La verità,vi prego,sul finanziamento ai partiti
La verità,vi prego,sul finanziamento ai partiti
Rubo mezzo titolo del meraviglioso libro del poeta Auden : La verità vi prego sull'amore ...di cui fa parte "Funeral Blues" la poesia recitata nel film "4 matrimoni e un funerale" ....
per sfatare il mito grilliano che i partiti continuino ad essere foraggiati con l'imbuto come le oche per il foie gras.
articolo tratto da il post 11.3. 2013 http://www.ilpost.it/2013/03/11/finanzi ... o-partiti/
Fare politica costa, spiegano sempre i partiti. Costano gli affitti delle sezioni, e dei teatri e delle sale in cui tenere le iniziative politiche, costano i telefoni e i manifesti, costano i viaggi, le campagne di propaganda, costano gli spot, costano gli uffici per organizzare l’attività di un partito, costano i dipendenti. Per pagare queste cose i partiti italiani hanno tre fonti principali di sostentamento economico: le quote versate dai propri iscritti e dai propri dirigenti (in diversi partiti i parlamentari versano parte del proprio stipendio al partito, e devono pagare una cifra al momento della candidatura), le donazioni ricevute (sia direttamente che indirettamente, si pensi per esempio agli stand delle feste dell’Unità), e i soldi pubblici assegnati per legge: il famigerato “finanziamento pubblico dei partiti”, oggi di nuovo molto discusso.
Il finanziamento pubblico dei partiti arrivò in Italia nel 1974 con una legge promossa dalla Democrazia Cristiana – e votata da tutti i partiti presenti in parlamento, PCI compreso, ed escluso il PLI – allo scopo, teoricamente, di ridurre il rischio di tentativi di corruzione. Si disse, infatti, che limitare ai fondi dei privati il sostentamento dei partiti avrebbe avuto possibili conseguenze negative. Che si fa, per esempio, se una o più persone ricchissime mettono le loro finanze a disposizione di un partito? Come si mette il sistema politico al riparo di quello che può accadere se un grande gruppo industriale o una lobby o anche un ente pubblico si mette a finanziare massicciamente uno più partiti per ottenerne in cambio dei vantaggi? O, simile e inverso, se un partito non ha fondi e deve trovare il modo di ottenere contributi privati?
La legge, approvata dopo alcuni scandali allo scopo di limitare la corruzione, obbligava i partiti che ricevevano il denaro pubblico a dare conto delle donazioni ricevute in bilanci trasparenti e a non ricevere donazioni da enti e strutture di proprietà pubblica (come l’ENI, per esempio) ma non ottenne il suo scopo. Nel 1976 l’industria statunitense Lockheed ammise di aver pagato tangenti a politici italiani per vendere i propri aerei militari. Sempre in quegli anni attorno al banchiere Michele Sindona emerse un grosso e torbido giro di corruzione e tangenti legato alla Democrazia Cristiana.
Nel 1978 un referendum proposto dai Radicali non raggiunse il quorum per pochi punti ma raccolse il 97 per cento dei voti per l’abolizione del finanziamento pubblico. Nel 1993, dopo le inchieste di “Tangentopoli”, un nuovo referendum ottenne il quorum e con il 90,3 per cento dei Sì il finanziamento pubblico ai partiti venne abrogato.
Dopo il referendum
Le leggi in vigore vennero quindi aggiustate e modificate in modo tale da eliminare, teoricamente, il finanziamento pubblico: ripristinandolo però sotto altre forme. Una vecchia legge sui rimborsi elettorali fu prima allargata e poi rimpiazzata nel 1999 da una nuova che, a cominciare dalle elezioni politiche del 2001, destina dei fondi a tutte le le liste che superano l’1 per cento dei voti, per tutta la durata della legislatura. Nel 2006 la legge venne ulteriormente modificata e attribuì il finanziamento per cinque anni dal voto, anche se la legislatura dovesse finire prima. Parliamo di molti soldi: 468 milioni di euro per ogni legislatura, quasi mezzo miliardo di denaro pubblico.
Le moltiplicazioni del finanziamento
La legislatura iniziata nel 2006, quella con le elezioni vinte di pochissimo dal centrosinistra, finì nel 2008. I partiti che ottennero almeno l’1 per cento dei voti (quindi anche alcuni che non sono in parlamento, avendo ottenuto meno voti della soglia di sbarramento per eleggere parlamentari) continuano però a percepire i “rimborsi” per tutto il 2011, e a quelli si sommano i “rimborsi” relativi alle elezioni politiche del 2008, quelle che hanno dato inizio alla legislatura in corso. Questa è la prima sovrapposizione paradossale: per non essere “finanziamento pubblico dei partiti” devono essere rimborsi elettorali, ma questo rende priva di senso la loro assegnazione in anni non elettorali, e doppiamente privo di senso il loro raddoppio. Poi c’è un’altra questione.
Nel 2008 i due principali partiti politici, Popolo della Libertà e Partito Democratico, erano appena nati dalla fusione di quattro partiti politici: Alleanza Nazionale e Forza Italia, il primo, Democratici di Sinistra e Margherita, il secondo. Quindi succede che Popolo della Libertà e Partito Democratico ricevano i rimborsi elettorali per le elezioni 2008 mentre Alleanza Nazionale, Forza Italia, Democratici di Sinistra e Margherita continuavano a percepire i rimborsi per le elezioni del 2006. Questi partiti, infatti, formalmente esistono ancora: non fanno attività politica – alcuni sono diventati amministrativamente delle fondazioni – ma hanno sedi, uffici, dipendenti, patrimoni. E soldi.
Che cosa è cambiato durante il governo Monti
Con l’insediamento del governo Monti, si disse che il Parlamento avrebbe dovuto approfittare di quella fase politica per risolvere alcune questioni: la legge elettorale, le riforme istituzionali, i costi della politica. Sul fronte del finanziamento pubblico ai partiti, dopo lunghe discussioni – e molte sedute parlamentari con pochi presenti in aula – i partiti hanno raggiunto un’intesa su un testo non condiviso soltanto da Italia dei Valori e Lega Nord, che giustificavano il disaccordo chiedendo l’eliminazione completa dei rimborsi piuttosto che la riduzione. A luglio del 2012 è stata infine approvata la legge n. 96/2012 (PD e PdL favorevoli, IdV contraria, Lega astenuta) che ha dimezzato i contributi pubblici per l’anno 2012 – da 182 a 91 milioni – e stabilito delle riduzioni per gli anni successivi. I fondi risparmiati con le riduzioni del 2012 e del 2013, circa 165 milioni di euro, sono stati destinati alle amministrazioni delle regioni colpite dai terremoti dell’Abruzzo e dell’Emilia Romagna).
La legge ha anche introdotto nuove condizioni per accedere ai fondi. I partiti devono ora ottenere il 2 per cento dei voti alla Camera o avere almeno un parlamentare eletto. Occorre inoltre che i partiti siano dotati di un atto costitutivo e di uno statuto “conformato a principi democratici nella vita interna, con particolare riguardo alla scelta dei candidati, al rispetto delle minoranze e ai diritti”. La legge ha anche stabilito alcune misure per regolare la trasparenza nell’assegnazione dei rimborsi. Una commissione composta da cinque magistrati (tre della Corte dei Conti, uno del Consiglio di Stato e uno della Corte di Cassazione) è stata istituita per vigilare sui bilanci dei partiti. E tutti i tesorieri di partito devono pubblicare redditi e patrimonio, anche dei familiari. Altre novità sono: la riduzione del 5 per cento sui rimborsi dei partiti le cui liste siano composte per più di due terzi da candidati dello stesso sesso; il divieto per i partiti di prendere in affitto o acquistare immobili da persone elette in parlamento, in Europa e nei Consigli regionali.
I rimborsi elettorali per la legislatura che sta per iniziare – previsti per i prossimi cinque anni – ammontano a 159 milioni di euro, di cui 46 milioni spetterebbero al PD, 43 milioni al M5S, 38 milioni al Pdl e 15 milioni alle liste Monti (Scelta Civica, Udc e Fli). Il Movimento 5 Stelle ha già annunciato che rinuncerà alla sua quota e oggi Beppe Grillo ha invitato Bersani e il PD a fare lo stesso.
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che sia migliorabile nessuno lo nega, ma dire che non è stato fatto niente è menzogna .
per sfatare il mito grilliano che i partiti continuino ad essere foraggiati con l'imbuto come le oche per il foie gras.
articolo tratto da il post 11.3. 2013 http://www.ilpost.it/2013/03/11/finanzi ... o-partiti/
Fare politica costa, spiegano sempre i partiti. Costano gli affitti delle sezioni, e dei teatri e delle sale in cui tenere le iniziative politiche, costano i telefoni e i manifesti, costano i viaggi, le campagne di propaganda, costano gli spot, costano gli uffici per organizzare l’attività di un partito, costano i dipendenti. Per pagare queste cose i partiti italiani hanno tre fonti principali di sostentamento economico: le quote versate dai propri iscritti e dai propri dirigenti (in diversi partiti i parlamentari versano parte del proprio stipendio al partito, e devono pagare una cifra al momento della candidatura), le donazioni ricevute (sia direttamente che indirettamente, si pensi per esempio agli stand delle feste dell’Unità), e i soldi pubblici assegnati per legge: il famigerato “finanziamento pubblico dei partiti”, oggi di nuovo molto discusso.
Il finanziamento pubblico dei partiti arrivò in Italia nel 1974 con una legge promossa dalla Democrazia Cristiana – e votata da tutti i partiti presenti in parlamento, PCI compreso, ed escluso il PLI – allo scopo, teoricamente, di ridurre il rischio di tentativi di corruzione. Si disse, infatti, che limitare ai fondi dei privati il sostentamento dei partiti avrebbe avuto possibili conseguenze negative. Che si fa, per esempio, se una o più persone ricchissime mettono le loro finanze a disposizione di un partito? Come si mette il sistema politico al riparo di quello che può accadere se un grande gruppo industriale o una lobby o anche un ente pubblico si mette a finanziare massicciamente uno più partiti per ottenerne in cambio dei vantaggi? O, simile e inverso, se un partito non ha fondi e deve trovare il modo di ottenere contributi privati?
La legge, approvata dopo alcuni scandali allo scopo di limitare la corruzione, obbligava i partiti che ricevevano il denaro pubblico a dare conto delle donazioni ricevute in bilanci trasparenti e a non ricevere donazioni da enti e strutture di proprietà pubblica (come l’ENI, per esempio) ma non ottenne il suo scopo. Nel 1976 l’industria statunitense Lockheed ammise di aver pagato tangenti a politici italiani per vendere i propri aerei militari. Sempre in quegli anni attorno al banchiere Michele Sindona emerse un grosso e torbido giro di corruzione e tangenti legato alla Democrazia Cristiana.
Nel 1978 un referendum proposto dai Radicali non raggiunse il quorum per pochi punti ma raccolse il 97 per cento dei voti per l’abolizione del finanziamento pubblico. Nel 1993, dopo le inchieste di “Tangentopoli”, un nuovo referendum ottenne il quorum e con il 90,3 per cento dei Sì il finanziamento pubblico ai partiti venne abrogato.
Dopo il referendum
Le leggi in vigore vennero quindi aggiustate e modificate in modo tale da eliminare, teoricamente, il finanziamento pubblico: ripristinandolo però sotto altre forme. Una vecchia legge sui rimborsi elettorali fu prima allargata e poi rimpiazzata nel 1999 da una nuova che, a cominciare dalle elezioni politiche del 2001, destina dei fondi a tutte le le liste che superano l’1 per cento dei voti, per tutta la durata della legislatura. Nel 2006 la legge venne ulteriormente modificata e attribuì il finanziamento per cinque anni dal voto, anche se la legislatura dovesse finire prima. Parliamo di molti soldi: 468 milioni di euro per ogni legislatura, quasi mezzo miliardo di denaro pubblico.
Le moltiplicazioni del finanziamento
La legislatura iniziata nel 2006, quella con le elezioni vinte di pochissimo dal centrosinistra, finì nel 2008. I partiti che ottennero almeno l’1 per cento dei voti (quindi anche alcuni che non sono in parlamento, avendo ottenuto meno voti della soglia di sbarramento per eleggere parlamentari) continuano però a percepire i “rimborsi” per tutto il 2011, e a quelli si sommano i “rimborsi” relativi alle elezioni politiche del 2008, quelle che hanno dato inizio alla legislatura in corso. Questa è la prima sovrapposizione paradossale: per non essere “finanziamento pubblico dei partiti” devono essere rimborsi elettorali, ma questo rende priva di senso la loro assegnazione in anni non elettorali, e doppiamente privo di senso il loro raddoppio. Poi c’è un’altra questione.
Nel 2008 i due principali partiti politici, Popolo della Libertà e Partito Democratico, erano appena nati dalla fusione di quattro partiti politici: Alleanza Nazionale e Forza Italia, il primo, Democratici di Sinistra e Margherita, il secondo. Quindi succede che Popolo della Libertà e Partito Democratico ricevano i rimborsi elettorali per le elezioni 2008 mentre Alleanza Nazionale, Forza Italia, Democratici di Sinistra e Margherita continuavano a percepire i rimborsi per le elezioni del 2006. Questi partiti, infatti, formalmente esistono ancora: non fanno attività politica – alcuni sono diventati amministrativamente delle fondazioni – ma hanno sedi, uffici, dipendenti, patrimoni. E soldi.
Che cosa è cambiato durante il governo Monti
Con l’insediamento del governo Monti, si disse che il Parlamento avrebbe dovuto approfittare di quella fase politica per risolvere alcune questioni: la legge elettorale, le riforme istituzionali, i costi della politica. Sul fronte del finanziamento pubblico ai partiti, dopo lunghe discussioni – e molte sedute parlamentari con pochi presenti in aula – i partiti hanno raggiunto un’intesa su un testo non condiviso soltanto da Italia dei Valori e Lega Nord, che giustificavano il disaccordo chiedendo l’eliminazione completa dei rimborsi piuttosto che la riduzione. A luglio del 2012 è stata infine approvata la legge n. 96/2012 (PD e PdL favorevoli, IdV contraria, Lega astenuta) che ha dimezzato i contributi pubblici per l’anno 2012 – da 182 a 91 milioni – e stabilito delle riduzioni per gli anni successivi. I fondi risparmiati con le riduzioni del 2012 e del 2013, circa 165 milioni di euro, sono stati destinati alle amministrazioni delle regioni colpite dai terremoti dell’Abruzzo e dell’Emilia Romagna).
La legge ha anche introdotto nuove condizioni per accedere ai fondi. I partiti devono ora ottenere il 2 per cento dei voti alla Camera o avere almeno un parlamentare eletto. Occorre inoltre che i partiti siano dotati di un atto costitutivo e di uno statuto “conformato a principi democratici nella vita interna, con particolare riguardo alla scelta dei candidati, al rispetto delle minoranze e ai diritti”. La legge ha anche stabilito alcune misure per regolare la trasparenza nell’assegnazione dei rimborsi. Una commissione composta da cinque magistrati (tre della Corte dei Conti, uno del Consiglio di Stato e uno della Corte di Cassazione) è stata istituita per vigilare sui bilanci dei partiti. E tutti i tesorieri di partito devono pubblicare redditi e patrimonio, anche dei familiari. Altre novità sono: la riduzione del 5 per cento sui rimborsi dei partiti le cui liste siano composte per più di due terzi da candidati dello stesso sesso; il divieto per i partiti di prendere in affitto o acquistare immobili da persone elette in parlamento, in Europa e nei Consigli regionali.
I rimborsi elettorali per la legislatura che sta per iniziare – previsti per i prossimi cinque anni – ammontano a 159 milioni di euro, di cui 46 milioni spetterebbero al PD, 43 milioni al M5S, 38 milioni al Pdl e 15 milioni alle liste Monti (Scelta Civica, Udc e Fli). Il Movimento 5 Stelle ha già annunciato che rinuncerà alla sua quota e oggi Beppe Grillo ha invitato Bersani e il PD a fare lo stesso.
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che sia migliorabile nessuno lo nega, ma dire che non è stato fatto niente è menzogna .
Re: La verità,vi prego,sul finanziamento ai partiti
e per completezza
http://www.ilpost.it/2013/03/08/quanto- ... lamentare/
In Italia fare il Parlamentare è un mestiere ben pagato: secondo la commissione Giovannini, che ha concluso i suoi lavori poco più di un anno fa, in tutto un parlamentare percepisce mensilmente 16 mila euro lordi, circa 11 mila euro netti. Secondo alcuni è una retribuzione troppo alta, molti partiti nei loro programmi hanno detto di volerla abbassare, il Movimento 5 Stelle ha costruito buona parte della sua campagna elettorale sui privilegi dei parlamentari. C’è una parte della storia che si conosce meno, però: quella dei costi che devono affrontare i parlamentari. Non i costi di rappresentanza, quelli che servono per organizzare iniziative, farsi conoscere, eccetera: i costi da pagare per farsi candidare, da quando in Italia vige una legge elettorale con le liste bloccate.
Per essere candidati in Parlamento con i principali partiti, in Italia – da almeno due elezioni – bisogna pagare ai partiti un “contributo alla campagna elettorale”: cifre che vanno dai 50 mila ai 20 mila euro per il PD e il PdL. A questa spesa una tantum vanno aggiunte le donazioni obbligatorie che ogni mese i parlamentari di alcuni partiti devono versare. Per PD e Lega Nord sono cifre che possono arrivare a diverse migliaia di euro al mese. A conti fatti, fare il parlamentare può essere un mestiere pagato bene ma piuttosto costoso.
I contributi alla campagna elettorale
Il contributo richiesto ai parlamentari è piuttosto recente: è stato introdotto nei principali partiti a partire dalle elezioni politiche del 2008. La giustificazione di questo contributo obbligatorio è nel cosiddetto “Porcellum”, l’attuale legge elettorale approvata nelle ultime settimane del 2006 dal governo Berlusconi. Con questa legge le liste dei candidati sono “bloccate”, cioè i candidati non vengono eletti in base al numero di preferenze che ottengono, ma soltanto in base alla loro posizione nella lista e al numero di voti che prende il partito in quella circoscrizione. Di conseguenza i candidati non investono più nella campagna elettorale e quindi i partiti richiedono il versamento di un contributo per sostituire quell’impegno.
Il tesoriere nazionale del parito Democratico, Antonio Misiani, ci ha spiegato così la motivazione di questo contributo elettorale: «Lo hanno fatto anche altre forze politiche. Il tema è che con l’attuale legge elettorale, che noi non condividiamo, non ci sono preferenze, la campagna elettorale è stata fatta esclusivamente dal partito e non dai singoli candidati: noi abbiamo chiesto ai singoli candidati, che non dovevano sostenere sforzi economici per la loro campagna elettorale, di contribuire alla campagna elettorale del partito». Bisogna tenere conto però che i partiti politici ricevono già ogni anno circa 200 milioni di euro in “rimborsi elettorali”, a titolo di finanziamento dell’attività politica e anche delle campagne elettorali (tant’è che spesso i rimborsi vengono stabiliti sulla base dei voti presi da ciascun partito).
Come funziona nel PdL
Nel PdL la cifra richiesta ai candidati in posizione eleggibile è fissa: 25 mila euro, ma a differenza del PD – ci arriveremo: lì le cose sono complicate – deve essere versata immediatamente all’atto della candidatura. Vale il principio che a pagare sono soltanto i candidati ritenuti in posizione eleggibile. La possibilità di richiedere un contributo agli eletti è presente nello statuto del PdL all’articolo 36 – dove è scritto che: «L’ammontare delle quote associative, delle quote di affiliazione e dei contributi dovuti dagli eletti nelle Assemblee rappresentative è stabilito dall’Ufficio di Presidenza sentito il Segretario amministrativo nazionale». Ai parlamentari del PdL però, non viene chiesto di contribuire con il loro stipendio mensile alle casse del partito.
Come funziona nella Lega Nord
Nella Lega Nord tutti gli eletti sono già tenuti a versare poco più del 40 per cento del loro stipendio al partito: a quello nazionale se sono stati eletti al Parlamento o in altri enti “nazionali”, a quello regionale se sono stati eletti alle assemblee regionali, e così via. I parlamentari versano tra i 2.000 e i 2.400 euro. Non si paga invece il contributo una tantum per la campagna elettorale.
Come funziona in Scelta Civica
Nel caso di Scelta Civica, la lista del presidente del Consiglio uscente Mario Monti, la contribuzione alla campagna elettorale ha funzionato diversamente: non c’è stato un mandato dall’alto ma i candidati si sono accordati tra di loro per decidere come contribuire. Stefano Quintarelli, eletto alla Camera nella circoscrizione del Veneto, ci ha spiegato che gli eletti hanno deciso autonomamente quanto pagare, secondo la propria disponibilità: «Non abbiamo avuto alcuna indicazione di comportamento dell’alto. Ci siamo riuniti tra i candidati e abbiamo deciso una linea comune in modo autonomo». Andrea Romano, eletto in Lazio alla Camera, ha spiegato che la questione dei contributi dovrebbe comunque essere ridiscussa in questi giorni.
Come funziona nel Movimento 5 stelle
Il regolamento prevede che i parlamentari ricevano un’indennità non superiore a 5 mila euro lordi, mentre potranno ottenere tutti gli altri benefit previsti. A conti fatti, come ha scritto Pippo Civati nel suo blog, i parlamentari del movimento rinunceranno all’incirca a 2.500 euro al mese – una cifra simile a quella dei parlamentari della Lega Nord, inferiore a quella dei parlamentari del PD. Con la differenza non da poco che i parlamentari di PD e Lega versano la quota al partito, mentre il M5S la restituisce allo Stato.
Come funziona nel Partito Democratico
Nel PD le cose funzionano in maniera più complessa e, a conti fatti, dal punto di vista economico è il partito nel quale è meno conveniente farsi eleggere. Come nella Lega Nord gli eletti sono tenuti a versare una parte del loro stipendio al partito, un’usanza che risale ai tempi del PCI. In più, come nel PdL, gli eletti in parlamento sono tenuti a versare un contributo alla campagna elettorale. In particolare, all’articolo 36 dello statuto, c’è scritto che il regolamento finanziario votato dalla direzione nazionale stabilisce «il sostegno finanziario degli eletti alle attività politiche del Partito Democratico».
L’ordine del giorno votato dalla direzione nazionale ha stabilito che i contributi restano alle direzioni regionali del partito che stabiliscono anche la quantità e i modi del contributo. Le regole, in generale, sono uguali ovunque: all’iscrizione nelle liste il candidato firma un impegno – un semplice documento – con il quale si impegna a versare, se eletto, la cifra richiesta entro la fine della legislatura.
La regione dove il contributo richiesto era maggiore è stata il Piemonte, dove ai consiglieri regionali candidati alle politiche è stato chiesto un contributo di 40 mila euro, ai parlamentari uscenti sono stati chiesti 50 mila euro, 30 mila euro invece per chi si candidava per la prima volta. In Emilia Romagna per essere candidati bisognava invece firmare un impegno scritto a versare al partito 35 mila euro entro la fine della legislatura. Massimo Gnudi, tesoriere del PD in Emilia Romagna, ha spiegato che si tratta di una soluzione aperta: è possibile versare i soldi subito, rateizzare il pagamento o versare al partito direttamente una parte più consistente della propria indennità da parlamentare. In Puglia invece la candidatura è più economica: 30 mila euro. In Lazio scende a 25 mila euro.
In genere l’impegno viene fatto sottoscrivere a tutti i candidati ed è possibile che a quelli in posizione molto “sicure” venga chiesto di anticipare tutta o parte della somma. In alcuni casi vengono eletti al Parlamento anche candidati considerati in posizioni non eleggibili e che quindi non avevano versato il contributo. Nella circoscrizione Veneto – dove bisognava versare come contributo 20 mila euro – erano considerati eleggibili i primi 10 candidati alla Camera, ma ne sono stati eletti 13.
Alessia Rotta, di Verona, è uno di questi tre e ci ha raccontato che ora verserà, come gli altri dieci, i 25 mila euro di contributi alla campagna elettorale, anche se in precedenza non le era stato chiesto di firmare alcun impegno. Pippo Civati, eletto in Lombardia dove la cifra richiesta agli eleggibili era 30 mila euro, ha spiegato che«a quelli che erano sicuramente eleggibili li hanno chiesti subito. Ora tutti gli eletti sono tenuti ex post a versare il contributo».
Sempre su base regionale, gli eletti del PD sono tenuti a fare anche un altro versamento al partito completamente slegato da questo contributo alla campagna elettorale. Si tratta di una percentuale decisa su base regionale. «A me risulta», ha detto Civati, «che i parlamentari eletti a Monza prima di me versano intorno ai 3 mila euro abbondanti al mese». In altri casi questo versamento può arrivare anche a 4 mila euro al mese.
In conclusione: prendendo un costo del contributo alla campagna elettorale medio di 30 mila euro e dividendolo per i 60 mesi della legislatura si ottiene una spesa mensile per il parlamentare del PD di 500 euro. Se a questa aggiungiamo l’altro contributo sullo stipendio, viene fuori che fare i parlamentari per il PD può arrivare a costare tra i 3.500 e i 4.500 euro al mese, cioè una cifra pari a quasi la metà degli 11 mila euro, tra indennità e altri bonus, che percepiscono i parlamentari. Quasi l’intera indennità.
http://www.ilpost.it/2013/03/08/quanto- ... lamentare/
In Italia fare il Parlamentare è un mestiere ben pagato: secondo la commissione Giovannini, che ha concluso i suoi lavori poco più di un anno fa, in tutto un parlamentare percepisce mensilmente 16 mila euro lordi, circa 11 mila euro netti. Secondo alcuni è una retribuzione troppo alta, molti partiti nei loro programmi hanno detto di volerla abbassare, il Movimento 5 Stelle ha costruito buona parte della sua campagna elettorale sui privilegi dei parlamentari. C’è una parte della storia che si conosce meno, però: quella dei costi che devono affrontare i parlamentari. Non i costi di rappresentanza, quelli che servono per organizzare iniziative, farsi conoscere, eccetera: i costi da pagare per farsi candidare, da quando in Italia vige una legge elettorale con le liste bloccate.
Per essere candidati in Parlamento con i principali partiti, in Italia – da almeno due elezioni – bisogna pagare ai partiti un “contributo alla campagna elettorale”: cifre che vanno dai 50 mila ai 20 mila euro per il PD e il PdL. A questa spesa una tantum vanno aggiunte le donazioni obbligatorie che ogni mese i parlamentari di alcuni partiti devono versare. Per PD e Lega Nord sono cifre che possono arrivare a diverse migliaia di euro al mese. A conti fatti, fare il parlamentare può essere un mestiere pagato bene ma piuttosto costoso.
I contributi alla campagna elettorale
Il contributo richiesto ai parlamentari è piuttosto recente: è stato introdotto nei principali partiti a partire dalle elezioni politiche del 2008. La giustificazione di questo contributo obbligatorio è nel cosiddetto “Porcellum”, l’attuale legge elettorale approvata nelle ultime settimane del 2006 dal governo Berlusconi. Con questa legge le liste dei candidati sono “bloccate”, cioè i candidati non vengono eletti in base al numero di preferenze che ottengono, ma soltanto in base alla loro posizione nella lista e al numero di voti che prende il partito in quella circoscrizione. Di conseguenza i candidati non investono più nella campagna elettorale e quindi i partiti richiedono il versamento di un contributo per sostituire quell’impegno.
Il tesoriere nazionale del parito Democratico, Antonio Misiani, ci ha spiegato così la motivazione di questo contributo elettorale: «Lo hanno fatto anche altre forze politiche. Il tema è che con l’attuale legge elettorale, che noi non condividiamo, non ci sono preferenze, la campagna elettorale è stata fatta esclusivamente dal partito e non dai singoli candidati: noi abbiamo chiesto ai singoli candidati, che non dovevano sostenere sforzi economici per la loro campagna elettorale, di contribuire alla campagna elettorale del partito». Bisogna tenere conto però che i partiti politici ricevono già ogni anno circa 200 milioni di euro in “rimborsi elettorali”, a titolo di finanziamento dell’attività politica e anche delle campagne elettorali (tant’è che spesso i rimborsi vengono stabiliti sulla base dei voti presi da ciascun partito).
Come funziona nel PdL
Nel PdL la cifra richiesta ai candidati in posizione eleggibile è fissa: 25 mila euro, ma a differenza del PD – ci arriveremo: lì le cose sono complicate – deve essere versata immediatamente all’atto della candidatura. Vale il principio che a pagare sono soltanto i candidati ritenuti in posizione eleggibile. La possibilità di richiedere un contributo agli eletti è presente nello statuto del PdL all’articolo 36 – dove è scritto che: «L’ammontare delle quote associative, delle quote di affiliazione e dei contributi dovuti dagli eletti nelle Assemblee rappresentative è stabilito dall’Ufficio di Presidenza sentito il Segretario amministrativo nazionale». Ai parlamentari del PdL però, non viene chiesto di contribuire con il loro stipendio mensile alle casse del partito.
Come funziona nella Lega Nord
Nella Lega Nord tutti gli eletti sono già tenuti a versare poco più del 40 per cento del loro stipendio al partito: a quello nazionale se sono stati eletti al Parlamento o in altri enti “nazionali”, a quello regionale se sono stati eletti alle assemblee regionali, e così via. I parlamentari versano tra i 2.000 e i 2.400 euro. Non si paga invece il contributo una tantum per la campagna elettorale.
Come funziona in Scelta Civica
Nel caso di Scelta Civica, la lista del presidente del Consiglio uscente Mario Monti, la contribuzione alla campagna elettorale ha funzionato diversamente: non c’è stato un mandato dall’alto ma i candidati si sono accordati tra di loro per decidere come contribuire. Stefano Quintarelli, eletto alla Camera nella circoscrizione del Veneto, ci ha spiegato che gli eletti hanno deciso autonomamente quanto pagare, secondo la propria disponibilità: «Non abbiamo avuto alcuna indicazione di comportamento dell’alto. Ci siamo riuniti tra i candidati e abbiamo deciso una linea comune in modo autonomo». Andrea Romano, eletto in Lazio alla Camera, ha spiegato che la questione dei contributi dovrebbe comunque essere ridiscussa in questi giorni.
Come funziona nel Movimento 5 stelle
Il regolamento prevede che i parlamentari ricevano un’indennità non superiore a 5 mila euro lordi, mentre potranno ottenere tutti gli altri benefit previsti. A conti fatti, come ha scritto Pippo Civati nel suo blog, i parlamentari del movimento rinunceranno all’incirca a 2.500 euro al mese – una cifra simile a quella dei parlamentari della Lega Nord, inferiore a quella dei parlamentari del PD. Con la differenza non da poco che i parlamentari di PD e Lega versano la quota al partito, mentre il M5S la restituisce allo Stato.
Come funziona nel Partito Democratico
Nel PD le cose funzionano in maniera più complessa e, a conti fatti, dal punto di vista economico è il partito nel quale è meno conveniente farsi eleggere. Come nella Lega Nord gli eletti sono tenuti a versare una parte del loro stipendio al partito, un’usanza che risale ai tempi del PCI. In più, come nel PdL, gli eletti in parlamento sono tenuti a versare un contributo alla campagna elettorale. In particolare, all’articolo 36 dello statuto, c’è scritto che il regolamento finanziario votato dalla direzione nazionale stabilisce «il sostegno finanziario degli eletti alle attività politiche del Partito Democratico».
L’ordine del giorno votato dalla direzione nazionale ha stabilito che i contributi restano alle direzioni regionali del partito che stabiliscono anche la quantità e i modi del contributo. Le regole, in generale, sono uguali ovunque: all’iscrizione nelle liste il candidato firma un impegno – un semplice documento – con il quale si impegna a versare, se eletto, la cifra richiesta entro la fine della legislatura.
La regione dove il contributo richiesto era maggiore è stata il Piemonte, dove ai consiglieri regionali candidati alle politiche è stato chiesto un contributo di 40 mila euro, ai parlamentari uscenti sono stati chiesti 50 mila euro, 30 mila euro invece per chi si candidava per la prima volta. In Emilia Romagna per essere candidati bisognava invece firmare un impegno scritto a versare al partito 35 mila euro entro la fine della legislatura. Massimo Gnudi, tesoriere del PD in Emilia Romagna, ha spiegato che si tratta di una soluzione aperta: è possibile versare i soldi subito, rateizzare il pagamento o versare al partito direttamente una parte più consistente della propria indennità da parlamentare. In Puglia invece la candidatura è più economica: 30 mila euro. In Lazio scende a 25 mila euro.
In genere l’impegno viene fatto sottoscrivere a tutti i candidati ed è possibile che a quelli in posizione molto “sicure” venga chiesto di anticipare tutta o parte della somma. In alcuni casi vengono eletti al Parlamento anche candidati considerati in posizioni non eleggibili e che quindi non avevano versato il contributo. Nella circoscrizione Veneto – dove bisognava versare come contributo 20 mila euro – erano considerati eleggibili i primi 10 candidati alla Camera, ma ne sono stati eletti 13.
Alessia Rotta, di Verona, è uno di questi tre e ci ha raccontato che ora verserà, come gli altri dieci, i 25 mila euro di contributi alla campagna elettorale, anche se in precedenza non le era stato chiesto di firmare alcun impegno. Pippo Civati, eletto in Lombardia dove la cifra richiesta agli eleggibili era 30 mila euro, ha spiegato che«a quelli che erano sicuramente eleggibili li hanno chiesti subito. Ora tutti gli eletti sono tenuti ex post a versare il contributo».
Sempre su base regionale, gli eletti del PD sono tenuti a fare anche un altro versamento al partito completamente slegato da questo contributo alla campagna elettorale. Si tratta di una percentuale decisa su base regionale. «A me risulta», ha detto Civati, «che i parlamentari eletti a Monza prima di me versano intorno ai 3 mila euro abbondanti al mese». In altri casi questo versamento può arrivare anche a 4 mila euro al mese.
In conclusione: prendendo un costo del contributo alla campagna elettorale medio di 30 mila euro e dividendolo per i 60 mesi della legislatura si ottiene una spesa mensile per il parlamentare del PD di 500 euro. Se a questa aggiungiamo l’altro contributo sullo stipendio, viene fuori che fare i parlamentari per il PD può arrivare a costare tra i 3.500 e i 4.500 euro al mese, cioè una cifra pari a quasi la metà degli 11 mila euro, tra indennità e altri bonus, che percepiscono i parlamentari. Quasi l’intera indennità.
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