"La sinistra non c’è più. Ed escono i populismi."

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erding
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"La sinistra non c’è più. Ed escono i populismi."

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Rossanda: «Qualcosa rinascerà
ma questa volta sarà diverso»


Pubblicato da: Marco Berlinguer il 18 novembre 2012 alle 11:06

Rossana Rossanda vive a Parigi da tanti anni. Ha una casa sulla Senna: sulla Rive Gauche, naturalmente. La palazzina ottocentesca ha un’aura tutta particolare. Nel suo appartamento, mi racconta, c’era la tipografia di Colette. È in questo angolo di Parigi che arrivo per intervistarla. Le ho spiegato che abbiamo uno spazio particolare di racconto su Pubblico, che noi chiamiamo what’s left. Era curiosa di sapere di noi e del nostro modo di vedere le cose: «Che cosa intende per sinistra il tuo direttore?», mi chiede.

Le rispondo che a me sembra che da questo punto di vista Luca sia rimasto congelato al suo passaggio nella Fgci a metà degli anni ‘80. La cosa l’ha sorpresa e, mi è sembrato, anche divertita: «Più passa il tempo – mi dice – e più il Pci quel partito, che ho criticato molto, lo trovo meraviglioso. Fu una grande costruzione». La guardo, per un attimo: un ovale di madreperla incastonato in una corona di capelli bianchissimi che sembrano disegnati da un giro di matita di Picasso. Mi ricordavo la Rossanda dell’iconografia letteraria de Il manifesto: l’intellettuale rigorosa e austera. E invece la trovo affabile e curiosa.

Parliamo a lungo, per tre ore. Partiamo da Internet («Sopravviveranno i giornali alla rete?») per terminare all’America Latina («Capisco che hanno fatto cose importanti, ma non è un modello a cui guardo»). Ma alla fine, gira e rigira, mi rendo conto che abbiamo parlato soprattutto di storia e del Novecento. E non poteva essere diversamente con una «ragazza del secolo scorso», per stare all’immagine con cui ha scelto di intitolare la sua autobiografia.

In questo lungo dialogo mi accorgo che ci sono tre tappe, tre snodi che contrassegnano il suo racconto. La prima è la sua adesione al comunismo, al Pci. Siamo nel 1943, dopo il 23 luglio, a Milano. (Al ricordo sorride). «Avevo sentito dire che Antonio Banfi fosse comunista. E glielo sono an- data a chiedere. «È vero?». Così, quasi come un’oca.

E lui?
Mi ha risposto: «Perché me lo chiede?». Mi ha dato dei libri da leggere. Sono tornata dopo una settimana, gli ho detto: «Va bene. E se uno volesse mettere in pratica queste idee?». (Ma ciò che è importante per Rossanda, oggi, è spiegare, oltre questo episodio, come avesse potuto essere facile per una ragazza di famiglia borghese «a-fascista» aderire al comunismo).

Perché?
Perché la cultura borghese era sin dall’800 impregnata di valori progressisti e di uguaglianza. Vedi, mio padre, per esempio, si era formato su Tolstoj, Rudolf Steiner. Bene: quando capì che ero entrata nella Resistenza – perché la polizia venne a perquisire casa – mi domandò preccupato: «Ma con chi ti sei messa?».

E tu gli hai detto la verità?
Sì. E quando seppe che ero con i comunisti, mi disse: «Meno male!». La borghesia magari poteva essere fascista. Poteva essere moderata. Poteva pensare che la disuguaglianza ci sarebbe sempre stata. Ma non c’era quell’idea che trovi oggi: la povertà come una colpa. La disuguaglianza come un valore.
Il secondo atto di questa storia personale e collettiva si svolge negli anni ’60. Ma il racconto non è sulla vicenda del Manifesto.

Che succede in quegli anni?
C’è una mutazione antropologica. Hosbawn la racconta bene. Tutto cambia. C’è il boom. I consumi di massa. Le donne entrano nel mercato del lavoro. La scolarizzazione di massa.

Inizia la critica ai partiti. Comincia quella divaricazione tra partiti, movimenti e società, che forse proprio oggi ha raggiunto il suo culmine.
Si. Esplodono i movimenti, prima studente- schi, poi operai. Il Pci e i partiti non li capiscono. Ricordo, erano stupefatti da questa onda che si formava al di fuori di loro. I vecchi, gente tipo Secchia e Terracini. pensavano: «Se gli operai si sono mossi senza il Pci, ci deve essere uno sbaglio».
Nella sua autobiografia, che forse significativamente, si ferma qui, al 1969, Rossanda, riferendosi al gruppo de Il Manifesto, dice: “speravamo di essere il ponte fra quelle idee giovani e la saggezza della vecchia sinistra: non funzionò”.
Infine, ecco la terza tappa: inevitabilmente, si svolge alla fine degli anni 80.

Il 1989 cosa è stato per te?
Il crollo dell’Urss per implosione interna. Forse persino più sorprendente, la svolta della Cina: un partito comunista che si fa fautore del capitalismo. Se me lo avessero detto dieci anni prima non ci avrei creduto. Per l’idea della sinistra è stato un passaggio fatale.

Perché?
Perché – ti piacessero o meno – fino a lì c’erano stati due campi, due culture, due realtà. A quel punto, ne rimane una sola. E rimane anche una sola interpretazione che dice: il capitalismo – il darwinismo sociale – sono una condizione naturale. Il socialismo, l’uguaglianza, sono illusioni, per dirla con Furet. Sono un’utopia. Una parola che detesto. E’ lì che quella cultura progressista del ’800, e quella sua ipotesi socialista, vaga, sparisce.

E con ciò, in qualche modo, affonda l’idea stessa di sinistra.
Perché per me la sinistra è questo. Una morale dell’uguaglianza. Se vuoi è un’idea che data dalla Rivoluzione francese. Non è una questione di ordine economico, ma politico, morale. Perché sul piano del funzionamento tutti e due sistemi possono stare in piedi. Sinistra è questa lotta contro le ingiustizie del mondo attraverso un’idea di proprietà gestita politicamente.

Era qui che ci volevi portare?
Si, perché se la vedi così, la domanda da che parte ricomincia la sinistra, è molto complicata.

Che cosa è che complica la risposta?
Che cosa è successo? Cosa non ha funzionato? A quelle domande bisogna rispondere. Non come ha fatto fino ad oggi la sinistra. Che è sfuggita a queste domande. Non lo ha fatto quella chimera, quel minestrone, quel centauro che è oggi il Pd. E nemmeno quelli che si continuano a chiamare comunisti.
Ma c’è anche una seconda mutazione antropologica che avviene negli anni 80 e 90. Quella generazione post-89 che – «anche per effetto della rivoluzione tecnologica» – perde il filo della continuità con il passato, «come se l’esperienza cessi di essere trasmissibile». Rossana racconta due episodi che le sono rimasti impressi.

Partiamo dal primo?
Il primo è quel che successe quando Pintor scrisse un editoriale negli anni ’90 sulla villa con 16 bagni di Berlusconi.

Perché lo consideri così importante?
Per lui era come dire: non può essere una per- sona perbene. In tanta ricchezza, c’era qualcosa di sbagliato e di immorale. Lo avrebbe scritto anche mio padre. Ebbene fece un tonfo spaventoso. Prese un mare di critiche. Era successo qualcosa. Erano cambiati i valori.

E il secondo episodio?
È più recente. Ero in viaggio in Italia, presentavo il mio libro in un’università. Una giovane donna laureata, con tanto di master, faceva lì la segretaria in forme precarie.

E cosa succede?
È gentile con me, ma mi dice: «Io di quello che lei dice – che studiando, impegnandosi in un partito, in un sindacato si possa cambiare qualcosa – non credo niente».

Purtroppo non è stupefacente…
Quella giovane rappresenta una disperazione che la mia generazione non ha conosciuto. Vedi: mio padre fallì nella crisi del ’29. Mi ricordo ci portarono via i tappeti. Finimmo in grandi ristrettezze. A vivere in due stanze. Eppure io mi ricordo quell’orgoglio luciferino di sentirci intellettuali. Quella sicurezza che io e mia sorella avevamo. Che studiando non avremmo avuto problemi. E non li abbiamo avuti. Oggi c’è una condizione di miseria che si combina con una maggiore conoscenza. Ma non c’è più fiducia che si possa cambiare.

Adesso però c’è una crisi profonda, sistemica del capitalismo.
Si, posso essere d’accordo. Però la crisi della sinistra mi sembra ancora più grave.

E che pensi di questi fenomeni emergenti di populismo?
Dopo questa spaccatura sociale, seguita alla devastazione della sinistra, escono i populismi. Fino a che abbiamo avuto il Pci e un sindacato forte si sono avute riforme e progresso, per il lavoro e nei diritti civili. Il Pci ha prodotto grandi riforme anche dall’opposizione. Adesso saranno pure andati al governo, ma c’è stata involuzione e divaricazione nei redditi. La sinistra non c’è più. Ed escono i populismi.

E di Grillo che ti sembra?
A me sembra il classico qualunquismo di destra.

C’è stato qualcosa che ti è sembrato di interessante, dopo l’89?
Solo i movimenti.

Che a te non entusiasmano…
Cosa oppongo ai movimenti? Non tanto il culto dell’efficacia elettorale, che ha portato i partiti a una crisi profonda. Però hanno sacrificato il problema dell’efficacia a favore del tema della partecipazione, pure importante. Ma il problema è che non sfondano da nessuna parte. Non hanno continuità. Diventano pazzi anche solo a parlare di organizzazione.

Però qualche ragione ce l’avranno a criticare i partiti?
Si. Ma non è che si siano posti il tema di come essere efficaci evitando le gabbie dei partiti tradizionali, per ridare voce alla persona, alla sua complessità. alla convivialità. Posso capire la critica che ha fatto il femminismo. È vero che io fino agli anni ‘70 non ho mai scritto cominciando con io… cercavo l’obiettività delle cose. Però c’è anche il mondo. L’io non può essere la misura di tutto.

E quindi?
E poi questa immagine dei partiti è anche sbagliata. Il Pci era una grande medusa che respirava nella società. Stare in quel grande corpo – in quel partito pesante, come lo definì Occhetto – ti portava a incontrarti con tanti mondi, ad avere una percezione più obiettiva della società. Nei movimenti ci sono molti individualismi di gruppi. Non si lavora insieme. Ciascuno va per sé. Guarda: finirò per scrivere un elogio dei partiti. Tanto per rendermi un po’ più antipatica.

Che ti sembra di questa idea che è in questo momento tornata con molta forza di abolire i gruppi dirigenti?
È vero che questa idea è iniziata nel 1968 e sta venendo fuori nuovamente, dopo 45 anni. Tutti uguali. Però alla fine, quando si dice tutti uguali, ti salta fuori il leader. Dove non hai partiti, hai leader. Non gruppi, ma un uomo solo. Almeno finora è andata così.

Pensi a Grillo?
Io penso anche al gruppo di Ginsborg. O alle donne a Paestum, che recentemente si sono incontrate in questo modo. Nessuno in presidenza. Nessuna relazione introduttiva. Nessun vertice. Tre minuti ciascuna.

Tu sei scettica?
Loro sono state contente. Hanno avuto un’emozione di appartenenza. A me per la verità sembra un gran casino. Però è vero che i partiti comunisti erano organizzazioni formate da una élite, e dietro c’erano masse quasi analfabete e non educate. Oggi c’è un acculturamento di massa. Il tema quindi c’è. Ed è questo: come si può organizzare una massa acculturata.

Ho detto a una giovane spagnola, a una indignata, che venivo a intervistarti. Le ho chie- sto cosa le sarebbe piaciuto chiederti. Mi ha chiesto di domandarti come fa il 99% a sconfiggere l’1%.
Perché il 99% dell’umanità incassa dall’1%? Perché si è perso il primato della politica sull’economico. La politica nel Novecento ha portato il primato della uguaglianza. La politica ha perso il primato. Però attenzione: lo ha perso per effetto di una sconfitta politica. Perché è stata sconfitta l’idea di uguaglianza.

Insomma, come concludiamo?
Guarda: viviamo un momento tragico e interessante. Oggi c’è un massimo di divaricazione tra movimenti e istituzioni. I movimenti sono forti, ma non superano la barriera di istituzioni spiaccicate. L’Italia è forse la più disgraziata: con tutto questo parlamento schiacciato su Monti.

Sei pessimista.
Sì. Però penso anche che qualcosa rinascerà. Guarda: la sola ragione per cui mi dispiace di morire è non vederla. Anche perché questa volta non sarà in una società arretrata, come è stato con l’Urss. Questa volta – anche grazie a internet e alla rivoluzione delle comunicazioni – la protagonista sarà una società acculturata. E sarà diverso.

Da Pubblico del 17 novembre 2012

http://pubblicogiornale.it/politica/ros ... a-diverso/
camillobenso
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Re: "La sinistra non c’è più. Ed escono i populismi."

Messaggio da camillobenso »

A me sembra un’articolo molto bello, con molti spunti di riflessione. Sono piuttosto soddisfatto che un’autorevole esponente della sinistra sia arrivata finalmente a prendere atto che la sinistra non esiste più.

Se qualcuno leggendo il forum si sarà infastidito o offeso dal termine reiterato che da tempo uso per definire il Piddì, "i defunti", forse questa è una buona un’occasione per capire.

Un passino in più da parte della Rossanda però avrei preferito vederlo. A morire in pratica non è “l’intera sinistra”, ma la sinistra rappresentativa in ambito parlamentare e a livello partitico.

La base, pur essendo frastornata, incredula, depressa, delusa, non in grado di capire cosa gli sta succedendo intorno, i suoi valori della sinistra li conserva comunque. Sono in frigorifero ma ci sono.

Aspetta solo che quella bandiera caduta nel fango venga sollevata e che la lunga marcia riprenda.

Sono le classi dirigenti a livello di partito che hanno venduto l’anima.

Sembra di assistere all’esperienza di massa del Dottor Faust.

La Rossanda ha ragione, «Qualcosa rinascerà ma questa volta sarà diverso».

Come in questi casi ha ragione pure Bertinotti (non so se il concetto sia suo o di altri) :

“Fino a quando esisteranno le differenze sociali e l’ineguaglianza sociale, la sinistra esisterà sempre”.

Questi sono temi forti da Pancho e Giorgio, assenti ingiustificati.
camillobenso
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Re: "La sinistra non c’è più. Ed escono i populismi."

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Stefano Rodotà: «La nuova sinistra si costruisce con i diritti»

Pubblicato da: Redazione il 20 novembre 2012 alle 02:17

«Sono stato a Pomigliano, la settimana scorsa. So che uno si potrebbe chiedere: perchè partiamo da Pomigliano se devi parlare della sinistra?

Lo faccio perché lì ho visto la disperazione, la rabbia, l’attacco ai diritti.

Hanno detto che Landini è stato astratto, massimalista in questi anni… Io credo che dovrebbero fargli un monumento, invece, perché a quelle famiglie, la maggior parte monoreddito, che se perdono il lavoro perdono tutto, ha indicato la via dei diritti, e della legge, per essere difesi».

Stefano Rodotà fa una pausa. prende un respiro, collega un filo apparentemente lontano: «Per me la sinistra è questa. Come lo è Peppino Englaro che rinuncia a una via di fatto, alla possibilità di una soluzione silenziosa, e dice: io voglio agire nel rispetto del diritto. E affronta un calvario per difendere il diritto di sua figlia Eluana a morire nella legalità».

Entri a casa di Stefano Rodotà e lo trovi con la copia staffetta del libro che in questi mesi ha accudito come un figlio: Il diritto di avere diritti, che arriva la prossima settimana in libreria.

Rodotà racconta che si è chiuso in casa per quattro mesi e ha intrecciato nella scrittura tutti i percorsi della sua battaglia culturale di questi ultimi anni.

«Sono tornato a parlare dei problemi che mi tormentano da una vita. Ho letto l’intervista della Rossanda, capisco quando dice “Io non farò in tempo a vedere la nuova sinistra”.

Io sono più ottimista, vado nelle scuole, frequento i movimenti, ho incontrato diecimila ragazzi, e penso che c’è anche in questi tempi un po’ incerti, un grande fatto planetario che si sostanzia nella lotta per i diritti» .

Facciamo degli esempi.

Il primo che mi viene in mente sono le donne indiane che si escono dall’isolamento della famiglia patriarcale grazie ai cellulari.
Perché parlano e discutono con altre donne grazie al telefonino.

Un altro esempio.

Dai lavoratori di Pomigliano di cui ho parlato, ai cinesi di Foxconn alle donne del Kenya che si fanno frustare per difendere la loro scelta di vestirsi come vogliono, il minimo comune denominatore è uno solo: il diritto, come dimensione della consapevolezza e come obiettivo di una battaglia di liberazione. Altro che questioni formali!

A Pomigliano ci sono le cause contro la Fiat.
Certo. E c’è anche la richiesta di una legge per la rappresentanza sindacale. La Fiom fa questa battaglia anche a costo di mettere in gioco il suo potere di organizzazione strutturata. Ma capisce che questa battaglia sui diritti è la frontiera che le permette di mantenere una rappresentanza forte anche in un momento di scontro durissimo. In un momento di crisi di legittimità di tutte le rappresentanze.

Ma i diritti non dovrebbero essere anche la bandiera di chi è semplicemente liberale?
In linea di principio, certo. Ma io con il passare degli anni non sono diventato più radicale su questo punto. Senza l’uguaglianza, senza quel capolavoro che nella Costituzione è rappresentato dall’articolo 3, i diritti non ci sono. Mentre oggi rischiamo di tornare ad una forma di cittadinanza censitaria, come nell’Ottocento. Si racconta in giro che sono morte tutte le ideologie, è rimasta in piedi solo quella del mercato.

Anche gli studenti che scendono in piazza in questi giorni , lo fanno perché vogliono difendere il loro diritto al futuro.
I movimenti in questi anni sono stati per molti importanti settori di società, l’unico spazio possibile.

I partiti si sono rinchiusi nelle loro fortezze. Hanno cessato i contatti.

I sindacati hanno mantenuto, in alcuni casi bene, come la Fiom, in altri meno bene, un contatto con queste realtà.


I partiti, invece, spesso sono diventati del tutto autoreferenziali.

Gli scontri di via Arenula, sono avvenuti ad un passo da casa tua.
Fra il 1979 e il 1983 siamo usciti dal Parlamento decine di volte chiamati di qua e di là. Anche questa è una funzione fondamentale di chi è nelle istituzioni. Andare in un corteo, mediare con le forze dell’ordine, impedire che la situazione precipiti.

Perché i rappresentanti del centrosinistra in parlamento, questo non riescono a farlo più?
Io ho provato a chiederlo ad alcuni che conosco, perché non vanno a mediare. Mi hanno risposto: perché noi non riusciamo a farlo. Noi questi con gli scudi non sappiamo chi siano. Come si fa, a mediare se non sai chi sono?

Insomma i partiti non sono più quelli di una volta?

Infatti.

Quando dopo l’esperienza dell’Authority sono tornato all’attività politica nel 2005 ho scelto di impegnarmi in quella che io chiamo l’altra politica. Nella società, fuori dai partiti. Fino alle battaglie sui referendum per i beni comuni.

Che cos’erano per te i partiti, visto che sei stato un compagno di strada del Pci senza mai iscriverti?

Te lo devo raccontare con un aneddoto sul decreto di San Valentino…

Certo.
Nel 1984 decidemmo di batterci con l’ostruzionismo contro quel decreto, che per noi cancellava un diritto. E farlo comportò un sforzo enorme per tutti noi. Dopo anni in cui talvolta ci eravamo divisi, su molte scelte e molti voti, tornavamo a combattere con i compagni del Pci –il capogruppo era Giorgio Napolitano –e con l’arma dell’ostruzionismo parlamentare contro il decreto di Craxi.

Era ancora il tempo delle sedute giorno e notte…

Si lavorava molto più di ora.

Dormivamo in Transatlantico. Ricordo che si sorteggiavano gli interventi e l’ordine.

E che capitò a Natalia Ginzburg di dover parlare alle due di notte.

E allora?
Natalia era già tutta acciaccata. Combatteva contro il cancro. Io ero il capogruppo, c’erano giorni in cui dovevamo sorreggerla io e Laura Balbo, per portarla dalla commmissione all’Aula, ma il suo rispetto per il Parlamento era tale che non si risparmiava nulla…

E quella sera parlò?
Se parlò? Lesse, nel cuore della notte, un intervento scritto, guarda caso sui diritti, che oggi sarebbe diventato un libro…

E…
E arrivo in conferenza dei capigruppo il ministro dei rapporti del Parlamento e disse: non ce la facciamo.

Gettavano la spugna.
Sì. Ma diceva anche: vogliamo che ci sia risparmiata l’aula, che il governo non sia umiliato.

Tu eri d’accordo.
Ma nemmeno per sogno. Napolitano accettò: “Si può fare”. Io invece gli dissi: “Capisco la tua preoccupazione. Ma in segno di rispetto, per i compagni, il governo deve venire in aula”.

E venne?
Certo. Ma qui arriva tuo padre. In questo clima mi telefonò e mi disse: è un successo troppo importante per non dirlo fuori.

Cioè fuori dal Parlamento?
Esatto. Fu convocato un comizio al Pantheon, chiamando le sezioni. Ma era pur sempre il Pci: con cinque, diecimila persone, mi trovai al fianco di Berlinguer a festeggiare questa vittoria parlamentare in mezzo al popolo. In quei giorni, in cui c’era il vincolo di presenza, Berlinguer venne anche a votare. Incontrò … che gli disse: Ma domani hai il comitato centrale, non dovevi venire a votare! E lui rispose, allargando le braccia: “Mi ha convocato Pochetti! Voleva dire che anche il segretario del partito era sottoposto alla disciplina del gruppo.

Perché mi dici tutto questo?
Per spiegarti che cosa era l’idea del Parlamento, che noi avevamo, e la religione della Costituzione che io ho trovato nelle sezioni del Pci.
Nel 1979, quando io ero contro la legge Reale sull’ordine pubblico, che consideravo liberticida, il Pci era a favore. Ma mi invitavano a discutere. E molti militanti mi dicevano: “Ma se tu dici che è contro la Costituzione”.

Hai dovuto fare abiure per candidarti?
Nessuna. La telefonata che mi offriva di correre la ebbi da Luigi Berlinguer. Io, che volevo essere corretto gli dissi “Posso accettare solo a una condizione: parlare con Pecchioli che ha posizioni opposte alle mie”.

E ci parlasti?
Certo. Sai quando? Il 6 aprile del 1979. Sai perché me lo ricordo? Parlai con Pecchioli, che senza giri di parole mi disse: “Che tu sia in contrasto con noi sul tema dei diritti non è un problema. Se lo fossi stato sulla fermezza, sì.

E perché è importante la data?
Perché il giorno dopo ci furono gli arresti del 7 aprile, nell’area dell’autonomia e con Toni Negri, e io difesi in linea di principio quei diritti e contrastai in ogni sede il cosiddetto teorema Calogero.

In queste interviste, ricostruiamo sempre le biografie politiche per capire la storia: dove inizia la tua vicenda politica?
La prima immagine che dovrei tratteggiare è la mia casa. A Cosenza si svolse il congresso che segnò la fine del partito d’Azione. Mio padre era un umile insegnante di matematica, ma per casa nostra passavano uomini del calibro di Lombardi e Ugo La Malfa. E poi la città era segnata da due grandi personaggi: Mancini, socialista, e Sullo. Comizi in piazza, passione politica, polemiche. Cosenza era una capitale avanzata della sinistra.

Secondo fotogramma?
Roma, il lavoro nell’Ugi, l’Unione goliardica Italiana. Nel 1953 conosco Marco Pannella. E ci troviamo dalla stessa parte quando Togliatti scioglie la Cudi, per far confluire tra noi i giovani comunisti.

Molti temevano la colonizzazione?
E infatti l’accettazione o no di quella confluenza divenne una battaglia politica fra destra e sinistra in cui io e Marco scegliemmo la sinistra. Aneddotto: io ero presidente romano, e mi mandano a trattare due persone: Enzo Siciliano e Alberto Asor Rosa.

Ma il primo avvicinamento alla politica?
Anche questa è una storia da raccontare. Non so come dirlo: per tutti quelli che erano “democratici”come lo ero io allora – a sinistra ma non comunisti, intendo – il faro era il mondo di Pannunzio. Una volta scoperto che arrivava nelle edicole a mezzanotte era tale la febbre di leggere, che andavano a farcelo vendere di notte, per anticipare l’uscita della mattina.

E riesci ad avvicinarti a Il Mondo?
Oh sì, ma devo dirvi come. Eravamo dei ragazzi educati, forse timidi. Il mio migliore amico dell’epoca, insieme a Luigi Spaventa era Tullio De Mauro. Un giorno Elena Croce ci dice: “Andiamo al Mondo, vi presento Pannunzio”.

E lo fece?
Altroché! Ricordo che lui ci dava del lei, e ovviamente anche noi, parlò, e alla fine ci disse: “Se volete scrivere qualcosa fatelo”.

Da toccare i cielo con un dito?
Altroché. Scrissi il giorno stesso un articolo contro chi intendeva la mia facoltà, Giurisprudenza, come il luogo della mediocrità.

E lui cosa disse?
La leggenda voleva che il direttore de Il Mondo avesse cestinato e fatto riscrivere un articolo sui fratelli Cervi, che noi avevamo letto ed era meraviglioso, a Luigi Einaudi. Il dettaglio non irrilevante era che si trovava già al Colle.

E quindi?
Non ebbi il coraggio di chiamare. Mi chiedevo se sarebbe andato in pagina o no…. Puoi immaginare il mio stupore, quando, al solito acquisto notturno, scoprii che era in prima pagina! Mi iscrissi al primo partito radicale, quello che aveva come simbolo la minerva con il berretto frigio che aveva disegnato lo stesso Pannunzio.

Eravate un club elitario e illuminato.
Illuminato di sicuro. Erano gli anni in cui si facevano le nazionalizzazioni perché c’erano stati i grandi convegni degli amici de Il Mondo, gli articoli di ErnestoRossi… quanto al popolo, potrei farti sorridere.

Prego.
Ci mandarono a comiziare, a me e a Gianfranco Spadaccia, a Borgata Gordiani… E come andò? Benissimo. Non c’era nessuno. Stavamo in piedi su una sedia a chiederci se parlare o meno quando arrivò il colpo di grazia.

E cioé?
Un ragazzino romano, alto meno di un metro mi venne davanti, indicò il simbolo con il berretto frigio e mi disse balbettando: “E- e- e- ee.. c-c-c-chi sarebbe? C-c-cappuccetto rosso?”. Cose che per venti anni rinunci alla politica. E infatti così è stato.

Altra istantanea.
Una mattina del 1951 sono all’università. Ma prima devo dirti che siccome all’Ugi gestivano anche dei soldi per le attività ricreative, io avevo tagliato i fondi della squadra di rugby, perché praticamente era una scuola quadri del Msi…

E questo che c’entra?
Te lo spiego: siccome tutti temevano che mi trovassero e mi dessero una lezione, si convenne che una squadra composta da alcuni edili di San Lorenzo mi accompagnasse tutte le sere fino alla fermata. Poi, questi operai, capivano così bene le cose, che spesso finivo a cena a casa loro.

È questa l’immagine simbolo che ci vuoi raccontare?
No, questo è il clima che la spiega. C’era un professore, Umberto Calosso, che era stato esule sotto il regime, che tornava in cattedra dopo quello che era dovuto scappare a Parigi. Socialista, socialdemocratico. I fascisti dicevano che gli avrebbero impedito di entrare in Aula perché “Traditore della patria”.

Incredibile.
Ecco perché non mi dimentico questa immagine: c’è un signore, si trattava di Guido Calogero, che lo precede con un ombrello levato, per dire: “Badate, non ci facciamo intimidire!”. Vicino a quel signore c’era Lucio Lombardo Radice.

Che cosa era per te quella sinistra, essere di sinistra?
La stessa cosa per cui sono e mi considero di sinistra oggi. L’idea dei diritti e l’idea dell’uguaglianza. Sono cambiate molte cose, nel mondo, ma non questo punto di partenza, per me.
iospero
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Iscritto il: 24/02/2012, 18:16

Re: "La sinistra non c’è più. Ed escono i populismi."

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Da Il Fatto Quotidiano .

Ingroia candidato premier, il sogno del “quarto polo” di Gallino e Ginsborg


Né col centrosinistra né con Beppe Grillo. Ormai non è più un proposito ma una realtà il quarto polo che si dichiara “alternativo agli attuali schieramenti” e annuncia per le elezioni politiche del 2013 “una lista di cittadinanza politica, radicalmente democratica, alternativa al governo Monti, alle politiche liberiste che lo caratterizzano e alle forze che lo sostengono”.
E’ sempre più in direzione di questa quarta sponda che vanno convogliando appelli e annunci di iniziativa animati da aree intellettuali, associazionismo, sindaci, movimenti della società civile che vedono sempre più nel magistrato antimafia Antonio Ingroia la candidatura alla premiership reputata in grado di contendere consensi tanto al centrosinistra che al fenomeno delle 5 stelle.

Per quanto il diretto interessato si schermisca affermando che “se si tratta di intenzioni veritiere ringrazio i promotori per l’apprezzamento nei miei confronti, ma io al momento mi trovo in Guatemala e contento di quel che sto facendo”. Anche se solo due settimane fa proprio il suo nome era già stato prospettato a mezzo stampa sempre come papabile candidato premier di un “polo giustizialista” che abbracciasse da Grillo a Di Pietro. “Ipotesi giornalistiche davvero ancor più che fantasiose – le boccia Ingroia dal Guatemala – Se non altro in quanto sono state smentite in prima persona dagli stessi Beppe Grillo e Antonio Di Pietro. Non mi pare, per altro, che dal movimento 5 stelle possano venire proposte politiche tali da potermi riguardare”.

Ormai è questione di giorni perché venga formalizzata la nascita del quarto polo. Si tratta di un percorso che ha preso le mosse sin dalla primavera scorsa con la nascita di Alba (Alleanza lavoro beni comuni ambiente) per iniziativa di personalità come Luciano Gallino, Paul Ginsbourg, Marco Revelli. I medesimi che si sono poi resi promotori dell’appello “Cambiare si può!”, lanciato lo scorso 5 novembre con un paio di migliaia di adesioni (tra cui Livio Pepino, Tonino Perna, Moni Ovadia, Sabina Guzzanti, Oliviero Beha, Gianni Rinaldini, Riccardo Petrella…).

Adesso le strade si riunificano per arrivare alla formalizzazione del nuovo schieramento tra l’assemblea nazionale di “Cambiare si può!” del primo dicembre al teatro Vittoria di Roma e la presentazione dei primi candidati delle liste arancioni da parte di De Magistris una decina di giorni dopo sempre a a Roma. Lo stesso sindaco di Napoli parteciperà all’assemblea del Vittoria. E il caso vuole che proprio a il 30 di novembre Ingroia sia a Roma per presentare il suo nuovo libro e che quindi sarà anch’egli presente all’assemblea e accolto probabilmente da un’ovazione intesa a fargli rompere ogni indugio. D’altronde l’ex procuratore aggiunto di Palermo considera l’appello di “Cambiare si può!” una “iniziativa importante e persino necessaria”. Secondo Ingroia, infatti, “occorre davvero un’iniezione di società civile che si proponga di realizzare un rinnovamento della politica e un cambiamento del paese, ma c’è effettivamente bisogno che, oltre a criticare il sistema politico, la società civile decida di assumere responsabilità in prima persona”. Il Mattino di Napoli scrive oggi che Ingroia è “vicinissimo al sì o almeno in pole position per la candidatura” in arancione con De Magistris.

Per arrivare a formalizzare una candidatura alla leadership del quarto polo, però, occorrerà che prima si risolvano le primarie del Pd fino anche all’eventuale ballottaggio e soprattutto che il parlamento trovi o meno un’intesa sulla riforma della legge elettorale, che sono due variabili ancora dirimenti. Nessuna delle ipotesi, però, è tale da poter far recedere dal proposito di costruire il nuovo schieramento e di portarlo in lizza alle elezioni del 2013.

Nel caso, infatti, che alla fine fosse Renzi a prevalere su Bersani nelle primarie del centrosinistra i promotori del quarto polo vedrebbero solo rafforzate le proprie argomentazioni critiche nei confronti della politica del Pd. D’altronde, se fino a ieri l’attenzione era catalizzata dal “teatrino delle primarie” in tv, secondo Gallino, Revelli & Co. della settimana scorso in tutta Europa “hanno portato all’attenzione anche in Italia il paese reale” soffocato dalle politiche di compatibilità europea del governo tecnico. Sulla base di ciò si escludono margini di ricomposizione no solo con Bersani e il Pd, che hanno adottato le politiche economiche del governo Monti, ma anche con Sel e Vendola, che concorrendo alle primarie si sono collocati in una posizione di “subalternità” rispetto al Pd.

Stante il porcellum la soglia del 4 per cento è ritenuta accessibile dai fautori del quarto polo. Prospettiva, questa, che potrebbe suscitare l’interesse di Prc e anche Idv, nel caso che quest’ultima non rientri nell’orbita del Pd attraverso un passo indietro di Di Pietro per candidarsi in Molise. A patto che sia chiaro, avverte Ginsborg “che stavolta siamo noi, siamo nuovi e abbiamo le nostre idee”. Che tradotto nelle regole enunciate da Guido Viale significa niente ex in lista: “Chi è stato dirigente dei partiti non uno ma due passi indietro”. Identica regola pronunciata da De Magistris e che esclude margini di ricomposizione con transfughi vecchi e nuovi dell’Idv; tipo Donadi e Formisano, che infatti lavorano insieme a tutti gli altri cespugli (socialisti, verdi, Api) cercando di trovare una formula di galleggiamento.

Anche nel caso in cui la legge venga modificata son l’introduzione della soglia al 40 per cento per ottenere il premio (oltre allo sbarramento al 5% e un premietto dell’8 al primo partito se nessuno raggiunge la soglia) i promotori del quarto polo non temono la concorrenza degli appelli al voto utile. E anzi si fregano le mani nella prospettiva di diventare proprio loro “la forza parlamentare determinante per consentire al centrosinistra di avere la maggioranza”, come rivela il vicesindaco di Napoli Tommaso Sodano augurandosi che a quel punto “si possano riaprire i giochi delle alleanze” per entrare in maggioranza.

Sebbene occorra dire che dentro il Pd in questa eventualità si prospetta piuttosto di aprire la maggioranza ai centristi attraverso l’elezione di Monti al Quirinale: uno schema che sarebbe ritenuto una cambiale a favore della solidità e la continuità del governo anche agli occhi degli osservatori e i poteri internazionali. Ne farebbero le spese immediate, magari per riportare Casini sulla scranno più alto di una camera, gli alleati di sinistra che hanno aiutato il Pd a vincere le elezioni, a parti invertite ma con esito analogo a quanto avvenne con la promessa di far rientrare la sinistra del Prc nel governo D’Alema attraverso l’elezione di Prodi al Quirinale. Ma a sinistra in fondo ci avranno fatto l’abitudine.
Amadeus

Re: "La sinistra non c’è più. Ed escono i populismi."

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Roma, 26-11-2012
Poche righe, amare e piene di vis polemica. Con una lettera Rossana Rossanda ha annunciato sul sito di 'MicroMega' di lasciare il quotidiano 'Manifesto', di cui è stata una delle fondatrici storiche oltre 40 anni fa.


"Preso atto della indisponibilità al dialogo della direzione e della redazione del 'Manifesto', non solo con me ma con molti redattori che se ne sono doluti
pubblicamente e con i circoli del 'Manifesto' che ne hanno sempre sostenuto il finanziamento, ho smesso di collaborare al giornale cui nel 1969 abbiamo dato vita. A partire da oggi (ieri per il giornale), un mio commento settimanale sarà pubblicato,
generalmente il venerdì, in collaborazione con 'Sbilanciamoci' e sul suo sito".
Rossanda ha inviato la sua lettera di addio al giornale affinché venga pubblicata domani. "Il suo - ha ricordato 'MicroMega'- è solo l'ultimo di una serie di addii 'eccellenti' che il Manifesto ha subito nelle ultime settimane. Prima Vauro, poi Marco D'Eramo (la cui lettera di commiato è stata liquidata con poche sprezzanti righe dalla direzione, ragione per la quale è in corso tra i suoi amici e lettori una raccolta di firme per criticare duramente l'atteggiamento del giornale nei confronti di una delle
figure storiche del Manifesto).
Il giornale - fondato nel 1969, che versa in pessime acque finanziarie - continua a perdere pezzi. Dopo l'addio di D'Eramo, anche Joseph Halevi, uno tra i più noti collaboratori del Manifesto, ha deciso di lasciare, e in una lettera inviata al
circolo del Manifesto di Bologna usa parole durissime nei confronti della direzione e della redazione: "Non si tratta più di un collettivo ma di un manipolo che per varie ragioni si è appropriato del giornale".
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