici.

Ormai evocare la Federazione europea non è più un tabù: ma se ne parla per la moneta, o per dire nebulosamente che così saremo padroni del nostro destino. Ma per quale politica, che vada oltre l'ordine interno, si vuol fare l'Europa? Con quale idea del mondo, del rapporto occidente-Islam, dell'Iran, di Israele e Palestina, del conflitto fra religioni e dentro le religioni?

Più che una brutta scossa per l'Unione, l'inverno arabo rivela quel che siamo: senza idee né risorse, senza un comune governo per affrontare le crisi mondiali, e questo spiega il nostro silenzio, o l'inane balbettio dei rappresentanti europei. Difficile dire a cosa serva Catherine Ashton, che si fregia del pomposo titolo di Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell'Unione. Nessuno sa cosa pensino 27 ministri degli Esteri, ibridi figuranti di un'Unione fatta di Stati non più sovrani e non ancora federali. Quanto ai popoli, non controllano in pratica più nulla: né l'economia, né il Mediterraneo, né le guerre mai discusse dall'Unione.
Per la storia che ha alle spalle (una storia di democrazie e Stati restaurati grazie all'unione delle proprie forze, dopo secoli di guerre religiose e ideologiche), l'Europa ha gli strumenti intellettuali e politici per divenire un alleato delle primavere arabe in bilico, e di paesi che faticano a coniugare l'autorità indiscussa dello Stato e la democrazia. E resta un punto di riferimento laico per i tanti - in Libia, Egitto, Tunisia - che vedono la democrazia o catturata dai Fratelli musulmani, o minacciata dai fondamentalisti salafiti.

La via di Jean Monnet, nel dopoguerra, fu la combinazione fra gli interessi e le passioni, dunque la messa in comune delle risorse (carbone e acciaio) che dividevano Germania e Francia. La Comunità del carbone e dell'acciaio (Ceca), fu nel 1951 l'embrione dell'Unione: gli Stati non si limitavano più a cooperare, ma riconoscevano in istituzioni sovranazionali un'autorità superiore alla propria. In seguito le istituzioni si sarebbero democratizzate, con l'elezione diretta di un Parlamento europeo sempre più influente. Così potrebbe avvenire tra Europa e Sud Mediterraneo, grazie a una Comunità non basata sul carbone e l'acciaio, ma sull'energia (o in futuro sull'acqua).

Un piano simile è stato proposto, nell'ottobre 2011, da due economisti di ispirazione federalista, Alfonso Iozzo e Antonio Mosconi. L'idea è che Washington non sia più in grado di garantire stabilità e democrazia, nel Mediterraneo e Medio Oriente. Di qui l'urgenza di una Comunità euromediterranea dell'energia: energia spesso potenziale, difficilmente valorizzabile senza aiuti finanziari e tecnologici europei: "Il principio di una Comunità tra eguali è essenziale e ricorda la rivoluzione realizzata dall'Eni di Enrico Mattei, che ruppe il monopolio delle "sette sorelle" petrolifere concedendo per la prima volta alla Persia la gestione in parità delle risorse petrolifere del paese". La nuova Comunità deve "riconoscere ai paesi associati la proprietà delle risorse energetiche e degli impianti, dando all'Europa diritti di utilizzazione su una quota dell'energia prodotta, per un periodo determinato con aumento progressivo della quota utilizzata localmente, in cambio delle tecnologie e degli investimenti effettuati". Si dirà che è solo una comunità di interessi. Lo si disse anche per la Ceca. In realtà l'ambizione politica è forte: sostituire il modello egemonico con un modello paritario e chiedere agli associati precisi impegni democratici, controllati da una comune Assemblea parlamentare.

Sostituire o affiancare il potere Usa nel Mediterraneo vuol dire prendere atto che quel modello non funziona: ha creduto di esportare democrazia con le guerre, creando Stati fallimentari e rafforzando Stati autoritari. Le democrazie (Israele compresa) hanno sostentato per anni i fondamentalisti (i talebani contro l'Urss, Hamas contro l'Olp) e volutamente ignorano una delle principali fonti delle crisi odierne: l'Arabia Saudita, finanziatrice dei partiti salafiti che minano le barcollanti, appena nate democrazie arabe.

Obama è alle prese con importanti insuccessi. Nonostante il discorso di apertura all'Islam tenuto nel 2009 al Cairo, il diritto della forza prevale spesso sulla forza del diritto, come per Bush. Abbiamo già citato l'Arabia Saudita, non meno pericolosa dell'Iran e tuttavia esente da obblighi speciali. Permane l'influenza della destra israeliana su Washington, con effetti nefasti sul Medio Oriente. Guantanamo non è stata chiusa come promesso (risale all'8 settembre la morte di un prigioniero, Adnan Latif, torturato per 10 anni senza processo, nonostante l'ingiunzione dei tribunali a rilasciarlo). L'Iraq è liberato, e nessuno protesta contro i pogrom polizieschi della popolazione gay, testimoniati in questi giorni da un documentario della Bbc. Le guerre scemano, ma sotto Obama l'uso di droni senza piloti è sistematico, in Pakistan, Somalia, Yemen: le uccisioni mirate in zone non belliche "distruggono 50 anni di legge internazionale", sostiene l'investigatore Onu Christof Heyns. La questione ci concerne. Obama risponderà all'attentato di Bengasi con droni che forse partiranno da Sigonella, e sul loro uso il governo italiano non potrà tacere.

Tocca all'Europa dare speranze al Mediterraneo, difendere le sue democrazie. Se si dà un governo, l'Unione avrà l'euro e una politica estera. Solo in tal caso il colpo di fucile che udiamo nei paesi arabi potrà svegliare, come nella poesia di Montale, un'Europa il cui cuore "ogni moto tiene a vile, raro è squassato da trasalimenti".
(19 settembre 2012)
http://www.repubblica.it/esteri/2012/09 ... ef=HRER2-1
mariok

Re: Un'Europa vera, federalista, patria comune.

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Nobel per la Pace all'Unione Europea:
«Europa continente di pace»

Per «i progressi nella pace e nella riconciliazione» e per aver garantito «la democrazia e i diritti umani» nel Vecchio continente

La decisione del Comitato norvegese del Nobel per il vincitore del premio per la Pace 2012 è stata «unanime». Lo aveva detto, poco prima dell'annuncio del Premio, il presidente del comitato, Thorbjorn Jagland. Il comitato avrebbe deciso di assegnare il Premio all'Unione Europea per il suo ruolo nei «progressi nella pace e nella riconciliazione» e per aver garantito «la democrazia e i diritti umani» nel Vecchio continente. Una Ue, ha detto il presidente del comitato del premio, «alle prese con una delle crisi più gravi della sua storia», ma garante da decenni della pacificazione del Vecchio Continente.

DEMOCRAZIA - Il comitato ha deciso di premiare l'Ue per l'impegno per la democrazia e per i diritti umani (Voi siete d'accordo? VOTA). «L'Ue e i suoi predecessori hanno contribuito per più di 60 anni alla pace e alla riconciliazione, alla democrazia e ai diritti umani», ha detto il presidente del comitato Thorbjoern Jagland. «L'Unione e i suoi membri per oltre sei decenni hanno contribuito al progresso della pace e della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani in Europa», si legge nel testo di assegnazione del premio Nobel per la pace all'Ue.

RICONCILIAZIONE - «Durante gli anni della guerra, il comitato norvegese per il Nobel ha assegnato il riconoscimento a persone che hanno lavorato per la riconciliazione tra Germania e Francia» ha continuato il testo letto dal presidente Thorbjoern Jagland. «Oggi un conflitto tra Berlino e Parigi è impensabile. Ciò dimostra come, attraverso sforzi ben mirati e la costruzione di una fiducia reciproca, nemici storici possano divenire partner». Citando l'entrata nell'unione, negli Anni '80, di Grecia, Spagna e Portogallo e la Caduta del Muro di Berlino il testo con le motivazioni dell'assegnazione del premio ricorda come tutto ciò abbia reso possibile l'ingresso a numerosi Paesi dell'Europa centrale e orientale, aprendo una nuova era nella storia d'Europa. E la fine delle divisioni tra Est e Ovest. «L'Ue sta affrontando una difficile crisi economica e forti tensioni sociali» si legge ancora. «Il Comitato per il Nobel vuole concentrarsi su quello che considera il più importante risultato dell'Ue: l'impegno coronato da successo per la pace, la riconciliazione e per la democrazia e i diritti umani.

CONTINENTE DI PACE - Il ruolo di stabilità giocato dall'Unione, secondo il comitato per il Premio Nobel, «ha aiutato a trasformare la gran parte d'Europa da un continente di guerra a un continente di pace». Il lavoro dell'Ue rappresenta la «fraternità tra le Nazioni «e costituisce una forma di "congressi di pace" ai quali si riferiva Alfred Nobel nel 1895 come criterio per il premio Nobel per la pace».

TWITTER -Immediato il commento del presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz che in un messaggio su Twittere si è detto «commosso e onorato» ha scritto: «La riconciliazione è ciò che l'Unione Europea è. Può servire come fonte di ispirazione». Sempre sul social network si è espresso il presidente della Commissione Ue Josè Manuel Barroso: «un grande onore per l'intera Unione europea e per tutti i 500 milioni di cittadini». L'assegnazione del premio Nobel è per il cancelliere tedesco, Angela Merkel «un incoraggiamento agli sforzi per la pace».

Redazione Online
12 ottobre 2012 | 12:15

http://www.corriere.it/esteri/12_ottobr ... 6b97.shtml
mariok

Re: Un'Europa vera, federalista, patria comune.

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La zona euro
Europa a due velocità sì o no?

23 ottobre 2012
Diletta Paoletti

Europa a due velocità, nocciolo duro, avanguardia: tanti nomi per un solo scenario, che vedrebbe alcuni paesi europei procedere verso percorsi più approfonditi di integrazione, avanzando autonomamente rispetto agli altri, o semplicemente precedendoli. A risollevare il dibattito sul tema – ampiamente discusso anche in passato – è il presidente francese François Hollande, in una recentissima intervista dalla grande eco mediatica. «La mia proposta è un’Europa che avanza a più velocità, per cerchi differenti». E, a suo parere, l’Europa più spedita dovrebbe coincidere con l’attuale Eurogruppo: «Abbiamo una zona Euro che ha un patrimonio, la moneta unica, e richiede un nuovo governo», prosegue Hollande. «Questa zona deve prendere una dimensione politica». Secondo l’inquilino dell’Eliseo, dunque, i 17 paesi che attualmente condividono la moneta, dovrebbero istituire riunioni mensili dei rispettivi Capi di Stato e di Governo. Inoltre, il consesso dei Ministri delle finanze dovrebbe essere irrobustito e il suo presidente dovrebbe ricevere un mandato chiaro e sufficientemente lungo.
È con questa ricetta che Hollande rilancia un tema antico (perfettamente riassunto da Dastoli, Majocchi e Santaniello in “Prospettiva Europa”, 1996), già circolato tra gli intellettuali europei – europeisti o antieuropeisti, a seconda delle vocazioni e delle nazionalità – e sul quale ora sarebbe auspicabile un dibattito esteso. In principio fu Luis Armand a parlare di un’ Europe a la carte, dove ognuno poteva scegliere quello che preferiva: lo sviluppo di ulteriori iniziative, in altre parole, era lasciato alla libera adesione dei singoli paesi. A metà degli anni ’70, ai tempi del Serpente monetario europeo (progenitore dell’attuale moneta unica) Willy Brandt e Leo Tindemans parlavano di Europa a due velocità: «È impossibile presentare oggi un programma d’azione credibile, se si considera assolutamente necessario che in tutti i casi tutte le tappe siano raggiunte da tutti gli stati nello stesso momento». E ancora: «la divergenza obiettiva delle situazioni economiche e finanziarie è tale che, se questa esigenza è posta, il progresso diventa impossibile». Jacques Delors preferiva invece un’Europa “a geometrie variabili”, per permettere alla recalcitrante Gran Bretagna (e non solo a lei) di svincolarsi – attraverso specifiche deroghe – da alcuni aspetti del contesto comunitario, senza però staccarsene del tutto. Altiero Spinelli invocava, invece, un “nucleo federale” di paesi decisi a procedere lungo la strada dell’integrazione politica. Alla fine degli anni ’80, i cambiamenti economici (l’avvio dei negoziati sull’Unione economico monetaria) e geopolitici (l’imminente crollo dell’Urss) imponevano di ripensare l’architettura europea. Sempre Delors immaginava allora un’Europa “a cerchi concentrici”: il primo cerchio federale, il secondo a natura economica, il terzo per la cooperazione con l’Europa orientale e il quarto – il più largo – per inglobare altri consessi internazionali.
Diverse (anche molto) le soluzioni, ma un medesimo fine: differenziare i livelli di integrazione, per consentire all’Europa di evolvere anche di fronte a divergenze di interessi, differenti volontà politiche o livelli di sviluppo economico diseguali. Oggi è la crisi a riproporre il tema dell’Europa a due velocità. Per alcuni soluzione, per altri tomba del processo di integrazione. Già perché è il concetto stesso di Europa a due velocità ad essere un’arma a doppio taglio. Occorre chiarirsi sulla portata e soprattutto sulla natura della differenziazione. Se il discrimine venisse individuato nella maggiore o minore ricchezza, il progetto sarebbe fortemente discriminatorio e, come tale, negativo per il futuro stesso dell’Unione. Se invece la differenza di velocità risiedesse nella volontà politica, più o meno forte, di compiere scelte per mettere in comune politica e governance economica, be’, allora il progetto sarebbe tutta altra cosa. E, probabilmente potrebbe avere una ricaduta positiva per l’Ue. Il nocciolo duro degli avanguardisti, infatti, potrebbe fungere da traino, aprendo la strada a innovazioni politico-istituzionali non di poco conto. Attualmente i trattati europei già permettono meccanismi a velocità variabile. Si pensi alla cosiddetta cooperazione rafforzata che consente ad un numero limitato di Stati membri di progredire sulla via dell’approfondimento della costruzione europea, nel rispetto del contesto istituzionale. Questo l’escamotage che ha permesso – per fare un esempio recente e significativo – il varo della Tobin Tax. L’accordo di Schengen, ancora, riunisce solo i paesi che hanno optato per la libera circolazione delle persone. Ma se la differenziazione dovesse significare lasciare in dietro la cosiddetta Europa di serie B, abbandonando senza cure i morti sul campo di battaglia della crisi, questo sarebbe il più grande fallimento di tutto il disegno europeo. E l’articolo 3 del Trattato sull’Unione Europea, per cui “essa promuove la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri” rimarrebbe, ahinoi, vuota retorica.

http://www.libertaegiustizia.it/2012/10 ... a-si-o-no/
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