Emilia, capannoni e lavoro.
Di Rinaldo Gianola
30 settembre 2012
«Adesso è dura.
Arriva il freddo, tanta gente vive ancora nelle tende, dobbiamo trovare un’assistenza per le persone anziane.
Però noi non ci arrendiamo, abbiamo le spalle larghe.
Teniamo botta.
Scrivilo, mi raccomando».
Certo che lo scriviamo.
Teniamo botta è un fior di programma, uno slogan efficace.
Andrebbe bene non solo per l’Emilia Romagna colpita, offesa dal terremoto, ma anche per la nostra Italia debole, impaurita, incerta sul futuro.
Potremmo prenderlo in prestito da Barbara Anconelli, dipendente della multinazionale delle vernici Cps, una coraggiosa striscia viola nei capelli e una maglietta assai british punk , che nel salone al piano di sotto della Camera del lavoro di Mirandola racconta i giorni difficili della ricostruzione e della ripresa di una grande comunità di persone, di famiglie, di imprese e di lavoro.
Il sisma ha colpito il nostro cuore industriale, l’Emilia Romagna dei distretti produttivi, quel modello di sviluppo che tanto ha dato al Paese e che è stato ammirato e studiato in tutto il mondo, con i giapponesi che mandavano i loro migliori professori universitari per cercare di carpirne la formula miracolosa.
E Romano Prodi, da prof e da politico, ci ha campato una vita a spiegarne segreti, limiti e vantaggi.
La lunga fascia di terra tra le province di Modena, Reggio Emilia, Mantova, più colpita e danneggiata dal terremoto è abitata da oltre 100mila abitanti, la forza lavoro è circa la metà e viene impiegata nel polo biomedicale di Mirandola, nel tessile-moda di Carpi e dintorni, nella meccanica di varia natura e specializzazione sull’intero territorio.
Qui, da queste centinaia di imprese di diversa dimensione e origine, dalla multinazionale al laboratorio familiare, nasce l’1,7% del Pil italiano.
Accanto troviamo le ceramiche di Sassuolo e la Ferrari di Maranello.
Più su inizia la food valley.
Siamo nel territorio dell’eccellenza industriale nazionale.
E lavoratori, sindacati, amministrazioni sono in prima fila per salvare e rilanciare lavoro e imprese dopo il trauma.
Le scosse del 20 e poi quella tremenda del 29 maggio sono piombate su un territorio dove, a macchia di leopardo, era possibile individuare zone di grande salute economica e altre colpite dalla recessione.
Il distretto biomedicale, ad esempio, è un gioiello di industria, ricerca e innovazione.
Fu il farmacista Veronesi di Mirandola, geniale gentiluomo con la passione della ricerca, a gettare le basi di questo miracolo negli anni Sessanta.
Andava in giro per il mondo, in America, studiava e inventava.
Tornava a casa creava un’azienda, la vendeva.
E poi ne fondava un’altra.
Così il suo esempio e le sue conoscenze hanno fatto germogliare altre aziende, altri innovatori. Le imprese e i lavoratori, pur colpiti gravemente, tanti operai hanno perso la vita, hanno cercato di non perdere nemmeno un giorno, nemmeno una commessa.
Massimo Furgori lavora da 23 anni alla Sorin, 800 dipendenti, un nome importante, una volta era controllata la Fiat attraverso la Snia Bpd, poi siccome era un’azienda con un bel futuro, che faceva profitti e ricerca, è stata ceduta a un pool di fondi di investimento.
Racconta:
«Sono nel reparto dei semilavorati.
Noi siamo specializzati in prodotti ad alta tecnologia per cuore, polmone, ossigenazione del sangue, autotrasfusione.
I nostri prodotti sono venduti per il 95% all’estero.
Abbiamo patito danni importanti dal terremoto, ma l’azienda ci ha chiesto di poter mantenere comunque la produzione e di recuperare quello che avevamo perso.
I sindacati e i lavoratori hanno accettato, in questo mercato se perdi una posizione sei morto.
Ci sono concorrenti che aspettano solo di poter prendere il nostro posto.
Così ci siamo organizzati per lavorare sul ciclo completo, tutto il giorno, tre turni da otto ore.
Un gruppo di quaranta persone è stato trasferito a produrre a Nogare, vicino a Verona.
Vanno e vengono con i pullman dell’azienda».
Pure alla Wam, 600 dipendenti, azienda di materiali e macchinari per l’edilizia, i lavoratori hanno concordato nuove condizioni organizzative per mantenere la produzione.
Francesca Corcione spiega:
«Il terremoto ci ha fatto molti danni.
Sono stati danneggiati cinque capannoni su otto, ci sono stati i controlli.
Due capannoni sono stati messi in sicurezza, ma probabilmente quattro o cinque dovranno essere abbattuti e ricostruiti.
L’azienda ha spostato fuori, nei comuni vicini, alcuni uffici, alcune lavorazioni.
Un gruppo di lavoratori ha accettato di andare a lavorare in un impianto in Romania, è andata bene ad alcuni nostri colleghi romeni, così sono tornati a casa.
Abbiamo fatto un accordo sindacale per lavorare sei giorni su sette.
Su 600 dipendenti c’è stato solo un voto contrario.
Insomma, ci siamo detti, se dobbiamo ripartire bisogna tirarsi su le maniche».
http://www.unita.it/italia/sisma-quei-c ... a-1.450991