Credo che la incandidabilità di chi è imputato (o peggio prescritto) sia ancora più giusta e opportuna di quella di un condannato in via definitiva. Nel secondo caso, al limite, c'è il principio costituzionale della riabilitazione, che dovrebbe garantire pari trattamento a chi ha "pagato il suo debito" ed ha dimostrato di essere recuperato alla legalità.Barbara Spinelli ha scritto:C’è poi il divieto di candidarsi, se sei condannato per corruzione con sentenza definitiva. Ma non si sa se il divieto scatti subito, e l’idea stessa della sentenza definitiva ha qualcosa di scandaloso. Perché resti candidabile dopo la prima, la seconda condanna? Un deputato, un assessore, un governatore, un sottosegretario sono presunti innocenti sino al terzo grado di giudizio, come ogni cittadino. Ma non sono cittadini qualsiasi. Dovendo dare l’esempio, hanno più obblighi: lo Stato non può esser affidato a onesti presunti.
Chi invece ha ancora "pendenze" con la giustizia, oltre al giudizio morale, si trova in una obbiettiva posizione di conflitto di interessi con l'assolvimento di un incarico pubblico.
la Repubblica
Una legge vera contro i corrotti
17 ottobre 2012 - Barbara Spinelli
SE il ministro Severino davvero pensa che siamo davanti a una seconda Tangentopoli, e a crimini ancora più devastanti perché “lucrare sul denaro pubblico mentre ai cittadini vengono chiesti sacrifici è di una gravità inaudita”, allora bisogna che subito, senza dar tempo al tempo, il governo metta ai voti una legge contro la corruzione: una legge che impedisca questo delinquere che imperversa sfacciatamente, e che non è una seconda Tangentopoli ma un’unica storia criminale, che indisturbata persiste da vent’anni e perfino cresce.
Se gravità inaudita vuol dire qualcosa - inaudito è ciò di cui prima non s’era udito parlare, mai esistito - serve un’azione che sia all’altezza del responso: anch’essa inaudita, ha da essere un farmaco senza precedenti. Non devono più esistere un Parlamento, un Consiglio regionale, una Provincia nei quali nuotino squali: politici navigati e novizi, anziani e giovani, uomini di partito o d’affari, che si arricchiscono togliendo soldi a un’Italia impoverita. Che addirittura, come a Milano, negoziano con la ‘ndrangheta prebende, voti, posti, spartendo con lei i beni e il dominio della pòlis.
Paola Severino ha detto, giorni fa: “Ce lo chiede l’Europa”. È una frase che non andrebbe neanche pronunciata, perché questo sì è perdere sovranità e massima umiliazione. Possiamo delegare all’Europa parte della politica economica; non la nostra coscienza, la capacità di distinguere tra bene e male, lecito e illecito. È come se dicessimo che, bambini senz’ancora uso della ragione, non capiamo bene cosa sia il Decalogo (settimo comandamento compreso) e lo depositiamo nel grembo dell’Europa-genitore. A chi tentenna in Parlamento, e mercanteggia per salvare brandelli di impunità, il governo dovrebbe dire che sono gli italiani a esigere quel che già Eraclito riteneva imperativo: combattere per la legge come per le mura della città.
Se il governo avesse dimenticato cosa pensano gli italiani, guardi ai 300.000 cittadini che hanno firmato la petizione di Repubblica, perché giustizia sia fatta: hanno firmato non per una legge abborracciata ma per un nuovo inizio, per una scossa autentica. Osi riconoscere che questa non è Tangentopoli. È Tangentopoli mai interrotta; sta travolgendo istituzioni cruciali; è sfociata, a Nord, in un patto fra organi di Stato e mafie che non è più un episodio passato indagato dai giudici, ma un presente che ci avviluppa e uccide lo Stato.
Non è chiaro se l’esecutivo dei tecnici sia consapevole di questa domanda che sale dal basso. Se si renda conto dell’urgenza di una questione morale divenuta nel frattempo antropologica, economica, politica: biografia di una nazione, nauseante per tanti. L’impressione che dà è strana, più ancora della maggioranza che lo sorregge. Da settimane i governanti avanzano, indietreggiano, ogni tanto alzando la voce ma non la mano che intima l’altolà della sentinella. Sono puntigliosamente determinati quando parlano di conti, tasse. Paiono animati da una sorta di divina indifferenza all’immoralità che regna nella cosa pubblica, a una cultura dell’illegalità che in Lombardia secerne antichi connubi fra borghesia imprenditoriale, Stato, poteri pseudoreligiosi come Comunione e Liberazione. Poteri assecondati da una Chiesa che solo in apparenza ha smesso l’ingerenza politica dopo il crollo della Dc; che tollera o sostiene certi affarismi della Compagnia delle opere e certi patteggiamenti con le cooperative rosse. Che tace sull’infiltrazione, nel connubio, della criminalità organizzata. La vera sovranità da resuscitare è questa: lo Stato che riconquisti il territorio, e non permetta che gli sfuggano di mano roccaforti decisive (Lazio, Sicilia, Lombardia). È un secondo Risorgimento e una seconda Liberazione di cui abbiamo bisogno.
Già è stato troppo accontentato, il partito nato come Forza Italia non per superare Tangentopoli, ma per poterla più perfettamente perpetuare. La legge non reintroduce il falso in bilancio, svuotato da Berlusconi nel 2002: eppure il crac del San Raffaele cominciò proprio così. Non contempla un reato essenziale, l’autoriciclaggio: punito in gran parte d’Europa; reclamato, prima che da Bruxelles, dalla Banca d’Italia. Pietro Grasso, Procuratore nazionale antimafia, lo ripete dal 2010: la non punibilità dell’autoriciclaggio “frena le indagini, non consente di indagare su quanti, avendo commesso un reato, utilizzano i proventi del denaro sporco per investirlo in attività lecite e turbare l’economia”. Punirlo è “necessità assoluta”, ma - ha detto nel settembre scorso - “di tale necessità non riusciamo a convincere il legislatore”.
Lo stesso dicasi per il voto di scambio: nella legge è punibile se il politico lo paga in denaro, non se lo compra con assunzioni, appalti favori. Sul Corriere, Luigi Ferrarella ne deduce che Domenico Zambetti, l’assessore della Regione Lombardia arrestato con l’accusa di aver comprato 4000 voti dalla ‘ndrangheta, “non sarebbe neppure indagato per voto di scambio, se non avesse pagato in denaro”.
Troppe omissioni, nella legge presente, troppi favori: non è la muraglia di Eraclito. Sono elencati crimini punibili solo in teoria - traffico di influenze, concussione - visto che i trasgressori rischiano pene talmente ridotte che prestissimo otterranno la prescrizione. C’è poi il divieto di candidarsi, se sei condannato per corruzione con sentenza definitiva. Ma non si sa se il divieto scatti subito, e l’idea stessa della sentenza definitiva ha qualcosa di scandaloso. Perché resti candidabile dopo la prima, la seconda condanna? Un deputato, un assessore, un governatore, un sottosegretario sono presunti innocenti sino al terzo grado di giudizio, come ogni cittadino. Ma non sono cittadini qualsiasi. Dovendo dare l’esempio, hanno più obblighi: lo Stato non può esser affidato a onesti presunti.
La nomina di Monti voleva rappresentare una rottura anche morale, rispetto ai predecessori. Accennando alla lotta anticorruzione, il Presidente del consiglio ha denunciato “l’inerzia, comprensibile ma non scusabile, di alcune parti politiche”. Perché comprensibile? Perché questa deferenza verso parti politiche che non ci si azzarda nemmeno a nominare? Il rischio è che così facendo, l’esecutivo faccia il notaio delle stesse inerzie che critica. Che non trovi il coraggio di forzare il varo di una legge seria. Chi non è d’accordo va messo davanti all’opinione pubblica: dica a voce alta che vuole una storia italiana fondata su corruzione e mafie in espansione.
Non basta più essere esperti di spread, davanti a quel che accade. Non basta presentare l’evasione come nuovo discrimine di civiltà, se castigati sono i piccoli negozianti e non gli squali. Occorre lo sguardo tragico e lungo dello storico, non solo sugli ultimi vent’anni. Occorre rileggere quel che Pietro Calamandrei scrisse fin dal 1946, appena un anno dopo la Liberazione: lo spirito della Resistenza già era deperito, se per resistenza s’intende “la ribellione di ciascuno contro la propria cieca e dissennata assenza”, e “la sete di verità, di presenza, di fede nell’uomo”.
Già allora s’intuiva il disfacimento, e il pericolo non era “nel ritorno del fascismo: era in noi”. Era nella rinascita del disgusto della politica che aveva dato le ali a Mussolini; nel “desiderio di appartarsi, di lasciare la politica ai politicanti”. Oggi come ieri, è nell’attrazione esercitata da capipopolo dai nomi esoterici: Belzebù, Cavaliere, Celeste, e chissà come designeremo i prossimi. Calamandrei chiamò questo disgusto desistenza, contrapponendola alla tuttora necessaria resistenza. Non più eroica, ma pur sempre resistenza: “resistenza in prosa”. È tardi per simile resistenza? Non è tardi mai per divenire adulti, e sovrani nella coscienza. Per difendere le mura della legge e le sue sentinelle, come si difendono le mura della città