La Questione Monti
Re: La Questione Monti
ecco ....
.... va poi considerata la scelta montiana di escludere dalle liste ‘Con Monti per l’Italia’ della Camera figure parlamentari, riservando i posti solo ad esponenti della società civile. I transufughi del Pd e del Pdl (da Ichino a Pisanu e Mauro) dovrebbero a questo punto trovare ospitalità nel listone del Senato. Rispetto al quale, però, è già in corso una dura trattativa (domani è in agenda un nuovo round, al quale potrebbe partecipare anche Monti) per definire le ‘quote’ da riservare alle diverse aree che lo compongono. L’Udc spinge per ottenere il 40%-45% delle candidature. Fini mira al 10%-15%. Il resto spetterebbe all’area civica di Monti, agli uomini del Professore e agli ‘ospiti’ provenienti da Pd e Pdl in quota premier. Un primo segnale che dimostra la portata della sfida è la scelta di via dei Due Macelli di puntare molto sul nome di ‘Casini’ nel simbolo Udc della Camera. “Con la massima evidenza”, precisano. Competition is competition.
.... va poi considerata la scelta montiana di escludere dalle liste ‘Con Monti per l’Italia’ della Camera figure parlamentari, riservando i posti solo ad esponenti della società civile. I transufughi del Pd e del Pdl (da Ichino a Pisanu e Mauro) dovrebbero a questo punto trovare ospitalità nel listone del Senato. Rispetto al quale, però, è già in corso una dura trattativa (domani è in agenda un nuovo round, al quale potrebbe partecipare anche Monti) per definire le ‘quote’ da riservare alle diverse aree che lo compongono. L’Udc spinge per ottenere il 40%-45% delle candidature. Fini mira al 10%-15%. Il resto spetterebbe all’area civica di Monti, agli uomini del Professore e agli ‘ospiti’ provenienti da Pd e Pdl in quota premier. Un primo segnale che dimostra la portata della sfida è la scelta di via dei Due Macelli di puntare molto sul nome di ‘Casini’ nel simbolo Udc della Camera. “Con la massima evidenza”, precisano. Competition is competition.
Re: La Questione Monti
Entro domani le liste.
La squadra di Bondi
valuta i curricula
UGO MAGRI
ROMA
Tra oggi e domani, Monti passerà al vaglio la bellezza di 2205 curriculum vitae: tanti saranno complessivamente i posti in palio nelle quattro liste (una al Senato, tre alla Camera) che danno corpo al suo «rassemblement». Da ciascun candidato, il premier pretende una ricca scheda biografica, cosa ha fatto e soprattutto cosa non ha fatto.
Ma siccome non si fida fino in fondo delle auto-certificazioni, e le bugie hanno le gambe corte, il super-ispettore Bondi ha messo in piedi una squadretta per controllare l’esistenza di eventuali magagne (conflitti d’interesse e pendenze giudiziarie in primo luogo). Di sicuro verrà compulsato il web, da dove molte piste si possono ricavare; in qualche caso estremo verrà messo mano al casellario giudiziario. Cosicché in attesa del verdetto, gli aspiranti onorevoli e senatori trascorreranno la classica notte prima degli esami: «notte di lacrime e preghiere» canta Antonello Venditti, sicuramente di nevrosi e speranza poiché nel verdetto il Professore sarà implacabile, garantiscono dalle sue parti, dunque non farà sconti a nessuno («...notte di polizia/ certo qualcuno te lo sei portato via...»).
In realtà, Monti non userà sempre lo stesso metro. Sarà «severissimo» nel varo della lista unica per Palazzo Madama e di quella civica per Montecitorio, che recano entrambe il suo nome in grande nel simbolo. Un filino meno intransigente quando si tratterà di giudicare le «rose» degli alleati Fli e Udc. Perché il premier sa di non poter sfidare oltre un certo limite l’amor proprio di Fini e di Casini: in teoria il loro timbro dovrebbe essere una garanzia, e invece il doppio vaglio già lascia intendere che Monti non lo reputa sufficiente. «Chi si crede di essere quel signore per giudicare il nostro tasso di moralità?», è il lamento misto a tremarella tra i parlamentari Udc. Più che un braccio di ferro, in realtà, si annuncia un complicato gioco delle parti; per effetto del quale verranno scacciati dal Paradiso tutti coloro che Pier Ferdinando (e Gianfranco) non avranno difeso fino in fondo.
Loro stessi si vanno riposizionando in vista delle grandi manovre post-elettorali. In particolare Casini sembra in predicato di lasciare la Camera e di transitare al Senato («Può darsi», conferma agli amici il diretto interessato). Automaticamente diventerebbe il candidato più autorevole a presiedere quel ramo del Parlamento. Inoltre, trasferendosi nella bomboniera di Palazzo Madama, Casini avrebbe maggiori margini di manovra nella composizione della lista alla Camera, dove Cerbero-Monti ammette due sole eccezioni alla regola dell’anzianità (tanti saluti a chi in Parlamento ha trascorso più di 15 anni). Oltre a Buttiglione, che è presidente Udc, apprezzatissimo dal Papa e dalla Merkel in quanto filosofo «deutsch-sprachigen» (che parla tedesco), dal possibile trasloco di Casini potrebbe beneficiare un ulteriore esponente di lungo corso: a sua scelta Tassone o Volontè, Delfino Teresio o Sanza.
Nuove geografie si delineano al Centro. L’addio dei brontosauri e, forse, di personaggi un po’ chiacchierati farà spazio a una generazione post-dc dove spiccano giovani leoni come Rao. Alla Camera resterà Fini, accanto a lui quale seconda «eccezione» Bocchino (rappresentante legale della lista Fli, praticamente invulnerabile). Cambieranno ramo del Parlamento due esponenti di Fli che il Prof molto apprezza, Della Vedova e la Bongiorno: correranno per Monti in Senato. Un posto è garantito per l’ex-Pdl Mauro, più incerto il destino di un altro grande ex, Pisanu. Ma prima, c’è da ripartire la «torta»: quanti posti alla società civile? Quanti a Udc e Fli? Ieri sera, vertice tra Monti, Casini e Fini. I centristi vorrebbero 15 poltrone sicure nel listone al Senato, sul presupposto che in totale ne scatteranno 50. Dalle parti di Monti hanno un diverso senso delle proporzioni. Pensano che alla fine i senatori saranno 40, per cui Fli e Udc insieme non dovranno superare quota 14. Oggi nuovi frenetici incontri, poiché il Professore non si fa raggirare: esige tutti i nomi sul tavolo, tanto della Camera quanto del Senato, prima di promuovere le liste. Deve fare a tutti l’esame del sangue...
La squadra di Bondi
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UGO MAGRI
ROMA
Tra oggi e domani, Monti passerà al vaglio la bellezza di 2205 curriculum vitae: tanti saranno complessivamente i posti in palio nelle quattro liste (una al Senato, tre alla Camera) che danno corpo al suo «rassemblement». Da ciascun candidato, il premier pretende una ricca scheda biografica, cosa ha fatto e soprattutto cosa non ha fatto.
Ma siccome non si fida fino in fondo delle auto-certificazioni, e le bugie hanno le gambe corte, il super-ispettore Bondi ha messo in piedi una squadretta per controllare l’esistenza di eventuali magagne (conflitti d’interesse e pendenze giudiziarie in primo luogo). Di sicuro verrà compulsato il web, da dove molte piste si possono ricavare; in qualche caso estremo verrà messo mano al casellario giudiziario. Cosicché in attesa del verdetto, gli aspiranti onorevoli e senatori trascorreranno la classica notte prima degli esami: «notte di lacrime e preghiere» canta Antonello Venditti, sicuramente di nevrosi e speranza poiché nel verdetto il Professore sarà implacabile, garantiscono dalle sue parti, dunque non farà sconti a nessuno («...notte di polizia/ certo qualcuno te lo sei portato via...»).
In realtà, Monti non userà sempre lo stesso metro. Sarà «severissimo» nel varo della lista unica per Palazzo Madama e di quella civica per Montecitorio, che recano entrambe il suo nome in grande nel simbolo. Un filino meno intransigente quando si tratterà di giudicare le «rose» degli alleati Fli e Udc. Perché il premier sa di non poter sfidare oltre un certo limite l’amor proprio di Fini e di Casini: in teoria il loro timbro dovrebbe essere una garanzia, e invece il doppio vaglio già lascia intendere che Monti non lo reputa sufficiente. «Chi si crede di essere quel signore per giudicare il nostro tasso di moralità?», è il lamento misto a tremarella tra i parlamentari Udc. Più che un braccio di ferro, in realtà, si annuncia un complicato gioco delle parti; per effetto del quale verranno scacciati dal Paradiso tutti coloro che Pier Ferdinando (e Gianfranco) non avranno difeso fino in fondo.
Loro stessi si vanno riposizionando in vista delle grandi manovre post-elettorali. In particolare Casini sembra in predicato di lasciare la Camera e di transitare al Senato («Può darsi», conferma agli amici il diretto interessato). Automaticamente diventerebbe il candidato più autorevole a presiedere quel ramo del Parlamento. Inoltre, trasferendosi nella bomboniera di Palazzo Madama, Casini avrebbe maggiori margini di manovra nella composizione della lista alla Camera, dove Cerbero-Monti ammette due sole eccezioni alla regola dell’anzianità (tanti saluti a chi in Parlamento ha trascorso più di 15 anni). Oltre a Buttiglione, che è presidente Udc, apprezzatissimo dal Papa e dalla Merkel in quanto filosofo «deutsch-sprachigen» (che parla tedesco), dal possibile trasloco di Casini potrebbe beneficiare un ulteriore esponente di lungo corso: a sua scelta Tassone o Volontè, Delfino Teresio o Sanza.
Nuove geografie si delineano al Centro. L’addio dei brontosauri e, forse, di personaggi un po’ chiacchierati farà spazio a una generazione post-dc dove spiccano giovani leoni come Rao. Alla Camera resterà Fini, accanto a lui quale seconda «eccezione» Bocchino (rappresentante legale della lista Fli, praticamente invulnerabile). Cambieranno ramo del Parlamento due esponenti di Fli che il Prof molto apprezza, Della Vedova e la Bongiorno: correranno per Monti in Senato. Un posto è garantito per l’ex-Pdl Mauro, più incerto il destino di un altro grande ex, Pisanu. Ma prima, c’è da ripartire la «torta»: quanti posti alla società civile? Quanti a Udc e Fli? Ieri sera, vertice tra Monti, Casini e Fini. I centristi vorrebbero 15 poltrone sicure nel listone al Senato, sul presupposto che in totale ne scatteranno 50. Dalle parti di Monti hanno un diverso senso delle proporzioni. Pensano che alla fine i senatori saranno 40, per cui Fli e Udc insieme non dovranno superare quota 14. Oggi nuovi frenetici incontri, poiché il Professore non si fa raggirare: esige tutti i nomi sul tavolo, tanto della Camera quanto del Senato, prima di promuovere le liste. Deve fare a tutti l’esame del sangue...
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Re: La Questione Monti
Monti, l'unico leader che in tv perde voti
Vittorio Feltri –
Dom, 06/01/2013 - 07:47
C'è un detto milanese che, tradotto in italiano, diventa banale ma esprime una verità disarmante: «Ciascuno faccia il suo mestiere».
Mario Monti, pur essendo di Varese, città a due passi dal capoluogo lombardo, non ne ha fatto tesoro e ora paga dazio, ma non se ne rende conto.
Gli è bastato soggiornare tredici mesi a Palazzo Chigi per dimenticare le proprie origini di docente, e convincersi di essere uno statista di tale livello da potersi mangiare in un sol boccone - forse perché bocconiano - tutti i politici italiani, considerandoli, non a torto, dei ciarlatani.
Cosicché, salito in politica, probabilmente incoraggiato dagli elogi tributatigli dalla stampa col birignao, ha tradito la tipica spocchia di chi soffre di un complesso di superiorità, fratello minorato del complesso di inferiorità.
Risultato, un disastro.
Abituatosi rapidamente ai salamelecchi, e persuaso che fossero meritati, quindi sinceri, ha affrontato la battaglia elettorale con le mani in tasca, sicuro di sbaragliare gli avversari: io sono un gigante e voi dei poveri pigmei.
Egli infatti ha trattato Renato Brunetta non per ciò che è, ma per quanto è alto, con una battuta più da banco bar che da cattedra.
Sorvoliamo su questo imbarazzante dettaglio, e veniamo alle sue comparsate televisive.
Fino a quindici giorni fa, egli davanti alle telecamere assumeva atteggiamenti professorali.
Parlava ore, spaccando il capello in quattro, e nessuno osava interromperlo. Domande?
Neanche per sogno. Solo monologhi, i suoi, stucchevoli eppure bevuti dall'uditorio quale scienza infusa.
Vigliacco se qualcuno gli facesse notare, per esempio, il miserando fallimento del governo tecnico (dimostrato da ogni indicatore economico, incluso lo spread, diminuito grazie a Mario Draghi).
Ciò deve avergli fatto pensare di essere un fuoriclasse, pronto a fare la parte del leone anche nei panni (altro che loden) del comiziante.
Non si è accorto che un conto è venir nominato premier dal capo dello Stato, un altro è conquistare i voti per entrare a Palazzo Chigi sulla spinta della volontà popolare.
Due cose molto diverse.
Diciamo che Monti ha preso sottogamba la questione e ora, quando è invitato nello studio di un'antenna, non ha cambiato stile rispetto al tempo in cui tutti pendevano dalle sue labbra, ed è incline a concionare, a impartire lezioni agli intervistatori, incurante delle loro interrogazioni.
Non accetta obiezioni.
Le respinge con fastidio, come fossero impertinenti interruzioni.
Crede di sedere in un'aula universitaria, padrone di casa, gli studenti zitti e adoranti. Il professore discetta, argomenta, espone e spiega ma non risponde a un solo quesito posto dal giornalista che ha di fronte a sé.
Eludere è la sua specialità. L'impressione è che valuti sciocco chiunque gli rivolga la parola.
Figuriamoci quanto si appassionino ai suoi soliloqui i telespettatori. Chi non sbadiglia, chi non si addormenta, chi è talmente stordito da non avere la forza nemmeno di azionare il telecomando onde cercare un canale più interessante, viene pervaso da un sentimento di antipatia se non di repulsione.
Venerdì sera, a Otto e mezzo, il programma condotto da Lilli Gruber, è andata in onda una tragicommedia.
La giornalista, palesando una certa disponibilità d'animo nei confronti di Monti, ha tentato in tutti i modi di stimolare l'ospite con interventi appropriati.
Sforzi vani. Lui ha proseguito imperterrito a predicare come fosse sul pulpito: ignorando le legittime curiosità di Lilli, aggirando le sue domande o rimandando le risposte a momenti più propizi.
La signora Gruber appariva sconcertata, ma non si è persa d'animo (lei è brava). Lui, invece, qualche migliaio di voti li ha persi di sicuro. Non c'è nulla di più irritante, in tivù, di uno che non metta chi ascolta a proprio agio. La politica è un'altra cosa.
http://www.ilgiornale.it/news/interni/m ... 71646.html
Vittorio Feltri –
Dom, 06/01/2013 - 07:47
C'è un detto milanese che, tradotto in italiano, diventa banale ma esprime una verità disarmante: «Ciascuno faccia il suo mestiere».
Mario Monti, pur essendo di Varese, città a due passi dal capoluogo lombardo, non ne ha fatto tesoro e ora paga dazio, ma non se ne rende conto.
Gli è bastato soggiornare tredici mesi a Palazzo Chigi per dimenticare le proprie origini di docente, e convincersi di essere uno statista di tale livello da potersi mangiare in un sol boccone - forse perché bocconiano - tutti i politici italiani, considerandoli, non a torto, dei ciarlatani.
Cosicché, salito in politica, probabilmente incoraggiato dagli elogi tributatigli dalla stampa col birignao, ha tradito la tipica spocchia di chi soffre di un complesso di superiorità, fratello minorato del complesso di inferiorità.
Risultato, un disastro.
Abituatosi rapidamente ai salamelecchi, e persuaso che fossero meritati, quindi sinceri, ha affrontato la battaglia elettorale con le mani in tasca, sicuro di sbaragliare gli avversari: io sono un gigante e voi dei poveri pigmei.
Egli infatti ha trattato Renato Brunetta non per ciò che è, ma per quanto è alto, con una battuta più da banco bar che da cattedra.
Sorvoliamo su questo imbarazzante dettaglio, e veniamo alle sue comparsate televisive.
Fino a quindici giorni fa, egli davanti alle telecamere assumeva atteggiamenti professorali.
Parlava ore, spaccando il capello in quattro, e nessuno osava interromperlo. Domande?
Neanche per sogno. Solo monologhi, i suoi, stucchevoli eppure bevuti dall'uditorio quale scienza infusa.
Vigliacco se qualcuno gli facesse notare, per esempio, il miserando fallimento del governo tecnico (dimostrato da ogni indicatore economico, incluso lo spread, diminuito grazie a Mario Draghi).
Ciò deve avergli fatto pensare di essere un fuoriclasse, pronto a fare la parte del leone anche nei panni (altro che loden) del comiziante.
Non si è accorto che un conto è venir nominato premier dal capo dello Stato, un altro è conquistare i voti per entrare a Palazzo Chigi sulla spinta della volontà popolare.
Due cose molto diverse.
Diciamo che Monti ha preso sottogamba la questione e ora, quando è invitato nello studio di un'antenna, non ha cambiato stile rispetto al tempo in cui tutti pendevano dalle sue labbra, ed è incline a concionare, a impartire lezioni agli intervistatori, incurante delle loro interrogazioni.
Non accetta obiezioni.
Le respinge con fastidio, come fossero impertinenti interruzioni.
Crede di sedere in un'aula universitaria, padrone di casa, gli studenti zitti e adoranti. Il professore discetta, argomenta, espone e spiega ma non risponde a un solo quesito posto dal giornalista che ha di fronte a sé.
Eludere è la sua specialità. L'impressione è che valuti sciocco chiunque gli rivolga la parola.
Figuriamoci quanto si appassionino ai suoi soliloqui i telespettatori. Chi non sbadiglia, chi non si addormenta, chi è talmente stordito da non avere la forza nemmeno di azionare il telecomando onde cercare un canale più interessante, viene pervaso da un sentimento di antipatia se non di repulsione.
Venerdì sera, a Otto e mezzo, il programma condotto da Lilli Gruber, è andata in onda una tragicommedia.
La giornalista, palesando una certa disponibilità d'animo nei confronti di Monti, ha tentato in tutti i modi di stimolare l'ospite con interventi appropriati.
Sforzi vani. Lui ha proseguito imperterrito a predicare come fosse sul pulpito: ignorando le legittime curiosità di Lilli, aggirando le sue domande o rimandando le risposte a momenti più propizi.
La signora Gruber appariva sconcertata, ma non si è persa d'animo (lei è brava). Lui, invece, qualche migliaio di voti li ha persi di sicuro. Non c'è nulla di più irritante, in tivù, di uno che non metta chi ascolta a proprio agio. La politica è un'altra cosa.
http://www.ilgiornale.it/news/interni/m ... 71646.html
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Re: La Questione Monti
l’Unità 6.1.13
Il premier e il martello della «società civile»
di Michele Ciliberto
È interessante assistere alle esibizioni televisive del presidente del Consiglio, vedere le parole che usa, i concetti su cui insiste.
Quale è il centro di questo messaggio? È il primato della cosiddetta «società civile» nei confronti della «politica».
Quella stessa politica rispetto alla quale il presidente del Consiglio non si stanca di ribadire la sua lontananza, anzi la sua estraneità.
Da qui discende una serie di corollari che egli scolpisce con notevole vigore retorico:
1) come la maggior parte degli italiani ai quali si rivolge con spirito professorale, anche lui sa quanto la politica italiana sia diventata una palude da cui bisognerebbe tenersi lontani;
2) ha deciso di prendere posizione, perché ci sono momenti nei quali anche i più riluttanti devono sporcarsi le mani, mettendo in gioco la propria persona e il proprio ruolo;
3) intende farlo senza identificarsi con una parte, guardando con occhio di ghiaccio all’«interesse generale» del Paese e buttando a mare antiche categorie come quella di «destra» o di «sinistra» che non rispecchiano più lo stato delle cose;
4) vuole essere riformatore, cioè moderno, ma in forme nuove, avviando una nuova epoca della nostra storia;
5) per farlo si propone di «ritornare ai principi» (direbbe Machiavelli), cioè ridare la parola alla «società civile» di cui tesse l’elogio con lo stesso trasporto di un economista del Settecento.
Con questo torniamo all’architrave del suo discorso: la «società civile», intesa come il luogo delle energie primigenie del Paese, calpestate dalla politica e dallo Stato («Paese»: lemma che, se non mi inganno, Monti preferisce a quello di «Nazione»).
E tutto è presentato con stile, parole e gesti adeguati e convergenti nel mostrare che nell’arena politica Monti è stato costretto a scendere per senso di responsabilità, non per ambizione personale o altri motivi poco nobili.
Se però lo stile è nuovo e rispettabile, non sono nuovi né il richiamo alla «società civile», né l’ideologia conservatrice in cui esso è situato.
Anzi. Quando gli storici futuri studieranno il lessico politico della Repubblica, potranno constatare che l’espressione «società civile» è stata, nei nostri anni, una delle più frequentate, in contesti diversi ma con due caratteri comuni: è usata in genere da quelli che si sono presentati come iniziatori di un nuovo ciclo della storia nazionale; questo nuovo inizio si è espresso costantemente in una critica, talvolta in un rifiuto delle forme ordinarie della politica che a sua volta si è risolto generalmente in una discesa (o in una «salita»: bel colpo retorico anche questo) alla politica di tipo strettamente conservatore imperniato sui valori sopra citati (interesse generale, fine della destra e della sinistra, rifiuto del moderatismo ed elogio del radicalismo «centrista»: un ircocervo degno dei fratelli Grimm....).
Da questo punto di vista non c’è rottura fra Monti e il berlusconismo.
Sul piano ideologico sono utilizzati gli stessi strumenti, con lo stesso obiettivo: mantenere al potere, con gli ammodernamenti indispensabili, le classi dirigenti tradizionali, senza toccare, non dico i rapporti proprietari, ma la condizione del lavoro e la «questione sociale», di cui non c’è mai alcuna traccia nelle allocuzioni di Monti.
E impedire, soprattutto, che le forze del cambio arrivino al governo del Paese.
Quelli che mutano sono però i contenuti specifici di questa ideologia: per Berlusconi il richiamo alla società civile era un mezzo per risvegliare gli spiriti animali e gli istinti individualistici, spezzando ogni vincolo di carattere comunitario; nel caso di Monti sono presenti motivi del societarismo cattolico, resi evidenti dalla presenza nella sua lista di personalità come Riccardi e dall’aperto consenso dell’Osservatore romano.
Ma l’obiettivo è chiaro, ed è stato ben esplicitato da Casini, dallo stesso Riccardi e anche dal lessico traditore, ma rivelatore del presidente del Consiglio quando ha invitato Bersani a «silenziare» Fassina e la Cgil.
Del resto, per questo Monti è sceso in politica: per dare a questa operazione un respiro europeo e mettere in campo una leadership come la sua in grado di raccogliere un ampio arco di forze politiche e sociali, in grado di contrapporsi alle scelte strategiche che un forte e autonomo governo di centrosinistra sarebbe in grado di fare.
Dal suo punto di vista Monti ha ragione: in Italia è in corso una battaglia decisiva su chi guiderà il nostro Paese nei prossimi decenni.
E in queste elezioni sono di fronte due schieramenti sociali, certo variamente articolati ma che tali restano, nonostante le tante chiacchiere sulla fine della destra e della sinistra.
Ma l’insistenza sulla società civile ha altri significati, di carattere propriamente ideologico.
La battaglia che si sta svolgendo coinvolge, con quello politico, anche il piano dei valori, né è difficile immaginare le trombe che Monti e i suoi seguaci faranno suonare in campagna elettorale: Europa, modernità, sviluppo, credibilità del Paese e delle sue «nuove» classi dirigenti.
E appunto primato della «società civile», con due obiettivi precisi: ribadire anzitutto che Pd è espressione di un vecchio mondo, di un’epoca finita insieme a Berlusconi e perciò incapace di «modernizzare» il Paese, come è invece possibile fare se si sceglie un leader capace di rivolgersi alle energie sane e vitali del Paese cioè alla società civile -, cancellando la «vecchia» politica.
E poi legittimare e valorizzare, sia sul piano ideologico che elettorale, il confluire nella sua lista di importanti rappresentanti del mondo cattolico, reso a sua volta possibile da importanti elementi comuni: il netto rifiuto del concetto di classe, l'interesse per modelli «produttivistici» incentrati sulla collaborazione tra capitale e lavoro e, appunto, il «societarismo».
È giusto, ed è saggio, non alzare il livello della polemica, pensando alle scelte che potranno diventare necessarie dopo le elezioni.
Ma al di là della scorza retorica, questa è la sostanza del discorso di Monti sulla «società civile», ed esso carica di responsabilità il centrosinistra e anche i cattolici che hanno scelto di stare da questa parte dello schieramento.
Siamo a un passaggio decisivo, destinato a cambiare in un senso o nell’altro il volto dell’Italia, anche sul piano degli ideali e degli obiettivi comuni, condivisi.
Perciò è necessario che il centrosinistra faccia sentire con energia la sua voce, e data l’entità e il carattere della posta in gioco, è indispensabile che esso proclami con forza la sua visione dell’Italia e del futuro in una parola: i suoi valori ultimi e penultimi, raccogliendo tutte le forze interessate al cambiamento -.
Un cambiamento effettivo, non retorico, come troppe volte è accaduto nella nostra storia.
Il premier e il martello della «società civile»
di Michele Ciliberto
È interessante assistere alle esibizioni televisive del presidente del Consiglio, vedere le parole che usa, i concetti su cui insiste.
Quale è il centro di questo messaggio? È il primato della cosiddetta «società civile» nei confronti della «politica».
Quella stessa politica rispetto alla quale il presidente del Consiglio non si stanca di ribadire la sua lontananza, anzi la sua estraneità.
Da qui discende una serie di corollari che egli scolpisce con notevole vigore retorico:
1) come la maggior parte degli italiani ai quali si rivolge con spirito professorale, anche lui sa quanto la politica italiana sia diventata una palude da cui bisognerebbe tenersi lontani;
2) ha deciso di prendere posizione, perché ci sono momenti nei quali anche i più riluttanti devono sporcarsi le mani, mettendo in gioco la propria persona e il proprio ruolo;
3) intende farlo senza identificarsi con una parte, guardando con occhio di ghiaccio all’«interesse generale» del Paese e buttando a mare antiche categorie come quella di «destra» o di «sinistra» che non rispecchiano più lo stato delle cose;
4) vuole essere riformatore, cioè moderno, ma in forme nuove, avviando una nuova epoca della nostra storia;
5) per farlo si propone di «ritornare ai principi» (direbbe Machiavelli), cioè ridare la parola alla «società civile» di cui tesse l’elogio con lo stesso trasporto di un economista del Settecento.
Con questo torniamo all’architrave del suo discorso: la «società civile», intesa come il luogo delle energie primigenie del Paese, calpestate dalla politica e dallo Stato («Paese»: lemma che, se non mi inganno, Monti preferisce a quello di «Nazione»).
E tutto è presentato con stile, parole e gesti adeguati e convergenti nel mostrare che nell’arena politica Monti è stato costretto a scendere per senso di responsabilità, non per ambizione personale o altri motivi poco nobili.
Se però lo stile è nuovo e rispettabile, non sono nuovi né il richiamo alla «società civile», né l’ideologia conservatrice in cui esso è situato.
Anzi. Quando gli storici futuri studieranno il lessico politico della Repubblica, potranno constatare che l’espressione «società civile» è stata, nei nostri anni, una delle più frequentate, in contesti diversi ma con due caratteri comuni: è usata in genere da quelli che si sono presentati come iniziatori di un nuovo ciclo della storia nazionale; questo nuovo inizio si è espresso costantemente in una critica, talvolta in un rifiuto delle forme ordinarie della politica che a sua volta si è risolto generalmente in una discesa (o in una «salita»: bel colpo retorico anche questo) alla politica di tipo strettamente conservatore imperniato sui valori sopra citati (interesse generale, fine della destra e della sinistra, rifiuto del moderatismo ed elogio del radicalismo «centrista»: un ircocervo degno dei fratelli Grimm....).
Da questo punto di vista non c’è rottura fra Monti e il berlusconismo.
Sul piano ideologico sono utilizzati gli stessi strumenti, con lo stesso obiettivo: mantenere al potere, con gli ammodernamenti indispensabili, le classi dirigenti tradizionali, senza toccare, non dico i rapporti proprietari, ma la condizione del lavoro e la «questione sociale», di cui non c’è mai alcuna traccia nelle allocuzioni di Monti.
E impedire, soprattutto, che le forze del cambio arrivino al governo del Paese.
Quelli che mutano sono però i contenuti specifici di questa ideologia: per Berlusconi il richiamo alla società civile era un mezzo per risvegliare gli spiriti animali e gli istinti individualistici, spezzando ogni vincolo di carattere comunitario; nel caso di Monti sono presenti motivi del societarismo cattolico, resi evidenti dalla presenza nella sua lista di personalità come Riccardi e dall’aperto consenso dell’Osservatore romano.
Ma l’obiettivo è chiaro, ed è stato ben esplicitato da Casini, dallo stesso Riccardi e anche dal lessico traditore, ma rivelatore del presidente del Consiglio quando ha invitato Bersani a «silenziare» Fassina e la Cgil.
Del resto, per questo Monti è sceso in politica: per dare a questa operazione un respiro europeo e mettere in campo una leadership come la sua in grado di raccogliere un ampio arco di forze politiche e sociali, in grado di contrapporsi alle scelte strategiche che un forte e autonomo governo di centrosinistra sarebbe in grado di fare.
Dal suo punto di vista Monti ha ragione: in Italia è in corso una battaglia decisiva su chi guiderà il nostro Paese nei prossimi decenni.
E in queste elezioni sono di fronte due schieramenti sociali, certo variamente articolati ma che tali restano, nonostante le tante chiacchiere sulla fine della destra e della sinistra.
Ma l’insistenza sulla società civile ha altri significati, di carattere propriamente ideologico.
La battaglia che si sta svolgendo coinvolge, con quello politico, anche il piano dei valori, né è difficile immaginare le trombe che Monti e i suoi seguaci faranno suonare in campagna elettorale: Europa, modernità, sviluppo, credibilità del Paese e delle sue «nuove» classi dirigenti.
E appunto primato della «società civile», con due obiettivi precisi: ribadire anzitutto che Pd è espressione di un vecchio mondo, di un’epoca finita insieme a Berlusconi e perciò incapace di «modernizzare» il Paese, come è invece possibile fare se si sceglie un leader capace di rivolgersi alle energie sane e vitali del Paese cioè alla società civile -, cancellando la «vecchia» politica.
E poi legittimare e valorizzare, sia sul piano ideologico che elettorale, il confluire nella sua lista di importanti rappresentanti del mondo cattolico, reso a sua volta possibile da importanti elementi comuni: il netto rifiuto del concetto di classe, l'interesse per modelli «produttivistici» incentrati sulla collaborazione tra capitale e lavoro e, appunto, il «societarismo».
È giusto, ed è saggio, non alzare il livello della polemica, pensando alle scelte che potranno diventare necessarie dopo le elezioni.
Ma al di là della scorza retorica, questa è la sostanza del discorso di Monti sulla «società civile», ed esso carica di responsabilità il centrosinistra e anche i cattolici che hanno scelto di stare da questa parte dello schieramento.
Siamo a un passaggio decisivo, destinato a cambiare in un senso o nell’altro il volto dell’Italia, anche sul piano degli ideali e degli obiettivi comuni, condivisi.
Perciò è necessario che il centrosinistra faccia sentire con energia la sua voce, e data l’entità e il carattere della posta in gioco, è indispensabile che esso proclami con forza la sua visione dell’Italia e del futuro in una parola: i suoi valori ultimi e penultimi, raccogliendo tutte le forze interessate al cambiamento -.
Un cambiamento effettivo, non retorico, come troppe volte è accaduto nella nostra storia.
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Re: La Questione Monti
il Fatto 6.1.13
Crisi di identità
Caro professor Monti, conservatore sarà lei
di Furio Colombo
In un grande albergo a colloquio con il futuro capo, che mi riceve nella hall.
Conversazione gentile fra le due poltrone, sento la buona disposizione nei miei confronti.
Lui è un nobile, o quasi, e lo sono anch’io. Ci intenderemo per forza.
Queste società con forte partecipazione americana cercano volentieri impiegati di rappresentanza nei dintorni dell’aristocrazia, come si fa per i diplomatici, impiegati fidati, utili nelle relazioni, che sanno l’inglese.
Lo vedo attratto e respinto dalla mia laurea in lettere e dall’odore di giornalismo, domanda dove ho scritto.
Dico varie riviste letterarie, qualche racconto, un saggio. Alcuni articoli sull’Avanti!. Si è rabbuiato, si stacca.
Le poltrone si fanno lontanissime, il tavolino in mezzo diventa un macigno.
“Noi - esclama - ci ritroveremo fra non molto dalle parti opposte della barricata. È possibile, le domando, che nel frattempo lei venga a lavorare con me? Così sovietico non mi ero mai sentito, così vicino allo scontro.
” Da Ottiero Ottieri a Nichi Vendola
Ho citato da La linea gotica, l’indimenticabile libro di Ottiero Ottieri, appena ripubblicato da Guanda.
Per me è importante, perché in quel tempo lavoravamo insieme e osservavamo insieme il mondo di una misteriosa dirigenza imprenditoriale che cominciava a prendere le distanze (Adriano Olivetti era appena morto).
Ma pensate alla data di questa pagina: 1963. Sulla scena ci sono tutti i personaggi: le ali da tagliare, i Vendola di cui ci si deve liberare, le voci da silenziare, le cose che sono già intollerabili e che è meglio mettere subito in chiaro, i sindacati come la Cigl che tentano la frenata della macchina mentre accelera verso il futuro, perché non è il loro futuro.
Non importa che cosa vede o che cosa pensa uno che scrive sull’Avanti!.
In un tempo come questo bisogna avere le mani libere, e questi te le trattengono, magari solo per ipocrite strette di mano.
Però “controlliamo gli orologi”, come si diceva una volta nei film americani di guerra prima dell’attacco.
Ho già chiarito, siamo nel 1963. E, nella scena di Ottieri che anticipa tante cose (tutte regolarmente e tragicamente avvenute, tra cui la scomparsa del lavoro), si vede che l’interlocutore, che scosta di scatto la poltrona, è il conservatore.
E lui, da conservatore che non tollera il ragazzo impudente che si spinge in esplorazione per conto suo, o con i sindacati, e fa finta di non sapere, nonostante nome, laurea e nobiltà, che ci sono valori da difendere, principi da conservare.
Passano i decenni ma non i preconcetti
Passano gli anni e i decenni, avanza spavalda la cultura che brandisce produttività, competitività, innovazione.
E anche: privatizzazione, concorrenza, merito (uso le sei parole più care, nell’ultimo mezzo secolo, ai grandi meeting dello Studio Ambrosetti e alle assemblee di Confindustria, sei parole magiche che adesso sono di governo e che non hanno mai sfiorato il come trasformare l’impresa, cambiare il lavoro manageriale, immaginare una gestione rivoluzionata per un secolo nuovo, spingere i capi e i figli dei capi nel vortice della prova del merito per risalire con i più creativi e non affondare con i più stupidi).
Passano gli anni e i decenni e la massa dei lavoratori, che erano soci di impresa, ormai è lontana e, quando è possibile, abbandonata sull’autostrada, in una specie di ferragosto imprenditoriale che sempre più spesso torna a ripetersi.
So benissimo che c’è un altro modo di descrivere questo disastroso passaggio della Storia (che comincia con Reagan quando dice che se tagli le tasse ai ricchi, loro sono buoni e aiutano tutti, the trickle down economy, mai verificata, mai realizzata, una fede, come il marxismo).
Ma devo notare con stupore una straordinaria trovata in più.
Tu difendi il lavoro, se non altro perché chiedi non gratitudine ma decenza (ma anche una prudente attenzione alla pace sociale), e improvvisamente l’interlocutore scosta la poltrona.
Dice con voce severa: “Lei è un Conservatore! ” insieme con il gesto che mima “tagliare le ali”, come se gli esseri umani fossero lì ad aspettare il necessario intervento chirurgico, senza il quale, pare di capire, non si potranno avere i benefici che hanno in serbo per noi.
Ecco, vorrei far notare il cambiamento.
IL silenzio dei media e quello dei sindacati
Allora, nel 1963, era il conservatore a scostare, allarmato, la sua poltrona, per non essere contiguo all’infiltrato di sinistra che avrebbe portato zizzania al campo.
Adesso sei tu che vieni chiamato conservatore, e chiamato per nome (Camusso, Fassina, Cigl) in una strana sentenza che dovrebbe dichiarare inaffidabilità e sospetto.
Devo dire che non so che cosa Mario Monti abbia in mente, visto che si rivela un poco alla volta, e non sempre con rigorosa coerenza tra il prima e il dopo.
Non so con chi consenta, quando decide di usare la sua forza e la sua reputazione, che non è poca cosa, in modo così sproporzionato verso chi non lo approva con ovazioni.
Ma il mio stupore, che un tempo riguardava i miei colleghi giornalisti che non avevano nulla da dire quando Berlusconi umiliava un collega, adesso si rivolge ai sindacati.
Sono sicuri che sia conveniente accettare che uno di loro sia presentato al Paese come il nemico che fa correre rischi a tutti?
Se questo è il gioco del lavoro, che viene declassato per avere una “patrimoniale” riscossa dal basso, non dovrebbero arruolarsi anch’essi fra i conservatori dei diritti?
Crisi di identità
Caro professor Monti, conservatore sarà lei
di Furio Colombo
In un grande albergo a colloquio con il futuro capo, che mi riceve nella hall.
Conversazione gentile fra le due poltrone, sento la buona disposizione nei miei confronti.
Lui è un nobile, o quasi, e lo sono anch’io. Ci intenderemo per forza.
Queste società con forte partecipazione americana cercano volentieri impiegati di rappresentanza nei dintorni dell’aristocrazia, come si fa per i diplomatici, impiegati fidati, utili nelle relazioni, che sanno l’inglese.
Lo vedo attratto e respinto dalla mia laurea in lettere e dall’odore di giornalismo, domanda dove ho scritto.
Dico varie riviste letterarie, qualche racconto, un saggio. Alcuni articoli sull’Avanti!. Si è rabbuiato, si stacca.
Le poltrone si fanno lontanissime, il tavolino in mezzo diventa un macigno.
“Noi - esclama - ci ritroveremo fra non molto dalle parti opposte della barricata. È possibile, le domando, che nel frattempo lei venga a lavorare con me? Così sovietico non mi ero mai sentito, così vicino allo scontro.
” Da Ottiero Ottieri a Nichi Vendola
Ho citato da La linea gotica, l’indimenticabile libro di Ottiero Ottieri, appena ripubblicato da Guanda.
Per me è importante, perché in quel tempo lavoravamo insieme e osservavamo insieme il mondo di una misteriosa dirigenza imprenditoriale che cominciava a prendere le distanze (Adriano Olivetti era appena morto).
Ma pensate alla data di questa pagina: 1963. Sulla scena ci sono tutti i personaggi: le ali da tagliare, i Vendola di cui ci si deve liberare, le voci da silenziare, le cose che sono già intollerabili e che è meglio mettere subito in chiaro, i sindacati come la Cigl che tentano la frenata della macchina mentre accelera verso il futuro, perché non è il loro futuro.
Non importa che cosa vede o che cosa pensa uno che scrive sull’Avanti!.
In un tempo come questo bisogna avere le mani libere, e questi te le trattengono, magari solo per ipocrite strette di mano.
Però “controlliamo gli orologi”, come si diceva una volta nei film americani di guerra prima dell’attacco.
Ho già chiarito, siamo nel 1963. E, nella scena di Ottieri che anticipa tante cose (tutte regolarmente e tragicamente avvenute, tra cui la scomparsa del lavoro), si vede che l’interlocutore, che scosta di scatto la poltrona, è il conservatore.
E lui, da conservatore che non tollera il ragazzo impudente che si spinge in esplorazione per conto suo, o con i sindacati, e fa finta di non sapere, nonostante nome, laurea e nobiltà, che ci sono valori da difendere, principi da conservare.
Passano i decenni ma non i preconcetti
Passano gli anni e i decenni, avanza spavalda la cultura che brandisce produttività, competitività, innovazione.
E anche: privatizzazione, concorrenza, merito (uso le sei parole più care, nell’ultimo mezzo secolo, ai grandi meeting dello Studio Ambrosetti e alle assemblee di Confindustria, sei parole magiche che adesso sono di governo e che non hanno mai sfiorato il come trasformare l’impresa, cambiare il lavoro manageriale, immaginare una gestione rivoluzionata per un secolo nuovo, spingere i capi e i figli dei capi nel vortice della prova del merito per risalire con i più creativi e non affondare con i più stupidi).
Passano gli anni e i decenni e la massa dei lavoratori, che erano soci di impresa, ormai è lontana e, quando è possibile, abbandonata sull’autostrada, in una specie di ferragosto imprenditoriale che sempre più spesso torna a ripetersi.
So benissimo che c’è un altro modo di descrivere questo disastroso passaggio della Storia (che comincia con Reagan quando dice che se tagli le tasse ai ricchi, loro sono buoni e aiutano tutti, the trickle down economy, mai verificata, mai realizzata, una fede, come il marxismo).
Ma devo notare con stupore una straordinaria trovata in più.
Tu difendi il lavoro, se non altro perché chiedi non gratitudine ma decenza (ma anche una prudente attenzione alla pace sociale), e improvvisamente l’interlocutore scosta la poltrona.
Dice con voce severa: “Lei è un Conservatore! ” insieme con il gesto che mima “tagliare le ali”, come se gli esseri umani fossero lì ad aspettare il necessario intervento chirurgico, senza il quale, pare di capire, non si potranno avere i benefici che hanno in serbo per noi.
Ecco, vorrei far notare il cambiamento.
IL silenzio dei media e quello dei sindacati
Allora, nel 1963, era il conservatore a scostare, allarmato, la sua poltrona, per non essere contiguo all’infiltrato di sinistra che avrebbe portato zizzania al campo.
Adesso sei tu che vieni chiamato conservatore, e chiamato per nome (Camusso, Fassina, Cigl) in una strana sentenza che dovrebbe dichiarare inaffidabilità e sospetto.
Devo dire che non so che cosa Mario Monti abbia in mente, visto che si rivela un poco alla volta, e non sempre con rigorosa coerenza tra il prima e il dopo.
Non so con chi consenta, quando decide di usare la sua forza e la sua reputazione, che non è poca cosa, in modo così sproporzionato verso chi non lo approva con ovazioni.
Ma il mio stupore, che un tempo riguardava i miei colleghi giornalisti che non avevano nulla da dire quando Berlusconi umiliava un collega, adesso si rivolge ai sindacati.
Sono sicuri che sia conveniente accettare che uno di loro sia presentato al Paese come il nemico che fa correre rischi a tutti?
Se questo è il gioco del lavoro, che viene declassato per avere una “patrimoniale” riscossa dal basso, non dovrebbero arruolarsi anch’essi fra i conservatori dei diritti?
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Re: La Questione Monti
in effetti,
Scalfareide
Noi dobbiamo grande rispetto a Eugenio Scalfari.
Anzitutto perché è una persona anziana, e da ieri anche per il consueto paginone di Repubblica dove ammette, con una sincerità rara da trovarsi in un giornalista, d’essersi sbagliato sul conto di Monti.
Naturalmente lui non dice proprio così, pone più l’accento sulla delusione e dedica almeno metà del paginone a cercare le similitudini tra i desideri che Monti ha per la nostra patria e quelli che invece ha Bersani.
Tante parole però hanno, anche senza leggerle ad alta voce come è d’uso tra i credenti, il suono amaro di chi si trova costretto a correggersi.
Il fatto è che Scalfari era proprio un montiano convinto.
Dal novembre 2011 ha scritto qualche milione di parole in favore del suo beniamino.
L’italia dalla memoria corta forse non le ricorda più.
Si va dall’attribuzione dell’humor inglese alla beatificazione del loden.
Se non erro dobbiamo a lui il recupero da un vecchio sinonimi e contrari di una parola mai usata per la politica in precedenza:
sobrietà.
Ma soprattutto è stato lui il più convinto propagandista dell’idea che ci fosse più indispensabile un futuro Monti bis che un Governo eletto secondo gli usi delle democrazie.
Scalfari lo ricorderà senz’altro ed è per questo che scrivere il suo editoriale di ieri dev’essergli costato anche un po’ di dolore.
Forse come quello che ammise pochi anni fa in un’intervista, quando gli rammentarono dell’espulsione dal Partito Fascista con strappo brutale delle mostrine dalla divisa che piuttosto fieramente indossava.
Anche noi partecipiamo al dolore, ma non per gli episodi in sé, che sono fatti suoi e molto intimi.
Siamo addolorati perché lo sbaglio di Scalfari ci toglie quella certezza, dagli aspetti anche un po’ mistici, dell’esistenza di alcuni italiani (soprattutto tra i politici e i giornalisti) che non si sbagliano mai.
Invece anche loro cominciano a sbagliarsi spesso:
vedi alle voci Marchionne, Ichino, Ingroia, Veltroni, Fini, Di Pietro e oggi Monti.
Perché noi poveri italiani comuni, con la nostra attitudine a sbagliarci ogni volta e sempre per eccesso d’entusiasmo su questo o quel politico “nuovo”, non sappiamo più rinunciare alla Scalfareide che ci racconti a posteriori tutti i come e i perché del ve l’avevo detto.
http://con-cordiale-sconforto.com.unita ... alfareide/
non se ne potrebbe veramente più di questi maitre a penser,
che a puntate rimangono folgorati sulla via dei vari Marchionne, Ichino, Ingroia, Veltroni, Fini, Di Pietro ...e oggi Monti.
salvo poi ricredersi...come se un chirurgo che ti asporta il rene sano e ti lascia quello malato,potesse porvi rimedio con un:
"mi sono sbagliato".
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Re: La Questione Monti
Da repubblica.it
Vendola: "Monti, classismo feroce. Noi con il popolo. Una donna al Quirinale"Il leader di Sel a UnoMattina dice che il Pdl "è un horror". "Comico pensare che i Progressisti non abbiano la maggioranza. Monti e Casini propongono alla sinistra una resa". Poi, presentando i capilista di Sel: "Invito di Monti a Bersani a 'tagliare le ali' è democristianeria da Grande Oriente d'Italia". "Sel, polizza di assicurazione per gli elettori di sinistra"
ROMA - Il Pdl "un horror, a volte ritornano". Mario Monti "chiuso nel segreto delle stanze" del potere. Sel e Pd invece "con il popolo", a cominciare dalla scelta dei candidati con le primarie. E' il panorama politico visto da Nichi Vendola, ospite di Uno Mattina su Rai Uno. Quanto alla polemica francese sulla supertassa sui ricchi il governatore della Puglia è secco: "I super-ricchi devono andare al diavolo, Putin ha le sembianze del diavolo e dunque Depardieu è sulla direzione giusta". "I progressisti - dice Vendola - si candidano per vincere e comunque il dibattito sugli scenari post voto e il rischio che il Pd e gli alleati non abbiamo la maggioranza "è comico". L'obiettivo è "salvare l'Italia e Monti e Casini in realtà propongono alla sinistra una resa".
A Vendola, evidentemente, non è proprio piaciuto che, proprio dallo studio di Uno Mattina, Monti abbia invitato Bersani a "tagliare le ali" del centrosinistra, tra le quali Sel. Un invito che Vendola descrive come "democristianeria senza la dc, democristianeria da Grande Oriente d'Italia". "Io taglierei le ali dei cacciabombardieri", ribatte il leader Sel, che dopo l'accostamento alla Massoneria attacca il Professore che "ha rapidamente imparato la lezione della vecchia politica e si presenta come un vecchio classico politico", un campione della "razza padrona, per usare un'espressione di Scalfari, che Monti lo conosce bene".
Più
tardi, in un albergo di Roma, Vendola presenta la sua "squadra", i capilista e le personalità candidate con Sel alle prossime elezioni. "Questa squadra mi fa immaginare una storia di radicalismo di governo - spiega il governatore pugliese -. Tutti i capilista di Sel portano storie di battaglie in prima persona, delle trincee più esposte. Sono testimoni del nostro tempo mai proni nei confronti del potere".
Si tratta, tra gli altri, di Roberto Natale, ex presidente della Fnsi; Giulio Volpe, rettore dell'Università di Foggia; Francesco Forgione, ex presidente dell'Antimafia; Celeste Costantino, attivista antimafia e femminista; Ida Dominijanni, giornalista e scrittrice; Pap Diew, portavoce della comunità Senegal di Firenze; Giulio Marcon, fondatore di Sbilanciamoci; Giovanni Barozzino, operaio della Fiat; Laura Boldrini, portavoce dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati. Assenti, ma in lista, anche il leader della Fiom Giorgio Airaudo e la presidente dei Verdi europei Monica Frassoni.
Con questa formazione, "noi puntiamo a vincere le elezioni per governare il Paese - assicura Vendola -, puntiamo all'autosufficienza del polo progressista, un'obiettivo alla nostra portata. E Sel è la polizza di assicurazione per gli elettori di sinistra, è attore di uno spostamento a sinistra degli equlibri sociali e politici della società italiana. Noi vogliamo uscire a sinistra dalla crisi della seconda Repubblica e del berlusconismo".
E si riparla di Monti. Per Vendola, il programma del Professore "salito" in politica dopo aver guidato il governo tecnico è come "i Penitenziali" del Medioevo. Paragone per il quale il leader di Sel trae spunto da una suggestione di Ida Dominijanni. "Bisognerà fare un triplo salto mortale - spiega la giornalista e candidata - bisognerà uscire sia dal regime del godimento di Silvio Berlusconi che dal regime penitenziale di Monti". Vendola propone una piccola correzione: "I penitenziali facevano l'autoflagellazione. Questi non fanno auto-flagellazione. Questi flagellano gli altri".
"Come Mario Monti non riesca a vedere il dolore che ha creato nelle viscere della società è incredibile - aggiunge il leader di Sel -. Il suo è un ottimismo di maniera, da fiction, da spot. E' incomprensibile capirlo. Oggi si rischia il ritorno delle élite insofferenti per il ritorno della democrazia, quelle che devono vincere solo loro, devono scrivere loro l'agenda. E' un'immagine di rango sociale, una classismo feroce".
Non fosse "salito" in politica, Monti avrebbe avuto ottime chance di succedere a Napolitano al Quirinale. Per Vendola, schierandosi politicamente, il Professore ha "rinunciato a correre". Sull'elezione del presidente della Repubblica, premette Vendola, "bisognerà discutere e trovare soluzioni concordate con uno schieramento più largo di forze". Ma il leader di Sel ha una sua idea: in un tempo "così travagliato, inquieto e opaco, anche lo sguardo sul Quirinale può essere segnato da una capacità di innovazione. Immaginare una donna al Quirinale può essere una risposta importante in questo senso".
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- Iscritto il: 15/05/2012, 9:38
Re: La Questione Monti
Piu` o meno quel che suggerivo io.Con questa formazione, "noi puntiamo a vincere le elezioni per governare il Paese - assicura Vendola -, puntiamo all'autosufficienza del polo progressista, un'obiettivo alla nostra portata. E Sel è la polizza di assicurazione per gli elettori di sinistra, è attore di uno spostamento a sinistra degli equlibri sociali e politici della società italiana. Noi vogliamo uscire a sinistra dalla crisi della seconda Repubblica e del berlusconismo".
Ci tocca votare SEL perche` il PD vacilla.
Cosi` lo ancoriamo bene al campo progressista.
Ciao.
soloo42000
Re: La Questione Monti
Nel mio collegio il capolista di Sel è Gennaro Migliore (tanto per cambiare) che sarà probabilmente l'unico ad entrare.
Ciò significa che almeno in Campania le primarie sono state una farsa, in quanto nessuno degli eletti riuscirà presumibilmente ad entrare in parlamento, avendo dovuto lasciare il posto ai "prescelti" dalla segreteria nazionale.
Anche per questo motivo escludo un mio voto a Sel.
Ciò significa che almeno in Campania le primarie sono state una farsa, in quanto nessuno degli eletti riuscirà presumibilmente ad entrare in parlamento, avendo dovuto lasciare il posto ai "prescelti" dalla segreteria nazionale.
Anche per questo motivo escludo un mio voto a Sel.
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- Iscritto il: 21/02/2012, 17:56
Re: La Questione Monti
gli adoratori del Professore ormai cadono al ritmo di un paio al giorno,
mentre pare che in casa del Professore cercano di accomodarsi gli sfrattati e i "senzatetto" alla Mario Adinolfi:
http://cdn.blogosfere.it/roma2011/image ... calati.png
che bello.
mi pare un sogno che ci si possa liberare di zavorra del genere.
e che zavorra...
sarà 200 kg....
mentre pare che in casa del Professore cercano di accomodarsi gli sfrattati e i "senzatetto" alla Mario Adinolfi:
http://cdn.blogosfere.it/roma2011/image ... calati.png
che bello.
mi pare un sogno che ci si possa liberare di zavorra del genere.
e che zavorra...
sarà 200 kg....
Chi c’è in linea
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