Francesco un papa ...Cristiano!
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Re: Francesco un papa ...Cristiano!
29/07/2013
Vaticano, firmato accordo di trasparenza finanziaria con l’Italia
http://vaticaninsider.lastampa.it/vatic ... ano-26835/
Vaticano, firmato accordo di trasparenza finanziaria con l’Italia
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Re: Francesco un papa ...Cristiano!
Papa Francesco vuole cambiare “premier”. Bertone non molla e vuole nuovi incarichi
Pranzo di fuoco tra il pontefice e il segretario di Stato che come "buonuscita" punta a un altro ruolo, come accadde per Sodano (che è tuttora decano del collegio cardinalizio). Il porporato salesiano vorrebbe restare presidente della commissione di vigilanza dello Ior. Soprattutto per "difendersi" da chi lo considera il responsabile delle dimissioni di Benedetto XVI
di Francesco Antonio Grana | 16 agosto 2013
Pranzo di fuoco per Bergoglio e Bertone. E non per le temperature estive di Castel Gandolfo. Il segretario di Stato di Sua Santità non vuole uscire di scena e ha chiesto al Pontefice un nuovo incarico. “Torno a Roma a svolgere i compiti che Papa Francesco, che è un vulcano inesauribile, ci assegna tutte le settimane per non dire tutti i giorni”. Così, qualche giorno fa, Bertone aveva salutato le montagne di Introd, in Valle d’Aosta, dove ha trascorso la sua ultima vacanza da “premier” del Papa, durata soltanto nove giorni, dopo aver accompagnato Francesco in Brasile per il suo primo viaggio internazionale. “Dopo questa ossigenazione nelle montagne della Valle d’Aosta – aveva aggiunto Bertone parlando con i giornalisti – spero di continuare il mio lavoro, il mio servizio, anche nelle calure di Roma”.
Da Casa Santa Marta l’inquilino della suite 201 aveva ascoltato in silenzio le affermazioni del suo “capo del governo” ai microfoni dei cronisti convinto che quello fosse un modo per preparare la sua uscita di scena dopo 5 mesi dall’inizio del nuovo pontificato. Ma Bergoglio si sbagliava. Ritornato a Roma Bertone ha chiesto subito di poter incontrare il Papa per esporgli le sue richieste per la sua exit strategy. Francesco, però, non ha avuto fretta di riceverlo subito. Ha cercato di allontanare il calice amaro temendo che tra i due si sarebbe arrivati alla resa dei conti, che in Vaticano chiamano con l’espressione evangelica redde rationem riprendendo una frase di Gesù (“Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore”). Bertone ha intuito e prudentemente non si è presentato né all’udienza delle nazionali italiana e argentina con il Papa, il 13 agosto, né all’indomani allo stadio Olimpico per la partita amichevole in onore di Francesco. “Dev’essergli costato davvero molto – sottolinea chi lo conosce bene – non partecipare ai due eventi sportivi”.
Il Papa e il suo “premier” non hanno forzato l’agenda attendendo di vedersi, come già previsto, il 15 agosto per la messa di Francesco a Castel Gandolfo, concelebrata proprio da Bertone e dal suo predecessore Angelo Sodano. Al termine dell’Angelus Bergoglio si è congedato dalla folla con il suo consueto “buon pranzo”. A lui toccava quello con Bertone a villa Barberini, residenza estiva del segretario di Stato a Castel Gandolfo. E per Francesco le pietanze sono diventate subito indigeste. Bertone ha chiesto al Papa, una volta nominato il suo successore alla guida della segreteria di Stato, di avere un altro incarico che possa così non farlo uscire completamente di scena, ma soprattutto possa funzionare da parafulmine ai numerosi attacchi che altrimenti riceverebbe, dentro e fuori la Curia, da coloro che sono rimasti a dir poco scontenti della sua gestione e che lo reputano primo e unico responsabile delle dimissioni di Benedetto XVI.
Bertone, che il prossimo 2 dicembre compirà 79 anni, ha fatto notare a Bergoglio che il suo predecessore Angelo Sodano quando lasciò la guida della segreteria di Stato nel 2006 rimase decano del collegio cardinalizio, carica che ricopre tutt’ora all’età di 86 anni. Il porporato salesiano pensa a qualcosa di analogo per sé, ma la soluzione al problema l’ha offerta lui stesso a Papa Francesco. Benedetto XVI prima di lasciare il pontificato gli ha rinnovato per 5 anni, ovvero fino al 2018, la presidenza della commissione cardinalizia di vigilanza sullo Ior. Per il codice di diritto canonico, però, Bertone non potrà ricoprire questa carica fino alla scadenza naturale del mandato. Esso, infatti, prevede che al compimento degli 80 anni i porporati perdono il diritto di entrare in conclave e decadono automaticamente da tutti gli incarichi nella Curia romana. Tranne, ovviamente, se il Papa non dispone in modo diverso, ma limitatamente alla seconda parte della norma ecclesiastica. Ed è ciò che vuole Bertone: lasciare la segretaria di Stato, ma non la presidenza della commissione cardinalizia di vigilanza sulla banca vaticana.
Una richiesta che ha lasciato l’amaro in bocca a Bergoglio colpevole, secondo il cardinale di New York e presidente dei vescovi Usa Timothy Michael Dolan, di non aver rimosso subito dopo il conclave Bertone e di averlo portato con sé in Brasile offrendogli una vetrina eccezionale dopo tutte le accese critiche che aveva ricevuto durante le dieci congregazioni generali che hanno preceduto il conclave di marzo. “Sono di più gli scontri che lo hanno visto protagonista che gli interventi per tracciare il profilo che avrebbe dovuto avere il nuovo Papa”, sussurra un anziano cardinale. A molti alti prelati non è piaciuta nemmeno la scelta di Bertone di trascorrere alcuni giorni di vacanza nella villetta di Introd che aveva ospitato Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. “Un gesto di pessimo gusto”, lo definisce un anziano presule che aggiunge: “Non mi stupisce che sia andato a dormire nella villetta pontificia che ha ospitato il Papa santo e il Papa emerito. Per lui il pontificato rimarrà per sempre soltanto un sogno”.
Proprio al suo arrivo a Introd, Bertone, rompendo mesi di silenzio, aveva affermato che la riforma della banca vaticana era stata avviata prima di Bergoglio. ”Io sono presidente della commissione cardinalizia di vigilanza sullo Ior – aveva precisato il porporato – e questo processo l’abbiamo iniziato già prima dell’arrivo di Papa Francesco”. Pronta la risposta di Bergoglio che l’8 agosto, con Bertone in ferie, aveva firmato un motu proprio per il contrasto del riciclaggio di denaro che avviene proprio nella banca vaticana, rafforzando i poteri di controllo dell’Autorità di informazione finanziaria della Santa Sede presieduta dal cardinale Attilio Nicora, nemico acerrimo del porporato salesiano che lo aveva estromesso dalla commissione cardinalizia di vigilanza sullo Ior.
La domanda del cardinale Dolan è quella che si fanno tutti dentro e fuori il Vaticano: perché Francesco non ha ancora rimosso Bertone? La risposta è tutta nell’inedita presenza di due Papi in Vaticano. Bergoglio sa bene quanto il cardinale salesiano sia nel cuore di Benedetto XVI, nonostante il loro “duumvirato” abbia portato Ratzinger alle dimissioni. E Francesco, sostituendo Bertone a settembre dopo il viaggio in Brasile, pensava di rendere meno traumatica la successione alla guida della segreteria di Stato. Ma si sbagliava.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/08 ... co/685531/
Pranzo di fuoco tra il pontefice e il segretario di Stato che come "buonuscita" punta a un altro ruolo, come accadde per Sodano (che è tuttora decano del collegio cardinalizio). Il porporato salesiano vorrebbe restare presidente della commissione di vigilanza dello Ior. Soprattutto per "difendersi" da chi lo considera il responsabile delle dimissioni di Benedetto XVI
di Francesco Antonio Grana | 16 agosto 2013
Pranzo di fuoco per Bergoglio e Bertone. E non per le temperature estive di Castel Gandolfo. Il segretario di Stato di Sua Santità non vuole uscire di scena e ha chiesto al Pontefice un nuovo incarico. “Torno a Roma a svolgere i compiti che Papa Francesco, che è un vulcano inesauribile, ci assegna tutte le settimane per non dire tutti i giorni”. Così, qualche giorno fa, Bertone aveva salutato le montagne di Introd, in Valle d’Aosta, dove ha trascorso la sua ultima vacanza da “premier” del Papa, durata soltanto nove giorni, dopo aver accompagnato Francesco in Brasile per il suo primo viaggio internazionale. “Dopo questa ossigenazione nelle montagne della Valle d’Aosta – aveva aggiunto Bertone parlando con i giornalisti – spero di continuare il mio lavoro, il mio servizio, anche nelle calure di Roma”.
Da Casa Santa Marta l’inquilino della suite 201 aveva ascoltato in silenzio le affermazioni del suo “capo del governo” ai microfoni dei cronisti convinto che quello fosse un modo per preparare la sua uscita di scena dopo 5 mesi dall’inizio del nuovo pontificato. Ma Bergoglio si sbagliava. Ritornato a Roma Bertone ha chiesto subito di poter incontrare il Papa per esporgli le sue richieste per la sua exit strategy. Francesco, però, non ha avuto fretta di riceverlo subito. Ha cercato di allontanare il calice amaro temendo che tra i due si sarebbe arrivati alla resa dei conti, che in Vaticano chiamano con l’espressione evangelica redde rationem riprendendo una frase di Gesù (“Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore”). Bertone ha intuito e prudentemente non si è presentato né all’udienza delle nazionali italiana e argentina con il Papa, il 13 agosto, né all’indomani allo stadio Olimpico per la partita amichevole in onore di Francesco. “Dev’essergli costato davvero molto – sottolinea chi lo conosce bene – non partecipare ai due eventi sportivi”.
Il Papa e il suo “premier” non hanno forzato l’agenda attendendo di vedersi, come già previsto, il 15 agosto per la messa di Francesco a Castel Gandolfo, concelebrata proprio da Bertone e dal suo predecessore Angelo Sodano. Al termine dell’Angelus Bergoglio si è congedato dalla folla con il suo consueto “buon pranzo”. A lui toccava quello con Bertone a villa Barberini, residenza estiva del segretario di Stato a Castel Gandolfo. E per Francesco le pietanze sono diventate subito indigeste. Bertone ha chiesto al Papa, una volta nominato il suo successore alla guida della segreteria di Stato, di avere un altro incarico che possa così non farlo uscire completamente di scena, ma soprattutto possa funzionare da parafulmine ai numerosi attacchi che altrimenti riceverebbe, dentro e fuori la Curia, da coloro che sono rimasti a dir poco scontenti della sua gestione e che lo reputano primo e unico responsabile delle dimissioni di Benedetto XVI.
Bertone, che il prossimo 2 dicembre compirà 79 anni, ha fatto notare a Bergoglio che il suo predecessore Angelo Sodano quando lasciò la guida della segreteria di Stato nel 2006 rimase decano del collegio cardinalizio, carica che ricopre tutt’ora all’età di 86 anni. Il porporato salesiano pensa a qualcosa di analogo per sé, ma la soluzione al problema l’ha offerta lui stesso a Papa Francesco. Benedetto XVI prima di lasciare il pontificato gli ha rinnovato per 5 anni, ovvero fino al 2018, la presidenza della commissione cardinalizia di vigilanza sullo Ior. Per il codice di diritto canonico, però, Bertone non potrà ricoprire questa carica fino alla scadenza naturale del mandato. Esso, infatti, prevede che al compimento degli 80 anni i porporati perdono il diritto di entrare in conclave e decadono automaticamente da tutti gli incarichi nella Curia romana. Tranne, ovviamente, se il Papa non dispone in modo diverso, ma limitatamente alla seconda parte della norma ecclesiastica. Ed è ciò che vuole Bertone: lasciare la segretaria di Stato, ma non la presidenza della commissione cardinalizia di vigilanza sulla banca vaticana.
Una richiesta che ha lasciato l’amaro in bocca a Bergoglio colpevole, secondo il cardinale di New York e presidente dei vescovi Usa Timothy Michael Dolan, di non aver rimosso subito dopo il conclave Bertone e di averlo portato con sé in Brasile offrendogli una vetrina eccezionale dopo tutte le accese critiche che aveva ricevuto durante le dieci congregazioni generali che hanno preceduto il conclave di marzo. “Sono di più gli scontri che lo hanno visto protagonista che gli interventi per tracciare il profilo che avrebbe dovuto avere il nuovo Papa”, sussurra un anziano cardinale. A molti alti prelati non è piaciuta nemmeno la scelta di Bertone di trascorrere alcuni giorni di vacanza nella villetta di Introd che aveva ospitato Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. “Un gesto di pessimo gusto”, lo definisce un anziano presule che aggiunge: “Non mi stupisce che sia andato a dormire nella villetta pontificia che ha ospitato il Papa santo e il Papa emerito. Per lui il pontificato rimarrà per sempre soltanto un sogno”.
Proprio al suo arrivo a Introd, Bertone, rompendo mesi di silenzio, aveva affermato che la riforma della banca vaticana era stata avviata prima di Bergoglio. ”Io sono presidente della commissione cardinalizia di vigilanza sullo Ior – aveva precisato il porporato – e questo processo l’abbiamo iniziato già prima dell’arrivo di Papa Francesco”. Pronta la risposta di Bergoglio che l’8 agosto, con Bertone in ferie, aveva firmato un motu proprio per il contrasto del riciclaggio di denaro che avviene proprio nella banca vaticana, rafforzando i poteri di controllo dell’Autorità di informazione finanziaria della Santa Sede presieduta dal cardinale Attilio Nicora, nemico acerrimo del porporato salesiano che lo aveva estromesso dalla commissione cardinalizia di vigilanza sullo Ior.
La domanda del cardinale Dolan è quella che si fanno tutti dentro e fuori il Vaticano: perché Francesco non ha ancora rimosso Bertone? La risposta è tutta nell’inedita presenza di due Papi in Vaticano. Bergoglio sa bene quanto il cardinale salesiano sia nel cuore di Benedetto XVI, nonostante il loro “duumvirato” abbia portato Ratzinger alle dimissioni. E Francesco, sostituendo Bertone a settembre dopo il viaggio in Brasile, pensava di rendere meno traumatica la successione alla guida della segreteria di Stato. Ma si sbagliava.
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Re: Francesco un papa ...Cristiano!
Un altro Silvio oltre le mura leonine?
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Re: Francesco un papa ...Cristiano!
Anche lui chiede (pretende) la sua "agibilità".camillobenso ha scritto:Un altro Silvio oltre le mura leonine?
Da capire, la sua "pretesa", in forza di che?
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Re: Francesco un papa ...Cristiano!
erding ha scritto:Anche lui chiede (pretende) la sua "agibilità".camillobenso ha scritto:Un altro Silvio oltre le mura leonine?
Da capire, la sua "pretesa", in forza di che?
E’ comprensibile l’amore per il proprio lavoro. Lo hanno fatto attori come Paola Borboni, Ernesto Calindri, lo sta facendo con grande difficoltà Franca Valeri.
Ma per Bertone, (79 anni) si tratta di potere.
Forse non è credente e vuole sfruttare il tutto fino all’ultimo?
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Re: Francesco un papa ...Cristiano!
Immigrazione, papa Francesco: “Dare i conventi chiusi ai rifugiati”
Il pontefice, in un incontro al centro Astalli, ha sostenuto l'idea di riutilizzare i monasteri non più in uso per ospitare i profughi in cerca di un riparo. Queste strutture, ha aggiunto Bergoglio, non servono alla Chiesa per essere trasformate in alberghi e per guadagnare altri soldi
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 10 settembre 2013
“A cosa servono alla Chiesa i conventi chiusi? I conventi dovrebbero servire alla carne di Cristo e i rifugiati sono la carne di Cristo“. A dirlo è papa Francesco, durante il suo discorso nel centro Astalli, gestito dai Gesuiti per ospitare i migranti. “I conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi”, ha aggiunto il pontefice.
La visita al centro, dove Francesco è arrivato senza scorta, si è svolta in forma riservata, senza la presenza di cameramen e giornalisti. Dopo avere salutato i presenti alla mensa, papa Bergoglio ha incontrato una rappresentanza degli ospiti del centro, acuin ha rivolto un personale ringraziamento: “Grazie, perché difendete la vostra e la nostra dignità umana” . “I conventi vuoti non sono nostri”, ha poi aggiunto, “sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati”. ”Il Signore chiama a vivere con generosità e coraggio la accoglienza nei conventi vuoti” ha proseguito Francesco. “Certo non è qualcosa di semplice, ci vogliono criterio, responsabilità, ma ci vuole anche coraggio”. Il pontefice ha voluto insistere sullo spirito di povertà della Chiesa che sta caratterizzando il suo mandato: “Facciamo tanto, forse siamo chiamati a fare di più, accogliendo e condividendo con decisione ciò che la Provvidenza ci ha donato per servire”.
Il papa ha poi invitato i presenti ad andare oltre alla semplice elemosina: non basta garantire a ciascuno “un panino”, ma occorre accompagnare con gesti concreti il percorso di integrazione di immigrati, profughi e rifugiati. “Per tutta la Chiesa è importante che l’accoglienza del povero e la promozione della giustizia non vengano affidate solo a degli specialisti” ha spiegato Bergoglio, per cui una particolare attenzione nei confronti dell’indigenza dovrebbe essere propria di “tutta la pastorale, della formazione dei futuri sacerdoti e religiosi, dell’impegno normale di tutte le parrocchie, i movimenti e le aggregazioni ecclesiali”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/09 ... ti/707814/
Il pontefice, in un incontro al centro Astalli, ha sostenuto l'idea di riutilizzare i monasteri non più in uso per ospitare i profughi in cerca di un riparo. Queste strutture, ha aggiunto Bergoglio, non servono alla Chiesa per essere trasformate in alberghi e per guadagnare altri soldi
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 10 settembre 2013
“A cosa servono alla Chiesa i conventi chiusi? I conventi dovrebbero servire alla carne di Cristo e i rifugiati sono la carne di Cristo“. A dirlo è papa Francesco, durante il suo discorso nel centro Astalli, gestito dai Gesuiti per ospitare i migranti. “I conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi”, ha aggiunto il pontefice.
La visita al centro, dove Francesco è arrivato senza scorta, si è svolta in forma riservata, senza la presenza di cameramen e giornalisti. Dopo avere salutato i presenti alla mensa, papa Bergoglio ha incontrato una rappresentanza degli ospiti del centro, acuin ha rivolto un personale ringraziamento: “Grazie, perché difendete la vostra e la nostra dignità umana” . “I conventi vuoti non sono nostri”, ha poi aggiunto, “sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati”. ”Il Signore chiama a vivere con generosità e coraggio la accoglienza nei conventi vuoti” ha proseguito Francesco. “Certo non è qualcosa di semplice, ci vogliono criterio, responsabilità, ma ci vuole anche coraggio”. Il pontefice ha voluto insistere sullo spirito di povertà della Chiesa che sta caratterizzando il suo mandato: “Facciamo tanto, forse siamo chiamati a fare di più, accogliendo e condividendo con decisione ciò che la Provvidenza ci ha donato per servire”.
Il papa ha poi invitato i presenti ad andare oltre alla semplice elemosina: non basta garantire a ciascuno “un panino”, ma occorre accompagnare con gesti concreti il percorso di integrazione di immigrati, profughi e rifugiati. “Per tutta la Chiesa è importante che l’accoglienza del povero e la promozione della giustizia non vengano affidate solo a degli specialisti” ha spiegato Bergoglio, per cui una particolare attenzione nei confronti dell’indigenza dovrebbe essere propria di “tutta la pastorale, della formazione dei futuri sacerdoti e religiosi, dell’impegno normale di tutte le parrocchie, i movimenti e le aggregazioni ecclesiali”.
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Re: Francesco un papa ...Cristiano!
Le risposte che i due Papi non danno
di EUGENIO SCALFARI
LA POLITICA e l’economia non forniscono novità in questo week-end estivo. Solo Renzi e i suoi contraddittori proseguono nel loro chiacchiericcio ma, per quanto mi riguarda, mi sembra inutilmente ripetitivo. Le vere novità riguardano quanto sta accadendo in Egitto e di riflesso in tutto il Medio Oriente; se ne occupano i nostri inviati e commentatori che conoscono a menadito l’argomento.
Perciò, tutto considerato, il tema che più mi appassiona è l’enciclica “Lumen Fidei”, la prima firmata da papa Francesco. L’argomento è importante perché tocca il punto centrale della dottrina cristiana: che cos’è la fede, da dove proviene, come è vissuta dai credenti, quali reazioni suscita in chi non è cristiano, come spiega l’esistenza della razza umana e come risponde alle domande che ciascuno di noi si pone e alle quali il più delle volte non trova risposta: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo.
Questo è il tema dell’enciclica e quasi ogni papa l’ha affrontato durante il suo pontificato, specie dal XIX secolo in poi, quando cioè la modernità ha rivalutato la ragione ed ha messo in discussione il concetto di “assoluto” a cominciare dalla verità. Esiste una sola verità o tante quante i singoli individui e la loro mente ragionante ne configurano?
La Chiesa cattolica non poteva sfuggire ad un cimento di fondamentale importanza che tra l’altro chiama in causa la libertà che rappresenta la radice su cui poggia la civiltà stessa dell’Europa moderna. Di qui l’importanza dell’enciclica.
È singolare il fatto che il Concilio Vaticano II il tema della fede non l’abbia affrontato. Si proponeva esplicitamente di aprire il dialogo tra la Chiesa e la modernità; se fosse partito dall’ intangibilità degli “assoluti” sarebbe partito col piede sbagliato.
Papa Francesco invece ha seguito il percorso tradizionale. Il fatto che il contenuto della “Lumen Fidei” sia stato predisposto da papa Ratzinger ha scarso interesse se non per gli storici che si occupano delle vicende dei papi. Francesco, sia pure con svariati ritocchi, ha fatto proprio l’abbozzo trasmessogli da Ratzinger ed è dunque lui che ne risponde nella sua alta posizione apostolica di Pontefice e Vescovo di Roma. La discussione è dunque aperta.
Osservo di sfuggita che contemporaneamente alla pubblicazione dell’enciclica il papa ha decretato la santificazione di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II; il primo mise le basi del Vaticano II e assegnò ai Vescovi i temi da esaminare; il secondo fece in qualche modo macchina indietro o quanto meno cessò di portarla avanti.
Come si è collocato ora Jorge Bergoglio? Questa mi sembra la domanda cui rispondere da parte di un non credente che tuttavia cerca senza pregiudizi di chiarire un tema che ci riguarda tutti da vicino.
* * *
I protagonisti religiosi e culturali dell’enciclica sono: il dio biblico e il suo rapporto con Abramo; Mosè e il suo ruolo di mediatore tra Dio e il popolo di Israele; il Vangelo dell’apostolo Giovanni; il pensiero di Paolo e quello di Agostino.
Faccio ora una prima osservazione: trovo singolare che papa Francesco basi gran parte del suo documento sul quarto Vangelo attribuito senza dubbio alcuno all’apostolo. Gli studiosi dei Vangeli e degli evangelisti hanno collocato quei documenti tra gli anni quaranta e i settanta dopo Cristo. Quello di Marco sarebbe il primo; subito dopo, tra i quaranta e i cinquanta, Matteo e Luca; Giovanni tra i sessanta e i settanta. Poiché Gesù morì circa a 33 anni di età, se l’evangelista del quarto Vangelo fosse l’apostolo, l’avrebbe scritto tra i suoi 80-90 anni, il che sembra francamente improbabile.
Comunque, condizione apostolica o meno, Giovanni come Marco non fornisce alcuna notizia sulla nascita e l’infanzia di Gesù. Non c’è Betlemme, non ci sono Giuseppe e Maria, non c’è stella cometa, pastori adoranti e Magi venuti dall’Oriente; non c’è fuga in Egitto né strage degli innocenti.
Il Vangelo di Giovanni comincia con versi profetici e poetici: «In principio era il Verbo / e il Verbo era Dio / tutte le cose furono fatte per mezzo di lui / e senza di lui nulla fu fatto di quanto esiste. / In lui era la vita / e la vita era la luce degli uomini / era nel mondo il Verbo / ma il mondo non lo conobbe / venne nelle sue case / ma non lo ricevettero. / Ma a quanti lo ricevettero / diede il potere di diventare
figli di Dio».
E infine lo snodo cruciale: «Il Verbo si è fatto carne / e abita tra noi / e noi fummo spettatori della sua gloria. / La legge fu data per mezzo di Mosè / ma la grazia e la verità / è venuta per mezzo di Gesù Cristo. / Dio non l’ha mai veduto nessuno / ce l’ha manifestato l’Unigenito Dio / che sta nel seno del padre».
Per l’evangelista Giovanni, Gesù è dunque il Verbo che si è fatto carne. Questo aspetto è assai delicato dal punto di vista teologico. Nessuno conosce Dio se non attraverso l’Unigenito che si è fatto carne ed è entrato nelle nostre case, nelle case di quelli che l’hanno ricevuto. Ma se si è fatto carne, non ha certo assunto un abito, indossato una tunica e adottato le movenze di uomo restando Dio. Se si è fatto carne ha assunto anche i dolori, le gioie, i desideri degli uomini. Infatti, secondo gli altri tre evangelisti, poco dopo il battesimo nelle acque del Giordano Gesù si è ritirato per 40 giorni nel deserto per essere tentato dal demonio e mettersi in questo modo alla prova. Il fatto d’aver resistito a quelle tentazioni deriva dunque da una sua battaglia contro i desideri umani; gli uomini di solito quel tipo di battaglie le perdono salvo poi pentirsi e ricaderci e pentirsi ancora confidando nella misericordia di Dio. I santi di solito le vincono e Gesù – dicono i Vangeli – la vinse e scacciò il demonio. Ma se aveva natura di uomo i desideri rimasero e rimase anche l’amore per se stesso insieme all’amore per gli altri.
Tentò un miracolo: far scomparire l’amore per sé concentrando l’intero suo flusso amoroso sugli altri e addirittura prescrivendo ai suoi discepoli di amare il prossimo come se stessi. Attenzione: come se stessi. L’amore per gli altri non aboliva dunque l’amore per sé ma si elevava come poteva allo stesso livello di sentimento.
Del resto che Gesù amasse se stesso risulta da una serie di episodi appena accennati nel Vangelo di Marco ma dettagliatamente riferiti in quello di Matteo. Un giorno Gesù parlava con un gruppo di persone in una casa di Cafarnao quando il padrone di quella casa si avvicinò a lui e gli sussurrò che fuor della porta c’erano sua madre e i suoi fratelli (per la prima volta si accenna in un Vangelo l’esistenza di fratelli) che volevano vederlo. Gesù ascoltò e rispose indicando con largo gesto i presenti: questi sono i miei fratelli e questa gente è mia madre. Dì a chi ti manda che tornino in pace a casa.
In un’altra occasione si rivolge ai discepoli che lo seguono dicendo loro: «Chi ha deciso di seguire me deve odiare il padre, la madre, i fratelli e le sorelle. Deve lasciare tutti se vuole seguire e amare me».
Infine un altro episodio, riferito sia da Marco che da Matteo: «Uno dei discepoli gli disse un giorno: Signore, domani non potrò essere con te, debbo andare ai funerali di mio fratello, ma tornerò appena possibile. E Gesù rispose: non andare e lascia che i morti seppelliscano i morti».
Se parlassimo di una comune persona anziché di quello che era (o riteneva di essere) il figlio di Dio, sulla base di questi episodi penseremmo d’essere in presenza di un Narciso all’ennesima potenza. Sicché è giustificato il dubbio: parliamo del figlio di Dio o del figlio dell’uomo? E qual è la risposta che la Chiesa dà di questi episodi scritti nei Vangeli riconosciuti dalla Chiesa stessa come validi e attendibili documenti?
Aggiungo, sempre parlando dei Vangeli che sono la sola documentazione sull’esistenza storica del personaggio, che dopo un anno di predicazione Gesù pose ai suoi dodici apostoli che rappresentavano il “cerchio magico dei suoi fedelissimi” la domanda: «Voi chi credete che io sia?».
Le risposte furono varie. La maggioranza disse tu sei il Rabbi, il maestro. Un paio rispose: tu sei il profeta Isaia redivivo. Un altro paio disse: tu sei il Messia, il messaggero di Dio che il popolo di Israele attende. Infine uno soltanto rispose: tu sei il figlio di Dio. Quanto a lui, quando parla di sé si definisce figlio dell’uomo anche se parlando di Dio usa sempre la parola “Abba” cioè Padre.
Infine nel Getsemani e poi sulla croce quando sta per emanare l’ultimo respiro, invoca il padre e implicitamente lo rimprovera: «Perché mi hai abbandonato?» a quel punto muore il suo corpo diventa una spoglia mentre il cielo esplode di fulmini e tuoni e trema la terra.
Così raccontano gli evangelisti. È evidente che un’enciclica seria che si pone il tema della fede non può evadere a queste domande altrimenti diventa un documento banale che dimostra e spiega la fede descrivendola come dono di Dio. Il Dio padre o suo figlio? Suo figlio, risponde l’enciclica e delinea la consueta sequenza: si conosce il Padre soltanto passando attraverso il Figlio e si conosce il Figlio soltanto passando attraverso i successori degli apostoli, cioè i Vescovi e in particolare il Vescovo di Roma che è il più alto rappresentante del magistero apostolico.
E in più: la fede è sinonimo di verità. La verità è il contenuto della fede e dell’amore.
Che l’amore sia il contenuto pastorale della Chiesa cattolica non c’è dubbio ed è certamente il tratto più positivo di tutta la sua pastoralità. Non tutte le altre confessioni cristiane predicano allo stesso modo l’amore. Questo è un segno di diversità e di qualità della Chiesa di Roma. Ma ora si pone un’ultima domanda.
* * *
L’incarnazione di Dio, e del Verbo, è un tratto distintivo ed esclusivo del cristianesimo. Nulla di simile esiste né per gli ebrei né per i musulmani, gli altri due monoteismi esistenti nel mondo. In realtà non esiste un Dio incarnato e Unigenito in nessuna religione del mondo. In alcune esistono dei incarnati, ma più d’uno. Anche gli “Olimpici” si incarnavano se e quando volevano, ma non erano veri uomini o vere donne: assumevano sembianze umane (o animalesche) ma nulla di più. Da questo punto di vista dunque il cristianesimo (e soprattutto il cattolicesimo) è un’eccezione. Ma lo scopo, o se volete il risultato, qual è?
Si potrebbe rispondere: la fede. Ma, purtroppo per chi lo dice, è una risposta sbagliata. La fede in Allah non è certo minore di quella nel Padre e nel Figlio. Si potrebbe addirittura dire che è ancora più intensa e sicuramente più diffusa, nelle popolazioni arabe in particolare.
Allah non ha una figura, non è in alcun modo rappresentabile e rappresentato. È un grave handicap per la storia dell’arte, ma non lo è dal punto di vista religioso. Allah è il signore del cielo e della terra e i suoi devoti avranno la felicità del paradiso, le opere saranno premiate, le preghiere dovranno esserci almeno due volte al giorno col volto verso la Mecca ovunque si trovi la persona credente. La secolarizzazione del mondo musulmano è iniziata ma procede con estrema lentezza. Trono e altare hanno convissuto per secoli nelle persone dei califfi, dei sultani, degli emiri.
L’assenza di un Unigenito incarnato non impedisce dunque la fede. E allora, perché? Una risposta – politica – c’è e si chiama limite. Date a Cesare quel che è di Cesare. Il cristianesimo nasce in concomitanza con l’Impero e ha continuato nei secoli a confrontarsi con l’autorità imperiale e comunque civile. Ha rifiutato (o ha dovuto rifiutare) la tentazione della teocrazia. Il Dio incarnato ha sempre precisato: il mio regno non è in questo mondo. Pilato di fronte a quella risposta stava per graziarlo ma la plebaglia di Gerusalemme preferì Barabba.
Infine una parola che riguarda gli ebrei e il loro Dio che è anche il Dio cristiano sotto altre spoglie: quel Dio non aveva promesso ad Abramo prosperità e felicità per il suo popolo? Ma durò assai poco quella prosperità. Furono schiavizzati dagli egiziani, poi dagli assiri e dai babilonesi, poi senza quasi intervallo, dai romani, poi la diaspora, poi le persecuzioni, infine la Shoah. Il Dio di Abramo la sua parola non l’ha dunque mantenuta. Qual è la risposta, reverendissimo papa Francesco?
di EUGENIO SCALFARI
LA POLITICA e l’economia non forniscono novità in questo week-end estivo. Solo Renzi e i suoi contraddittori proseguono nel loro chiacchiericcio ma, per quanto mi riguarda, mi sembra inutilmente ripetitivo. Le vere novità riguardano quanto sta accadendo in Egitto e di riflesso in tutto il Medio Oriente; se ne occupano i nostri inviati e commentatori che conoscono a menadito l’argomento.
Perciò, tutto considerato, il tema che più mi appassiona è l’enciclica “Lumen Fidei”, la prima firmata da papa Francesco. L’argomento è importante perché tocca il punto centrale della dottrina cristiana: che cos’è la fede, da dove proviene, come è vissuta dai credenti, quali reazioni suscita in chi non è cristiano, come spiega l’esistenza della razza umana e come risponde alle domande che ciascuno di noi si pone e alle quali il più delle volte non trova risposta: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo.
Questo è il tema dell’enciclica e quasi ogni papa l’ha affrontato durante il suo pontificato, specie dal XIX secolo in poi, quando cioè la modernità ha rivalutato la ragione ed ha messo in discussione il concetto di “assoluto” a cominciare dalla verità. Esiste una sola verità o tante quante i singoli individui e la loro mente ragionante ne configurano?
La Chiesa cattolica non poteva sfuggire ad un cimento di fondamentale importanza che tra l’altro chiama in causa la libertà che rappresenta la radice su cui poggia la civiltà stessa dell’Europa moderna. Di qui l’importanza dell’enciclica.
È singolare il fatto che il Concilio Vaticano II il tema della fede non l’abbia affrontato. Si proponeva esplicitamente di aprire il dialogo tra la Chiesa e la modernità; se fosse partito dall’ intangibilità degli “assoluti” sarebbe partito col piede sbagliato.
Papa Francesco invece ha seguito il percorso tradizionale. Il fatto che il contenuto della “Lumen Fidei” sia stato predisposto da papa Ratzinger ha scarso interesse se non per gli storici che si occupano delle vicende dei papi. Francesco, sia pure con svariati ritocchi, ha fatto proprio l’abbozzo trasmessogli da Ratzinger ed è dunque lui che ne risponde nella sua alta posizione apostolica di Pontefice e Vescovo di Roma. La discussione è dunque aperta.
Osservo di sfuggita che contemporaneamente alla pubblicazione dell’enciclica il papa ha decretato la santificazione di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II; il primo mise le basi del Vaticano II e assegnò ai Vescovi i temi da esaminare; il secondo fece in qualche modo macchina indietro o quanto meno cessò di portarla avanti.
Come si è collocato ora Jorge Bergoglio? Questa mi sembra la domanda cui rispondere da parte di un non credente che tuttavia cerca senza pregiudizi di chiarire un tema che ci riguarda tutti da vicino.
* * *
I protagonisti religiosi e culturali dell’enciclica sono: il dio biblico e il suo rapporto con Abramo; Mosè e il suo ruolo di mediatore tra Dio e il popolo di Israele; il Vangelo dell’apostolo Giovanni; il pensiero di Paolo e quello di Agostino.
Faccio ora una prima osservazione: trovo singolare che papa Francesco basi gran parte del suo documento sul quarto Vangelo attribuito senza dubbio alcuno all’apostolo. Gli studiosi dei Vangeli e degli evangelisti hanno collocato quei documenti tra gli anni quaranta e i settanta dopo Cristo. Quello di Marco sarebbe il primo; subito dopo, tra i quaranta e i cinquanta, Matteo e Luca; Giovanni tra i sessanta e i settanta. Poiché Gesù morì circa a 33 anni di età, se l’evangelista del quarto Vangelo fosse l’apostolo, l’avrebbe scritto tra i suoi 80-90 anni, il che sembra francamente improbabile.
Comunque, condizione apostolica o meno, Giovanni come Marco non fornisce alcuna notizia sulla nascita e l’infanzia di Gesù. Non c’è Betlemme, non ci sono Giuseppe e Maria, non c’è stella cometa, pastori adoranti e Magi venuti dall’Oriente; non c’è fuga in Egitto né strage degli innocenti.
Il Vangelo di Giovanni comincia con versi profetici e poetici: «In principio era il Verbo / e il Verbo era Dio / tutte le cose furono fatte per mezzo di lui / e senza di lui nulla fu fatto di quanto esiste. / In lui era la vita / e la vita era la luce degli uomini / era nel mondo il Verbo / ma il mondo non lo conobbe / venne nelle sue case / ma non lo ricevettero. / Ma a quanti lo ricevettero / diede il potere di diventare
figli di Dio».
E infine lo snodo cruciale: «Il Verbo si è fatto carne / e abita tra noi / e noi fummo spettatori della sua gloria. / La legge fu data per mezzo di Mosè / ma la grazia e la verità / è venuta per mezzo di Gesù Cristo. / Dio non l’ha mai veduto nessuno / ce l’ha manifestato l’Unigenito Dio / che sta nel seno del padre».
Per l’evangelista Giovanni, Gesù è dunque il Verbo che si è fatto carne. Questo aspetto è assai delicato dal punto di vista teologico. Nessuno conosce Dio se non attraverso l’Unigenito che si è fatto carne ed è entrato nelle nostre case, nelle case di quelli che l’hanno ricevuto. Ma se si è fatto carne, non ha certo assunto un abito, indossato una tunica e adottato le movenze di uomo restando Dio. Se si è fatto carne ha assunto anche i dolori, le gioie, i desideri degli uomini. Infatti, secondo gli altri tre evangelisti, poco dopo il battesimo nelle acque del Giordano Gesù si è ritirato per 40 giorni nel deserto per essere tentato dal demonio e mettersi in questo modo alla prova. Il fatto d’aver resistito a quelle tentazioni deriva dunque da una sua battaglia contro i desideri umani; gli uomini di solito quel tipo di battaglie le perdono salvo poi pentirsi e ricaderci e pentirsi ancora confidando nella misericordia di Dio. I santi di solito le vincono e Gesù – dicono i Vangeli – la vinse e scacciò il demonio. Ma se aveva natura di uomo i desideri rimasero e rimase anche l’amore per se stesso insieme all’amore per gli altri.
Tentò un miracolo: far scomparire l’amore per sé concentrando l’intero suo flusso amoroso sugli altri e addirittura prescrivendo ai suoi discepoli di amare il prossimo come se stessi. Attenzione: come se stessi. L’amore per gli altri non aboliva dunque l’amore per sé ma si elevava come poteva allo stesso livello di sentimento.
Del resto che Gesù amasse se stesso risulta da una serie di episodi appena accennati nel Vangelo di Marco ma dettagliatamente riferiti in quello di Matteo. Un giorno Gesù parlava con un gruppo di persone in una casa di Cafarnao quando il padrone di quella casa si avvicinò a lui e gli sussurrò che fuor della porta c’erano sua madre e i suoi fratelli (per la prima volta si accenna in un Vangelo l’esistenza di fratelli) che volevano vederlo. Gesù ascoltò e rispose indicando con largo gesto i presenti: questi sono i miei fratelli e questa gente è mia madre. Dì a chi ti manda che tornino in pace a casa.
In un’altra occasione si rivolge ai discepoli che lo seguono dicendo loro: «Chi ha deciso di seguire me deve odiare il padre, la madre, i fratelli e le sorelle. Deve lasciare tutti se vuole seguire e amare me».
Infine un altro episodio, riferito sia da Marco che da Matteo: «Uno dei discepoli gli disse un giorno: Signore, domani non potrò essere con te, debbo andare ai funerali di mio fratello, ma tornerò appena possibile. E Gesù rispose: non andare e lascia che i morti seppelliscano i morti».
Se parlassimo di una comune persona anziché di quello che era (o riteneva di essere) il figlio di Dio, sulla base di questi episodi penseremmo d’essere in presenza di un Narciso all’ennesima potenza. Sicché è giustificato il dubbio: parliamo del figlio di Dio o del figlio dell’uomo? E qual è la risposta che la Chiesa dà di questi episodi scritti nei Vangeli riconosciuti dalla Chiesa stessa come validi e attendibili documenti?
Aggiungo, sempre parlando dei Vangeli che sono la sola documentazione sull’esistenza storica del personaggio, che dopo un anno di predicazione Gesù pose ai suoi dodici apostoli che rappresentavano il “cerchio magico dei suoi fedelissimi” la domanda: «Voi chi credete che io sia?».
Le risposte furono varie. La maggioranza disse tu sei il Rabbi, il maestro. Un paio rispose: tu sei il profeta Isaia redivivo. Un altro paio disse: tu sei il Messia, il messaggero di Dio che il popolo di Israele attende. Infine uno soltanto rispose: tu sei il figlio di Dio. Quanto a lui, quando parla di sé si definisce figlio dell’uomo anche se parlando di Dio usa sempre la parola “Abba” cioè Padre.
Infine nel Getsemani e poi sulla croce quando sta per emanare l’ultimo respiro, invoca il padre e implicitamente lo rimprovera: «Perché mi hai abbandonato?» a quel punto muore il suo corpo diventa una spoglia mentre il cielo esplode di fulmini e tuoni e trema la terra.
Così raccontano gli evangelisti. È evidente che un’enciclica seria che si pone il tema della fede non può evadere a queste domande altrimenti diventa un documento banale che dimostra e spiega la fede descrivendola come dono di Dio. Il Dio padre o suo figlio? Suo figlio, risponde l’enciclica e delinea la consueta sequenza: si conosce il Padre soltanto passando attraverso il Figlio e si conosce il Figlio soltanto passando attraverso i successori degli apostoli, cioè i Vescovi e in particolare il Vescovo di Roma che è il più alto rappresentante del magistero apostolico.
E in più: la fede è sinonimo di verità. La verità è il contenuto della fede e dell’amore.
Che l’amore sia il contenuto pastorale della Chiesa cattolica non c’è dubbio ed è certamente il tratto più positivo di tutta la sua pastoralità. Non tutte le altre confessioni cristiane predicano allo stesso modo l’amore. Questo è un segno di diversità e di qualità della Chiesa di Roma. Ma ora si pone un’ultima domanda.
* * *
L’incarnazione di Dio, e del Verbo, è un tratto distintivo ed esclusivo del cristianesimo. Nulla di simile esiste né per gli ebrei né per i musulmani, gli altri due monoteismi esistenti nel mondo. In realtà non esiste un Dio incarnato e Unigenito in nessuna religione del mondo. In alcune esistono dei incarnati, ma più d’uno. Anche gli “Olimpici” si incarnavano se e quando volevano, ma non erano veri uomini o vere donne: assumevano sembianze umane (o animalesche) ma nulla di più. Da questo punto di vista dunque il cristianesimo (e soprattutto il cattolicesimo) è un’eccezione. Ma lo scopo, o se volete il risultato, qual è?
Si potrebbe rispondere: la fede. Ma, purtroppo per chi lo dice, è una risposta sbagliata. La fede in Allah non è certo minore di quella nel Padre e nel Figlio. Si potrebbe addirittura dire che è ancora più intensa e sicuramente più diffusa, nelle popolazioni arabe in particolare.
Allah non ha una figura, non è in alcun modo rappresentabile e rappresentato. È un grave handicap per la storia dell’arte, ma non lo è dal punto di vista religioso. Allah è il signore del cielo e della terra e i suoi devoti avranno la felicità del paradiso, le opere saranno premiate, le preghiere dovranno esserci almeno due volte al giorno col volto verso la Mecca ovunque si trovi la persona credente. La secolarizzazione del mondo musulmano è iniziata ma procede con estrema lentezza. Trono e altare hanno convissuto per secoli nelle persone dei califfi, dei sultani, degli emiri.
L’assenza di un Unigenito incarnato non impedisce dunque la fede. E allora, perché? Una risposta – politica – c’è e si chiama limite. Date a Cesare quel che è di Cesare. Il cristianesimo nasce in concomitanza con l’Impero e ha continuato nei secoli a confrontarsi con l’autorità imperiale e comunque civile. Ha rifiutato (o ha dovuto rifiutare) la tentazione della teocrazia. Il Dio incarnato ha sempre precisato: il mio regno non è in questo mondo. Pilato di fronte a quella risposta stava per graziarlo ma la plebaglia di Gerusalemme preferì Barabba.
Infine una parola che riguarda gli ebrei e il loro Dio che è anche il Dio cristiano sotto altre spoglie: quel Dio non aveva promesso ad Abramo prosperità e felicità per il suo popolo? Ma durò assai poco quella prosperità. Furono schiavizzati dagli egiziani, poi dagli assiri e dai babilonesi, poi senza quasi intervallo, dai romani, poi la diaspora, poi le persecuzioni, infine la Shoah. Il Dio di Abramo la sua parola non l’ha dunque mantenuta. Qual è la risposta, reverendissimo papa Francesco?
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Re: Francesco un papa ...Cristiano!
Papa Francesco scrive a Repubblica:
"Dialogo aperto con i non credenti"
Il Pontefice risponde alle domande che gli aveva posto Scalfari su fede e laicità. "E' venuto il tempo di fare un tratto di strada insieme". "Dio perdona chi segue la propria coscienza"
di FRANCESCO
PREGIATISSIMO Dottor Scalfari, è con viva cordialità che, sia pure solo a grandi linee, vorrei cercare con questa mia di rispondere alla lettera che, dalle pagine di Repubblica, mi ha voluto indirizzare il 7 luglio con una serie di sue personali riflessioni, che poi ha arricchito sulle pagine dello stesso quotidiano il 7 agosto.
La ringrazio, innanzi tutto, per l'attenzione con cui ha voluto leggere l'Enciclica Lumen fidei. Essa, infatti, nell'intenzione del mio amato Predecessore, Benedetto XVI, che l'ha concepita e in larga misura redatta, e dal quale, con gratitudine, l'ho ereditata, è diretta non solo a confermare nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche a suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi, come Lei, si definisce "un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth".
Mi pare dunque sia senz'altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù. Penso vi siano, in particolare, due circostanze che rendono oggi doveroso e prezioso questo dialogo.
Esso, del resto, costituisce, come è noto, uno degli obiettivi principali del Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, e del ministero dei Papi che, ciascuno con la sua sensibilità e il suo apporto, da allora sino ad oggi hanno camminato nel solco tracciato dal Concilio.
La prima circostanza - come si richiama nelle pagine iniziali dell'Enciclica - deriva dal fatto che, lungo i secoli della modernità, si è assistito a un paradosso: la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell'uomo sin dall'inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa e la cultura d'ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d'impronta illuminista, dall'altra, si è giunti all'incomunicabilità. È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro.
La seconda circostanza, per chi cerca di essere fedele al dono di seguire Gesù nella luce della fede, deriva dal fatto che questo dialogo non è un accessorio secondario dell'esistenza del credente: ne è invece un'espressione intima e indispensabile. Mi permetta di citarLe in proposito un'affermazione a mio avviso molto importante dell'Enciclica: poiché la verità testimoniata dalla fede è quella dell'amore - vi si sottolinea - "risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l'altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall'irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti" (n. 34). È questo lo spirito che anima le parole che le scrivo.
La fede, per me, è nata dall'incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l'accesso all'intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa - mi creda - non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell'immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d'argilla della nostra umanità.
Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell'ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme.
Mi perdoni se non seguo passo passo le argomentazioni da Lei proposte nell'editoriale del 7 luglio. Mi sembra più fruttuoso - o se non altro mi è più congeniale - andare in certo modo al cuore delle sue considerazioni. Non entro neppure nella modalità espositiva seguita dall'Enciclica, in cui Lei ravvisa la mancanza di una sezione dedicata specificamente all'esperienza storica di Gesù di Nazareth.
Osservo soltanto, per cominciare, che un'analisi del genere non è secondaria. Si tratta infatti, seguendo del resto la logica che guida lo snodarsi dell'Enciclica, di fermare l'attenzione sul significato di ciò che Gesù ha detto e ha fatto e così, in definitiva, su ciò che Gesù è stato ed è per noi. Le Lettere di Paolo e il Vangelo di Giovanni, a cui si fa particolare riferimento nell'Enciclica, sono costruiti, infatti, sul solido fondamento del ministero messianico di Gesù di Nazareth giunto al suo culmine risolutivo nella pasqua di morte e risurrezione.
Dunque, occorre confrontarsi con Gesù, direi, nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda, così come ci è narrata soprattutto dal più antico dei Vangeli, quello di Marco. Si costata allora che lo "scandalo" che la parola e la prassi di Gesù provocano attorno a lui derivano dalla sua straordinaria "autorità": una parola, questa, attestata fin dal Vangelo di Marco, ma che non è facile rendere bene in italiano. La parola greca è "exousia", che alla lettera rimanda a ciò che "proviene dall'essere" che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire - egli stesso lo dice - dal suo rapporto con Dio, chiamato familiarmente Abbà, il quale gli consegna questa "autorità" perché egli la spenda a favore degli uomini.
Così Gesù predica "come uno che ha autorità", guarisce, chiama i discepoli a seguirlo, perdona... cose tutte che, nell'Antico Testamento, sono di Dio e soltanto di Dio. La domanda che più volte ritorna nel Vangelo di Marco: "Chi è costui che...?", e che riguarda l'identità di Gesù, nasce dalla constatazione di una autorità diversa da quella del mondo, un'autorità che non è finalizzata ad esercitare un potere sugli altri, ma a servirli, a dare loro libertà e pienezza di vita. E questo sino al punto di mettere in gioco la propria stessa vita, sino a sperimentare l'incomprensione, il tradimento, il rifiuto, sino a essere condannato a morte, sino a piombare nello stato di abbandono sulla croce. Ma Gesù resta fedele a Dio, sino alla fine.
Ed è proprio allora - come esclama il centurione romano ai piedi della croce, nel Vangelo di Marco - che Gesù si mostra, paradossalmente, come il Figlio di Dio! Figlio di un Dio che è amore e che vuole, con tutto se stesso, che l'uomo, ogni uomo, si scopra e viva anch'egli come suo vero figlio. Questo, per la fede cristiana, è certificato dal fatto che Gesù è risorto: non per riportare il trionfo su chi l'ha rifiutato, ma per attestare che l'amore di Dio è più forte della morte, il perdono di Dio è più forte di ogni peccato, e che vale la pena spendere la propria vita, sino in fondo, per testimoniare questo immenso dono.
La fede cristiana crede questo: che Gesù è il Figlio di Dio venuto a dare la sua vita per aprire a tutti la via dell'amore. Ha perciò ragione, egregio Dott. Scalfari, quando vede nell'incarnazione del Figlio di Dio il cardine della fede cristiana. Già Tertulliano scriveva "caro cardo salutis", la carne (di Cristo) è il cardine della salvezza. Perché l'incarnazione, cioè il fatto che il Figlio di Dio sia venuto nella nostra carne e abbia condiviso gioie e dolori, vittorie e sconfitte della nostra esistenza, sino al grido della croce, vivendo ogni cosa nell'amore e nella fedeltà all'Abbà, testimonia l'incredibile amore che Dio ha per ogni uomo, il valore inestimabile che gli riconosce. Ognuno di noi, per questo, è chiamato a far suo lo sguardo e la scelta di amore di Gesù, a entrare nel suo modo di essere, di pensare e di agire. Questa è la fede, con tutte le espressioni che sono descritte puntualmente nell'Enciclica.
Sempre nell'editoriale del 7 luglio, Lei mi chiede inoltre come capire l'originalità della fede cristiana in quanto essa fa perno appunto sull'incarnazione del Figlio di Dio, rispetto ad altre fedi che gravitano invece attorno alla trascendenza assoluta di Dio.
L'originalità, direi, sta proprio nel fatto che la fede ci fa partecipare, in Gesù, al rapporto che Egli ha con Dio che è Abbà e, in questa luce, al rapporto che Egli ha con tutti gli altri uomini, compresi i nemici, nel segno dell'amore. In altri termini, la figliolanza di Gesù, come ce la presenta la fede cristiana, non è rivelata per marcare una separazione insormontabile tra Gesù e tutti gli altri: ma per dirci che, in Lui, tutti siamo chiamati a essere figli dell'unico Padre e fratelli tra di noi. La singolarità di Gesù è per la comunicazione, non per l'esclusione.
Certo, da ciò consegue anche - e non è una piccola cosa - quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel "dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare", affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell'Occidente. La Chiesa, infatti, è chiamata a seminare il lievito e il sale del Vangelo, e cioè l'amore e la misericordia di Dio che raggiungono tutti gli uomini, additando la meta ultraterrena e definitiva del nostro destino, mentre alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana. Per chi vive la fede cristiana, ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all'uomo, a tutto l'uomo e a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza che spinge a operare il bene nonostante tutto e guardando sempre al di là.
Lei mi chiede anche, a conclusione del suo primo articolo, che cosa dire ai fratelli ebrei circa la promessa fatta loro da Dio: è essa del tutto andata a vuoto? È questo - mi creda - un interrogativo che ci interpella radicalmente, come cristiani, perché, con l'aiuto di Dio, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, abbiamo riscoperto che il popolo ebreo è tuttora, per noi, la radice santa da cui è germinato Gesù. Anch'io, nell'amicizia che ho coltivato lungo tutti questi anni con i fratelli ebrei, in Argentina, molte volte nella preghiera ho interrogato Dio, in modo particolare quando la mente andava al ricordo della terribile esperienza della Shoah. Quel che Le posso dire, con l'apostolo Paolo, è che mai è venuta meno la fedeltà di Dio all'alleanza stretta con Israele e che, attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in Dio. E di questo, a loro, non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità. Essi poi, proprio perseverando nella fede nel Dio dell'alleanza, richiamano tutti, anche noi cristiani, al fatto che siamo sempre in attesa, come dei pellegrini, del ritorno del Signore e che dunque sempre dobbiamo essere aperti verso di Lui e mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto.
Vengo così alle tre domande che mi pone nell'articolo del 7 agosto. Mi pare che, nelle prime due, ciò che Le sta a cuore è capire l'atteggiamento della Chiesa verso chi non condivide la fede in Gesù. Innanzi tutto, mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che - ed è la cosa fondamentale - la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell'obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c'è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire.
In secondo luogo, mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato. Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità "assoluta", nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l'amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant'è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt'altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: "Io sono la via, la verità, la vita"? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt'uno con l'amore, richiede l'umiltà e l'apertura per essere cercata, accolta ed espressa. Dunque, bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione... assoluta, reimpostare in profondità la questione. Penso che questo sia oggi assolutamente necessario per intavolare quel dialogo sereno e costruttivo che auspicavo all'inizio di questo mio dire.
Nell'ultima domanda mi chiede se, con la scomparsa dell'uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Certo, la grandezza dell'uomo sta nel poter pensare Dio. E cioè nel poter vivere un rapporto consapevole e responsabile con Lui. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio - questo è il mio pensiero e questa la mia esperienza, ma quanti, ieri e oggi, li condividono! - non è un'idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell'uomo. Dio è realtà con la "R" maiuscola. Gesù ce lo rivela - e vive il rapporto con Lui - come un Padre di bontà e misericordia infinita. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero. Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell'uomo sulla terra - e per la fede cristiana, in ogni caso, questo mondo così come lo conosciamo è destinato a venir meno - , l'uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l'universo creato con lui. La Scrittura parla di "cieli nuovi e terra nuova" e afferma che, alla fine, nel dove e nel quando che è al di là di noi, ma verso il quale, nella fede, tendiamo con desiderio e attesa, Dio sarà "tutto in tutti".
Egregio Dott. Scalfari, concludo così queste mie riflessioni, suscitate da quanto ha voluto comunicarmi e chiedermi. Le accolga come la risposta tentativa e provvisoria, ma sincera e fiduciosa, all'invito che vi ho scorto di fare un tratto di strada insieme. La Chiesa, mi creda, nonostante tutte le lentezze, le infedeltà, gli errori e i peccati che può aver commesso e può ancora commettere in coloro che la compongono, non ha altro senso e fine se non quello di vivere e testimoniare Gesù: Lui che è stato mandato dall'Abbà "a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l'anno di grazia del Signore" (Lc 4, 18-19).
Con fraterna vicinanza
Francesco
"Dialogo aperto con i non credenti"
Il Pontefice risponde alle domande che gli aveva posto Scalfari su fede e laicità. "E' venuto il tempo di fare un tratto di strada insieme". "Dio perdona chi segue la propria coscienza"
di FRANCESCO
PREGIATISSIMO Dottor Scalfari, è con viva cordialità che, sia pure solo a grandi linee, vorrei cercare con questa mia di rispondere alla lettera che, dalle pagine di Repubblica, mi ha voluto indirizzare il 7 luglio con una serie di sue personali riflessioni, che poi ha arricchito sulle pagine dello stesso quotidiano il 7 agosto.
La ringrazio, innanzi tutto, per l'attenzione con cui ha voluto leggere l'Enciclica Lumen fidei. Essa, infatti, nell'intenzione del mio amato Predecessore, Benedetto XVI, che l'ha concepita e in larga misura redatta, e dal quale, con gratitudine, l'ho ereditata, è diretta non solo a confermare nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche a suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi, come Lei, si definisce "un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth".
Mi pare dunque sia senz'altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù. Penso vi siano, in particolare, due circostanze che rendono oggi doveroso e prezioso questo dialogo.
Esso, del resto, costituisce, come è noto, uno degli obiettivi principali del Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, e del ministero dei Papi che, ciascuno con la sua sensibilità e il suo apporto, da allora sino ad oggi hanno camminato nel solco tracciato dal Concilio.
La prima circostanza - come si richiama nelle pagine iniziali dell'Enciclica - deriva dal fatto che, lungo i secoli della modernità, si è assistito a un paradosso: la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell'uomo sin dall'inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa e la cultura d'ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d'impronta illuminista, dall'altra, si è giunti all'incomunicabilità. È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro.
La seconda circostanza, per chi cerca di essere fedele al dono di seguire Gesù nella luce della fede, deriva dal fatto che questo dialogo non è un accessorio secondario dell'esistenza del credente: ne è invece un'espressione intima e indispensabile. Mi permetta di citarLe in proposito un'affermazione a mio avviso molto importante dell'Enciclica: poiché la verità testimoniata dalla fede è quella dell'amore - vi si sottolinea - "risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l'altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall'irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti" (n. 34). È questo lo spirito che anima le parole che le scrivo.
La fede, per me, è nata dall'incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l'accesso all'intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa - mi creda - non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell'immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d'argilla della nostra umanità.
Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell'ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme.
Mi perdoni se non seguo passo passo le argomentazioni da Lei proposte nell'editoriale del 7 luglio. Mi sembra più fruttuoso - o se non altro mi è più congeniale - andare in certo modo al cuore delle sue considerazioni. Non entro neppure nella modalità espositiva seguita dall'Enciclica, in cui Lei ravvisa la mancanza di una sezione dedicata specificamente all'esperienza storica di Gesù di Nazareth.
Osservo soltanto, per cominciare, che un'analisi del genere non è secondaria. Si tratta infatti, seguendo del resto la logica che guida lo snodarsi dell'Enciclica, di fermare l'attenzione sul significato di ciò che Gesù ha detto e ha fatto e così, in definitiva, su ciò che Gesù è stato ed è per noi. Le Lettere di Paolo e il Vangelo di Giovanni, a cui si fa particolare riferimento nell'Enciclica, sono costruiti, infatti, sul solido fondamento del ministero messianico di Gesù di Nazareth giunto al suo culmine risolutivo nella pasqua di morte e risurrezione.
Dunque, occorre confrontarsi con Gesù, direi, nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda, così come ci è narrata soprattutto dal più antico dei Vangeli, quello di Marco. Si costata allora che lo "scandalo" che la parola e la prassi di Gesù provocano attorno a lui derivano dalla sua straordinaria "autorità": una parola, questa, attestata fin dal Vangelo di Marco, ma che non è facile rendere bene in italiano. La parola greca è "exousia", che alla lettera rimanda a ciò che "proviene dall'essere" che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire - egli stesso lo dice - dal suo rapporto con Dio, chiamato familiarmente Abbà, il quale gli consegna questa "autorità" perché egli la spenda a favore degli uomini.
Così Gesù predica "come uno che ha autorità", guarisce, chiama i discepoli a seguirlo, perdona... cose tutte che, nell'Antico Testamento, sono di Dio e soltanto di Dio. La domanda che più volte ritorna nel Vangelo di Marco: "Chi è costui che...?", e che riguarda l'identità di Gesù, nasce dalla constatazione di una autorità diversa da quella del mondo, un'autorità che non è finalizzata ad esercitare un potere sugli altri, ma a servirli, a dare loro libertà e pienezza di vita. E questo sino al punto di mettere in gioco la propria stessa vita, sino a sperimentare l'incomprensione, il tradimento, il rifiuto, sino a essere condannato a morte, sino a piombare nello stato di abbandono sulla croce. Ma Gesù resta fedele a Dio, sino alla fine.
Ed è proprio allora - come esclama il centurione romano ai piedi della croce, nel Vangelo di Marco - che Gesù si mostra, paradossalmente, come il Figlio di Dio! Figlio di un Dio che è amore e che vuole, con tutto se stesso, che l'uomo, ogni uomo, si scopra e viva anch'egli come suo vero figlio. Questo, per la fede cristiana, è certificato dal fatto che Gesù è risorto: non per riportare il trionfo su chi l'ha rifiutato, ma per attestare che l'amore di Dio è più forte della morte, il perdono di Dio è più forte di ogni peccato, e che vale la pena spendere la propria vita, sino in fondo, per testimoniare questo immenso dono.
La fede cristiana crede questo: che Gesù è il Figlio di Dio venuto a dare la sua vita per aprire a tutti la via dell'amore. Ha perciò ragione, egregio Dott. Scalfari, quando vede nell'incarnazione del Figlio di Dio il cardine della fede cristiana. Già Tertulliano scriveva "caro cardo salutis", la carne (di Cristo) è il cardine della salvezza. Perché l'incarnazione, cioè il fatto che il Figlio di Dio sia venuto nella nostra carne e abbia condiviso gioie e dolori, vittorie e sconfitte della nostra esistenza, sino al grido della croce, vivendo ogni cosa nell'amore e nella fedeltà all'Abbà, testimonia l'incredibile amore che Dio ha per ogni uomo, il valore inestimabile che gli riconosce. Ognuno di noi, per questo, è chiamato a far suo lo sguardo e la scelta di amore di Gesù, a entrare nel suo modo di essere, di pensare e di agire. Questa è la fede, con tutte le espressioni che sono descritte puntualmente nell'Enciclica.
Sempre nell'editoriale del 7 luglio, Lei mi chiede inoltre come capire l'originalità della fede cristiana in quanto essa fa perno appunto sull'incarnazione del Figlio di Dio, rispetto ad altre fedi che gravitano invece attorno alla trascendenza assoluta di Dio.
L'originalità, direi, sta proprio nel fatto che la fede ci fa partecipare, in Gesù, al rapporto che Egli ha con Dio che è Abbà e, in questa luce, al rapporto che Egli ha con tutti gli altri uomini, compresi i nemici, nel segno dell'amore. In altri termini, la figliolanza di Gesù, come ce la presenta la fede cristiana, non è rivelata per marcare una separazione insormontabile tra Gesù e tutti gli altri: ma per dirci che, in Lui, tutti siamo chiamati a essere figli dell'unico Padre e fratelli tra di noi. La singolarità di Gesù è per la comunicazione, non per l'esclusione.
Certo, da ciò consegue anche - e non è una piccola cosa - quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel "dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare", affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell'Occidente. La Chiesa, infatti, è chiamata a seminare il lievito e il sale del Vangelo, e cioè l'amore e la misericordia di Dio che raggiungono tutti gli uomini, additando la meta ultraterrena e definitiva del nostro destino, mentre alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana. Per chi vive la fede cristiana, ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all'uomo, a tutto l'uomo e a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza che spinge a operare il bene nonostante tutto e guardando sempre al di là.
Lei mi chiede anche, a conclusione del suo primo articolo, che cosa dire ai fratelli ebrei circa la promessa fatta loro da Dio: è essa del tutto andata a vuoto? È questo - mi creda - un interrogativo che ci interpella radicalmente, come cristiani, perché, con l'aiuto di Dio, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, abbiamo riscoperto che il popolo ebreo è tuttora, per noi, la radice santa da cui è germinato Gesù. Anch'io, nell'amicizia che ho coltivato lungo tutti questi anni con i fratelli ebrei, in Argentina, molte volte nella preghiera ho interrogato Dio, in modo particolare quando la mente andava al ricordo della terribile esperienza della Shoah. Quel che Le posso dire, con l'apostolo Paolo, è che mai è venuta meno la fedeltà di Dio all'alleanza stretta con Israele e che, attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in Dio. E di questo, a loro, non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità. Essi poi, proprio perseverando nella fede nel Dio dell'alleanza, richiamano tutti, anche noi cristiani, al fatto che siamo sempre in attesa, come dei pellegrini, del ritorno del Signore e che dunque sempre dobbiamo essere aperti verso di Lui e mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto.
Vengo così alle tre domande che mi pone nell'articolo del 7 agosto. Mi pare che, nelle prime due, ciò che Le sta a cuore è capire l'atteggiamento della Chiesa verso chi non condivide la fede in Gesù. Innanzi tutto, mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che - ed è la cosa fondamentale - la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell'obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c'è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire.
In secondo luogo, mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato. Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità "assoluta", nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l'amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant'è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt'altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: "Io sono la via, la verità, la vita"? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt'uno con l'amore, richiede l'umiltà e l'apertura per essere cercata, accolta ed espressa. Dunque, bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione... assoluta, reimpostare in profondità la questione. Penso che questo sia oggi assolutamente necessario per intavolare quel dialogo sereno e costruttivo che auspicavo all'inizio di questo mio dire.
Nell'ultima domanda mi chiede se, con la scomparsa dell'uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Certo, la grandezza dell'uomo sta nel poter pensare Dio. E cioè nel poter vivere un rapporto consapevole e responsabile con Lui. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio - questo è il mio pensiero e questa la mia esperienza, ma quanti, ieri e oggi, li condividono! - non è un'idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell'uomo. Dio è realtà con la "R" maiuscola. Gesù ce lo rivela - e vive il rapporto con Lui - come un Padre di bontà e misericordia infinita. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero. Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell'uomo sulla terra - e per la fede cristiana, in ogni caso, questo mondo così come lo conosciamo è destinato a venir meno - , l'uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l'universo creato con lui. La Scrittura parla di "cieli nuovi e terra nuova" e afferma che, alla fine, nel dove e nel quando che è al di là di noi, ma verso il quale, nella fede, tendiamo con desiderio e attesa, Dio sarà "tutto in tutti".
Egregio Dott. Scalfari, concludo così queste mie riflessioni, suscitate da quanto ha voluto comunicarmi e chiedermi. Le accolga come la risposta tentativa e provvisoria, ma sincera e fiduciosa, all'invito che vi ho scorto di fare un tratto di strada insieme. La Chiesa, mi creda, nonostante tutte le lentezze, le infedeltà, gli errori e i peccati che può aver commesso e può ancora commettere in coloro che la compongono, non ha altro senso e fine se non quello di vivere e testimoniare Gesù: Lui che è stato mandato dall'Abbà "a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l'anno di grazia del Signore" (Lc 4, 18-19).
Con fraterna vicinanza
Francesco
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Re: Francesco un papa ...Cristiano!
Scalfari e la lettera di papa Francesco:
"Il coraggio che apre alla cultura moderna"
Il fondatore di Repubblica risponde, sul quotidiano in edicola, alla missiva del Pontefice sul rapporto tra fede e ragione: "Parole che fanno riflettere, una visione mai sentita dalla cattedra di San Pietro". "Sta cercando di far prevalere la Chiesa missionaria su quella istituzionale, ma difficilmente ci sarà un Francesco II"
di EUGENIO SCALFARI
ROMA - La lettera di papa Francesco da noi pubblicata ieri ha suscitato in me, nel nostro direttore Ezio Mauro e in tutti i colleghi una grande emozione. Penso che la stessa emozione l'abbiano avuta tutti coloro che l'hanno letta.
Non parlo di quello che nel nostro linguaggio gergale chiamiamo "scoop". Gli scoop alimentano le chiacchiere, non il pensiero e qui, leggendo le parole del Papa, il nostro pensiero è chiamato e stimolato a riflettere di fronte alla concezione del tutto originale che papa Francesco esprime sul tema "fede e ragione", uno dei cardini dell'architettura spirituale, religiosa e teologica della Chiesa. Ma non soltanto della Chiesa: la cultura moderna dell'Occidente nasce esattamente da quel tema e papa Francesco lo ricorda nella sua lettera quando scrive:
"La fede cristiana, la cui incidenza sulla vita dell'uomo è stata espressa attraverso il simbolo della luce, spesso fu bollata come il buio della superstizione. Così tra la Chiesa da una parte e la cultura moderna dall'altra, si è giunti all'incomunicabilità. Ma è venuto ormai il tempo - e il Vaticano II ne ha aperto la stagione - d'un dialogo senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro".
Queste parole sono al tempo stesso una rottura e un'apertura; rottura con una tradizione del passato, già effettuata dal Vaticano II voluto da papa Giovanni, ma poi trascurata se non addirittura contrastata dai due pontefici che precedono quello attuale; e apertura ad un dialogo senza più steccati.
L'intera lettera di papa Francesco ruota attorno a questa premessa, ma c'è una frase nelle parole del Papa sopra citate che merita a mio avviso una particolare attenzione: "La fede cristiana... è stata espressa attraverso il simbolo della luce".
Bisogna tornare all'"incipit" del Vangelo di Giovanni per trovare questo simbolo, laddove l'evangelista scrive:
"In principio era il Verbo
e il Verbo era presso Dio
ed era Dio il Verbo.
Le cose tutte furono fatte per mezzo di Lui
e senza di lui nulla fu fatto di quanto esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini
e la luce risplende tra le tenebre
ma le tenebre non l'hanno ricevuta".
Qui, in questi tre ultimi versi poetici e profetici come tutto quel quarto Vangelo, nasce la visione cristiana del bene e del male: la vita era la luce degli uomini, ma le tenebre non l'hanno ricevuta. Papa Francesco sviluppa questa visione della contrapposizione tra luce e tenebre, tra bene e male, in modo originalissimo. In un punto della sua lettera scrive: "Per chi non crede in Dio la questione: [del bene e del male] sta nell'obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c'è quando si va contro la coscienza. Ascoltare ed obbedire ad essa significa infatti decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene e male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire".
Un'apertura verso la cultura moderna e laica di questa ampiezza, una visione così profonda tra la coscienza e la sua autonomia, non si era mai sentita finora dalla cattedra di San Pietro. Neppure papa Giovanni era arrivato a tanto e neppure le conclusioni del Vaticano II, che avevano auspicato l'inizio del percorso ai pontefici che sarebbero venuti dopo e ai Sinodi che avrebbero convocato. Papa Francesco quel passo l'ha fatto ed io lo sento profondamente echeggiare nella mia coscienza. Ricordo con grande affetto che visione analoga l'ho ascoltata nei miei colloqui con il cardinale Carlo Maria Martini, che non a caso era amico del cardinale Bergoglio. Ma Martini non era un Papa quando diceva queste cose, Bergoglio ora lo è.
C'è un altro aspetto assai importante - questo sì - politico , quando il Papa scrive della distinzione tra la sfera religiosa e quella politica ("Date a Cesare"):
"Alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana. Ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all'uomo, a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza".
La visione dell'autonomia della politica mi sembra che sfugga al Papa, ed è comprensibile che sia così. Uno come lui non può concepire la politica che nel quadro di un servizio ai cittadini. Questa opinione è perfettamente condivisibile ma non può escludere l'egemonia. In un regime di libertà e di democrazia convivono diverse visioni del bene comune, che si confrontano e si scontrano tra loro. Chi ottiene la maggioranza dei consensi e quindi l'egemonia, cerca di realizzare la sua visione del bene comune. Resta o dovrebbe restare un servizio, che passa però attraverso la conquista del potere.
Questo, papa Francesco lo sa, e la Chiesa cattolica infatti l'ha sperimentato facendo del potere temporale uno dei cardini della sua storia. Se vogliamo riandare ad uno dei più importanti esempi, ricordiamo la lotta per le investire culminata nello scontro tra Ildebrando da Soana Gregorio VII e Enrico imperatore di Germania, colpito dalla scomunica e costretto ad inginocchiarsi vestito da mendicante ai piedi del Papa nel castello di Canossa. Raccontano le storie che quando Enrico dovette baciare il piede del Papa in segno di sottomissione, abbia detto: "Non tibi sed Petro" e Gregorio gli abbia risposto: "Et mihi et Petro".
Poi vennero le Crociate e tutta la storia della Chiesa come istituzione di potere e di guerra. Così durò fino al 1870, ma anche dopo la temporalità cattolica è continuata sotto altre forme che specialmente in Italia, ma non soltanto, ben conosciamo. La pastoralità, la Chiesa predicante e missionaria, c'è sempre stata e Francesco d'Assisi ne ha rappresentato la più fulgida ma non certo la sola manifestazione. Tuttavia non ha quasi mai avuto la prevalenza sulla Chiesa istituzionale.
Papa Francesco ha interrotto e sta cercando di capovolgere questa situazione. La trasformazione in corso nella Curia e nella Segreteria di Stato sono segnali estremamente importanti. Temo però che molto difficilmente ci sarà un Francesco II e del resto non è un caso se quel nome non sia stato fin qui mai usato per il successore di Pietro.
La lettera del Papa è comunque chiarissima, risponde alle domande che mi ero permesso di porre e va anche su certe questioni anche molto più in là. Sicché non la commenterò più oltre, salvo due ultimi aspetti.
Il tema degli ebrei, del loro esser considerati dai cattolici come fratelli maggiori, la fine dell'accusa di "deicidio" che i cristiani hanno sempre lanciato contro di loro, ed infine la comune discendenza dal Dio mosaico del Sinai e dei dieci comandamenti, era già stato sollevato da papa Giovanni e da papa Wojtyla, ma non con la chiarezza definitiva di papa Francesco. E' un passo molto importante che segna finalmente un capovolgimento nell'atteggiamento durato quasi due millenni.
Infine c'è il racconto che il Papa fa del suo incontro con la fede. Rileggiamo quel brano.
"La fede per me è nata dall'incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato possibile nella comunità di fede in cui ho vissuto e grazie alla quale ho trovato l'accesso all'intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, vera immagine del Signore. Senza la Chiesa - mi creda - non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell'immenso dono della fede è custodito nei vasi d'argilla della nostra umanità".
Un racconto splendido, un'autobiografia affascinante. Ci si sente sotto, per quanto posso intuire, più Bernardo, più Agostino, più Benedetto che Tommaso e la Scolastica, che tuttavia è ancora assai presente nella dottrina tradizionale
Chi come me non solo non ha la fede ma neppure la cerca; chi come me sente il fascino della predicazione di Gesù e lo ritiene uomo e figlio dell'uomo, non può che ammirare un successore di Pietro che rivendica la Chiesa come luogo eletto affinché il sentimento di umanità custodito in vasi d'argilla non venga distrutto dai vasi di piombo che fuori e dentro la Chiesa spezzano i vasi d'argilla.
Il Papa mi fa l'onore di voler fare un tratto di percorso insieme. Ne sarei felice. Anch'io vorrei che la luce riuscisse a penetrare e a dissolvere le tenebre anche se so che quelle che chiamiamo tenebre sono soltanto l'origine animale della nostra specie. Più volte ho scritto che noi siamo una scimmia pensante. Guai quando incliniamo troppo verso la bestia da cui proveniamo, ma non saremo mai angeli perché non è nostra la natura angelica, ove mai esista.
Perciò lunga vita e affettuosa fraternità con Francesco, Vescovo di Roma e capo d'una Chiesa che lotta anch'essa tra il bene e il male.
"Il coraggio che apre alla cultura moderna"
Il fondatore di Repubblica risponde, sul quotidiano in edicola, alla missiva del Pontefice sul rapporto tra fede e ragione: "Parole che fanno riflettere, una visione mai sentita dalla cattedra di San Pietro". "Sta cercando di far prevalere la Chiesa missionaria su quella istituzionale, ma difficilmente ci sarà un Francesco II"
di EUGENIO SCALFARI
ROMA - La lettera di papa Francesco da noi pubblicata ieri ha suscitato in me, nel nostro direttore Ezio Mauro e in tutti i colleghi una grande emozione. Penso che la stessa emozione l'abbiano avuta tutti coloro che l'hanno letta.
Non parlo di quello che nel nostro linguaggio gergale chiamiamo "scoop". Gli scoop alimentano le chiacchiere, non il pensiero e qui, leggendo le parole del Papa, il nostro pensiero è chiamato e stimolato a riflettere di fronte alla concezione del tutto originale che papa Francesco esprime sul tema "fede e ragione", uno dei cardini dell'architettura spirituale, religiosa e teologica della Chiesa. Ma non soltanto della Chiesa: la cultura moderna dell'Occidente nasce esattamente da quel tema e papa Francesco lo ricorda nella sua lettera quando scrive:
"La fede cristiana, la cui incidenza sulla vita dell'uomo è stata espressa attraverso il simbolo della luce, spesso fu bollata come il buio della superstizione. Così tra la Chiesa da una parte e la cultura moderna dall'altra, si è giunti all'incomunicabilità. Ma è venuto ormai il tempo - e il Vaticano II ne ha aperto la stagione - d'un dialogo senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro".
Queste parole sono al tempo stesso una rottura e un'apertura; rottura con una tradizione del passato, già effettuata dal Vaticano II voluto da papa Giovanni, ma poi trascurata se non addirittura contrastata dai due pontefici che precedono quello attuale; e apertura ad un dialogo senza più steccati.
L'intera lettera di papa Francesco ruota attorno a questa premessa, ma c'è una frase nelle parole del Papa sopra citate che merita a mio avviso una particolare attenzione: "La fede cristiana... è stata espressa attraverso il simbolo della luce".
Bisogna tornare all'"incipit" del Vangelo di Giovanni per trovare questo simbolo, laddove l'evangelista scrive:
"In principio era il Verbo
e il Verbo era presso Dio
ed era Dio il Verbo.
Le cose tutte furono fatte per mezzo di Lui
e senza di lui nulla fu fatto di quanto esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini
e la luce risplende tra le tenebre
ma le tenebre non l'hanno ricevuta".
Qui, in questi tre ultimi versi poetici e profetici come tutto quel quarto Vangelo, nasce la visione cristiana del bene e del male: la vita era la luce degli uomini, ma le tenebre non l'hanno ricevuta. Papa Francesco sviluppa questa visione della contrapposizione tra luce e tenebre, tra bene e male, in modo originalissimo. In un punto della sua lettera scrive: "Per chi non crede in Dio la questione: [del bene e del male] sta nell'obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c'è quando si va contro la coscienza. Ascoltare ed obbedire ad essa significa infatti decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene e male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire".
Un'apertura verso la cultura moderna e laica di questa ampiezza, una visione così profonda tra la coscienza e la sua autonomia, non si era mai sentita finora dalla cattedra di San Pietro. Neppure papa Giovanni era arrivato a tanto e neppure le conclusioni del Vaticano II, che avevano auspicato l'inizio del percorso ai pontefici che sarebbero venuti dopo e ai Sinodi che avrebbero convocato. Papa Francesco quel passo l'ha fatto ed io lo sento profondamente echeggiare nella mia coscienza. Ricordo con grande affetto che visione analoga l'ho ascoltata nei miei colloqui con il cardinale Carlo Maria Martini, che non a caso era amico del cardinale Bergoglio. Ma Martini non era un Papa quando diceva queste cose, Bergoglio ora lo è.
C'è un altro aspetto assai importante - questo sì - politico , quando il Papa scrive della distinzione tra la sfera religiosa e quella politica ("Date a Cesare"):
"Alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana. Ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all'uomo, a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza".
La visione dell'autonomia della politica mi sembra che sfugga al Papa, ed è comprensibile che sia così. Uno come lui non può concepire la politica che nel quadro di un servizio ai cittadini. Questa opinione è perfettamente condivisibile ma non può escludere l'egemonia. In un regime di libertà e di democrazia convivono diverse visioni del bene comune, che si confrontano e si scontrano tra loro. Chi ottiene la maggioranza dei consensi e quindi l'egemonia, cerca di realizzare la sua visione del bene comune. Resta o dovrebbe restare un servizio, che passa però attraverso la conquista del potere.
Questo, papa Francesco lo sa, e la Chiesa cattolica infatti l'ha sperimentato facendo del potere temporale uno dei cardini della sua storia. Se vogliamo riandare ad uno dei più importanti esempi, ricordiamo la lotta per le investire culminata nello scontro tra Ildebrando da Soana Gregorio VII e Enrico imperatore di Germania, colpito dalla scomunica e costretto ad inginocchiarsi vestito da mendicante ai piedi del Papa nel castello di Canossa. Raccontano le storie che quando Enrico dovette baciare il piede del Papa in segno di sottomissione, abbia detto: "Non tibi sed Petro" e Gregorio gli abbia risposto: "Et mihi et Petro".
Poi vennero le Crociate e tutta la storia della Chiesa come istituzione di potere e di guerra. Così durò fino al 1870, ma anche dopo la temporalità cattolica è continuata sotto altre forme che specialmente in Italia, ma non soltanto, ben conosciamo. La pastoralità, la Chiesa predicante e missionaria, c'è sempre stata e Francesco d'Assisi ne ha rappresentato la più fulgida ma non certo la sola manifestazione. Tuttavia non ha quasi mai avuto la prevalenza sulla Chiesa istituzionale.
Papa Francesco ha interrotto e sta cercando di capovolgere questa situazione. La trasformazione in corso nella Curia e nella Segreteria di Stato sono segnali estremamente importanti. Temo però che molto difficilmente ci sarà un Francesco II e del resto non è un caso se quel nome non sia stato fin qui mai usato per il successore di Pietro.
La lettera del Papa è comunque chiarissima, risponde alle domande che mi ero permesso di porre e va anche su certe questioni anche molto più in là. Sicché non la commenterò più oltre, salvo due ultimi aspetti.
Il tema degli ebrei, del loro esser considerati dai cattolici come fratelli maggiori, la fine dell'accusa di "deicidio" che i cristiani hanno sempre lanciato contro di loro, ed infine la comune discendenza dal Dio mosaico del Sinai e dei dieci comandamenti, era già stato sollevato da papa Giovanni e da papa Wojtyla, ma non con la chiarezza definitiva di papa Francesco. E' un passo molto importante che segna finalmente un capovolgimento nell'atteggiamento durato quasi due millenni.
Infine c'è il racconto che il Papa fa del suo incontro con la fede. Rileggiamo quel brano.
"La fede per me è nata dall'incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato possibile nella comunità di fede in cui ho vissuto e grazie alla quale ho trovato l'accesso all'intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, vera immagine del Signore. Senza la Chiesa - mi creda - non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell'immenso dono della fede è custodito nei vasi d'argilla della nostra umanità".
Un racconto splendido, un'autobiografia affascinante. Ci si sente sotto, per quanto posso intuire, più Bernardo, più Agostino, più Benedetto che Tommaso e la Scolastica, che tuttavia è ancora assai presente nella dottrina tradizionale
Chi come me non solo non ha la fede ma neppure la cerca; chi come me sente il fascino della predicazione di Gesù e lo ritiene uomo e figlio dell'uomo, non può che ammirare un successore di Pietro che rivendica la Chiesa come luogo eletto affinché il sentimento di umanità custodito in vasi d'argilla non venga distrutto dai vasi di piombo che fuori e dentro la Chiesa spezzano i vasi d'argilla.
Il Papa mi fa l'onore di voler fare un tratto di percorso insieme. Ne sarei felice. Anch'io vorrei che la luce riuscisse a penetrare e a dissolvere le tenebre anche se so che quelle che chiamiamo tenebre sono soltanto l'origine animale della nostra specie. Più volte ho scritto che noi siamo una scimmia pensante. Guai quando incliniamo troppo verso la bestia da cui proveniamo, ma non saremo mai angeli perché non è nostra la natura angelica, ove mai esista.
Perciò lunga vita e affettuosa fraternità con Francesco, Vescovo di Roma e capo d'una Chiesa che lotta anch'essa tra il bene e il male.
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Re: Francesco un papa ...Cristiano!
Caro Bergoglio, caro Scalfari, a noi, non ci riguarda!
Elisabetta Addis
Economista, di Se Non Ora Quando
Già. Bella lettera, Bergoglio. Ma a me, non mi riguarda. Dice infatti che riguarda "il rapporto che Egli (Gesù) ha con Dio che è Abbà, e in questa luce al rapporto che ha con tutti gli altri uomini". E io sono una donna.
"In lui tutti siamo chiamati a essere figli", e io al massimo posso essere una figlia, "fratelli tra noi", ma di sorelle, non si ha sentore. E ancora, che "l'amore e misericordia di Dio raggiungono tutti gli uomini". Ma non le donne.
Siamo almeno trenta anni che stiamo chiedendo l'elementare rispetto che si usi un linguaggio che ci include, un linguaggio non sessista. E dato che costa ben poco, nell'epoca dei word processor, sostituire "uomo" con "essere umano" e "uomini" con "uomini e donne", interpreto che ci sia una chiara volontà, da parte di un vecchio maschio a capo di una gerarchia di soli maschi, di farmi intendere che non è a me che si rivolge.
E detto francamente, anche Repubblica, non ci fa una bella figura. Il giorno dopo fa commentare la lettera del Papa dal maschio Scalfari, e da altri sei maschi tutti in fila (Kung, Veronesi, Bianchi, Cacciari, Forte e Di Segni), e nessuna donna. La Murgia no? La Perroni? La Bocchetti? la Cavarero? Non ci mancano le teologhe e le filosofe! Pazienza. Non ci riguarda. Si vede proprio che a noi donne, non ci riguarda.
Del resto, che la verità si trova nella relazione, le filosofe lo hanno detto ben prima di Francesco, non hanno atteso il suo l'imprimatur. E senza la relazione con le donne, tra uomini e donne, la verità di Bergoglio e di Scalfari resterà monca. Una verità celibe e infeconda.
Forse, questo dialogo non riguarda più noi, donne e uomini della contemporaneità, ma un potere e un mondo maschili che sono nel passato, e del passato. Andiamo avanti, ne abbiamo tantissime di cose più interessanti da fare e da pensare.
Elisabetta Addis
Economista, di Se Non Ora Quando
Già. Bella lettera, Bergoglio. Ma a me, non mi riguarda. Dice infatti che riguarda "il rapporto che Egli (Gesù) ha con Dio che è Abbà, e in questa luce al rapporto che ha con tutti gli altri uomini". E io sono una donna.
"In lui tutti siamo chiamati a essere figli", e io al massimo posso essere una figlia, "fratelli tra noi", ma di sorelle, non si ha sentore. E ancora, che "l'amore e misericordia di Dio raggiungono tutti gli uomini". Ma non le donne.
Siamo almeno trenta anni che stiamo chiedendo l'elementare rispetto che si usi un linguaggio che ci include, un linguaggio non sessista. E dato che costa ben poco, nell'epoca dei word processor, sostituire "uomo" con "essere umano" e "uomini" con "uomini e donne", interpreto che ci sia una chiara volontà, da parte di un vecchio maschio a capo di una gerarchia di soli maschi, di farmi intendere che non è a me che si rivolge.
E detto francamente, anche Repubblica, non ci fa una bella figura. Il giorno dopo fa commentare la lettera del Papa dal maschio Scalfari, e da altri sei maschi tutti in fila (Kung, Veronesi, Bianchi, Cacciari, Forte e Di Segni), e nessuna donna. La Murgia no? La Perroni? La Bocchetti? la Cavarero? Non ci mancano le teologhe e le filosofe! Pazienza. Non ci riguarda. Si vede proprio che a noi donne, non ci riguarda.
Del resto, che la verità si trova nella relazione, le filosofe lo hanno detto ben prima di Francesco, non hanno atteso il suo l'imprimatur. E senza la relazione con le donne, tra uomini e donne, la verità di Bergoglio e di Scalfari resterà monca. Una verità celibe e infeconda.
Forse, questo dialogo non riguarda più noi, donne e uomini della contemporaneità, ma un potere e un mondo maschili che sono nel passato, e del passato. Andiamo avanti, ne abbiamo tantissime di cose più interessanti da fare e da pensare.
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