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Re: Top News
Il servizio su Stato-mafia è stato pubblicato in origine ieri sulla prima pagina de La Repubblica
*
Stato-mafia, spiati tutti i pm
È UNA lettera anonima quella che sta aprendo un nuovo fronte d'indagine sulla trattativa fra Stato e mafia.
Avverte i magistrati di Palermo che sono spiati, indica dove trovare altre prove del patto, fa i nomi di vecchi uomini politici che potrebbero sapere molto.
E denuncia che l'agenda rossa di Borsellino è stata rubata «da un carabiniere».
L'INCHIESTA giudiziaria più tormentata di questi mesi si sta ancora rimescolando e rovista adesso in quelle che l'anonimo definisce «catacombe di Stato».
Le ultime inedite indicazioni sono in uno scritto che gli investigatori valutano come «attendibile», studiato e steso da qualcuno estremamente informato, uno «dal di dentro» sospettano i pubblici ministeri di Palermo che hanno ordinato accertamenti su tutti i punti segnalati dall'anonimo.
Lui, definisce la sua lettera «un esposto».
L'ha spedita il 18 settembre scorso a casa di Nino Di Matteo, uno dei sostituti procuratori che insieme ad Antonio Ingroia hanno cominciato l'indagine sulla trattativa.
Sono dodici pagine con lo stemma della Repubblica italiana sul frontespizio.
L'autore, alla sua lunga lettera ha attribuito - come nei documenti ufficiali - una sorta di numero di fascicolo.
È in codice: «Protocollo fantasma». Se sia tutto vero ciò che scrive o al contrario un tentativo di depistaggio si scoprirà presto, di sicuro al momento i funzionari della Dia di Palermo e quelli di Roma stanno raccogliendo riscontri intorno ai «suggerimenti» dell'anonimo.
Uno che sembra a conoscenza di tanti segreti, come se avesse partecipato personalmente ad alcune operazioni poliziesche o sotto copertura.
Questi dodici fogli ricordano tanto quell'altra lettera senza firma arrivata fra la strage Falcone e la strage Borsellino nell'estate del 1992 (e recapitata a 39 indirizzi fra i quali il Quirinale, le redazioni dei quotidiani italiani, il Viminale), la prima carta in assoluto dove si faceva cenno a «un accordo» fra Stato e mafia. Annunciando avvenimenti poi accaduti. Come l'arresto del capo dei capi Totò Riina.
Ma adesso vi raccontiamo cosa c'è esattamente nell'ultimo anonimo palermitano.
Finisce con una frase misteriosa destinata al magistrato Di Matteo: «Tieni sempre in considerazione che sto lavorando con te, nelle tenebre».
E annota subito dopo, in latino: «Impunitas semper ad deteriora invitat».
L'impunità invita sempre a cose peggiori.
Comincia invece con una cronistoria dei cadaveri eccellenti di Palermo: dall'omicidio del segretario del Pci siciliano Pio La Torre - il 30 aprile 1982 - fino alla mancata cattura di Bernardo Provenzano dell'ottobre 1995 nelle campagne di Mezzojuso, probabilmente per una soffiata.
In mezzo le bombe di Capaci e di via D'Amelio.
Poi si addentra nel particolare.
Iniziando dai pm che indagano sulla trattativa.
Li mette in guardia da «uomini delle Istituzioni» che li stanno sorvegliando. «Canalizzano tutte le informazioni che riescono ad avere sul vostro conto», scrive.
E dice che li riversano «a Roma», in una non meglio identificata «centrale».
Fra gli spioni - sostiene l'anonimo - anche alcuni magistrati.
Di certo, strani movimenti si sono registrati a Palermo in queste settimane.
Uno, a metà dicembre. Qualcuno è arrivato fin sul pianerottolo dell'abitazione del sostituto Di Matteo, lavorando dentro una cassetta elettrica.
Se ne sono accorti i carabinieri della scorta.
Nessuno nel condominio aveva disposto lavori nel palazzo, e in quel fine settimana il magistrato era fuori città.
Un intruso sapeva anche questo.
Torniamo all'anonimo.
Spiega dove cercare nuove prove sul patto.
Usa queste parole: «Ci sono catacombe all'interno dello Stato sepolte e ricoperte di cemento armato, ma alcune verità si possono ancora trovare».
E specificai luoghi. Segue una lista di nomi.
Uomini politici della prima Repubblica, grandi e piccoli, tutti mai sfiorati fino ad ora dalle investigazioni sulla trattativa.
Consiglia di seguire certe tracce, il suo linguaggio è quello di un «addetto ai lavori».
Gli investigatori sono convinti che si tratti di qualcuno che, all'inizio degli anni '90, abbia lavorato in qualche reparto investigativo.
Conosce minuziosamente alcune vicende. Come quella della cattura di Totò Riina, la mattina del 15 gennaio del 1993.
Garantisce che il covo del boss, nel quartiere dell'Uditore, sia stato visitato da qualcuno prima della perquisizione del procuratore Caselli.
E ripulito di un tesoro, l'archivio del capo dei capi di Cosa Nostra.
«Nascosto a Palermo per qualche tempo e poi portato via», scrive ancora l'anonimo.
E infine dice di sapere chi ha rubato dalla sua borsa l'agenda rossa di Paolo Borsellino, quella sulla quale il procuratore segnava tutto ciò che vedeva e sentiva dalla morte del suo amico Giovanni Falcone.
«L'ha presa un carabiniere», giura l'autore della lettera.
Già qualche anno fa un colonnello dei carabinieri, Giovanni Arcangioli, era stato messo sotto accusa dai magistrati di Caltanissetta per avere trafugato l'agenda.
L'ufficiale era stato fotografato, in via D'Amelio, con la borsa fra le mani.
Ma aveva sempre sostenuto di non sapere nulla dell'agenda.
Prosciolto dal giudice in fase d'indagine preliminare e prosciolto poi dalla Cassazione, il colonnello è uscito definitivamente dall'inchiesta.
In questi ultimi mesi i pm di Caltanissetta (quelli che indagano sui massacri di Palermo) hanno però ricominciato a visionare un filmato del dopo strage, ricostruito con tutte le immagini ritrovate negli archivi televisivi.
Cercano sempre l'uomo dell'agenda rossa. E sospettano sempre che sia uno degli apparati investigativi. La caccia è ripartita.
Cosa aggiungere sull'ultimo anonimo?
Le indagini, che sembravano solo aspettare il verdetto del giudice Piergiorgio Morosini sulla richiesta di rinvio a giudizio di quei 12 imputati eccellenti prevista per la fine del mese, hanno ricominciato ad agitarsi dopo le confessioni del misterioso personaggio senza volto.
Uno che viene dal passato di Palermo.
ATTILIO BOLZONI SALVO PALAZZOLO
03 gennaio 2013 1 sez. prima pagina
http://ricerca.repubblica.it/repubblica ... ref=search
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Stato-mafia, spiati tutti i pm
È UNA lettera anonima quella che sta aprendo un nuovo fronte d'indagine sulla trattativa fra Stato e mafia.
Avverte i magistrati di Palermo che sono spiati, indica dove trovare altre prove del patto, fa i nomi di vecchi uomini politici che potrebbero sapere molto.
E denuncia che l'agenda rossa di Borsellino è stata rubata «da un carabiniere».
L'INCHIESTA giudiziaria più tormentata di questi mesi si sta ancora rimescolando e rovista adesso in quelle che l'anonimo definisce «catacombe di Stato».
Le ultime inedite indicazioni sono in uno scritto che gli investigatori valutano come «attendibile», studiato e steso da qualcuno estremamente informato, uno «dal di dentro» sospettano i pubblici ministeri di Palermo che hanno ordinato accertamenti su tutti i punti segnalati dall'anonimo.
Lui, definisce la sua lettera «un esposto».
L'ha spedita il 18 settembre scorso a casa di Nino Di Matteo, uno dei sostituti procuratori che insieme ad Antonio Ingroia hanno cominciato l'indagine sulla trattativa.
Sono dodici pagine con lo stemma della Repubblica italiana sul frontespizio.
L'autore, alla sua lunga lettera ha attribuito - come nei documenti ufficiali - una sorta di numero di fascicolo.
È in codice: «Protocollo fantasma». Se sia tutto vero ciò che scrive o al contrario un tentativo di depistaggio si scoprirà presto, di sicuro al momento i funzionari della Dia di Palermo e quelli di Roma stanno raccogliendo riscontri intorno ai «suggerimenti» dell'anonimo.
Uno che sembra a conoscenza di tanti segreti, come se avesse partecipato personalmente ad alcune operazioni poliziesche o sotto copertura.
Questi dodici fogli ricordano tanto quell'altra lettera senza firma arrivata fra la strage Falcone e la strage Borsellino nell'estate del 1992 (e recapitata a 39 indirizzi fra i quali il Quirinale, le redazioni dei quotidiani italiani, il Viminale), la prima carta in assoluto dove si faceva cenno a «un accordo» fra Stato e mafia. Annunciando avvenimenti poi accaduti. Come l'arresto del capo dei capi Totò Riina.
Ma adesso vi raccontiamo cosa c'è esattamente nell'ultimo anonimo palermitano.
Finisce con una frase misteriosa destinata al magistrato Di Matteo: «Tieni sempre in considerazione che sto lavorando con te, nelle tenebre».
E annota subito dopo, in latino: «Impunitas semper ad deteriora invitat».
L'impunità invita sempre a cose peggiori.
Comincia invece con una cronistoria dei cadaveri eccellenti di Palermo: dall'omicidio del segretario del Pci siciliano Pio La Torre - il 30 aprile 1982 - fino alla mancata cattura di Bernardo Provenzano dell'ottobre 1995 nelle campagne di Mezzojuso, probabilmente per una soffiata.
In mezzo le bombe di Capaci e di via D'Amelio.
Poi si addentra nel particolare.
Iniziando dai pm che indagano sulla trattativa.
Li mette in guardia da «uomini delle Istituzioni» che li stanno sorvegliando. «Canalizzano tutte le informazioni che riescono ad avere sul vostro conto», scrive.
E dice che li riversano «a Roma», in una non meglio identificata «centrale».
Fra gli spioni - sostiene l'anonimo - anche alcuni magistrati.
Di certo, strani movimenti si sono registrati a Palermo in queste settimane.
Uno, a metà dicembre. Qualcuno è arrivato fin sul pianerottolo dell'abitazione del sostituto Di Matteo, lavorando dentro una cassetta elettrica.
Se ne sono accorti i carabinieri della scorta.
Nessuno nel condominio aveva disposto lavori nel palazzo, e in quel fine settimana il magistrato era fuori città.
Un intruso sapeva anche questo.
Torniamo all'anonimo.
Spiega dove cercare nuove prove sul patto.
Usa queste parole: «Ci sono catacombe all'interno dello Stato sepolte e ricoperte di cemento armato, ma alcune verità si possono ancora trovare».
E specificai luoghi. Segue una lista di nomi.
Uomini politici della prima Repubblica, grandi e piccoli, tutti mai sfiorati fino ad ora dalle investigazioni sulla trattativa.
Consiglia di seguire certe tracce, il suo linguaggio è quello di un «addetto ai lavori».
Gli investigatori sono convinti che si tratti di qualcuno che, all'inizio degli anni '90, abbia lavorato in qualche reparto investigativo.
Conosce minuziosamente alcune vicende. Come quella della cattura di Totò Riina, la mattina del 15 gennaio del 1993.
Garantisce che il covo del boss, nel quartiere dell'Uditore, sia stato visitato da qualcuno prima della perquisizione del procuratore Caselli.
E ripulito di un tesoro, l'archivio del capo dei capi di Cosa Nostra.
«Nascosto a Palermo per qualche tempo e poi portato via», scrive ancora l'anonimo.
E infine dice di sapere chi ha rubato dalla sua borsa l'agenda rossa di Paolo Borsellino, quella sulla quale il procuratore segnava tutto ciò che vedeva e sentiva dalla morte del suo amico Giovanni Falcone.
«L'ha presa un carabiniere», giura l'autore della lettera.
Già qualche anno fa un colonnello dei carabinieri, Giovanni Arcangioli, era stato messo sotto accusa dai magistrati di Caltanissetta per avere trafugato l'agenda.
L'ufficiale era stato fotografato, in via D'Amelio, con la borsa fra le mani.
Ma aveva sempre sostenuto di non sapere nulla dell'agenda.
Prosciolto dal giudice in fase d'indagine preliminare e prosciolto poi dalla Cassazione, il colonnello è uscito definitivamente dall'inchiesta.
In questi ultimi mesi i pm di Caltanissetta (quelli che indagano sui massacri di Palermo) hanno però ricominciato a visionare un filmato del dopo strage, ricostruito con tutte le immagini ritrovate negli archivi televisivi.
Cercano sempre l'uomo dell'agenda rossa. E sospettano sempre che sia uno degli apparati investigativi. La caccia è ripartita.
Cosa aggiungere sull'ultimo anonimo?
Le indagini, che sembravano solo aspettare il verdetto del giudice Piergiorgio Morosini sulla richiesta di rinvio a giudizio di quei 12 imputati eccellenti prevista per la fine del mese, hanno ricominciato ad agitarsi dopo le confessioni del misterioso personaggio senza volto.
Uno che viene dal passato di Palermo.
ATTILIO BOLZONI SALVO PALAZZOLO
03 gennaio 2013 1 sez. prima pagina
http://ricerca.repubblica.it/repubblica ... ref=search
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Re: Top News
The version of Il Fatto riprende la notizia di Repubblica.
“Spiati i pm di Palermo”
La lettera anonima è stata inviata al pm Antonino Di Matteo. Nelle dodici pagine è indicato anche dove trovare altre prove del patto coi boss dopo le stragi del '92. Secondo gli investigatori della Dia il documento sarebbe "attendibile"
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 3 gennaio 2013
Nella procura di Palermo, chi si occupa dell’inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia è spiato. A denunciarlo è un esposto anonimo inviato al pm Antonino Di Matteo e sui cui la Procura sta cercando di fare luce.
Come riporta oggi Repubblica, la lettera anonima indica anche dove trovare altre prove del patto tra Stato e boss mafiosi dopo le stragi mafiose del ’92, fa i nomi di vecchi uomini politici che potrebbero essere a conoscenza di molti fatti.
Non solo. Secondo l’anonimo, inoltre, l’agenda rossa di Borsellino “è stata rubata da un carabiniere”.
L’esposto è composto da dodici pagine e secondo gli investigatori della Dia sarebbe “attendibile”.
Sul frontespizio c’è anche lo stemma della Repubblica italiana. L’autore avrebbe attribuito un numero di fascicolo, proprio come si usa nei documenti ufficiali.
Insomma, come pensano gli stessi inquirenti, chi ha scritto l’esposto sarebbe persona molto informata sui fatti, tanto che i pm starebbero già verificando ogni sua dichiarazione.
Nella lettera si ripercorrono i più noti delitti mafiosi avvenuti nel capoluogo siciliano: dall’omicidio del segretario del Pci siciliano Pio La Torre, a Capaci e via D’Amelio.
L’anonimo avverte i magistrati che “uomini delle Istituzioni”, ma anche alcuni magistrati, li stanno sorvegliando, “canalizzano tutte le informazioni che riescono ad avere sul vostro conto”. E spiega che questi dati sono contenuti “a Roma“, in una “centrale”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01 ... mo/460095/
“Spiati i pm di Palermo”
La lettera anonima è stata inviata al pm Antonino Di Matteo. Nelle dodici pagine è indicato anche dove trovare altre prove del patto coi boss dopo le stragi del '92. Secondo gli investigatori della Dia il documento sarebbe "attendibile"
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 3 gennaio 2013
Nella procura di Palermo, chi si occupa dell’inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia è spiato. A denunciarlo è un esposto anonimo inviato al pm Antonino Di Matteo e sui cui la Procura sta cercando di fare luce.
Come riporta oggi Repubblica, la lettera anonima indica anche dove trovare altre prove del patto tra Stato e boss mafiosi dopo le stragi mafiose del ’92, fa i nomi di vecchi uomini politici che potrebbero essere a conoscenza di molti fatti.
Non solo. Secondo l’anonimo, inoltre, l’agenda rossa di Borsellino “è stata rubata da un carabiniere”.
L’esposto è composto da dodici pagine e secondo gli investigatori della Dia sarebbe “attendibile”.
Sul frontespizio c’è anche lo stemma della Repubblica italiana. L’autore avrebbe attribuito un numero di fascicolo, proprio come si usa nei documenti ufficiali.
Insomma, come pensano gli stessi inquirenti, chi ha scritto l’esposto sarebbe persona molto informata sui fatti, tanto che i pm starebbero già verificando ogni sua dichiarazione.
Nella lettera si ripercorrono i più noti delitti mafiosi avvenuti nel capoluogo siciliano: dall’omicidio del segretario del Pci siciliano Pio La Torre, a Capaci e via D’Amelio.
L’anonimo avverte i magistrati che “uomini delle Istituzioni”, ma anche alcuni magistrati, li stanno sorvegliando, “canalizzano tutte le informazioni che riescono ad avere sul vostro conto”. E spiega che questi dati sono contenuti “a Roma“, in una “centrale”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01 ... mo/460095/
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Re: Top News
Mezzo secolo di problemi con la presunta democrazia.
Prima la guerra fredda, poi i fascisti mai domi sempre pronti a ritornare al potere con una nuova dittatura, poi la Mafia SpA che diventa sempre più potente e sta diventando uno Stato nello Stato.
Dall’altra parte gli italiani che basta che abbiano da che vivere e divertirsi, il calcio o quale altro sport la domenica e tutto finisce qui.
Dall’informazione di ieri si può dedurre:
1) Come è possibile fidarsi dello “Stato”.
2) Ma di quale Stato poi? Dove le istituzioni spiano la magistratura, e pure la magistratura spia se stessa?
L’anonimo avverte i magistrati che “uomini delle Istituzioni”, ma anche alcuni magistrati, li stanno sorvegliando, “canalizzano tutte le informazioni che riescono ad avere sul vostro conto”. E spiega che questi dati sono contenuti “a Roma“, in una “centrale”.
3) Come è poi possibile fidarsi dei carabinieri? Per conto di chi lavorava il carabiniere che ha sottratto l’agenda rossa di Borsellino?
Il tutto a partire dal Piano Solo del generale De Lorenzo.
“Il Piano Solo fu un progetto militare di emergenza, volto ad assegnare all'Arma dei Carabinieri il potere in Italia, e fu sul punto di essere attuato nell'estate del 1964. Definibile anche come un tentativo di colpo di stato (golpe)………….
Tuttavia, il contesto storico in cui tentò il suo svolgimento il Piano Solo presenta delle peculiarità legate a vicende politiche strettamente italiane. Infatti dal 1962 si era aperta in Italia la fase del tutto nuova del centrosinistra, con promesse di riforme strutturali che solo in parte furono mantenute, ma che comunque andarono a minacciare un assetto burocratico-militare che mutuava uomini e metodi dal periodo fascista.
http://it.wikipedia.org/wiki/Piano_Solo
Carabinieri fedeli nei secoli…..Ma fedeli a chi?
4) Fino a che punto le Mafie SpA condizionano lo Stato?
5) Perché è stato possibile che la Mafia SpA uscisse allo scoperto e fondasse direttamente un suo partito nel 1993? Un partito che ha condizionato il quasi ventennio della Seconda Repubblica?
6) Poteva essere mai accettabile che il presidente della Commissione Parlamentare Antimafia fosse espresso dal partito della Mafia SpA, Giuseppe Pisanu?
Un’Italia diversa da quella dei misteri non è mai riuscita ad affermarsi. Fasci, massoneria, servizi segreti occulti hanno sempre avuto la meglio.
Gladio, Moro, la P2: tutti i segreti che Cossiga si è portato nella tomba
Quando muore un uomo come Cossiga, per gli incarichi che ha rivestito, per la stagione che ha attraversato, è naturale chiedersi quanti misteri si porti appresso… Sergio Flamigni, per vent’anni parlamentare del Pci, membro della commissione d’inchiesta sul caso Moro, vivendo le più drammatiche e intricate vicende della nostra storia repubblicana, ha avvicinato molti di quei misteri.
D>Flamigni, è fondato pensare che Cossiga qualche mistero l’abbia mantenuto per sé?
«Di un mistero, soprattutto, mi sentirei di dire: il mistero legato al caso Moro, la vicenda che gli creò il turbamento maggiore, come ebbe lui stesso modo di ripetere. Ma ricordare il caso Moro significa innanzitutto, e purtroppo, mettere in rilievo il fatto che Cossiga fu il più fallimentare ministro degli Interni della Repubblica, segnando con il suo comportamento la storia del nostro paese, con il concorso ovviamente di altri fattori, anche internazionali. Peraltro, già prima di Moro, la sua gestione del Viminale fu caratterizzata da errori gravi e, addirittura, da atteggiamenti provocatori, che ebbero l’effetto di accentuare la tensione e di rinvigorire il terrorismo, anziché sconfiggerlo. Basterebbe ricordare quanto avvenne a Roma, nel 1977, il 12 maggio: gli agenti in borghese infiltrati che sparano, la morte di Giorgiana Masi. Pochi mesi prima era stato il giovane militante di Lotta Continua, Francesco Lorusso, a cadere, ucciso da un colpo esploso da un carabiniere, nel corso di una protesta a Bologna. Quello sarebbe stato il momento di usare la massima cautela, di lavorare tutti per convincere i giovani, non per reprimere soltanto. Cossiga aveva la tendenza a ricorrere alle misure militari. Gli piaceva schierare i blindati. Lo criticammo aspramente per questo. Lo criticai anch’io, quando ero capogruppo del Pci alla commissione interni della Camera...».
D>I servizi segreti furono oggetto prediletto della sua attenzione…
«All’inizio del 1978, con il governo Andreotti dimissionario e quindi in carica solo per l’ordinaria amministrazione, il 31 gennaio, Cossiga sciolse per decreto il servizio di sicurezza della polizia, unico servizio segreto che avesse ottenuto grandi successi contro il terrorismo: prima contro i Nap, nuclei armati proletari, poi contro Br, preparando la mappa del brigatismo. Determinando ovviamente perdita di professionalità, di competenze, disseminando personale specializzato in servizi di ben minore importanza. In compenso creò l’Ucigos, mettendo al comando il suo amico, questore di Sassari, che nel merito non vantava alcuna esperienza. Santillo, che era stato a capo del servizio di polizia e che sapeva di terrorismo, venne promosso alla carica di vicecapo della polizia: cioè venne promosso a un posto di tutto riposo. Nel frattempo il comando generale dei carabinieri aveva sciolto il primo servizio antiterrorismo creato dal generale Dalla Chiesa, dopo il sequestro Sossi. In compenso vennero inseriti nei servizi segreti con ruoli dirigenziali personaggi che risulteranno poi iscritti alla P2. Con un governo in crisi e senza un’ombra di consultazione delle commissioni parlamentari, con le conseguenze che presto si sarebbero potute apprezzare. Intanto, Aldo Moro, che lavorava per convincere i più riottosi del suo partito perché condividessero un’alleanza di governo con il Pci, malgrado i numerosi avvertimenti, venne lasciato senza adeguata protezione».
D>Se parliamo del sequestro Moro, la prima sensazione è di impotenza…
«Di fronte alla strage di via Fani e al sequestro di Aldo Moro, Cossiga seguì, d’accordo con Andreotti, la strada prediletta: mobilitazione dell’esercito e posti di blocco ovunque. Misure adatte solo a soddisfare l’opinione pubblica. Ricordo d’aver partecipato con Pecchioli e Violante, il 20 marzo 1978, quattro giorni dopo il rapimento, a palazzo Chigi, ad una riunione che avrebbe dovuto discutere misure antiterrorismo, in vista di un decreto previsto per il giorno successivo. Proponemmo, in quella riunione, presente con Cossiga anche il ministro di Giustizia Bonifacio, di anticipare nel decreto le norme di riforma della polizia, già approvate in commissione, norme che prevedevano il coordinamento dei vari corpi di sicurezza. Sarebbe stato il momento giusto dopo quanto era successo: mettere in campo le forze migliori, quando erano necessarie capacità investigativa, intelligenza, conoscenza, astuzia. Socialisti e repubblicani furono d’accordo, sembrarono tutti d’accordo… Cossiga si oppose. Inspiegabilmente. Obiettò solo che i carabinieri non avrebbero mai accolto un simile provvedimento. Pecchioli replicò citando il “comandamento” del Corpo: usi a obbedir tacendo. Cossiga non cambiò idea. Così la linea della fermezza divenne la linea della fermezza passiva e in cinquantacinque giorni di prigionia di Moro non vivemmo un solo giorno di gloria: neppure un terrorista arrestato. Più avanti, con il generale Dalla Chiesa, si capì quanto quelle misure sarebbero state necessarie e poi efficaci (ad esempio nella individuazione del covo di via Monte Nevoso e nella liberazione del generale Dozier). Continuo a non capire quel rifiuto di Cossiga. Forse non si fidava dei suoi stessi sottoposti…».
D>Di chi si fidava, allora?
«Dei suoi amici e di pochi altri… Durante la prigionia di Moro, si affidò all’esperto americano di antiterrorismo, che gli era stato spedito in soccorso dal dipartimento usa, un uomo assunto da Kissinger e in attività anche sotto l’amministrazione Carter… il professor Steve Pieczenik, che fu incaricato di guidare il comitato di esperti e che si preoccupò soprattutto di preparare l’opinione pubblica alla notizia della morte di Moro, come fu con il comunicato a proposito del lago della Duchessa, di orientare i rapporti con la famiglia, di controllare l’informazione».
D>Cossiga mise in piedi altri comitati, quello tecnico operativo e quello dei servizi segreti.
«… che pullulava di uomini della P2».
D>C’era anche Licio Gelli?
«Dall’inchiesta del giudice Priore, il giudice di Ustica, risultò soltanto che Gelli aveva frequentato il Palazzo della Marina, che per un certo periodo di tempo, per ragioni pratiche, aveva ospitato gli uffici di Cossiga. Ma non c’era rapporto con il caso Moro».
D>Che cosa la colpì della personalità di Cossiga?
«Era attratto dai misteri e per questo coltivava un autentica passione per i servizi segreti. L’altra sua passione era la massoneria. Era grande amico del capo della massoneria, Corona, sardo come lui: quand’era presidente, a Roma, non gli faceva mai mancare l’auto di Stato. Sicuramente non disprezzava neppure la massoneria di Licio Gelli: non esitò a dichiarare che tra gli iscritti alla P2 vi erano anche molti patrioti».
D>Di Gladio disse che era una organizzazione di patrioti.
«Di Gladio si occupò molto presto quando era sottosegretario agli Interni. Conosceva benissimo Gladio, che aveva peraltro la sua base operativa principale in Sardegna. Il giudice Casson, quando trasmise gli atti della sua inchiesta per incompetenza, perché l’indagine sarebbe andata oltre i suoi poteri investigativi, scrisse che Gladio era un paravento che nascondeva altre attività… Cossiga negò. Sicuramente Gladio, pensata per rispondere a un nemico esterno, divenne una meccanismo con il compito di impedire al Pci qualsiasi responsabilità di governo, ottenuta per via democratica naturalmente».
D>Malgrado tutto, lo votaste presidente della Repubblica.
«Un errore per il solito politicismo. Sono convinto che se Berlinguer fosse stato ancora al mondo, il nostro partito non l’avrebbe mai votato. Berlinguer fu assai risoluto quando scoppiò il caso Cossiga. Donat Cattin. Donat Cattin fu avvisato in anticipo del futuro arresto del figlio, capo di Prima Linea. Berlinguer pretese il dibattito parlamentare e dopo quel dibattito il governo Cossiga s’avviò verso la crisi».
D>Torniamo all’inizio, al mistero.
«Tutto conferma che Cossiga sapeva molto di più e qualcosa di diverso da quanto aveva sempre dichiarato…».
Oreste Pivetta da http://www.unita.it
Prima la guerra fredda, poi i fascisti mai domi sempre pronti a ritornare al potere con una nuova dittatura, poi la Mafia SpA che diventa sempre più potente e sta diventando uno Stato nello Stato.
Dall’altra parte gli italiani che basta che abbiano da che vivere e divertirsi, il calcio o quale altro sport la domenica e tutto finisce qui.
Dall’informazione di ieri si può dedurre:
1) Come è possibile fidarsi dello “Stato”.
2) Ma di quale Stato poi? Dove le istituzioni spiano la magistratura, e pure la magistratura spia se stessa?
L’anonimo avverte i magistrati che “uomini delle Istituzioni”, ma anche alcuni magistrati, li stanno sorvegliando, “canalizzano tutte le informazioni che riescono ad avere sul vostro conto”. E spiega che questi dati sono contenuti “a Roma“, in una “centrale”.
3) Come è poi possibile fidarsi dei carabinieri? Per conto di chi lavorava il carabiniere che ha sottratto l’agenda rossa di Borsellino?
Il tutto a partire dal Piano Solo del generale De Lorenzo.
“Il Piano Solo fu un progetto militare di emergenza, volto ad assegnare all'Arma dei Carabinieri il potere in Italia, e fu sul punto di essere attuato nell'estate del 1964. Definibile anche come un tentativo di colpo di stato (golpe)………….
Tuttavia, il contesto storico in cui tentò il suo svolgimento il Piano Solo presenta delle peculiarità legate a vicende politiche strettamente italiane. Infatti dal 1962 si era aperta in Italia la fase del tutto nuova del centrosinistra, con promesse di riforme strutturali che solo in parte furono mantenute, ma che comunque andarono a minacciare un assetto burocratico-militare che mutuava uomini e metodi dal periodo fascista.
http://it.wikipedia.org/wiki/Piano_Solo
Carabinieri fedeli nei secoli…..Ma fedeli a chi?
4) Fino a che punto le Mafie SpA condizionano lo Stato?
5) Perché è stato possibile che la Mafia SpA uscisse allo scoperto e fondasse direttamente un suo partito nel 1993? Un partito che ha condizionato il quasi ventennio della Seconda Repubblica?
6) Poteva essere mai accettabile che il presidente della Commissione Parlamentare Antimafia fosse espresso dal partito della Mafia SpA, Giuseppe Pisanu?
Un’Italia diversa da quella dei misteri non è mai riuscita ad affermarsi. Fasci, massoneria, servizi segreti occulti hanno sempre avuto la meglio.
Gladio, Moro, la P2: tutti i segreti che Cossiga si è portato nella tomba
Quando muore un uomo come Cossiga, per gli incarichi che ha rivestito, per la stagione che ha attraversato, è naturale chiedersi quanti misteri si porti appresso… Sergio Flamigni, per vent’anni parlamentare del Pci, membro della commissione d’inchiesta sul caso Moro, vivendo le più drammatiche e intricate vicende della nostra storia repubblicana, ha avvicinato molti di quei misteri.
D>Flamigni, è fondato pensare che Cossiga qualche mistero l’abbia mantenuto per sé?
«Di un mistero, soprattutto, mi sentirei di dire: il mistero legato al caso Moro, la vicenda che gli creò il turbamento maggiore, come ebbe lui stesso modo di ripetere. Ma ricordare il caso Moro significa innanzitutto, e purtroppo, mettere in rilievo il fatto che Cossiga fu il più fallimentare ministro degli Interni della Repubblica, segnando con il suo comportamento la storia del nostro paese, con il concorso ovviamente di altri fattori, anche internazionali. Peraltro, già prima di Moro, la sua gestione del Viminale fu caratterizzata da errori gravi e, addirittura, da atteggiamenti provocatori, che ebbero l’effetto di accentuare la tensione e di rinvigorire il terrorismo, anziché sconfiggerlo. Basterebbe ricordare quanto avvenne a Roma, nel 1977, il 12 maggio: gli agenti in borghese infiltrati che sparano, la morte di Giorgiana Masi. Pochi mesi prima era stato il giovane militante di Lotta Continua, Francesco Lorusso, a cadere, ucciso da un colpo esploso da un carabiniere, nel corso di una protesta a Bologna. Quello sarebbe stato il momento di usare la massima cautela, di lavorare tutti per convincere i giovani, non per reprimere soltanto. Cossiga aveva la tendenza a ricorrere alle misure militari. Gli piaceva schierare i blindati. Lo criticammo aspramente per questo. Lo criticai anch’io, quando ero capogruppo del Pci alla commissione interni della Camera...».
D>I servizi segreti furono oggetto prediletto della sua attenzione…
«All’inizio del 1978, con il governo Andreotti dimissionario e quindi in carica solo per l’ordinaria amministrazione, il 31 gennaio, Cossiga sciolse per decreto il servizio di sicurezza della polizia, unico servizio segreto che avesse ottenuto grandi successi contro il terrorismo: prima contro i Nap, nuclei armati proletari, poi contro Br, preparando la mappa del brigatismo. Determinando ovviamente perdita di professionalità, di competenze, disseminando personale specializzato in servizi di ben minore importanza. In compenso creò l’Ucigos, mettendo al comando il suo amico, questore di Sassari, che nel merito non vantava alcuna esperienza. Santillo, che era stato a capo del servizio di polizia e che sapeva di terrorismo, venne promosso alla carica di vicecapo della polizia: cioè venne promosso a un posto di tutto riposo. Nel frattempo il comando generale dei carabinieri aveva sciolto il primo servizio antiterrorismo creato dal generale Dalla Chiesa, dopo il sequestro Sossi. In compenso vennero inseriti nei servizi segreti con ruoli dirigenziali personaggi che risulteranno poi iscritti alla P2. Con un governo in crisi e senza un’ombra di consultazione delle commissioni parlamentari, con le conseguenze che presto si sarebbero potute apprezzare. Intanto, Aldo Moro, che lavorava per convincere i più riottosi del suo partito perché condividessero un’alleanza di governo con il Pci, malgrado i numerosi avvertimenti, venne lasciato senza adeguata protezione».
D>Se parliamo del sequestro Moro, la prima sensazione è di impotenza…
«Di fronte alla strage di via Fani e al sequestro di Aldo Moro, Cossiga seguì, d’accordo con Andreotti, la strada prediletta: mobilitazione dell’esercito e posti di blocco ovunque. Misure adatte solo a soddisfare l’opinione pubblica. Ricordo d’aver partecipato con Pecchioli e Violante, il 20 marzo 1978, quattro giorni dopo il rapimento, a palazzo Chigi, ad una riunione che avrebbe dovuto discutere misure antiterrorismo, in vista di un decreto previsto per il giorno successivo. Proponemmo, in quella riunione, presente con Cossiga anche il ministro di Giustizia Bonifacio, di anticipare nel decreto le norme di riforma della polizia, già approvate in commissione, norme che prevedevano il coordinamento dei vari corpi di sicurezza. Sarebbe stato il momento giusto dopo quanto era successo: mettere in campo le forze migliori, quando erano necessarie capacità investigativa, intelligenza, conoscenza, astuzia. Socialisti e repubblicani furono d’accordo, sembrarono tutti d’accordo… Cossiga si oppose. Inspiegabilmente. Obiettò solo che i carabinieri non avrebbero mai accolto un simile provvedimento. Pecchioli replicò citando il “comandamento” del Corpo: usi a obbedir tacendo. Cossiga non cambiò idea. Così la linea della fermezza divenne la linea della fermezza passiva e in cinquantacinque giorni di prigionia di Moro non vivemmo un solo giorno di gloria: neppure un terrorista arrestato. Più avanti, con il generale Dalla Chiesa, si capì quanto quelle misure sarebbero state necessarie e poi efficaci (ad esempio nella individuazione del covo di via Monte Nevoso e nella liberazione del generale Dozier). Continuo a non capire quel rifiuto di Cossiga. Forse non si fidava dei suoi stessi sottoposti…».
D>Di chi si fidava, allora?
«Dei suoi amici e di pochi altri… Durante la prigionia di Moro, si affidò all’esperto americano di antiterrorismo, che gli era stato spedito in soccorso dal dipartimento usa, un uomo assunto da Kissinger e in attività anche sotto l’amministrazione Carter… il professor Steve Pieczenik, che fu incaricato di guidare il comitato di esperti e che si preoccupò soprattutto di preparare l’opinione pubblica alla notizia della morte di Moro, come fu con il comunicato a proposito del lago della Duchessa, di orientare i rapporti con la famiglia, di controllare l’informazione».
D>Cossiga mise in piedi altri comitati, quello tecnico operativo e quello dei servizi segreti.
«… che pullulava di uomini della P2».
D>C’era anche Licio Gelli?
«Dall’inchiesta del giudice Priore, il giudice di Ustica, risultò soltanto che Gelli aveva frequentato il Palazzo della Marina, che per un certo periodo di tempo, per ragioni pratiche, aveva ospitato gli uffici di Cossiga. Ma non c’era rapporto con il caso Moro».
D>Che cosa la colpì della personalità di Cossiga?
«Era attratto dai misteri e per questo coltivava un autentica passione per i servizi segreti. L’altra sua passione era la massoneria. Era grande amico del capo della massoneria, Corona, sardo come lui: quand’era presidente, a Roma, non gli faceva mai mancare l’auto di Stato. Sicuramente non disprezzava neppure la massoneria di Licio Gelli: non esitò a dichiarare che tra gli iscritti alla P2 vi erano anche molti patrioti».
D>Di Gladio disse che era una organizzazione di patrioti.
«Di Gladio si occupò molto presto quando era sottosegretario agli Interni. Conosceva benissimo Gladio, che aveva peraltro la sua base operativa principale in Sardegna. Il giudice Casson, quando trasmise gli atti della sua inchiesta per incompetenza, perché l’indagine sarebbe andata oltre i suoi poteri investigativi, scrisse che Gladio era un paravento che nascondeva altre attività… Cossiga negò. Sicuramente Gladio, pensata per rispondere a un nemico esterno, divenne una meccanismo con il compito di impedire al Pci qualsiasi responsabilità di governo, ottenuta per via democratica naturalmente».
D>Malgrado tutto, lo votaste presidente della Repubblica.
«Un errore per il solito politicismo. Sono convinto che se Berlinguer fosse stato ancora al mondo, il nostro partito non l’avrebbe mai votato. Berlinguer fu assai risoluto quando scoppiò il caso Cossiga. Donat Cattin. Donat Cattin fu avvisato in anticipo del futuro arresto del figlio, capo di Prima Linea. Berlinguer pretese il dibattito parlamentare e dopo quel dibattito il governo Cossiga s’avviò verso la crisi».
D>Torniamo all’inizio, al mistero.
«Tutto conferma che Cossiga sapeva molto di più e qualcosa di diverso da quanto aveva sempre dichiarato…».
Oreste Pivetta da http://www.unita.it
Re: Top News
sì , c'è di che arrovellarsi.
e pensa Andreotti quante ne sa.
peccato che il famoso "archivio" sarà stato debitamente messo nel caminetto poco tempo fa.
e pensa Andreotti quante ne sa.
peccato che il famoso "archivio" sarà stato debitamente messo nel caminetto poco tempo fa.
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Re: Top News
Andreotti arriva prima di Cossiga. Ci dovrebbe raccontare per prima cosa che fine hanno fatto i fondi che il Tesoro Usa invia al nuovo Tesoro italiano nel 1947, riguardante l’ultima tranche del pagamento dovuto dagli Usa ai militari italiani che hanno prestato la loro opera durante il periodo di prigionia negli States.Amadeus ha scritto:sì , c'è di che arrovellarsi.
e pensa Andreotti quante ne sa.
peccato che il famoso "archivio" sarà stato debitamente messo nel caminetto poco tempo fa.
E’ a lui che avevano pensato di rapire in prima istanza le Br al posto di Moro.
Infatti, questo è il quarto mistero di Fatima. Perché rapire Moro quando avevano a disposizione la Treccani dei misteri d’Italia?
Questo non lo sapremo mai, ma è tra le cose più assurde dei misteri d’Italia.
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Re: Top News
Moro voleva il compromesso storico con Berlinguer era pericoloso e lo hanno fatto fuori... Andreotti e Kossiga erano i garanti degli yankee e dei mafiosi quindi non andavano toccati...
Ricordatevi che la prigione di Moro era sotto gli occhi di tutti ma lo cercavano dappertutto meno che lì... non doveva essere trovato ma eliminato...
Ricordatevi che la prigione di Moro era sotto gli occhi di tutti ma lo cercavano dappertutto meno che lì... non doveva essere trovato ma eliminato...
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Re: Top News
Maucat ha scritto:Moro voleva il compromesso storico con Berlinguer era pericoloso e lo hanno fatto fuori... Andreotti e Kossiga erano i garanti degli yankee e dei mafiosi quindi non andavano toccati...
Ricordatevi che la prigione di Moro era sotto gli occhi di tutti ma lo cercavano dappertutto meno che lì... non doveva essere trovato ma eliminato...
La relazione di minoranza della Commissione parlamentare sul delitto Moro, fu stesa a suo tempo dal deputato Leonardo Sciascia, uno che di queste cose se ne intendeva:
Moro: relazione di minoranza del deputato Leonardo Sciascia (Gruppo parlamentare radicale)
Di Sciascia Leonardo - 22 giugno 1982
Moro: relazione di minoranza del deputato Leonardo Sciascia (Gruppo parlamentare radicale)
SOMMARIO: Lamentando che la Commissione Parlamentare è stata molto spesso distratta dai suoi compiti a causa della sterile conflittualità fra i rappresentanti della posizione detta “umanitaria” e quelli che sostenevano la posizione detta “della fermezza”, Sciascia indica la domanda essenziale a cui dovevano dare risposta e cioè perché Moro non era stato salvato, nei 55 giorni di detenzione, dalle forze preposte alla salvaguardia dei cittadini.
Attraverso la ricostruzione delle vicende più significative che hanno segnato l’inconcludente e colpevole attività del governo, della magistratura e della polizia, sottolineando anche le responsabilità della stampa, Sciascia afferma che vi furono gravi carenze nelle misure di prevenzione e di tutela della persona di Aldo Moro; che vi furono disfunzioni, omissioni e gravi responsabilità nella direzione e nell’espletamento delle indagini per la ricerca e la liberazione di Moro.
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Ma le ragioni di tanta lentezza nelle indagini, dello spreco di tanti mezzi e risorse per finalità solo spettacolari, di tanti errori professionali non possono essere ricercate solo nell’impreparazione di fronte al terrorismo e nei condizionamento dei “media”.
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L’impedimento più forte ad una efficace azione per la salvezza del Presidente della DC è venuto dalla decisione di non riconoscere nel Moro prigioniero delle BR lo stesso Moro a cui tutti avevano attribuito, fino al momento del sequestro, grande accortezza e lucidità politica.
Il Moro delle lettere di accusa alla DC che il “fronte della fermezza” liquidò con argomenti clinici invece che politici, cercava infatti di guadagnare tempo, anche con le proposte di trattativa, per darne alla polizia a che lo trovasse; cercava, anche nel linguaggio contorto a lui così congeniale, d’inviare messaggi per aiutare gli inquirenti nell’individuazione della sua prigione; cercava perfino d’indicare i collegamenti e le protezioni internazionali di cui godevano le BR.
Ma la classe politica dell‘“arco costituzionale” decise che il Moro “di prima” era come morto e che trovare vivo il Moro “altro” quasi equivalesse a trovarlo cadavere nel portabagagli di una Renault.
(RELAZIONE DI MINORANZA DELLA COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA SULLA STRAGE DI VIA FANI, SUL SEQUESTRO E L’ASSASSINIO DI ALDO MORO E SUL TERRORISMO IN ITALIA (Legge 23 novembre 1979, n.597) - SENATO DELLA REPUBBLICA - CAMERA DEI DEPUTATI - VIII LEGISLATURA - DOC. XXIII N.5 VOLUME SECONDO - 1983)
Numerosa di quaranta membri più il presidente, nel succedersi di tre presidenti, l’ultimo dei quali - il senatore Valiante - nominato quando già le acquisizioni erano ingenti, e necessitato dunque a informarsene, la Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e la strategia e gli obiettivi perseguiti dai terroristi, si è mossa in questa prima parte dei suoi lavori, soprattutto devoluti al caso Moro, con inevitabili ritardi, lentezze e dispersioni.
Il fatto che la presenza dei componenti si riducesse di media tra la metà e i due terzi, le è stato di minima agevolazione nelle audizioni, sempre troppo lunghe e in parte ripetitive.
A ciò va aggiunta la latente e a volte esplicita conflittualità, tra i membri della Commissione, che riproduceva quella manifestatasi tra i partiti del cosiddetto arco costituzionale - e specialmente tra il comunista e il democristiano da un lato, il socialista dall’altro - nei giorni del sequestro Moro ed oltre, fino al sequestro e al rilascio del magistrato D’Urso: e cioè sulla posizione detta »umanitaria dei socialisti, che affermava la necessità di trattare coi terroristi, pur tenendo presenti i limiti del possibile cedimento, e quella detta »della fermezza , sostenuta da comunisti, democristiani e altri, di assoluta e inscalfibile intransigenza.
Tali posizioni vi si ripetevano nella Commissione col perseguire da una parte la dimostrazione che un minimo cedimento, conseguente alle trattative con le Brigate Rosse, avrebbe potuto salvare la vita di Aldo Moro (così come poi la chiusura del carcere dell’Asinara e l’intervento di parlamentari presso i brigatisti carcerati si ritenne - ma non da tutti, e non da noi - avesse salvata quella del magistrato D’Urso); e dall’altra che la disponibilità a trattare del Partito Socialista, nonché incrinare la cosiddetta »solidarietà nazionale fondata sulla fermezza, non solo non poteva portare alla salvezza di Moro, ma si configurava - nella ricerca di un contatto particolare e riservato con le Brigate Rosse, negli incontri tra esponenti socialisti ed esponenti dell’Autonomia romana che si credeva potessero fare da tramite (e si è visto poi che potevano) - come un vero e proprio reato, visto che i magistrati inquirenti non ne erano stati informati.
Questa conflittualità, che ad evidenza corre nei verbali della Commissione, anche se mai espressa nei termini netti in cui noi li riassumiamo, è stata nel lavoro della Commissione - a parere nostro - una grave remora, una incommensurabile perdita di tempo. Da ciò, per esempio, le inutili udienze dedicate al caso Rossellini-Radio »Città Futura : se Rossellini aveva o no dato notizia dell’avvenimento di via Fani almeno mezz’ora prima che si verificasse (e se si fosse riusciti a provarla, ne sarebbe venuta la conseguenza che Rossellini era »dentro , e dunque i suoi contatti coi socialisti diventavano automaticamente gravi: beninteso per i socialisti).
Ma Rossellini non poteva aver dato quella notizia: poiché - se ne ha l’impressione - aveva ben studiato gli scopi e i comportamenti delle Brigate Rosse, poteva avere, se mai, azzardato una ipotesi.
Comunque, la domanda se Moro si poteva o no salvare attraverso trattative, finisce con l’apparire gratuita e irrilevante, dopo tante ore di audizioni e migliaia di pagine di verbali. Gratuita e irrilevante, diciamo, ai fini di una Commissione Parlamentare d’inchiesta; mentre la si può considerare non gratuita e non irrilevante in una inchiesta tra le Brigate Rosse, dentro le Brigate Rosse e da loro condotta: poiché a loro era possibile la scelta di rilasciare Moro invece che di assassinarlo; e dalla scelta di assassinarlo ha avuto principio, nel dissenso tra loro insorto, la crisi che va portandole alla disgregazione, all’annientamento.
La domanda prima cd essenziale cui la Commissione ha il dovere di rispondere, a noi appare invece questa: “perché Moro non è stato salvato nei cinquantacinque giorni della sua prigionia, da quelle forze che lo Stato prepone alla salvaguardia, alla sicurezza, all’incolumità dei singoli cittadini, della collettività, delle istituzioni?”
Ovviamente, né si poteva evitare, altro tempo si è perso nell’inseguire una risposta alla domanda posta dal punto a) articolo I, della legge che istituiva la Commissione (»se vi siano state informazioni, comunque collegabili alla strage di via Fani, concernenti possibili azioni terroristiche nel periodo precedente il sequestro di Aldo Moro, e come tali informazioni siano state controllate ed eventualmente utilizzate )
Intorno a tale domanda si sono accagliate insondabili mitomanie, scarti della memoria, incontrollabili giri di tempo (e ne fa parte anche il caso Rossellini-Radio »Città futura ). Né meno inutile è stato il lavoro della Commissione per rispondere al punto b) della legge: »se Aldo Moro abbia ricevuto, nei mesi precedenti il rapimento, minacce o avvertimenti diretti a fargli abbandonare l’attività politica ; poiché è da credere che ogni uomo politico di preminente ruolo ne riceva, ma anonimamente e non, come consiglio o come minaccia; e specialmente ne avrà ricevuto - ne ha ricevuto - Aldo Moro, i cui intendimenti non sempre decifrabili potevano facilmente dar luogo a fraintendimenti.
Ma anche l’avvertimento (o minaccia) che ebbe mentre presumibilmente si trovava in un paese »amico , e da parte di una personalità in quel paese autorevole, non crediamo sia possibile collegarlo alla sua eliminazione: e per il fatto stesso che c’è stato.
Cose del genere - lo si sa persino proverbialmente - si fanno senza dirle; il non dirlo è anzi la condizione necessaria per farle. Era invece rigorosamente prevedibile - a rigore del loro cercare e colpire i gangli e le personalità dello »Stato delle multinazionali , del sistema democratico e capitalistico - che le Brigate rosse puntassero alla cattura e all’eliminazione di un uomo come Moro, al vertice della Democrazia Cristiana e sul punto - si credeva - di allargarle intorno il consenso e comunque di renderla più duttile, più prensile, più durevolmente sicura (e però nella misura in cui più duttili sì, ma meno prensili e meno sicure diventavano le forze d’opposizione).
Ma che secondo i loro schemi, piuttosto rigidi ed elementari, le Brigate Rosse facessero una diagnosi della situazione che portasse alla cattura e/o all’eliminazione di Aldo Moro, si era ben lontani, negli organi che ne avevano il dovere, dal prevederlo; e figuriamoci dal prevenirlo.
Sicché alla domanda che pone il punto c) della legge (»le eventuali carenze di adeguate misure di prevenzione e tutela della persona di Aldo Moro ), si può nettamente rispondere che non solo le carenze ci furono, ma che ai tentativi della Commissione per accertarle sono state opposte denegazioni così assolute da apparire incredibili.
A renderle incredibili è la personalità del maresciallo Leonardi, capo della scorta di Moro, per come concordemente, da diversi punti di vista, ci e stata descritta. Giudicandola la scorta di Moro dentro l’Università, l’ex brigatista Savasta dice: »Io ho notato tre uomini, fra cui uno anziano… Erano tre molto visibili, tra cui questo anziano, che era il più bravo di tutti perché si muoveva nella folla… Sì, era il maresciallo Leonardi, che si muoveva meglio di tutti, perché la ressa era molto grossa per partecipare alle lezioni di Aldo Moro. Nonostante questa riusciva a tenere sotto controllo la situazione.
Mi colpì questo aspetto specifico anche per capire che tipo di scorta c’era, cioè se era una scorta proforma o una scorta reale… L’atteggiamento del maresciallo Leonardi era quello di una scorta reale, molto preparata: era quel tipo di scorta che non eravamo abituati a vedere. C’è un modo che si capisce subito: prima il fatto che erano sempre pronti a prendere la pistola; secondo, poi, come si muovevano tra la gente. Cioè era un modo diverso.
Se la scorta è proforma, non si sta molto a guardare; quando è reale, si capisce subito, cioè come si guarda la gente, come si vedono gli spostamenti delle altre persone. Sembrava una scorta reale… . Nel loro lavoro di osservazione, i brigatisti erano dunque arrivati al giudizio che tutte le scorte fossero proforma; e perciò la meraviglia di scoprire invece reale - anche se in un determinato luogo - quella di Aldo Moro.
Ma il merito era tutto di quell’anziano »molto bravo , che »riusciva a tenere sotto controllo tutta la situazione . Questo giudizio, di innegabile competenza, concorda con quello del generale Ferrara: »Leonardi era un sottufficiale eccellente sotto ogni riguardo: austero, serio, distintissimo, fisicamente prestante, costantemente sicuro di sé; era un ragazzo coraggioso e sempre pronto, tiratore scelto, cintura nera… .
Questi giudizi ci portano a considerare veridiche tutte le testimonianze sulle preoccupazioni del maresciallo Leonardi in ordine alla sicurezza dell’onorevole Moro (e alla propria); e specialmente quella della moglie. Leonardi aveva chiesto altri uomini, al Ministero dell’Interno: forse in più, forse in sostituzione di quelli che già aveva e che non gli pareva fossero »ben preparati per il servizio che dovevano svolgere . Questa richiesta, che la signora Leonardi colloca tra la fine del ‘77 e il principio del ‘78, non ha
lasciato traccia né nei documenti né nella memoria di chi avrebbe dovuto riceverla.
E pure non può non esserci stata: proprio in quel periodo le abitudini e i comportamenti di Moro e della sua scorta venivano - sappiamo - studiati dalle Brigate rosse; e ciò non sfuggiva all’attenzione di Leonardi. La sua preoccupazione cresceva a misura che, per certi segni, vedeva il pericolo avvicinarsi. Si era anche accorto che lo seguivano, ne aveva parlato alla moglie e ad altri aveva precisato che lo seguiva una 128 bianca. Negli ultimi tempi era così preoccupato, teso, dimagrito, si sentiva talmente insicuro da far dire alla moglie che »non era più lo stesso .
E quasi tutti i pomeriggi, quand’era libero andava, dice la moglie, »a conferire col generale Ferrara, sempre per motivi di servizio. Ma il generale Ferrara decisamente nega, avvalorando la sua negazione col preciso ricordo di un solo incontro con Leonardi: il 26 gennaio 1978, e per motivi non di servizio. Con chi dunque parlava Leonardi, a chi faceva i suoi rapporti?
Che li facesse, la signora se ne dice »sicura al cento per cento . Ma il generale Ferrara, pur ammettendo che Leonardi »aveva contatti con tutta la scala gerarchica , afferma: »il maresciallo Leonardi non ha mai mandato rapporti a chicchessia… abbiamo svolto un’inchiesta per controllare presso tutti i comandi gerarchici della capitale se Leonardi avesse fatto un cenno anche verbale: non risultò niente… nessuna richiesta, né di personale né di rinforzi di uomini e di mezzi, era mai stata inoltrata .
Il che, ribadiamo, non è credibile: Leonardi può non aver parlato col generale Ferrara, ma con qualcuno dei »comandi gerarchici della capitale ha parlato di certo. Che ne sia scomparsa ogni traccia e che lo si neghi è un fatto straordinariamente inquietante .
Uguale immagine di preoccupazione, di nervosismo, di paura dà del marito la vedova dell’appuntato Ricci. Non parlava molto del servizio, in casa: ma poiché faceva da autista, diceva dei guai che la 130 che gli avevano affidata dava (»si rompeva continuamente ) e sospirava all’arrivo della 130 blindata.
Alla fine del ‘77, disse alla moglie che finalmente arrivava: il che vuol dire che era stata richiesta e promessa.
Ma non arrivò.
Da ciò, forse, verso il mese di febbraio, un più accentuato nervosismo (»appariva nervoso e si comportava in maniera strana ): che corrispondendo al comportamento del maresciallo Leonardi, vuol dire che condividevano la stessa preoccupazione, scorgevano gli stessi segni.
Ma così come per i rapporti di Leonardi, nessuno sa nulla della richiesta di una macchina blindata; è stato anzi detto alla Commissione che se fosse stata richiesta sarebbe stata data senza difficoltà. Ma com’è che, non richiesta, la si aspettava e, ad un certo punto, non la si aspettò più?»
Reale , dunque, dentro l’Università, la scorta di Moro diventava »pro forma fuori, nella deficienza e insicurezza dei mezzi: il che certamente non sfuggì alla osservazione delle Brigate Rosse. Il dire, oggi, che una macchina blindata e meglio funzionante per Moro; altra coi freni a posto per la scorta che lo seguiva; armi di sicura efficienza e addestramento a prontamente usarle, non sarebbero stati elementi di dissuasione o di non riuscita al piano delle Brigate Rosse, è altrettanto insensato che affermare lo sarebbero stati.
In azioni come quella attuata per il sequestro di Moro, basta che una piccola cosa funzioni o non funzioni per decidere la riuscita o il fallimento. E comunque, quel che non funziona suppone delle responsabilità, che vanno accertate e individuate. Ma nella ricerca delle responsabilità - che sono sempre individuali anche se estensibili e concatenate - la Commissione si è sempre fermata un po’ prima, al limite di scoprirle, di accertarle: per ragioni formali, per difficoltà interne ed esterne.
Il punto d) della legge che istituisce la Commissione d’inchiesta, richiede si faccia luce su »le eventuali disfunzioni od omissioni e le conseguenti responsabilità verificatesi nella direzione e nell’espletamento delle indagini, sia per la ricerca e la liberazione di Aldo Moro, sia successivamente all’assassinio dello stesso, e nel coordinamento di tutti gli organi e apparati che le hanno condotte ; ma il materiale raccolto dalla Commissione a tal proposito è così vasto che conviene estrarne i fatti essenziali o emblematici, conferendo importanza ad alcuni che sembrano non averne e rovesciando il significato e il valore di certi altri cui si è voluto invece dare importanza.
Per esempio: sembrano importanti, e se ne parla come di uno »sforzo imponente da riconoscere e da elogiare, le operazioni condotte dalle forze dell’ordine nel giro dei cinquantacinque giorni che vanno dal sequestro all’assassinio di Moro. Si tratta davvero di uno sforzo imponente, e ne trascriviamo il compendio: 72.460 posti di blocco, di cui 6.296 nella città urbana di Roma; 37.702 perquisizioni domiciliari, di cui 6.933 a Roma; 6.413.713 persone controllate, di cui 167.409 a Roma; 3.383.123 automezzi controllati, di cui 96.572 a Roma; 150 persone arrestate 400 fermate.
In queste operazioni erano impegnati quotidianamente 13.000 uomini, 4.300 nella città di Roma. Sforzo imponente, ma per nulla da elogiare. Prevalentemente condotte »a tappeto (e però, come si vedrà, con inconsulte eccezioni) le operazioni di quei giorni erano o inutili o sbagliate.
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Si ebbe allora l’impressione - e se ne trova ora conferma - che si volesse impressionare l’opinione pubblica con la quantità e la vistosità delle operazioni, noncuranti affatto della qualità.
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E si trattò propriamente di una scelta subito fatta, di un criterio (paradossalmente consistente nella mancanza di un criterio effettuale) subito assunto: ci riferiamo a quell’ordine, diramato alle questure dalla direzione dell’Ucigos di attuare, subito dopo il sequestro di Moro, il »piano zero .
Il »piano zero esisteva soltanto per la provincia di Sassari; ma il dirigente dell’Ucigos, che era stato questore a Sassari, credeva esistesse per tutte le provincie italiane. Ne nacque un convulso telefonarsi di questori tra loro, prima che si arrivasse a capire che il piano non esisteva.
Ma il punto non è quello dell’errore e del comico che ne derivò; il punto è come mai si pensò che l’attuazione di un »piano zero in tutte le provincie italiane potesse avere un qualche effetto. Che senso aveva istituire posti di blocco, controllare mezzi e persone, la mattina del 16 marzo, a Trapani o ad Aosta? Nessuno: se non quello di offrire lo spettacolo dello »sforzo imponente .
Si partì dunque - per volontà o per istinto - verso effetti spettacolari e forse confidando nel calcolo della probabilità (che non funzionò). Ed è comprensibile che per conseguire tali effetti si sia trascurato l’impiego di forze meno imponenti ma più sagaci per dare un corso meno vistoso ma più producente alle indagini: a tal punto che la Commissione si è sentita rispondere dall’allora questore di Roma che mancava di uomini per un lavoro di pedinamento che non ne avrebbe richiesto più di una dozzina; mentre solo a Roma 4.300 agenti spettacolarmente ma vanamente annaspavano.
Ma torneremo su questo punto. Aggiungiamo, intanto, che la nostra opinione sulla vacuità delle operazioni di polizia è condivisa e trova autorevole conferma in questa dichiarazione del dottor Pascalino, allora procuratore generale a Roma: »in quei giorni si fecero operazioni di parata, più che ricerche .
Ed è incontrovertibile che chi volle, chi assentì, chi nulla fece per meglio indirizzare il corso delle cose, va considerato - nel grado di responsabilità che gli competeva - pienamente responsabile.
Curiosamente, a queste operazioni di parata, corrisponde un contraddittorio segno di preparazione e di efficienza, da parte della polizia, che non è stato giustamente valutato: e riguarda la segnalazione dei ricercati in quanto presunti brigatisti; segnalazione che, attraverso la diffusione di fotografie sulla stampa o per televisione, fu fatta appena qualche giorno dopo l’eccidio di via Fani. Si segnalarono ventidue individui: ma subito si scoprì che due di loro erano già in carcere, uno notoriamente residente in Francia, un altro regolarmente registrato nell’albergo in cui alloggiava.
Questi errori - che crediamo trovino giustificazione nella endemica incomunicabilità, nel nostro paese, delle istituzioni tra loro - impedirono all’opinione pubblica di vedere quel che invece c’era di positivo nella segnalazione: e cioè che su diciotto individui la polizia non si era sbagliata.
Giustamente un funzionario di polizia (il dottor Improta) ha rivendicato, davanti alla Commissione, la preparazione e la prontezza dimostrata dalla questura di Roma in questo fatto, che invece l’opinione pubblica valutò al contrario e arrivando quasi al dileggio.
Lo Stato non era impreparato, se dopo tre giorni la questura di Roma era in grado di indicare - precorrendo acquisizioni più certe, provate e confessate - diciotto brigatisti, alcuni dei quali facenti parte del gruppo di via Fani, e se conosceva benissimo gli elementi più attivi dell’area extraparlamentare (e persino nelle loro differenziazioni ideologiche e strategiche, di prassi, di temperamento).
Il concorde coro di funzionari, e uomini politici, sull’impreparazione dello Stato a fronteggiare l’attacco terroristico, è dunque da accettare con beneficio d’inventario. Il fatto che le precedenti »risoluzioni delle Brigate Rosse e gli scritti dei loro teorici e fiancheggiatori non fossero stati convenientemente studiati, dalla polizia e dai servizi di sicurezza, non pone come conseguenza necessaria l’incertezza, la confusione, i disguidi, le omissioni, le vuote operazioni che si sono verificate durante i cinquantacinque giorni del sequestro Moro.
Bastava una normale, ordinaria professionalità investigativa.
Anche senza lo studio dei testi (che peraltro sarebbe stato più utile alla prevenzione che di fronte al fatto compiuto), si aveva il vantaggio di conoscere approssimativamente la natura e il fine di un’associazione per delinquere denominata Brigate Rosse; si era già arrivati a individuare un congruo numero di affiliati; si aveva sufficiente informazione sul tessuto protettivo di cui l’associazione poteva godere.
Se l’operazione di via Fani fosse stata a solo fine di lucro e da un’associazione per delinquere mai manifestatasi, oscura, improvvisata, lo svantaggio sarebbe stato indubbiamente più forte. Ma appunto dei vantaggi non si è saputo fare alcun uso.
Ma andiamo per ordine, attenendoci strettamente ai fatti in cui disfunzioni e omissioni (e »conseguenti responsabilità sempre) più vistosamente appaiono. Nel pomeriggio dello stesso giorno 16 in cui era avvenuto l’eccidio della scorta e il rapimento di Aldo Moro, la Fiat 132 in cui Moro era stato trasportato viene ritrovata in via Licinio Calvo: ciò vuol dire che nella zona stessa in cui era accaduto il fatto, poche ore dopo, goliardicamente i brigatisti potevano avventurarsi indenni a bordo di una segnalatissima automobile.
La beffarda restituzione, segno di un sicuro muoversi dei brigatisti nel quartiere, avrebbe dovuto far nascere il sospetto che vi abitassero, e quindi incrementare ed acuire la vigilanza.
Ma così non fu, e altre due macchine che erano servite per l’operazione venivano trovate, nella stessa via, il 17 e il 19. Rischio che sarebbe da considerare corso abbastanza scioccamente dai brigatisti: ma evidentemente sapevano quel che facevano e che senza danno ne sarebbero usciti.
Si procedeva intanto - 17 marzo - al fermo di polizia giudiziaria per Franco Moreno, su cui sembrava gravassero indizi probanti di una partecipazione all’impresa: provvedimento non del tutto comprensibile anche nel caso ci si fosse trovati a indagare soltanto sull’eccidio, ma del tutto incomprensibile trattandosi anche di un sequestro di persona.
Poiché il Moreno era in quel momento, a giudizio degli investigatori, il solo elemento visibile dell’associazione, il suo fermo non solo veniva a recidere un possibile tramite per raggiungere gli altri e il luogo in cui Aldo Moro era detenuto, ma poteva anche essere fatale per la vita del sequestrato. Ma forse anche in questo caso il criterio della parata prevalse su quello della professionalità, della ponderata investigazione.
Ma gli indizi che sembravano (e, a rileggerne l’elenco, sembrano) gravi, si dissolsero non sappiamo come nell’esame del magistrato; e tre giorni dopo il Moreno veniva rilasciato.
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Intanto il giorno 18 - il terzo dei cinquantacinque - la polizia, nelle sue operazioni di perquisizione a tappeto, arrivava all’appartamento di via Gradoli affittato a un sedicente ingegnere Borghi, più tardi identificato come Mario Moretti. Vi arrivò: ma si fermò davanti alla porta chiusa. E qui bisogna osservare che per quanto si voglia le operazioni fossero di parata, tant’è che si facevano; e in ordine all’istinto e al raziocinio professionale una porta chiusa, una porta cui nessuno rispondeva, doveva apparire tanto più interessante di una porta che al bussare si apriva.
E tanto più che il dottore Infelisi, il magistrato che conduceva l’indagine, aveva ordinato che degli appartamenti chiusi o si sfondassero le porte o si attendesse l’arrivo degli inquilini.
Ordine eseguito in innumerevoli casi, e con gran disagio di cittadini innocenti; ma proprio in quell’unico caso (unico per quanto sappiamo), che poteva sortire a un effetto di incalcolabile portata, non eseguito. Pare che l’assicurazione dei vicini che l’appartamento fosse abitato da persone tranquille, sia bastata al funzionario di polizia per rinunciare a visitarlo: mentre appunto tale assicurazione avrebbe dovuto insospettirlo. E pensabile che le Brigate Rosse non si comportassero tranquillamente e anzi più tranquillamente di altri, abitando piccoli appartamenti di popolosi quartieri?
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Esattamente un mese dopo - il 18 aprile - l’appartamento di via Gradoli di cui la polizia aveva preso atto come abitato da persone tranquille, fortuitamente si rivelava covo delle Brigate Rosse.
Ma il nome Gradoli era già corso nelle indagini, e vanamente, grazie a una seduta spiritica tenutasi nella campagna di Bologna il 2 aprile. E non meravigli che negli atti di una commissione parlamentare d’inchiesta si parli, come in una commedia dialettale, di una seduta spiritica: ma dodici persone, come si suol dire, degne di fede, e per di più appartenenti al ceto dotto della dotta Bologna, sono state sentite una per una dalla Commissione e tutte hanno testimoniato della seduta spiritica da loro tenuta e da cui è venuto fuori il nome Gradoli.
Non una di loro si è dichiarata esperta o credente riguardo a fenomeni del genere; tutte hanno parlato di un’atmosfera »ludica che attorno al »piattino e agli altri elementi necessari all’evocazione, si era stabilita in un pomeriggio uggioso: di gioco, dunque, di passatempo
. E non solo tutti sembravano, nel riferire alla Commissione, credere alla semovenza del »piattino ; ma di fatto ci credettero, se l’indomani ne riferirono alla DIGOS di Bologna e, successivamente, al dottor Cavina, capo dell’ufficio stampa dell’onorevole Zaccagnini. Tra i farfugliamenti del »piattino , un nome era venuto fuori nettamente: Gradoli.
Poiché c’è in provincia di Viterbo un paese di questo nome, la polizia vi si recò in forze, presumibilmente facendovi le solite perquisizioni a tappeto; e senz’alcun risultato, si capisce. Il suggerimento della signora Moro, di cercare a Roma una via Gradoli, non fu preso in considerazione; le si rispose, anzi, che nelle pagine gialle dell’elenco telefonico non esisteva. Il che vuol dire che non ci si era scomodati a cercarla, quella via, nemmeno nelle pagine gialle: poiché c’era.
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All’appartamento di via Gradoli abitato dal sedicente ingegnere Borghi, si arriva finalmente, e per caso, alle 9,47 del 18 aprile: a tamponare una dispersione d’acqua, non a sorprendervi dei brigatisti. E qui è da notare che una specie di fatalità idrica incombe sulle Brigate Rosse, non essendo quello di via Gradoli il solo caso in cui un covo viene scoperto per la disfunzione di un condotto.
E del resto abbiamo parlato di spiriti, potremmo anche parlare di veggenti che nella vicenda hanno avuto un certo ruolo: perché non parlare della fatalità?
Vi arrivarono primi i pompieri, naturalmente; e capirono e segnalarono di trovarsi in un covo.
E a questo punto altro garbuglio, altro mistero: i giornalisti arrivarono prima della polizia; i carabinieri seppero della scoperta soltanto perché riuscirono a intercettare una comunicazione radio della polizia; il giudice inquirente apprese la notizia due ore dopo: non dalla polizia, ma dai carabinieri.
E fu costretto, il giudice Infelisi, a ordinare il sequestro dei documenti trovati nel covo, a far sì che anche i carabinieri ne prendessero visione (ma il questore De Francesco nega di aver posto il veto a che i documenti li vedessero i carabinieri e dice di ignorare il sequestro ordinato dal giudice: contrasto rimasto irrisolto).
Non si provvide, inoltre, al rilevamento delle impronte digitali nel covo; né pare sia stato prontamente e accuratamente inventariato e vagliato il materiale rinvenuto. Il qual materiale, a giudizio del dottor Infelisi non apportava alcuna indicazione relativamente al luogo in cui poteva trovarsi Moro; ma sente il bisogno, il giudice, di mettere questo inquietante inciso: »almeno quello di cui io ho avuto conoscenza : così aprendo come possibile il fatto che possa esserci stato del materiale sottratto alla sua conoscenza.
Insomma: tutto quel che intercorre dal 18 marzo al 18 aprile intorno al covo di via Gradoli attinge all’inverosimile, all’incredibile: spiriti (che in una lettera inviata dall’onorevole Tina Anselmi alla Commissione appaiono molto meglio informati di quanto poi riferito dai partecipanti alla seduta), provvidenziale dispersione d’acqua (ma la Provvidenza aiutata, per distrazione o per volontà, da mano umana), assenza della più elementare professionalità, della più elementare coordinazione, della più elementare intelligenza .
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E ancora abbiamo da fermarci su altri episodi. Sorvoliamo su quello del Lago della Duchessa: in cui, non credendo al comunicato, e perdendo tempo a stabilirne l’inautentica-autenticità o l’autentica-inautenticità, si agì come credendoci, con conseguente distrazione e dispersione di forze; e fissiamoci per un momento su quello della tipografia Triaca.
La prima segnalazione, relativa a persone che gravitavano intorno alla tipografia, e comunque di persone sospettate di avere a che fare con le Brigate Rosse l’UCIGOS la ebbe il 28 marzo. Ma passò giusto un mese prima che fosse in grado di farne rapporto alla DIGOS: il 29 aprile.
Tanta lentezza crediamo dovuta principalmente a quello che il dottor Fariello (dell’UCIGOS) chiama »pedinamento a intervalli”: che sarebbe il pedinare le persone sospette, a che non si accorgano di essere pedinate, quando sì e quando no.
Il che equivale a non pedinarle affatto, poiché soltanto il caso può dare effetto a una siffatta vigilanza.
Come se il recarsi in luoghi segreti, gli incontri clandestini e tutto ciò che s’appartiene all’occulto cospirare e delinquere, fosse regolato da abitudini ed orari. Né la possibilità che la persona si accorga di essere oggetto di vigilanza viene dall’assiduità con cui la si segue, ma dall’accortezza o meno con cui l’operazione viene eseguita.
Passa dunque un mese - e Moro sempre chiuso nella »prigione del popolo - perché la segnalazione, resa più consistente dalla fortuna che finalmente arride al »pedinamento a intervalli , arrivi dall UCIGOS alla DIGOS. Il 1· maggio si ha cognizione della tipografia Triaca, in via Pio Foà. Lo stesso giorno, la Digos chiede di poter effettuare controlli telefonici, otto giorni dopo l’autorizzazione a perquisire.
La perquisizione si sarebbe dovuta effettuare il 9, il giorno stesso in cui le Brigate Rosse consegnano il cadavere di Moro: e perciò viene rimandata al 17. E qui si può anche essere d’accordo col dottor Fariello: che tanto valeva attendere ancora.
Moro ormai assassinato, una vigilanza non ad intervalli, ma continua e sagace intorno alla tipografia avrebbe persino consentito la cattura di Moretti: ma tanto il dirigente dell’UCIGOS che il questore De Francesco ammettono di aver dovuto precipitare l’operazione per »la pressione dell’opinione pubblica .
Dall’operazione al tempo stesso tardiva e precipitosa presso la tipografia Triaca dirama una rivelazione che ancora ci costringe a usare la parola incredibile: nella tipografia venivano rinvenute una stampatrice proveniente dal Raggruppamento Unità Speciali dell’Esercito e una fotocopiatrice proveniente dal Ministero dei Trasporti.
Per quanto riguarda la fotocopiatrice, nessun elemento si è riusciti ad acquisire per capire come dal Ministero dei Trasporti sia finita nella tipografia delle Brigate Rosse: il che può dare al Parlamento e all’opinione pubblica (quella che non preme per operazione di parata e sa essere attenta) sufficiente idea delle difficoltà incontrate dalla Commissione. Per quanto riguarda la stampatrice, si sono avute sì delle risposte: ma non servono a formularne una sicura sull’iter della macchina dal Raggruppamento Unità Speciali (RUS) - che è poi parte del SISMI, e cioè dei servizi segreti con tal sigla rifondati sulla dissoluzione del SID - alla tipografia Triaca.
Che nelle amministrazioni dello Stato sia uso alienare come »ferrivecchi macchine che, irrisoriamente acquistate da privati, miracolosamente tornano a funzionare, può anche - nel disordine delle cose - ammettersi; ma che proprio vadano a finire in mano alle Brigate Rosse, è un po troppo; e merita una severa inchiesta.
Altro fatto da segnalare, sempre in relazione »alle disfunzioni, alle omissioni e alle conseguenti responsabilità verificatesi nella direzione e nell’espletamento delle indagini , è l’avere trascurato quello che sarebbe stato un vero e proprio filo conduttore per arrivare all’individuazione e alla cattura di un certo numero di brigatisti e, con tutta probabilità, al luogo in cui Aldo Moro era detenuto.
A ciò noi arriviamo col senno del poi; ma la polizia avrebbe potuto e dovuto arrivarci col senno di allora. Dice l’allora questore di Roma De Francesco (e la sua convinzione è pienamente condivisa dal dottore Improta, che era stato a capo della divisione politica): »
L’area dell’Autonomia è stata forse privilegiata nelle indagini, anche precedenti al sequestro dell’onorevole Moro, poiché ritenevo e sono tuttora convinto che si trattasse dell’area più pericolosa della capitale… Sul problema dell’Autonomia fin dal primo giorno, cioè dal 16 marzo, ho insistito perché quella - a mio avviso - era l’area nella quale alcune unità delle Brigate Rosse avevano potuto trovare un supporto essenziale.
Ma non si riesce a vedere come la privilegiasse, come insistesse, se non devolveva sorveglianza alcuna ai capi del movimento, che pure conosceva benissimo. Noi ora sappiamo quel che allora il questore era in grado di sospettare, conseguentemente alle sue convinzioni, e di accertare: che i rapporti tra almeno due brigatisti e i »grossi esponenti dell’Autonomia romana c’erano e si mantennero durante i cinquantacinque giorni e oltre. E si concretizzavano in incontri.
Un’accorta sorveglianza - e soprattutto senza intervalli - di Piperno e Pace avrebbe consentito l’individuazione di Morucci e Faranda, i due brigatisti che avevano preso parte all’azione di via Fani, che con ogni probabilità continuavano a frequentare il luogo in cui Moro era detenuto e con tutta certezza ad avere incontri con coloro che lo detenevano.
Ma a chi, in Commissione, si meravigliava non avere la polizia presa una così elementare misura, come quella di far sorvegliare i capi dell’Autonomia, il questore De Francesco rispondeva che mancava di uomini. E ne teneva impegnati più di 4000 in operazione di parata!
A questo breve catalogo di omissioni e disfunzioni va aggiunto come esemplare l’episodio riferito dall’allora comandante la Guardia di Finanza: il giorno 16 poco dopo l’azione di via Fani, »un individuo, fermo in via Sorella Marchisio, ha notato due persone: una più magra, di statura 1,70 - 1,75, vestita con una uniforme di pilota civile, l’altra di corporatura robusta, tarchiata, più bassa, con barba folta. La prima sorreggeva la seconda per un braccio, stringendolo fortemente aldisopra del gomito. Provenivano da via Pineta Sacchetti, angolo via Montiglio; hanno percorso un tratto di via Sorella Marchisio, raggiunto via Marconi, svoltato verso via Cogoleto… In quella zona c’è una clinica .
Riversata subito l’informazione alla DIGOS, l’ordine di perquisire la clinica arrivò alla Guardia di Finanza »qualche settimana dopo . E tutto lasciava sospettare che quel che l’anonimo informatore aveva visto fosse da mettere in connessione con quel che pochi minuti prima era accaduto in via Fani.
Ci si chiede da che tanta estravaganza, tanta lentezza, tanto spreco, tanti errori professionali possano essere derivati. Si dice: l’impreparazione di fronte al fenomeno terroristico e, particolarmente, di fronte a un’azione così eclatante nei mezzi, nell’oggetto, negli scopi, come quella di via Fani.
Ma non è una giustificazione convincente: abbiamo visto come si fosse in grado di segnalare subito un certo numero di brigatisti, alcuni dei quali siamo ora certi che hanno partecipato all’azione, e come si avessero precise convinzioni riguardo alle aree di complicità o di più o meno diretto sostegno.
E si può anche ammettere una impreparazione più generale e remota di fronte a fatti delinquenziali che scaturiscono da associazioni protette dalla paura e dal silenzio dei cittadini, da un lato; dagli adentellati reali o supposti col potere, dall’altro. Ma non è che una spiegazione parziale. Bisogna, per il caso Moro, metterne avanti altre: che sono insieme politiche, psicologiche, psicanalitiche.
Certamente quel che si fece di sbagliato - e che impedì si facessero più producenti e giuste azioni - fu in parte dettato dal condizionamento dei »media (non diremmo dalla pressione dell’opinione pubblica: l’opinione pubblica, quando davvero c’è e si fa sentire, è meno informe, meno disponibile ad appagarsi di qualsiasi cosa: capace, insomma, di critica e di scelta): operazioni di parata, come (direbbe Machiavelli) da un »luogo alto le giudica il dottor Pascalino (ma fece qualcosa, accorgendosene, per farle finire?). Queste operazioni, che per apparire, per rendersi a spettacolo, dovevano essere ben consistenti nell’impiego di uomini e di mezzi, bisogna ribadire che impedirono se né facessero altre di necessarie, di essenziali, per una ponderata, continua e rapida investigazione.
E senza dire (cioè dicendolo ancora) che nell’unico caso in cui fortuitamente le operazioni di parata avrebbero potuto raggiungere un effetto, non funzionarono: davanti alla porta chiusa dell’appartamento di via Gradoli, il 18 marzo.
Ma crediamo che l’impedimento più forte, la remora più vera, la turbativa più insidiosa sia venuta dalla decisione di non riconoscere nel Moro prigioniero delle Brigate Rosse il Moro di grande accortezza politica, riflessivo, di ponderati giudizi e scelte, che si riconosceva (riconoscimento ormai quasi unanime: appunto perché come postumo, come da necrologico) era stato fino alle 8,55 del 16 marzo.
Da quel momento Moro non era più se stesso, era diventato un altro e se ne indicava la certificazione nelle lettere in cui chiedeva di essere riscattato, e soprattutto per il fatto che chiedeva di essere riscattato.
Abbiamo usato la parola “decisione”: formalmente imprecisa ma sostanzialmente esatta. Spontanea o di volontà, improvvisa o gradualmente insorgente, di pochi o di molti, è stata certamente una decisione - e per il fatto stesso che se ne poteva prendere altra. E ci rendiamo conto della impossibilità di provare documentalmente che una tale decisione - ufficialmente mai dichiarata - abbia potuto avere degli effetti a dir poco diluenti sui tempi e i modi dell’indagine.
Possiamo anche ammettere che gli effetti non furono a livello di coscienza e di consapevolezza - e insomma di malafede; ma non si può non riconoscere - e basta rivedere la stampa di quei giorni - che si era stabilita un’atmosfera, una temperie, uno stato d’animo per cui in ciascuno ed in tutti (con delle sparute eccezioni) si insinuava l’occulta persuasione che il Moro “di prima” fosse come morto e che trovare vivo il Moro “altro” quasi equivalesse a trovarlo cadavere nel portabagagli di una Renault.
Si parlò dapprima, a giustificare il contenuto delle sue lettere, di coercizioni, di maltrattamenti, di droghe; ma quando Moro cominciò insistentemente a rivendicare la propria lucidità e libertà di spirito (»tanta lucidità, almeno, quanta può averne chi è da quindici giorni in una situazione eccezionale, che non può avere nessuno che lo consoli, che sa che cosa lo aspetti ), si passò ad offrire compassionevolmente l’immagine di un Moro altro, di un Moro due, di un Moro non più se stesso: tanto da credersi lucido e libero mentre non lo era affatto.
Il Moro due in effetti chiedeva fossero posti in essere, per salvare la propria vita, quegli stessi meccanismi che il Moro uno aveva, nelle sue responsabilità politiche e di governo, usati o approvati in deroga alle leggi dello Stato ma al fine di garantire tranquillità al Paese: »non una, ma più volte, furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti ed anche condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero poi state poste in essere, se fosse continuata la detenzione… .
Simili meccanismi, di cui l’opinione pubblica non era al corrente, erano stati adoperati - evidentemente - nel silenzio del governo, dei partiti al governo, del Parlamento; e si poteva rispondere a Moro che tutt’altro che in silenzio, e anzi con sicuro clamore e perdita di prestigio e credibilità, vi si poteva ricorrere nel suo caso.
Si preferì invece sminuire, invalidare e smentire i suoi argomenti da un punto di vista clinico invece che politico, relegandoli alla sua delirante condizione di prigioniero. Da ciò la nessuna importanza conferita dagli investigatori alle sue lettere. L’onorevole Cossiga, allora Ministro dell’Interno, ha escluso nel modo più netto che sia stata tentata una decifrazione dei messaggi di Moro: »Una decifrazione non fu fatta durante il sequestro. Procedevamo con metodi artigianali. Furono invece eseguite analisi linguistiche sui messaggi delle Brigate Rosse… (in che consistessero i metodi artigianali e quali risultati dessero le analisi linguistiche, lo si è intravisto anche allora).
Ma lo stesso Cossiga, dopo aver detto che sulle lettere di Moro si possono esprimere »giudizi contrastanti ed anche dolorosi finisce col riconoscere che in esse »Moro, nella sua lucidità, nella sua intelligenza, con tutti i suoi argomenti avesse capito che era questo che in realtà volevano coloro che colloquiavano con lui: essere riconosciuti come parte che può essere fuori dello Stato, ma che è nella società e con la quale è possibile un rapporto dialettico .
Appunto: e Moro, senza prescindere dalle sue convinzioni più radicate (che Cossiga ha ben riassunto: e si vedano, di Moro, le lezioni sullo Stato), non poteva che assecondarne il gioco, a guadagnar tempo e a darne alla polizia a che lo trovasse. Non si vede perché Moro, uomo di grande intelligenza e perspicacia, avrebbe dovuto comportarsi come un cretino: se gli era consentito di guadagnar tempo e di comunicare con l’esterno, di queste due favorevoli circostanze non poteva non approfittare. E anche se la speranza che manifestava era soltanto quella dello scambio, è da credere - in tutta ovvietà - che ne nutrisse altra: che le forze dell’ordine arrivassero al luogo in cui era segregato.
Conseguentemente, deve avere tentato di dare qualche indicazione sul posto in cui si trovava: nascondendola si capisce, cifrandola. Chiunque l’avrebbe tentato: a Moro invece, di fatto, questa capacità e questo intento sono stati pregiudizialmente negati. Ed era invece, per l’attenzione che sapeva dedicare alle parole, per l’uso anche tortuoso che sapeva farne, la persona più adatta a nascondere (per dirla pirandellianamente) tra le parole le cose.
La cifra dei suoi messaggi poteva, per esempio, essere cercata nell’uso impreciso di certe parole, nella disattenzione appariscente. Quando Cossiga e Zaccagnini, per dire delle condizioni in cui Moro si trovava, citano la frase di una sua lettera (quella, appunto, diretta a Cossiga ministro dell’Interno): »mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato , è curioso non si accorgano che proprio questa contiene una incongruenza e che non definisce precisamente il tipo di dominio sotto cui Moro si trovava.
Che vuol dire, infatti, »incontrollato”? Chi poteva o doveva controllare le Brigate Rosse? E perciò appare attendibilissima (e specialmente dopo le rivelazioni degli ex brigatisti) la decifrazione che ci è stata suggerita: »mi trovo in un condominio molto abitato e non ancora controllato dalla polizia .
E probabilmente anche le parole »sotto e »sottoposte erano da intendere come indicazione topografica. Ma nonché decifrare non si è voluto nemmeno essere attenti all’evidenza: come in quel »qui - sfuggito forse all’autocensura che Moro non poteva non imporsi e certamente alla censura delle Brigate Rosse - che inequivocabilmente è da leggere »a Roma (»si dovrebbe essere in condizioni di chiamare qui l’ambasciatore Cottafavi ).
E non era indicazione da poco, considerando con quanto spreco lo si cercava fuori Roma. Non si è fatto alcun credito, insomma, all’intelligenza di Moro: da valutarla quanto meno superiore a quella dei suoi carcerieri. Si poteva, senza venir meno a posizioni di “fermezza”, continuare a dialogare con lui: sia pubblicamente - nell’opporre ragioni alle sue: che erano ragioni e non farneticazioni - sia segretamente cercando nelle sue lettere quei messaggi che era probabile e possibile nascondessero. Gli esperti sono stati invece adibiti a studiare il linguaggio delle Brigate Rosse: e non c’era bisogno di esperti per scoprirlo poveramente pietrificato, fatto di slogans, di »idées reçues dalla palingenetica rivoluzionaria, di detriti di manuali sociologici e guerriglieri.
E che l’italiano maneggiato dalle Brigate Rosse sia di traduzione da altra o da altre lingue è questione da lasciar cadere. L’italiano delle Brigate Rosse è semplicemente, lapalissianamente, l’italiano delle Brigate Rosse. Ipotesi di ben diverse »traduzioni si possono formulare. Ma che allo stato attuale, e forse anche nel più vicino futuro, restano e resteranno come ipotesi. E si può anche muovere, nel formularle, da questa frase di una delle ultime lettere di Moro: »Con queste tesi si avalla il peggior rigore comunista ed a servizio dell’unicità del comunismo ; frase cui finora non si è data l’importanza, l’attenzione e l’analisi che merita.
Le tesi cui Moro si riferisce sono quelle del non trattare, della fermezza: e si capisce che le attribuisca al peggior rigore comunista corso a sostegno della Democrazia Cristiana, partito che lui ben conosce come non rigoroso. Ma »l’unicità del comunismo che cosa può voler dire? Non è possibile abbia voluto adombrare in questa espressione il sospetto, se non la certezza, di un qualche legame delle Brigate Rosse col comunismo internazionale o con qualche paese di regime comunista?
La ricerca di un simile legame (e non necessariamente, s’intende, col comunismo e coi paesi comunisti, ma con quei paesi, regimi e governi che potevano e possono avere un qualche interesse alla »destabilizzazione italiana) è tra i compiti demandati dal Parlamento alla Commissione, precisamente ai punti g) e h) della legge. La risposta, per quanto riguarda i collegamenti con gruppi terroristici stranieri, si può dare senza esitazione: ci sono stati, anche se non se ne conosce esattamente la frequenza, la continuità e la rilevanza.
Ma sulle trame, i complotti, i collegamenti internazionali al di là e al disopra degli avvicinamenti, comunicazioni e scambi dei gruppi terroristici tra loro, una risposta sicura non si può dare. E si capisce: le risposte sicure, in questo genere di cose, vengono alla distanza di anni, dagli archivi, sotto gli occhi dello storico. Possiamo dire che ci sono nomi di paesi stranieri che tornano con una certa frequenza, con una certa insistenza. E con più frequenza e insistenza quelli di paesi del Medio Oriente, della Cecoslovacchia, della Libia e - recentemente - della Bulgaria.
Ma sono, per dirla col linguaggio degli uomini di governo cui la Commissione ne ha domandato, »voci . Si sarebbe portati a credere che non si basasse su »voci l’onorevole Andreotti, allora presidente del Consiglio, quando al Senato, nella seduta del 18 maggio 1973, parlò di un paese in cui dei giovani italiani erano stati addestrati a un determinato tipo di guerriglia e quando, alle proteste del senatore Bufalini che credeva volesse alludere all’Unione Sovietica, precisò che si trattava della Cecoslovacchia.
Si basava invece su »voci , se il 23 maggio 1980 dava alla Commissione una versione estremamente riduttiva di quel che sette anni prima, come presidente del Consiglio, aveva perentoriamente affermato: »Alcuni terroristi, infatti, che erano accusati di atti di terrorismo, risultò che fossero stati anche in Cecoslovacchia. In Cecoslovacchia, però, ci vanno decine di migliaia di persone, né risultò assolutamente che vi potesse essere un rapporto diverso di quello che può essere di ordine turistico.” Evidentemente, l’onorevole Andreotti non aveva sentito la »voce che, tra le decine di migliaia d’italiani che vanno in Cecoslovacchia »en touriste , i servizi di sicurezza ne avevano selezionato 600 circa che potevano essere considerati meno turisti degli altri. E questa »voce viene da un rapporto del CESIS (Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e di Sicurezza), certamente redatto dopo il settembre 1979, che raccogliendo altre »voci del SISMI, del SISDE e del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, affermava: »almeno 2000 italiani (dai rilevamenti effettuati da varie fonti) dal ‘48 ad oggi hanno frequentato corsi riservati ad attivisti estremisti, in Cecoslovacchia ed in altri Paesi. Di questi sono noti al SISMI circa 600 nominativi .
E riguardo alla Cecoslovacchia precisava: »In particolare a Milano e a Roma risiedono elementi italiani del servizio segreto cecoslovacco di contatto con i vari gruppi terroristici. Essi provvedono alla raccolta di un’accurata documentazione sui candidati, tutti volontari, che trasmettono all’Ambasciata cecoslovacca, che la inoltra successivamente a Praga.
A questo punto gli elementi ritenuti di maggior spicco per fanatismo, aggressività e attitudine militare vengono avviati a veri e propri corsi paramilitari, in Cecoslovacchia o in altro paese, forniti di passaporti falsificati nelle nazioni ospiti. Una volta superato il ciclo addestrativo, i terroristi fanno ritorno in Italia con un bagaglio notevole di nozioni teoriche e pratiche sulla guerriglia, che possono a loro volta riversare sugli altri elementi delle organizzazioni di appartenenza. E se questo passo del rapporto, così particolareggiato, è da considerare una »voce”, bisogna dire che CESIS, SISMI, SISDE e Arma dei Carabinieri non fanno che raccogliere »voci ed essere non altro che »voci”. Il che, per il contribuente italiano, è constatazione tutt’altro che rassicurante.
O è da concludere come conclude il dottor Lugaresi, direttore del SISMI: »Su questi collegamenti internazionali vorrei dire questo: c’e un forte commercio di armi che non e facile colpire perché è come il commercio della droga: non investe tanto la matrice politica quanto la convenienza commerciale. C’è uno scambio di uomini fra coloro che hanno obiettivi di destabilizzazione comune. Potrà esserci un indirizzo di carattere politico-strategico. Ma queste deduzioni dalle informazioni singole che noi giornalmente forniamo non possono essere tratte che in sede politica… .
Appunto. E da notare a questo proposito che il generale Dalla Chiesa, che nella sua prima deposizione inclinava a considerare anche lui »voci quel che si diceva riguardo ai collegamenti delle Brigate Rosse con servizi segreti stranieri e a ritenere Moretti la personalità di vertice delle Brigate, a distanza di quasi due anni, nella seconda deposizione, a una domanda sulla persistenza delle sue convinzioni di allora, così rispondeva: »In questi giorni mi è sorto un dubbio… Mi chiedo oggi (perché sono ormai fuori dalla mischia da un po’ di tempo e faccio in qualche modo l’osservatore che ha alle spalle un po’ di esperienza) dove sono le borse, dov’e la prima copia (del cosiddetto memoriale Moro).
Nulla che potesse condurre alle borse, non c’è stato brigatista pentito o dissociato che abbia nominato una cosa di questo tipo, né lamentato la sparizione di qualcosa… Io penso che ci sia qualcuno che possa aver recepito tutto questo… Dobbiamo pensare anche ai viaggi all’estero che faceva questa gente. Moretti andava e veniva.
E’ rallegrante che il dubbio gli sia venuto; un po’ meno che gli sia venuto al momento che si è trovato »fuori dalla mischia .
Un ultimo particolare si vuole mettere in evidenza, a dimostrare come la volontà di trovare Moro veniva inconsciamente deteriorandosi e svanendo. Subito dopo il rapimento, venne istituito un Comitato Interministeriale per la Sicurezza che si riunì nei giorni 17, 19, 29, 31 del mese di marzo; una sola volta in aprile, il 24; e poi nei giorni 3 e 5 maggio. Ma quel che e peggio e che il Gruppo politico - tecnico - operativo, presieduto dal ministro dell’Interno e composto da personalità del governo, dai comandanti delle forze di polizia e dei servizi di informazione e sicurezza, dal questore di Roma e da altre autorità di pubblica Sicurezza, si riunì quotidianamente fino al 31 marzo, ma successivamente tre volte per settimana.
Solo che di queste riunioni dopo il 31 non esistono verbali e »non risultano agli atti nemmeno appunti . Ed era il gruppo - costituito con giusto intento - che doveva vagliare le informazioni, decidere le azioni, avviarle e coordinarle.
Roma, 22 giugno 1982
P.S. Consegnata nel giugno 1982 (poiché entro quel mese si era dapprima stabilito che si dovessero consegnare le relazioni) questa mia relazione richiede, oggi, sulle bozze, due rettifiche dovute a tardive acquisizioni da parte della Commissione.
1) L’iter delle due macchine, rinvenute nella tipografia Triaca è stato finalmente ricostruito, per come si legge nella relazione di maggioranza. Va dunque ascritto alla fatalità che macchine
alienate come ferrivecchi da enti di Stato siano finite, funzionanti, alle Brigate Rosse. 2) Il rapporto che era stato attribuito al CESIS si ritiene ora prodotto dal SISMI. Leggendolo, permane però l’impressione che provenga da un organismo di cui il SISMI era parte.
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Re: Top News
La politica è marcia, ..le istituzioni pure, come se ne esce da questo pasticcio?
Trattativa, l'anonimo è un carabiniere:
"Le carte di Riina nascoste in caserma"
L'inchiesta sui pm spiati e sui documenti del boss fatti sparire. La procura chiede i nomi di chi partecipò alla cattura. Le altre verità del protocollo fantasma al vaglio della magistratura. Ingroia: "Sì, avevo la sensazione di essere controllato"
di SALVO PALAZZOLO
PALERMO - Da alcune settimane, i magistrati che indagano sulla trattativa fra mafia e Stato hanno riaperto in gran segreto uno dei capitoli più travagliati dell'antimafia, la cattura del capo dei capi Totò Riina.
Vent'anni dopo, si fa avanti tutta un'altra storia rispetto alla versione ufficiale sempre ribadita dai vertici del Ros: "Il covo del latitante fu subito perquisito e l'archivio del capomafia venne inizialmente nascosto in una caserma dei carabinieri", questo scrive l'anonimo ben informato che a fine settembre ha messo in allerta il sostituto procuratore Nino Di Matteo e i suoi colleghi del pool.
In dodici pagine, anticipate ieri da Repubblica, c'è una verità che presto potrebbe riscrivere la storia della trattativa fra le stragi del '92-'93: poche ore dopo l'arresto di Riina, scattato in una delle piazze più note di Palermo, i carabinieri del Ros avrebbero perquisito la villa covo del boss senza avvertire i magistrati, portando via le carte del capo di Cosa nostra.
"Si tratta di carte scabrose", spiega adesso l'anonimo autore, che dice di essere stato testimone diretto di quei giorni del gennaio '93: indica una caserma del centro dove sarebbe stato nascosto l'archivio di Riina.
E poi traccia addirittura il percorso preciso per arrivare a una stanza in particolare. "Ma lì le carte sono rimaste poco, poi sono state portate via", aggiunge. Dove, è un mistero.
Una cosa, però, è certa: scorrendo quelle 12 pagine - suddivise in 24 punti - sembra emergere che il misterioso autore dell'anonimo è stato lui stesso un carabiniere, probabilmente un sottufficiale dei reparti territoriali o del Ros, perché indica con precisione nomi, cognomi e addirittura soprannomi dei militari e degli ufficiali che avrebbero partecipato a vario titolo alle indagini per l'arresto di Totò Riina.
E adesso i magistrati di Palermo hanno chiesto ai funzionari della Dia di identificare tutti i carabinieri citati. Sono una trentina. Presto, potrebbero essere ascoltati uno dopo l'altro dai magistrati.
Al momento, le 12 pagine sono conservate nel cosiddetto "registro 46" della procura di Palermo, quello che custodisce gli anonimi.
Il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, che coordina l'inchiesta sulla trattativa, si limita a dire: "Abbiamo delegato accertamenti alla polizia giudiziaria".
Il procuratore Francesco Messineo aggiunge: "Su alcuni fatti, l'anonimo fornisce dettagli inediti. Stiamo cercando i riscontri". I magistrati non escludono neanche l'ipotesi che dietro l'anonimo ci possano essere più persone, magari ex appartenenti a uno stesso reparto.
Dell'anonimo si occupano pure i magistrati della procura di Caltanissetta, che hanno aperto ufficialmente un'inchiesta dopo avere ricevuto una "comunicazione" dai colleghi palermitani.
E non solo per il riferimento all'agenda rossa del giudice Borsellino ("È stata portata via da un carabiniere"), ma anche per le parole inquietanti sui magistrati di Palermo ("Siete spiati da qualcuno che canalizza verso Roma le informazioni che carpiscono sul vostro conto").
Dal Guatemala, l'ex procuratore Antonio Ingroia fa sapere: "In effetti, negli ultimi tempi ho avuto la sensazione netta di essere controllato, proprio per le mie indagini".
Nella lettera non si parla solo di magistrati spiati, ma anche di "un magistrato della procura" di cui i pm della trattativa "non dovrebbero fidarsi".
È un altro mistero intorno a questa lettera senza firma.
L'anonimo autore poi lancia la sua ultima certezza: "La trattativa con la mafia c'è stata ed è tuttora in corso".
Ecco perché tanta attenzione sui magistrati.
Lui, l'uomo del mistero, suggerisce che nel torbido dialogo fra Stato e mafia potrebbero essere coinvolti anche altri politici della prima repubblica, oltre Mancino, Dell'Utri e Mannino. Sono otto i nomi adesso al vaglio della procura.
(04 gennaio 2013) © RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.repubblica.it/cronaca/2013/0 ... ef=HREC1-8
Trattativa, l'anonimo è un carabiniere:
"Le carte di Riina nascoste in caserma"
L'inchiesta sui pm spiati e sui documenti del boss fatti sparire. La procura chiede i nomi di chi partecipò alla cattura. Le altre verità del protocollo fantasma al vaglio della magistratura. Ingroia: "Sì, avevo la sensazione di essere controllato"
di SALVO PALAZZOLO
PALERMO - Da alcune settimane, i magistrati che indagano sulla trattativa fra mafia e Stato hanno riaperto in gran segreto uno dei capitoli più travagliati dell'antimafia, la cattura del capo dei capi Totò Riina.
Vent'anni dopo, si fa avanti tutta un'altra storia rispetto alla versione ufficiale sempre ribadita dai vertici del Ros: "Il covo del latitante fu subito perquisito e l'archivio del capomafia venne inizialmente nascosto in una caserma dei carabinieri", questo scrive l'anonimo ben informato che a fine settembre ha messo in allerta il sostituto procuratore Nino Di Matteo e i suoi colleghi del pool.
In dodici pagine, anticipate ieri da Repubblica, c'è una verità che presto potrebbe riscrivere la storia della trattativa fra le stragi del '92-'93: poche ore dopo l'arresto di Riina, scattato in una delle piazze più note di Palermo, i carabinieri del Ros avrebbero perquisito la villa covo del boss senza avvertire i magistrati, portando via le carte del capo di Cosa nostra.
"Si tratta di carte scabrose", spiega adesso l'anonimo autore, che dice di essere stato testimone diretto di quei giorni del gennaio '93: indica una caserma del centro dove sarebbe stato nascosto l'archivio di Riina.
E poi traccia addirittura il percorso preciso per arrivare a una stanza in particolare. "Ma lì le carte sono rimaste poco, poi sono state portate via", aggiunge. Dove, è un mistero.
Una cosa, però, è certa: scorrendo quelle 12 pagine - suddivise in 24 punti - sembra emergere che il misterioso autore dell'anonimo è stato lui stesso un carabiniere, probabilmente un sottufficiale dei reparti territoriali o del Ros, perché indica con precisione nomi, cognomi e addirittura soprannomi dei militari e degli ufficiali che avrebbero partecipato a vario titolo alle indagini per l'arresto di Totò Riina.
E adesso i magistrati di Palermo hanno chiesto ai funzionari della Dia di identificare tutti i carabinieri citati. Sono una trentina. Presto, potrebbero essere ascoltati uno dopo l'altro dai magistrati.
Al momento, le 12 pagine sono conservate nel cosiddetto "registro 46" della procura di Palermo, quello che custodisce gli anonimi.
Il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, che coordina l'inchiesta sulla trattativa, si limita a dire: "Abbiamo delegato accertamenti alla polizia giudiziaria".
Il procuratore Francesco Messineo aggiunge: "Su alcuni fatti, l'anonimo fornisce dettagli inediti. Stiamo cercando i riscontri". I magistrati non escludono neanche l'ipotesi che dietro l'anonimo ci possano essere più persone, magari ex appartenenti a uno stesso reparto.
Dell'anonimo si occupano pure i magistrati della procura di Caltanissetta, che hanno aperto ufficialmente un'inchiesta dopo avere ricevuto una "comunicazione" dai colleghi palermitani.
E non solo per il riferimento all'agenda rossa del giudice Borsellino ("È stata portata via da un carabiniere"), ma anche per le parole inquietanti sui magistrati di Palermo ("Siete spiati da qualcuno che canalizza verso Roma le informazioni che carpiscono sul vostro conto").
Dal Guatemala, l'ex procuratore Antonio Ingroia fa sapere: "In effetti, negli ultimi tempi ho avuto la sensazione netta di essere controllato, proprio per le mie indagini".
Nella lettera non si parla solo di magistrati spiati, ma anche di "un magistrato della procura" di cui i pm della trattativa "non dovrebbero fidarsi".
È un altro mistero intorno a questa lettera senza firma.
L'anonimo autore poi lancia la sua ultima certezza: "La trattativa con la mafia c'è stata ed è tuttora in corso".
Ecco perché tanta attenzione sui magistrati.
Lui, l'uomo del mistero, suggerisce che nel torbido dialogo fra Stato e mafia potrebbero essere coinvolti anche altri politici della prima repubblica, oltre Mancino, Dell'Utri e Mannino. Sono otto i nomi adesso al vaglio della procura.
(04 gennaio 2013) © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Re: Top News
Comunque a mio avviso ha fatto bene Ingrioa a darsi alla politica .Non vale la pena morire per questi politici...........
Ciao
Paolo11
Ciao
Paolo11
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Re: Top News
paolo11 ha scritto:Comunque a mio avviso ha fatto bene Ingrioa a darsi alla politica .Non vale la pena morire per questi politici...........
Ciao
Paolo11
Non solo per questi politici, ma anche per questi italiani.
Io sono più che convinto che se chi ci ha rimesso la pelle tra il 1943 e il 1945, potesse rivedersi la storia d’Italia e soprattutto quello che sta accadendo nella fase finale dei due cicli storici, non commetterebbe più l’errore di sacrificare la vita per questo infame bordello.
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