Non è cosa vostra
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Re: Non è cosa vostra
il Fatto 16.10.13
Così i Saggi costituenti pilotavano i concorsi
La “rete criminale” dei professoroni
di Antonio Massari
Le carte dell’indagine di Bari sulle manovre per favorire amici e parenti in università. Barbera sponsorizza Pizzetti, De Vergottini segnala due “protette”. Pressioni a favore della Bernini (Pdl), ma poi il concorso salta
Poco importa che quel concorso, che vedeva favoriti la senatrice Anna Maria Bernini e Federico Pizzetti, figlio dell’ex garante della privacy, si sia concluso con un nulla di fatto. Vedremo perché. Quel che importa è conoscere le pressioni, gli scambi, il sistema che ha pervaso un concorso universitario nel 2010, con la riforma Gelmini in vigore. Ed è ancora più importante scoprire che, a esercitare queste pressioni, queste “pesanti interferenze”, siano stati anche due autorevoli giuristi: Augusto Barbera e Giuseppe de Vergottini, tre anni dopo assurti al rango di saggi, su nomina del premier Enrico Letta e benedizione del presidente Napolitano. A Barbera e De Vergottini è stato affidato il compito di riformare la nostra Costituzione. Sono gli stessi che tartassavano di telefonate il commissario Silvio Gambino. Il futuro saggio Augusto Barbera, definito negli atti “sponsor” di Pizzetti, chiede a Gambino: “Per (l’università, ndr) Europea c’è il ragazzo che m’interessa? ”. “Sì”, gli risponde Gambino, “è un ragazzo molto preparato”. De Vergottini invece contatta Gambino per chiedergli se, sempre all’Europea, il professor Giuseppe Ferrari intenda agevolare due candidate milanesi. Poi chiama lo stesso Ferrari e anch’egli s’informa su Pizzetti.
La “rete criminale” dei professoroni
Il sistema della cooptazione non è certo una novità. Ma lo scenario disegnato dall’inchiesta “do ut des”, condotta dal pm barese Renato Nitti in collaborazione con la Guardia di finanza, supera le peggiori fantasie: tradimenti, scambi, pressioni. La preoccupazione del sistema – secondo gli investigatori – non è garantire un futuro alla ricerca scientifica ma reclutare “burattini” che, nei futuri concorsi, asseconderanno gli interessi dei baroni. Non manca nulla: neanche il “testamento” orale di Giorgio Lombardi, professore di Diritto pubblico comparato all’Università di Torino, scomparso tre anni fa e drammaticamente raccolto nelle intercettazioni. L’inchiesta riguarda gli esami di prima e seconda fascia nei rami di Diritto costituzionale, pubblico comparato, canonico ed ecclesiastico: l’esito finale – è l’accusa – non ha avuto nulla a che vedere con il merito. Gli inquirenti parlano di una “rete criminale”, che coinvolge alcuni tra i docenti più autorevoli, e mira a far prevalere la logica del “favore” su quella del “merito” e della “giustizia”. Barbera e De Vergottini, insieme con altri tre saggi – Beniamino Caravita di Toritto, Carmela Salazar e Lorenza Violini – e 35 professori ordinari sono stati denunciati dalla Guardia di finanza: accuse che, a vario titolo, spaziano dall’associazione per delinquere alla corruzione, dal falso alla truffa aggravata. La riforma Gelmini, con il sorteggio dei commissari, doveva eliminare le “raccomandazioni” ma il “sistema” si attrezza immediatamente per neutralizzarla: orienta la formazione della rosa, affinché siano sorteggiati commissari “arrendevoli”. Quella rosa, secondo l’accusa, non s’è trasformata nella “libera elezione” di “giudici” che devono valutare il candidato “più meritevole”. E per chi non s’adeguava c’erano minacce e intimidazioni. Il sorteggio delle commissioni giudicatrici avviene nel gennaio 2010. E subito parte la sfida tra i due rivali del diritto pubblico comparato: Lombardi e Giuseppe Franco Ferrari.
Il testamento del “capo di tutti”
“È il decano, è il capo di tutti”: così viene ricordato in un’intercettazione Giorgio Lombardi, morto da pochi giorni, nel maggio 2010. Pochi mesi prima, al telefono, sostiene: la riforma Gelmini ha delle norme complicate che però non daranno troppo fastidio. E con Ferrari – collega alla Bocconi di Milano – ingaggia la corsa per recuperare i voti dei docenti che, di lì a poco, avrebbero formato la rosa dei sorteggiabili. Ferrari si rivolge al collega Pier Giuseppe Monateri, che può agire sugli eleggibili del gruppo di diritto privato comparato. E nell’estate 2009 Monateri gli invia una lista di 20 nomi affidabili. Una seconda mail elenca i probabili vincitori di concorso: 8 su 11 ce la faranno. E quindi: più voti ci si accaparra, nella rosa del sorteggio, più è possibile manipolare le future maggioranze nelle commissioni. Gli altri professori intercettati commentano: Ferrari ha vinto le elezioni ma Lombardi è in maggioranza nei concorsi che gl’interessano e, in fondo, è lui che ha vinto l’estrazione. De Vergottini dopo il sorteggio parla di “tragedia”: hanno vinto i lombardiani. C’è chi sostiene: a Lombardi basta scrivere su un foglietto i suoi nomi e la partita è già vinta a tavolino. Ma l’obiettivo di Lombardi qual è? Eccolo: Anna Maria Bernini e Federico Gustavo Pizzetti devono diventare professori di Diritto pubblico comparato. La prima, professoressa associata di Diritto pubblico comparato a Bologna, in quel periodo era parlamentare del Pdl e ministro del governo Berlusconi. Il secondo è figlio di Francesco Pizzetti, ordinario di Diritto costituzionale a Torino, all’epoca dei fatti presidente dell’Autorità garante per la privacy. Per l’accusa, la Bernini, in passato aveva aiutato il figlio di Lombardi per la sua carriera diplomatica e gli aveva anche promesso un sostegno per l’eventuale elezione a giudice costituzionale. A maggio si consuma il dramma personale di Lombardi che, ammalato, è sul punto di morire: dieci giorni prima di spirare, parla al telefono con il collega Luca Mezzetti, al quale dice parole che suonano come una sorta di testamento.
Le promesse dell’ex garante per la carriera del figlio
“Ora sei tu il padrone”, gli dice, consapevole che dovrà abbandonare l’impegno per il concorso. E gli affida Bernini e Pizzetti, pregando Mezzetti di non affossare le candidature, spiegandogli che può contare sui commissari Gambino, Ganino e Giovanni Cordini. Lo invita alla prudenza con il rivale Ferrari. Dieci giorni dopo Lombardi muore. E in poche ore si consuma il tradimento: Mezzetti contatta Ferrari parlandogli di “interessi comuni”. Nell’estate 2010 gli investigatori si concentrano sul concorso che riguarda Pizzetti e Bernini, nell’Università cattolica romana dei Legionari di Cristo, e si convincono che il rettore, padre Paolo Scarafoni, al centro delle indagini, è consapevole degli illeciti. Lombardi lascia il ruolo di commissario a Mezzetti, che a sua volta lo cede a Ferrari, anche lui dimissionario. Il concorso finisce nel nulla: ma gli investigatori, dalle intercettazioni, apprendono delle pressioni di Pizzetti senior che, in cambio della nomina di suo figlio, s’impegna a premere sui colleghi torinesi, commissari nell’Università Roma Tre, per favorire un’allieva di Ferrari.
l’Unità 16.10.13
Modifiche funzionali per salvare la Costituzione
di Marco Olivetti
«Al procedere delle riforme io ho legato il mio impegno all’atto di una non ricercata rielezione a presidente. Impegno che porterò avanti finché sarò in grado di reggerlo e a quel fine». Queste parole pronunciate ieri dal presidente della Repubblica hanno ricordato la necessità che siano realizzate, fra l’altro, le riforme «politiche e istituzionali da tempo riconosciute necessarie», le quali includono la riforma elettorale e la revisione della seconda parte della Costituzione. Esse, ovviamente, sollevano un interrogativo: può il «tutore della Costituzione» pronunciarsi in favore delle riforme costituzionali?
A questa domanda è possibile rispondere non solo ricordando che la stessa Costituzione prevede la possibilità della sua riforma e che i Padri costituenti non aspiravano certo a produrre un testo immodificabile e sottratto al decorso del tempo. Ma occorre soprattutto muovere da una distinzione di fondo fra la Costituzione cui Giorgio Napolitano ha giurato fedeltà e di cui è il garante e le singole disposizioni costituzionali che la compongono.
Certo, ciascuna di queste è valida ed efficace sino a quando non venga modificata, ma il presidente non ha ovviamente prestato giuramento di fedeltà a ciascun meccanismo previsto dalla Costituzione del 1947 nel senso di impegnarsi a difenderlo da qualsiasi revisione. La Costituzione cui Napolitano ha prestato giuramento è l’insieme delle scelte fondamentali compiute nel 1947, le quali come ha sostenuto Valerio Onida hanno collocato l’Italia nell’alveo della tradizione costituzionale occidentale e conservano piena validità anche oggi. Esse non riguardano solo la prima parte della Costituzione (che talora si tende superficialmente a ritenere immodificabile, magari pensando che della seconda si possa invece disporre a piacimento), ma coinvolgono la scelta per una democrazia rappresentativa di tipo europeo, al tempo stesso funzionale e limitata. È proprio l’esigenza di garantire la funzionalità della Costituzione che ne impone oggi la riforma.
Per spiegare come conservatorismo e riformismo in materia costituzionale debbano andare assieme, si può forse ricorrere a una breve periodizzazione della storia costituzionale post-bellica. Dal 1948 all’inizio degli anni 90 la Costituzione è stata la base della Repubblica dei partiti che l’aveva prodotta: certo, dalla fine degli anni 70 erano iniziati i primi dibattiti sulle riforme, ma, a par-
te i progetti socialisti di una «grande riforma» e le velleità delle forze tradizionalmente anticostituzionali, il consenso sulla Costituzione rimaneva solido. La riforma era ipotizzata come qualcosa che doveva avvenire dentro lo spirito della legge fondamentale, come fisiologicamente accade negli Stati contemporanei.
Tutto ciò è radicalmente cambiato dopo la crisi della Repubblica dei partiti. Il punto di partenza di questa seconda stagione di vera e propria messa in discussione della Costituzione, non di singole disposizioni di essa è stata la dichiarazione con cui, all’indomani della vittoria elettorale del 1994, Berlusconi, Fini e Bossi si schierarono in favore di una Seconda Repubblica, caratterizzata dal binomio fra presidenzialismo e federalismo. Si è così aperta una battaglia sull’essenza stessa della Costituzione del 1947, che andava ben al di là della distinzione fra prima e seconda parte. È allora iniziata la lotta a difesa della Costituzione inaugurata da Giuseppe Dossetti, che condusse su questo tema la sua ultima battaglia politica. Questa stagione ha attraversato gli anni 90 e buona parte del decennio seguente ed è culminata nella riforma approvata in solitudine dal centrodestra nel 2005. Ma tale progetto che aveva il significato di una nuova Costituzione dei vincitori, che avrebbe rovesciato il senso della decisione costituente del 1947 venne sconfitto nel referendum costituzionale del 25 e 26 giugno 2006.
Da allora, anche se ciò non è parso subito chiaro, si è aperta una nuova fase, che ha riportato il dibattito sulle riforme all’interno della Costituzione. Non è un caso che il centrodestra non abbia più tentato una riforma unilaterale e che si siano delineati, negli scorsi anni, vari tentativi di aggiornamento della Costituzione, concordati dai due principali schieramenti politici: il più importante di essi è stato la bozza Violante della XV legislatura, nella quale si è delineato il minimo comune denominatore delle esigenze di aggiornamento (in materia di bicameralismo, forma di governo, sistema delle autonomie) su cui vi è un consenso relativamente ampio fra gli studiosi e almeno a parole nella classe politica.
Il pericoloso stallo istituzionale con cui si è aperta l’attuale legislatura ha ricordato ancora una volta che esiste una questione costituzionale aperta. Ma essa si colloca oltre la stagione che vedeva contrapposti conservatori e innovatori radicali. Oggi essere conservatori dal punto di vista costituzionale significa essere favorevoli ad un incisivo programma di riforme che restituiscano funzionalità alla Carta del 1947, anche intervenendo sulla legislazione ad essa immediatamente connessa (come il sistema elettorale). È per questo che il ruolo del custode della Costituzione è cambiato: abbiamo oggi un presidente eletto anche in relazione a un programma di riforme costituzionali e un governo che ha ottenuto su questo tema la fiducia parlamentare. Perché solo in quel modo è possibile «salvare la Costituzione», cioè perseguire l’obiettivo su cui si svolsero la battaglia di Dossetti e il referendum costituzionale del 2006.
Corriere 16.10.13
La bandiera della Costituzione e il ruolo di Togliatti
Macaluso: la nostra Carta fu essenzialmente opera dei «socialcomunisti» e della Dc
di Emanuele Macaluso
Partito rivoluzionario o forza istituzionale orientata al riformismo? Cosa è stato il Pci? In Comunisti e riformisti Macaluso riflette sulle diverse anime della sinistra italiana: la «doppiezza di Togliatti» coincideva con una strategia politica, rimasta viva fino a Berlinguer e rimossa nell’89. Qui uno stralcio del libro.
In questi anni tutte le forze della sinistra europea hanno rivisto i loro programmi, adeguandoli ai mutamenti verificatisi nel capitalismo globale. Soprattutto dopo il crollo dell’Urss e i processi di mondializzazione di cui tanto si è parlato. Sappiamo che questa ricerca ha conosciuto successi e sconfitte. Solo in Italia non c’è stato uno sforzo politico-culturale e organizzativo per ridefinire il ruolo che storicamente ha sempre avuto la sinistra. Senza dubbio occorreva un serio impegno d’innovazione, comprese delle cesure, rispetto a quella storia, segnata anche dalla presenza del Pci di Togliatti, ma non la si doveva certo cancellare, come invece è accaduto. Il grande e antico albero del socialismo italiano poteva dare ancora frutti. Altro che quercia!
Nel maggio 2010, è uscito per Donzelli un libro interessante, ricco di spunti, riflessioni, e documentazioni, scritto da Enrico Morando, Riformisti e comunisti? , in cui racconta una storia dei «miglioristi» nel Pci, nel Pds, nei Ds e nel Pd. Fra tante cose questo libro contiene una critica di «continuismo» e di «richiamo alla tradizione» verso i più anziani esponenti dell’area riformista: Bufalini (in modo particolare), Napolitano, Macaluso, Chiaromonte. [...] Almeno a mio avviso, una delle ragioni per cui la sinistra, dopo il 1989, non ha avuto più identità è proprio il fatto che questa è stata ricercata nella più «netta discontinuità». Morando critica una mia valutazione frutto di una mia ferma convinzione, quando dopo la Bolognina affermai che occorreva «recuperare il nucleo vitale della nostra storia» in un partito che poteva e doveva fare propria la storia e tradizione socialista, con tutto ciò che di positivo e di negativo, di successi e di sconfitte, essa ha espresso in Italia e in Europa.
Può darsi anche che quel giudizio fosse sbagliato e comunque non realistico dato che le cose a sinistra sono andate in tutt’altra direzione. Su questo ho scritto molto e non mi ripeto. Dico solo che queste pagine dedicate all’opera di Togliatti non sono frutto di nostalgie o di «continuismo», ma del convincimento che nella storia della sinistra italiana c’è anche questa. So bene che capire ciò che è vivo e ciò che è morto, per l’oggi e per il futuro, e metterlo in evidenza è opera difficile e rischiosa proprio perché sembra che si stia con la testa rivolta al passato e non al futuro. E più facile azzerare tutto. A questo proposito Morando cita una frase di Vittorio Foa: «Si guarda al futuro pensando al presente e guardando al passato, come una mera ripetizione di cose vissute. Nei dirigenti della nostra sinistra [...] manca tuttavia l’idea che il futuro è un’altra cosa, che va guardato con altri occhi, con una testa nuova». Ma attenzione alla «testa nuova». A volte quelle teste pensano al nuovo, anzi al nuovissimo e trovano il vecchio, anzi, il vecchissimo. Il futuro è un’altra cosa, dice giustamente Foa, ma per individuarlo e capirlo servono anche il presente e il passato.
Tanti anni fa Gerardo Chiaromonte partecipò a un congresso dell’Spd. Al suo ritorno gli chiesi notizie sui lavori. Gerardo mi rispose che quel che più d’ogni altra cosa l’aveva colpito era l’addobbo della sala in cui si svolgeva il congresso. Tanti drappi rossi con tante foto: Marx ed Engels, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, Kautsky, Bernstein e altri. Un partito che da tempo aveva fatto la grande svolta di Bad Godesberg non cancellava il suo passato e il suo a volte drammatico cammino.
Un’ultima nota. Nei giorni in cui scrivo, da più parti si fa riferimento alla Costituzione sulla quale in mo¬menti particolarmente difficili ha fondato il proprio agire il presidente della Repubblica. La «più bella del mondo», l’ha definita Roberto Benigni [...]. Un giudizio condiviso dai più valenti costituzionalisti e studiosi di diritto, come dagli uomini politici che hanno servito il nostro Paese.
La Costituzione in passato ha rappresentato per tanti italiani il terreno su cui condurre la battaglia democratica per avanzare lungo la via italiana al socialismo. Quella prospettiva sembra oggi solo una vecchia illusione ideologica. In parte è così. Tuttavia lo scontro sociale, politico e culturale sui temi che costituiscono l’ossatura della Costituzione è più che attuale. Oggi come allora, essa è la barriera per difendere democrazia e diritti, il riferimento imprescindibile per mantenere l’unità e la coesione nazionale, anche se appare ormai necessario adeguarne alcuni articoli concernenti il funzionamento delle istituzioni.
Osservo che alcuni che ne hanno fatto la loro bandiera — penso a Libertà e Giustizia, l’associazione presieduta dal professor Zagrebelsky — hanno come riferimento il vecchio Partito d’Azione. Senza dubbio una forza di grande rilievo nell’antifascismo, nella Resistenza e nell’immediato dopoguerra. Un partito in cui militarono personalità di valore, combattenti di tante battaglie politiche e morali. Tuttavia la Costituzione fu essenzialmente opera dei «socialcomunisti» e della Dc. Togliatti svolse un ruolo determinante.
Ribadisco. Tutti i movimenti e tutti gli uomini che dettero un contributo sostanziale nel creare le condizioni per fare dell’Italia una Repubblica democratica e dotarla di questa Costituzione debbono essere ricordati come meritano e possono stare nel Pantheon di ogni forza che abbia la Carta nel proprio Dna. Fra questi, piaccia o meno, c’è il Partito comunista italiano e c’è Palmiro Togliatti.
Un proverbio cinese dice: «Chi prende l’acqua da un pozzo non dovrebbe dimenticare chi l’ha scavato».
Così i Saggi costituenti pilotavano i concorsi
La “rete criminale” dei professoroni
di Antonio Massari
Le carte dell’indagine di Bari sulle manovre per favorire amici e parenti in università. Barbera sponsorizza Pizzetti, De Vergottini segnala due “protette”. Pressioni a favore della Bernini (Pdl), ma poi il concorso salta
Poco importa che quel concorso, che vedeva favoriti la senatrice Anna Maria Bernini e Federico Pizzetti, figlio dell’ex garante della privacy, si sia concluso con un nulla di fatto. Vedremo perché. Quel che importa è conoscere le pressioni, gli scambi, il sistema che ha pervaso un concorso universitario nel 2010, con la riforma Gelmini in vigore. Ed è ancora più importante scoprire che, a esercitare queste pressioni, queste “pesanti interferenze”, siano stati anche due autorevoli giuristi: Augusto Barbera e Giuseppe de Vergottini, tre anni dopo assurti al rango di saggi, su nomina del premier Enrico Letta e benedizione del presidente Napolitano. A Barbera e De Vergottini è stato affidato il compito di riformare la nostra Costituzione. Sono gli stessi che tartassavano di telefonate il commissario Silvio Gambino. Il futuro saggio Augusto Barbera, definito negli atti “sponsor” di Pizzetti, chiede a Gambino: “Per (l’università, ndr) Europea c’è il ragazzo che m’interessa? ”. “Sì”, gli risponde Gambino, “è un ragazzo molto preparato”. De Vergottini invece contatta Gambino per chiedergli se, sempre all’Europea, il professor Giuseppe Ferrari intenda agevolare due candidate milanesi. Poi chiama lo stesso Ferrari e anch’egli s’informa su Pizzetti.
La “rete criminale” dei professoroni
Il sistema della cooptazione non è certo una novità. Ma lo scenario disegnato dall’inchiesta “do ut des”, condotta dal pm barese Renato Nitti in collaborazione con la Guardia di finanza, supera le peggiori fantasie: tradimenti, scambi, pressioni. La preoccupazione del sistema – secondo gli investigatori – non è garantire un futuro alla ricerca scientifica ma reclutare “burattini” che, nei futuri concorsi, asseconderanno gli interessi dei baroni. Non manca nulla: neanche il “testamento” orale di Giorgio Lombardi, professore di Diritto pubblico comparato all’Università di Torino, scomparso tre anni fa e drammaticamente raccolto nelle intercettazioni. L’inchiesta riguarda gli esami di prima e seconda fascia nei rami di Diritto costituzionale, pubblico comparato, canonico ed ecclesiastico: l’esito finale – è l’accusa – non ha avuto nulla a che vedere con il merito. Gli inquirenti parlano di una “rete criminale”, che coinvolge alcuni tra i docenti più autorevoli, e mira a far prevalere la logica del “favore” su quella del “merito” e della “giustizia”. Barbera e De Vergottini, insieme con altri tre saggi – Beniamino Caravita di Toritto, Carmela Salazar e Lorenza Violini – e 35 professori ordinari sono stati denunciati dalla Guardia di finanza: accuse che, a vario titolo, spaziano dall’associazione per delinquere alla corruzione, dal falso alla truffa aggravata. La riforma Gelmini, con il sorteggio dei commissari, doveva eliminare le “raccomandazioni” ma il “sistema” si attrezza immediatamente per neutralizzarla: orienta la formazione della rosa, affinché siano sorteggiati commissari “arrendevoli”. Quella rosa, secondo l’accusa, non s’è trasformata nella “libera elezione” di “giudici” che devono valutare il candidato “più meritevole”. E per chi non s’adeguava c’erano minacce e intimidazioni. Il sorteggio delle commissioni giudicatrici avviene nel gennaio 2010. E subito parte la sfida tra i due rivali del diritto pubblico comparato: Lombardi e Giuseppe Franco Ferrari.
Il testamento del “capo di tutti”
“È il decano, è il capo di tutti”: così viene ricordato in un’intercettazione Giorgio Lombardi, morto da pochi giorni, nel maggio 2010. Pochi mesi prima, al telefono, sostiene: la riforma Gelmini ha delle norme complicate che però non daranno troppo fastidio. E con Ferrari – collega alla Bocconi di Milano – ingaggia la corsa per recuperare i voti dei docenti che, di lì a poco, avrebbero formato la rosa dei sorteggiabili. Ferrari si rivolge al collega Pier Giuseppe Monateri, che può agire sugli eleggibili del gruppo di diritto privato comparato. E nell’estate 2009 Monateri gli invia una lista di 20 nomi affidabili. Una seconda mail elenca i probabili vincitori di concorso: 8 su 11 ce la faranno. E quindi: più voti ci si accaparra, nella rosa del sorteggio, più è possibile manipolare le future maggioranze nelle commissioni. Gli altri professori intercettati commentano: Ferrari ha vinto le elezioni ma Lombardi è in maggioranza nei concorsi che gl’interessano e, in fondo, è lui che ha vinto l’estrazione. De Vergottini dopo il sorteggio parla di “tragedia”: hanno vinto i lombardiani. C’è chi sostiene: a Lombardi basta scrivere su un foglietto i suoi nomi e la partita è già vinta a tavolino. Ma l’obiettivo di Lombardi qual è? Eccolo: Anna Maria Bernini e Federico Gustavo Pizzetti devono diventare professori di Diritto pubblico comparato. La prima, professoressa associata di Diritto pubblico comparato a Bologna, in quel periodo era parlamentare del Pdl e ministro del governo Berlusconi. Il secondo è figlio di Francesco Pizzetti, ordinario di Diritto costituzionale a Torino, all’epoca dei fatti presidente dell’Autorità garante per la privacy. Per l’accusa, la Bernini, in passato aveva aiutato il figlio di Lombardi per la sua carriera diplomatica e gli aveva anche promesso un sostegno per l’eventuale elezione a giudice costituzionale. A maggio si consuma il dramma personale di Lombardi che, ammalato, è sul punto di morire: dieci giorni prima di spirare, parla al telefono con il collega Luca Mezzetti, al quale dice parole che suonano come una sorta di testamento.
Le promesse dell’ex garante per la carriera del figlio
“Ora sei tu il padrone”, gli dice, consapevole che dovrà abbandonare l’impegno per il concorso. E gli affida Bernini e Pizzetti, pregando Mezzetti di non affossare le candidature, spiegandogli che può contare sui commissari Gambino, Ganino e Giovanni Cordini. Lo invita alla prudenza con il rivale Ferrari. Dieci giorni dopo Lombardi muore. E in poche ore si consuma il tradimento: Mezzetti contatta Ferrari parlandogli di “interessi comuni”. Nell’estate 2010 gli investigatori si concentrano sul concorso che riguarda Pizzetti e Bernini, nell’Università cattolica romana dei Legionari di Cristo, e si convincono che il rettore, padre Paolo Scarafoni, al centro delle indagini, è consapevole degli illeciti. Lombardi lascia il ruolo di commissario a Mezzetti, che a sua volta lo cede a Ferrari, anche lui dimissionario. Il concorso finisce nel nulla: ma gli investigatori, dalle intercettazioni, apprendono delle pressioni di Pizzetti senior che, in cambio della nomina di suo figlio, s’impegna a premere sui colleghi torinesi, commissari nell’Università Roma Tre, per favorire un’allieva di Ferrari.
l’Unità 16.10.13
Modifiche funzionali per salvare la Costituzione
di Marco Olivetti
«Al procedere delle riforme io ho legato il mio impegno all’atto di una non ricercata rielezione a presidente. Impegno che porterò avanti finché sarò in grado di reggerlo e a quel fine». Queste parole pronunciate ieri dal presidente della Repubblica hanno ricordato la necessità che siano realizzate, fra l’altro, le riforme «politiche e istituzionali da tempo riconosciute necessarie», le quali includono la riforma elettorale e la revisione della seconda parte della Costituzione. Esse, ovviamente, sollevano un interrogativo: può il «tutore della Costituzione» pronunciarsi in favore delle riforme costituzionali?
A questa domanda è possibile rispondere non solo ricordando che la stessa Costituzione prevede la possibilità della sua riforma e che i Padri costituenti non aspiravano certo a produrre un testo immodificabile e sottratto al decorso del tempo. Ma occorre soprattutto muovere da una distinzione di fondo fra la Costituzione cui Giorgio Napolitano ha giurato fedeltà e di cui è il garante e le singole disposizioni costituzionali che la compongono.
Certo, ciascuna di queste è valida ed efficace sino a quando non venga modificata, ma il presidente non ha ovviamente prestato giuramento di fedeltà a ciascun meccanismo previsto dalla Costituzione del 1947 nel senso di impegnarsi a difenderlo da qualsiasi revisione. La Costituzione cui Napolitano ha prestato giuramento è l’insieme delle scelte fondamentali compiute nel 1947, le quali come ha sostenuto Valerio Onida hanno collocato l’Italia nell’alveo della tradizione costituzionale occidentale e conservano piena validità anche oggi. Esse non riguardano solo la prima parte della Costituzione (che talora si tende superficialmente a ritenere immodificabile, magari pensando che della seconda si possa invece disporre a piacimento), ma coinvolgono la scelta per una democrazia rappresentativa di tipo europeo, al tempo stesso funzionale e limitata. È proprio l’esigenza di garantire la funzionalità della Costituzione che ne impone oggi la riforma.
Per spiegare come conservatorismo e riformismo in materia costituzionale debbano andare assieme, si può forse ricorrere a una breve periodizzazione della storia costituzionale post-bellica. Dal 1948 all’inizio degli anni 90 la Costituzione è stata la base della Repubblica dei partiti che l’aveva prodotta: certo, dalla fine degli anni 70 erano iniziati i primi dibattiti sulle riforme, ma, a par-
te i progetti socialisti di una «grande riforma» e le velleità delle forze tradizionalmente anticostituzionali, il consenso sulla Costituzione rimaneva solido. La riforma era ipotizzata come qualcosa che doveva avvenire dentro lo spirito della legge fondamentale, come fisiologicamente accade negli Stati contemporanei.
Tutto ciò è radicalmente cambiato dopo la crisi della Repubblica dei partiti. Il punto di partenza di questa seconda stagione di vera e propria messa in discussione della Costituzione, non di singole disposizioni di essa è stata la dichiarazione con cui, all’indomani della vittoria elettorale del 1994, Berlusconi, Fini e Bossi si schierarono in favore di una Seconda Repubblica, caratterizzata dal binomio fra presidenzialismo e federalismo. Si è così aperta una battaglia sull’essenza stessa della Costituzione del 1947, che andava ben al di là della distinzione fra prima e seconda parte. È allora iniziata la lotta a difesa della Costituzione inaugurata da Giuseppe Dossetti, che condusse su questo tema la sua ultima battaglia politica. Questa stagione ha attraversato gli anni 90 e buona parte del decennio seguente ed è culminata nella riforma approvata in solitudine dal centrodestra nel 2005. Ma tale progetto che aveva il significato di una nuova Costituzione dei vincitori, che avrebbe rovesciato il senso della decisione costituente del 1947 venne sconfitto nel referendum costituzionale del 25 e 26 giugno 2006.
Da allora, anche se ciò non è parso subito chiaro, si è aperta una nuova fase, che ha riportato il dibattito sulle riforme all’interno della Costituzione. Non è un caso che il centrodestra non abbia più tentato una riforma unilaterale e che si siano delineati, negli scorsi anni, vari tentativi di aggiornamento della Costituzione, concordati dai due principali schieramenti politici: il più importante di essi è stato la bozza Violante della XV legislatura, nella quale si è delineato il minimo comune denominatore delle esigenze di aggiornamento (in materia di bicameralismo, forma di governo, sistema delle autonomie) su cui vi è un consenso relativamente ampio fra gli studiosi e almeno a parole nella classe politica.
Il pericoloso stallo istituzionale con cui si è aperta l’attuale legislatura ha ricordato ancora una volta che esiste una questione costituzionale aperta. Ma essa si colloca oltre la stagione che vedeva contrapposti conservatori e innovatori radicali. Oggi essere conservatori dal punto di vista costituzionale significa essere favorevoli ad un incisivo programma di riforme che restituiscano funzionalità alla Carta del 1947, anche intervenendo sulla legislazione ad essa immediatamente connessa (come il sistema elettorale). È per questo che il ruolo del custode della Costituzione è cambiato: abbiamo oggi un presidente eletto anche in relazione a un programma di riforme costituzionali e un governo che ha ottenuto su questo tema la fiducia parlamentare. Perché solo in quel modo è possibile «salvare la Costituzione», cioè perseguire l’obiettivo su cui si svolsero la battaglia di Dossetti e il referendum costituzionale del 2006.
Corriere 16.10.13
La bandiera della Costituzione e il ruolo di Togliatti
Macaluso: la nostra Carta fu essenzialmente opera dei «socialcomunisti» e della Dc
di Emanuele Macaluso
Partito rivoluzionario o forza istituzionale orientata al riformismo? Cosa è stato il Pci? In Comunisti e riformisti Macaluso riflette sulle diverse anime della sinistra italiana: la «doppiezza di Togliatti» coincideva con una strategia politica, rimasta viva fino a Berlinguer e rimossa nell’89. Qui uno stralcio del libro.
In questi anni tutte le forze della sinistra europea hanno rivisto i loro programmi, adeguandoli ai mutamenti verificatisi nel capitalismo globale. Soprattutto dopo il crollo dell’Urss e i processi di mondializzazione di cui tanto si è parlato. Sappiamo che questa ricerca ha conosciuto successi e sconfitte. Solo in Italia non c’è stato uno sforzo politico-culturale e organizzativo per ridefinire il ruolo che storicamente ha sempre avuto la sinistra. Senza dubbio occorreva un serio impegno d’innovazione, comprese delle cesure, rispetto a quella storia, segnata anche dalla presenza del Pci di Togliatti, ma non la si doveva certo cancellare, come invece è accaduto. Il grande e antico albero del socialismo italiano poteva dare ancora frutti. Altro che quercia!
Nel maggio 2010, è uscito per Donzelli un libro interessante, ricco di spunti, riflessioni, e documentazioni, scritto da Enrico Morando, Riformisti e comunisti? , in cui racconta una storia dei «miglioristi» nel Pci, nel Pds, nei Ds e nel Pd. Fra tante cose questo libro contiene una critica di «continuismo» e di «richiamo alla tradizione» verso i più anziani esponenti dell’area riformista: Bufalini (in modo particolare), Napolitano, Macaluso, Chiaromonte. [...] Almeno a mio avviso, una delle ragioni per cui la sinistra, dopo il 1989, non ha avuto più identità è proprio il fatto che questa è stata ricercata nella più «netta discontinuità». Morando critica una mia valutazione frutto di una mia ferma convinzione, quando dopo la Bolognina affermai che occorreva «recuperare il nucleo vitale della nostra storia» in un partito che poteva e doveva fare propria la storia e tradizione socialista, con tutto ciò che di positivo e di negativo, di successi e di sconfitte, essa ha espresso in Italia e in Europa.
Può darsi anche che quel giudizio fosse sbagliato e comunque non realistico dato che le cose a sinistra sono andate in tutt’altra direzione. Su questo ho scritto molto e non mi ripeto. Dico solo che queste pagine dedicate all’opera di Togliatti non sono frutto di nostalgie o di «continuismo», ma del convincimento che nella storia della sinistra italiana c’è anche questa. So bene che capire ciò che è vivo e ciò che è morto, per l’oggi e per il futuro, e metterlo in evidenza è opera difficile e rischiosa proprio perché sembra che si stia con la testa rivolta al passato e non al futuro. E più facile azzerare tutto. A questo proposito Morando cita una frase di Vittorio Foa: «Si guarda al futuro pensando al presente e guardando al passato, come una mera ripetizione di cose vissute. Nei dirigenti della nostra sinistra [...] manca tuttavia l’idea che il futuro è un’altra cosa, che va guardato con altri occhi, con una testa nuova». Ma attenzione alla «testa nuova». A volte quelle teste pensano al nuovo, anzi al nuovissimo e trovano il vecchio, anzi, il vecchissimo. Il futuro è un’altra cosa, dice giustamente Foa, ma per individuarlo e capirlo servono anche il presente e il passato.
Tanti anni fa Gerardo Chiaromonte partecipò a un congresso dell’Spd. Al suo ritorno gli chiesi notizie sui lavori. Gerardo mi rispose che quel che più d’ogni altra cosa l’aveva colpito era l’addobbo della sala in cui si svolgeva il congresso. Tanti drappi rossi con tante foto: Marx ed Engels, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, Kautsky, Bernstein e altri. Un partito che da tempo aveva fatto la grande svolta di Bad Godesberg non cancellava il suo passato e il suo a volte drammatico cammino.
Un’ultima nota. Nei giorni in cui scrivo, da più parti si fa riferimento alla Costituzione sulla quale in mo¬menti particolarmente difficili ha fondato il proprio agire il presidente della Repubblica. La «più bella del mondo», l’ha definita Roberto Benigni [...]. Un giudizio condiviso dai più valenti costituzionalisti e studiosi di diritto, come dagli uomini politici che hanno servito il nostro Paese.
La Costituzione in passato ha rappresentato per tanti italiani il terreno su cui condurre la battaglia democratica per avanzare lungo la via italiana al socialismo. Quella prospettiva sembra oggi solo una vecchia illusione ideologica. In parte è così. Tuttavia lo scontro sociale, politico e culturale sui temi che costituiscono l’ossatura della Costituzione è più che attuale. Oggi come allora, essa è la barriera per difendere democrazia e diritti, il riferimento imprescindibile per mantenere l’unità e la coesione nazionale, anche se appare ormai necessario adeguarne alcuni articoli concernenti il funzionamento delle istituzioni.
Osservo che alcuni che ne hanno fatto la loro bandiera — penso a Libertà e Giustizia, l’associazione presieduta dal professor Zagrebelsky — hanno come riferimento il vecchio Partito d’Azione. Senza dubbio una forza di grande rilievo nell’antifascismo, nella Resistenza e nell’immediato dopoguerra. Un partito in cui militarono personalità di valore, combattenti di tante battaglie politiche e morali. Tuttavia la Costituzione fu essenzialmente opera dei «socialcomunisti» e della Dc. Togliatti svolse un ruolo determinante.
Ribadisco. Tutti i movimenti e tutti gli uomini che dettero un contributo sostanziale nel creare le condizioni per fare dell’Italia una Repubblica democratica e dotarla di questa Costituzione debbono essere ricordati come meritano e possono stare nel Pantheon di ogni forza che abbia la Carta nel proprio Dna. Fra questi, piaccia o meno, c’è il Partito comunista italiano e c’è Palmiro Togliatti.
Un proverbio cinese dice: «Chi prende l’acqua da un pozzo non dovrebbe dimenticare chi l’ha scavato».
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Re: Non è cosa vostra
il Fatto 16.10.13
Dopo il 12 ottobre
Cgil, il seminario di riparazione
Nel suo intervento in piazza del Popolo, sabato scorso, concludendo la manifestazione in difesa della Costituzione, Stefano Rodotà aveva parlato di “imbarazzanti diserzioni”. Si riferiva a quelle associazioni che, naturalmente, avrebbero dovuto essere in piazza e che invece, nei giorni precedenti, avevano annunciato la propria assenza. Rodotà non ha fatto nomi, ma l’Anpi e la Cgil, oltre al Pd, sono state le prime indiziate. Ora, la confederazione di Susanna Camusso, replica con un convegno, che si terrà oggi nella sala dei Frentani a Roma, dal titolo “Semplificare per rafforzare”. Per “La via maestra” ci saranno Rodotà, Sandra Bonsanti e Alessandro Pace. Poi, la parola soprattutto a dirigenti sindacali e a politici come Vasco Errani e Ignazio Marino e a Franco Bassanini. Conclude Susanna Camusso. Lì si capirà, se è un seminario di riparazione.
Corriere 16.10.13
Ingroia: decidano gli elettori sullo scempio dell’articolo 138
«Sordi, incapaci di ascoltare quello che chiede il Paese. Ecco perché il Senato oggi forza i tempi e si accinge ad approvare in terza lettura la modifica dell’articolo 138 della Costituzione. Non è bastato quasi mezzo milione di firme raccolte da un quotidiano, non è bastata la straordinaria manifestazione popolare di sabato a Roma». Lo ha detto il presidente di Azione civile Antonio Ingroia, tra i promotori dell’appello pubblicato dal Fatto e sabato scorso in piazza a Roma in difesa della Carta. «L’arroganza con cui la maggioranza delle larghe intese sta per sfregiare la Carta è senza limiti. Ma almeno questo Parlamento di nominati a causa di un sistema elettorale incostituzionale consenta ai cittadini di esprimersi. Faccia mancare la maggioranza di due terzi in modo che si possa chiedere in tempi brevi il referendum confermativo previsto dalla nostra Costituzione. Almeno abbiano il coraggio di chiedere una legittimazione allo scempio che stanno compiendo».
il Fatto 16.10.123
Il giurista Stefano Rodotà
Meno garanzie, più poteri personali
Strada pericolosa
di Silvia Truzzi
Le riforme costituzionali procedono spedite, anzi speditissime. Guai a chi – come i moltissimi cittadini che hanno partecipato alla manifestazione di sabato organizzata da Via maestra – invita alla riflessione. Tra i promotori c’è il professor Stefano Rodotà: “Mentre sabato pomeriggio Sky ha fatto una diretta della manifestazione, la tv pubblica quasi non ne ha dato notizia. Con Piazza del Popolo strapiena! Le prassi di pessima informazione non sono mutate, nonostante il cambio dei vertici Rai. È un fatto vergognoso, ma non ci lasceremo scoraggiare”.
Professore come si spiega la fretta sulla riforma della Carta?
Se si fosse seguita la procedura prevista dall’articolo 138 oggi le tre riforme che il presidente del Consiglio insistentemente richiama – e cioè diminuzione del numero dei parlamentari, fine del bicameralismo perfetto, riforma del titolo V già pessimamente riformato – sarebbero avviate verso l’approvazione. Ma su queste tre ipotesi c’è un tale consenso sociale che l’approvazione per via ordinaria avrebbe avuto tempi molto celeri! Il tema vero è il cambiamento della forma di governo: la discussione su questo deve essere fatta, non è questione che possa essere affidata ad accelerazioni o su cui lo spirito critico debba essere messo a tacere. Il dubbio è che sfruttando il consenso su tre riforme si voglia agganciare anche la quarta, sulla quale non c’è consenso e la discussione è ancora aperta.
Perché è critico sul semipresidenzialismo o su una forma di premierato forte, le due ipotesi che vanno per la maggiore?
Avremmo un accentramento dei poteri e un’ulteriore, formalizzata, personalizzazione del potere a fianco di un deperimento di garanzie e contrappesi: una strada molto pericolosa. Tutto questo viene giustificato con l’efficienza, argomento importante, ma che non può essere l’unico. Il richiamo ai sistemi di Francia e Usa poi è improprio. Negli Usa il presidente è “prigioniero” del congresso, per dire quanto sono forti i contrappesi degli altri poteri. E in Francia c’è la possibilità di maggioranze diverse tra quella che elegge il presidente e quella che elegge l’assemblea nazionale. Non è solo un problema di riscrittura delle regole. Il guaio vero è la debolezza della politica, interamente scaricata sulla Costituzione, inquinata e utilizzata impropriamente.
Il presidente Napolitano ieri ha detto: “Al procedere delle riforme istituzionali io ho legato il mio impegno all’atto di una non ricercata rielezione a presidente”.
L’atteggiamento del Colle rientra nelle dinamiche istituzionali. Ma questo non può, non deve, escludere una discussione sia sulla procedura che sul merito. Letta ha più volte affermato che chi si oppone è d’impedimento alle riforme, ma quest'accusa è una falsificazione della realtà: noi non vogliamo ritardare le riforme, vorremmo semplicemente che tutto si svolgesse nell’ambito del perimetro costituzionale, insistendo sulla necessità di dare una voce ai cittadini.
Loro dicono che alla fine del processo di riforma si avrà il referendum.
Attenzione: abbiamo un brutto precedente, la modifica dell’articolo 81 sul pareggio di bilancio. Allora non si volle prestare attenzione a quelli che dicevano “evitate di approvarla con i due terzi in modo che i cittadini possano esprimersi”. Ora si toccano la regola delle regole – la procedura di riforma – e la forma di governo: deve essere consentito chiedere un referendum. Aggiungo: chi oggi si occupa con tanta premura di riforme dovrebbe tener conto che 16 milioni di italiani, nel 2006, si espressero contro una previsione di riforma costituzionale che conteneva molti punti oggi in discussione.
Dopo il 12 ottobre
Cgil, il seminario di riparazione
Nel suo intervento in piazza del Popolo, sabato scorso, concludendo la manifestazione in difesa della Costituzione, Stefano Rodotà aveva parlato di “imbarazzanti diserzioni”. Si riferiva a quelle associazioni che, naturalmente, avrebbero dovuto essere in piazza e che invece, nei giorni precedenti, avevano annunciato la propria assenza. Rodotà non ha fatto nomi, ma l’Anpi e la Cgil, oltre al Pd, sono state le prime indiziate. Ora, la confederazione di Susanna Camusso, replica con un convegno, che si terrà oggi nella sala dei Frentani a Roma, dal titolo “Semplificare per rafforzare”. Per “La via maestra” ci saranno Rodotà, Sandra Bonsanti e Alessandro Pace. Poi, la parola soprattutto a dirigenti sindacali e a politici come Vasco Errani e Ignazio Marino e a Franco Bassanini. Conclude Susanna Camusso. Lì si capirà, se è un seminario di riparazione.
Corriere 16.10.13
Ingroia: decidano gli elettori sullo scempio dell’articolo 138
«Sordi, incapaci di ascoltare quello che chiede il Paese. Ecco perché il Senato oggi forza i tempi e si accinge ad approvare in terza lettura la modifica dell’articolo 138 della Costituzione. Non è bastato quasi mezzo milione di firme raccolte da un quotidiano, non è bastata la straordinaria manifestazione popolare di sabato a Roma». Lo ha detto il presidente di Azione civile Antonio Ingroia, tra i promotori dell’appello pubblicato dal Fatto e sabato scorso in piazza a Roma in difesa della Carta. «L’arroganza con cui la maggioranza delle larghe intese sta per sfregiare la Carta è senza limiti. Ma almeno questo Parlamento di nominati a causa di un sistema elettorale incostituzionale consenta ai cittadini di esprimersi. Faccia mancare la maggioranza di due terzi in modo che si possa chiedere in tempi brevi il referendum confermativo previsto dalla nostra Costituzione. Almeno abbiano il coraggio di chiedere una legittimazione allo scempio che stanno compiendo».
il Fatto 16.10.123
Il giurista Stefano Rodotà
Meno garanzie, più poteri personali
Strada pericolosa
di Silvia Truzzi
Le riforme costituzionali procedono spedite, anzi speditissime. Guai a chi – come i moltissimi cittadini che hanno partecipato alla manifestazione di sabato organizzata da Via maestra – invita alla riflessione. Tra i promotori c’è il professor Stefano Rodotà: “Mentre sabato pomeriggio Sky ha fatto una diretta della manifestazione, la tv pubblica quasi non ne ha dato notizia. Con Piazza del Popolo strapiena! Le prassi di pessima informazione non sono mutate, nonostante il cambio dei vertici Rai. È un fatto vergognoso, ma non ci lasceremo scoraggiare”.
Professore come si spiega la fretta sulla riforma della Carta?
Se si fosse seguita la procedura prevista dall’articolo 138 oggi le tre riforme che il presidente del Consiglio insistentemente richiama – e cioè diminuzione del numero dei parlamentari, fine del bicameralismo perfetto, riforma del titolo V già pessimamente riformato – sarebbero avviate verso l’approvazione. Ma su queste tre ipotesi c’è un tale consenso sociale che l’approvazione per via ordinaria avrebbe avuto tempi molto celeri! Il tema vero è il cambiamento della forma di governo: la discussione su questo deve essere fatta, non è questione che possa essere affidata ad accelerazioni o su cui lo spirito critico debba essere messo a tacere. Il dubbio è che sfruttando il consenso su tre riforme si voglia agganciare anche la quarta, sulla quale non c’è consenso e la discussione è ancora aperta.
Perché è critico sul semipresidenzialismo o su una forma di premierato forte, le due ipotesi che vanno per la maggiore?
Avremmo un accentramento dei poteri e un’ulteriore, formalizzata, personalizzazione del potere a fianco di un deperimento di garanzie e contrappesi: una strada molto pericolosa. Tutto questo viene giustificato con l’efficienza, argomento importante, ma che non può essere l’unico. Il richiamo ai sistemi di Francia e Usa poi è improprio. Negli Usa il presidente è “prigioniero” del congresso, per dire quanto sono forti i contrappesi degli altri poteri. E in Francia c’è la possibilità di maggioranze diverse tra quella che elegge il presidente e quella che elegge l’assemblea nazionale. Non è solo un problema di riscrittura delle regole. Il guaio vero è la debolezza della politica, interamente scaricata sulla Costituzione, inquinata e utilizzata impropriamente.
Il presidente Napolitano ieri ha detto: “Al procedere delle riforme istituzionali io ho legato il mio impegno all’atto di una non ricercata rielezione a presidente”.
L’atteggiamento del Colle rientra nelle dinamiche istituzionali. Ma questo non può, non deve, escludere una discussione sia sulla procedura che sul merito. Letta ha più volte affermato che chi si oppone è d’impedimento alle riforme, ma quest'accusa è una falsificazione della realtà: noi non vogliamo ritardare le riforme, vorremmo semplicemente che tutto si svolgesse nell’ambito del perimetro costituzionale, insistendo sulla necessità di dare una voce ai cittadini.
Loro dicono che alla fine del processo di riforma si avrà il referendum.
Attenzione: abbiamo un brutto precedente, la modifica dell’articolo 81 sul pareggio di bilancio. Allora non si volle prestare attenzione a quelli che dicevano “evitate di approvarla con i due terzi in modo che i cittadini possano esprimersi”. Ora si toccano la regola delle regole – la procedura di riforma – e la forma di governo: deve essere consentito chiedere un referendum. Aggiungo: chi oggi si occupa con tanta premura di riforme dovrebbe tener conto che 16 milioni di italiani, nel 2006, si espressero contro una previsione di riforma costituzionale che conteneva molti punti oggi in discussione.
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Re: Non è cosa vostra
l’Unità 19.10.13
Non si cambiano i principi della Carta
Attenti a non sostituire la centralità della persona umana e della pace con altri valori
di Tania Groppi
Costituzionalista
LA PIÙ BELLA DEL MONDO: SOLTANTO ROBERTO BENIGNI POTEVA USARE PAROLE COSÌ NETTE PER DEFINIRE LA COSTITUZIONE ITALIANA. I COSTITUZIONALISTI, con maggiore prudenza e minore efficacia comunicativa, ci dicono che essa fa parte del «ciclo costituzionale del Secondo dopoguerra» e rappresenta oggi una delle costituzioni più antiche e solide a livello mondiale.
Quel che conta, è che entrambi – il comico ispirato e gli specialisti concordano nel rinvenirne le radici in un preciso momento storico e in un preciso clima culturale, quello che, dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale, ha visto il convergere di molteplici sforzi e tradizioni verso un medesimo risultato: rimettere al centro la persona umana e la sua dignità, assicurando la convivenza pacifica all’interno degli Stati e tra gli Stati.
Le Costituzioni del secondo dopoguerra sono marcate fortemente da questa duplice impronta: garanzia dei diritti e organizzazione di un assetto istituzionale che assicuri la dialettica democratica e la pace.
Esse si inseriscono in un movimento finalizzato a fondare un nuovo ordine mondiale, al pari della creazione delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali, come il Consiglio d’Europa, o dei trattati a tutela dei diritti umani. Anche il processo di integrazione europea prende avvio in quell’epoca e con quello scopo, benché tendiamo a dimenticarcene, oggi che vediamo nell’Unione europea essenzialmente un rigido custode del pareggio di bilancio e della stabilità monetaria.
Quando si discute dell’attualità della Costituzione, della sua capacità di essere ancora, nel XXI secolo, la bussola capace di orientare le scelte della società italiana e di esprimerne l’identità, occorre tenere presente questo quadro fondativo: non si tratta di mere considerazioni storiche, avulse dal presente, ma dell’acqua nella quale la Costituzione trova il suo nutrimento e la sua stessa ragione d’essere.
Soltanto se riteniamo che le esigenze e i valori che guidarono la rifondazione della società occidentale dopo la Seconda guerra mondiale sono superate, se riteniamo che occorre oggi sostituire la centralità della persona umana e la pace con nuovi e diversi principi, possiamo affermare che la Costituzione ha perso la sua attualità e che occorre un nuovo momento costituente.
Ma se non la pensiamo così, allora è ancora alla Costituzione del 1948 che dobbiamo e possiamo guardare per cercare le risposte per le molteplici sfide di questa nostra epoca, certi e fiduciosi che, se avremo occhi capaci di vedere, le risposte non mancheranno.
Questo non vuol dire che la Costituzione non si possa aggiornare, modificare, rivedere, seguendo le procedure che proprio a questo fine essa stessa prevede: ricordarci quali sono le origini della Costituzione, qual è la sua essenza e le sue finalità, ci può aiutare a sdrammatizzare il dibattito, che di nuovo di questi tempi si fa virulento, sulla revisione costituzionale.
Anche le, legittime, a volte necessarie, modifiche della Costituzione, infatti, debbono essere funzionali al quadro di principi e valori che della Costituzione costituiscono l’essenza: se è chiara, ben esplicitata e condivisa la permanente adesione ad essi, allora si può guardare alle esigenze della revisione costituzionale senza pregiudizi e paure.
Non si cambiano i principi della Carta
Attenti a non sostituire la centralità della persona umana e della pace con altri valori
di Tania Groppi
Costituzionalista
LA PIÙ BELLA DEL MONDO: SOLTANTO ROBERTO BENIGNI POTEVA USARE PAROLE COSÌ NETTE PER DEFINIRE LA COSTITUZIONE ITALIANA. I COSTITUZIONALISTI, con maggiore prudenza e minore efficacia comunicativa, ci dicono che essa fa parte del «ciclo costituzionale del Secondo dopoguerra» e rappresenta oggi una delle costituzioni più antiche e solide a livello mondiale.
Quel che conta, è che entrambi – il comico ispirato e gli specialisti concordano nel rinvenirne le radici in un preciso momento storico e in un preciso clima culturale, quello che, dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale, ha visto il convergere di molteplici sforzi e tradizioni verso un medesimo risultato: rimettere al centro la persona umana e la sua dignità, assicurando la convivenza pacifica all’interno degli Stati e tra gli Stati.
Le Costituzioni del secondo dopoguerra sono marcate fortemente da questa duplice impronta: garanzia dei diritti e organizzazione di un assetto istituzionale che assicuri la dialettica democratica e la pace.
Esse si inseriscono in un movimento finalizzato a fondare un nuovo ordine mondiale, al pari della creazione delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali, come il Consiglio d’Europa, o dei trattati a tutela dei diritti umani. Anche il processo di integrazione europea prende avvio in quell’epoca e con quello scopo, benché tendiamo a dimenticarcene, oggi che vediamo nell’Unione europea essenzialmente un rigido custode del pareggio di bilancio e della stabilità monetaria.
Quando si discute dell’attualità della Costituzione, della sua capacità di essere ancora, nel XXI secolo, la bussola capace di orientare le scelte della società italiana e di esprimerne l’identità, occorre tenere presente questo quadro fondativo: non si tratta di mere considerazioni storiche, avulse dal presente, ma dell’acqua nella quale la Costituzione trova il suo nutrimento e la sua stessa ragione d’essere.
Soltanto se riteniamo che le esigenze e i valori che guidarono la rifondazione della società occidentale dopo la Seconda guerra mondiale sono superate, se riteniamo che occorre oggi sostituire la centralità della persona umana e la pace con nuovi e diversi principi, possiamo affermare che la Costituzione ha perso la sua attualità e che occorre un nuovo momento costituente.
Ma se non la pensiamo così, allora è ancora alla Costituzione del 1948 che dobbiamo e possiamo guardare per cercare le risposte per le molteplici sfide di questa nostra epoca, certi e fiduciosi che, se avremo occhi capaci di vedere, le risposte non mancheranno.
Questo non vuol dire che la Costituzione non si possa aggiornare, modificare, rivedere, seguendo le procedure che proprio a questo fine essa stessa prevede: ricordarci quali sono le origini della Costituzione, qual è la sua essenza e le sue finalità, ci può aiutare a sdrammatizzare il dibattito, che di nuovo di questi tempi si fa virulento, sulla revisione costituzionale.
Anche le, legittime, a volte necessarie, modifiche della Costituzione, infatti, debbono essere funzionali al quadro di principi e valori che della Costituzione costituiscono l’essenza: se è chiara, ben esplicitata e condivisa la permanente adesione ad essi, allora si può guardare alle esigenze della revisione costituzionale senza pregiudizi e paure.
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Re: Non è cosa vostra
il Fatto 23.10.13
138, ultima chiamata al Pd: “Consentite il referendum sul ddl”
Oggi il Senato vota il testo che stravolge la Carta
Senza il sì dei 2/3 possibile la consultazione popolare
di Luca De Carolis
Assalto alla Carta, ultimo atto in Senato. Con un’unica, flebile incognita (o ancora di salvezza): il numero dei votanti. Oggi Palazzo Madama approverà in seconda lettura il ddl costituzionale 813-b, che stravolge l’articolo 138, la “valvola di sicurezza” della Carta, e affida a un comitato di 42 parlamentari il compito di riscrivere almeno metà della Costituzione. Cifre alla mano, non c’è partita: a favore della riforma voteranno i partiti di governo più Lega Nord e gruppi sparsi. Contrari, solo Cinque Stelle e Sel. Ovvero, 57 senatori su 321. Insomma, il ddl che spalanca le porte alla riforma presidenzialista passerà di certo a Palazzo Madama.
RIMANE una speranza: ossia, che il testo non venga approvato dai dei due terzi dei suoi componenti (214 voti), così da rendere possibile un referendum sul testo, impossibile in caso di approvazione con maggioranza “qualificata”. I firmatari del manifesto in difesa della Carta, “Via Maestra”, hanno rivolto un appello pubblico a tutti i senatori: “Permettete anche ai semplici cittadini di dire la loro, rendete possibile il referendum”. Parole indirizzate innanzitutto al Pd, il gruppo più ampio a palazzo Madama con 108 senatori. Lo scorso 11 luglio, in occasione del primo passaggio in Senato, i Democratici votarono compatti sì al ddl. Con due eccezioni: Walter Tocci e Silvana Amati, astenuti. “La nostra generazione ha dimostrato abbondantemente l’inadeguatezza al compito costituente, pensare che possa compierlo ora è un ardimento senza responsabilità” spiegò Tocci in aula. Oggi potrebbe votare contro, assieme ad Amati e a Corradino Mineo, che ha anticipato al Fatto il suo no al ddl. Le indiscrezioni parlano di altri 3 o 4 malpancisti, in bilico tra astensione e voto contrario. Complicato pensare che il fronte dei contrari possa allargarsi. Anche e soprattutto perché si voterà con scrutinio palese. “Ma di appelli e inviti di ripensarci sul 138 ce ne arrivano tanti” ammetteva ieri un senatore dem. Sullo sfondo, un’altra ipotetica via d’uscita: le assenze nel Pdl (91 senatori). La scorsa volta, il ddl passò con “soli” 204 sì (con meno dei 2/3, quindi) proprio per i vuoti nel centrodestra. Mancava uno su quattro, nel partito di Berlusconi, che però proprio in quel giorno aveva fissato un delicato ufficio di presidenza. Oggi di motivi per assentarsi non dovrebbero essercene . Mentre un senatore Pdl riflette: “Se falchi e colombe vogliono farsi i dispetti, difficile che lo facciano a voto palese sulle riforme”. È però evidente come il tema Costituzione non appassioni a destra. E poi, ci sono le fibrillazioni in Scelta Civica (20 senatori, prima della bufera ). Tirate le somme, il quorum dei 2/3 è ampiamente alla portata della maggioranza. Ma qualche intoppo è possibile. Alberto Airola (M5S): “Comunque vada, è evidente che si aggrappano a questa riforma per tirare avanti. Sono i partiti che vanno cambiati, non la Costituzione”. Oggi in aula si inizia con la replica del governo e le dichiarazioni di voto. Poi lo scrutinio. Chiusa la partita in Senato, ultimo passaggio alla Camera a dicembre. Dove l’assalto alla Carta potrebbe diventare legge.
Repubblica 23.10.13
Riforma costituzionale, voce ai cittadini
di Stefano Rodotà
So bene quanto sia difficile, oggi in Italia, una discussione ispirata a criteri di ragione e rispetto. È quel che sta accadendo per il tema della riforma della Costituzione. Ma questo non deve indurre a ritrarsi da una discussione che trova talora toni sgradevoli. Impone, invece, di fare ogni sforzo perché una questione davvero fondamentale possa essere affrontata in modo rispettoso dei dati di realtà e delle diverse posizioni in campo.
Quel che si sta discutendo è l’assetto futuro della Repubblica, l’equilibrio tra i poteri, lo spazio stesso della politica, dunque il rapporto tra istituzioni e società delineato dalla Costituzione, il patto al quale sono consegnate le ragioni del nostro stare insieme. Tuttavia, prima di affrontare questioni così impegnative, è necessario ristabilire alcune minime verità. Nell’affannosa ricerca di argomenti a difesa della strada verso la revisione costituzionale scelta da governo e maggioranza, infatti, si sta operando un vero e proprio stravolgimento della posizione di alcuni critici di questa scelta. Premono le ragioni della propaganda e così si alzano i toni, con una mossa rivelatrice dell’intima debolezza delle proprie ragioni. Spiace che in questa operazione si sia fatto coinvolgere lo stesso presidente del Consiglio, che non perde occasione per additare i critici come quelli che vogliono rendere impossibile la riduzione del numero dei parlamentari, l’uscita dal bicameralismo paritario, la riscrittura dello sciagurato titolo V della Costituzione sui rapporti tra Stato e Regioni.
Ripeto: questa è una assoluta distorsione della realtà. Fin dall’inizio di questa vicenda, di fronte al “cronoprogramma” del governo era stato indicato un cammino diverso, che sottolineava proprio la possibilità di una rapida approvazione di riforme per le quali esisteva già un vasto consenso sociale, appunto quelle ricordate prima. Se governo e Parlamento avessero subito seguito questa indicazione, è ragionevole ritenere che saremmo già a buon punto, vicini ad una dignitosa riscrittura di norme della Costituzione concordemente ritenute bisognose di modifiche. Come si sa, è stata scelta una strada diversa, tortuosa e pericolosa, con variegate investiture di gruppi di “saggi” e con l’abbandono della procedura di revisione indicata dall’articolo 138della Costituzione. I tempi si sono allungati e i contrasti si sono fatti più acuti.
Questo non è un dettaglio, come vorrebbero farlo apparire quelli che, con sufficienza, invitano a guardare al merito delle proposte e a non impigliarsi in questioni meramente procedurali. Quando si tratta di garanzie, la regola sulla procedura è tutto, dà la certezza che un obiettivo così impegnativo, come la revisione costituzionale, non venga piegato a esigenze strumentali, a logiche congiunturali. È proprio quello che sta avvenendo, sì che non è arbitrario ritenere che la strada scelta nasconda un altro proposito – quello di agganciare a riforme condivise anche una forzatura, riguardante il cambiamento della forma di governo.
È caricaturale, e improprio, descrivere la discussione attuale come un conflitto tra conservatori e innovatori. Si stanno confrontando, e non da oggi, due linee di riforma. Di fronte a quella scelta da governo e maggioranza non v’è un arroccamento cieco, un pregiudiziale no a qualsiasi cambiamento. Vi è una proposta diversa, che può essere così riassunta: rispetto della procedura dell’articolo 138, avvio immediato delle tre specifiche riforme già citate, mantenimento della forma di governo parlamentare rivista negli aspetti che appaiono più deboli.
Torniamo, allora, alle questioni più generali. Da alcuni anni si è istituita una relazione perversa traemergenza economica, impotenza politica e cambiamenti della Costituzione. Con una accelerazione violenta, e senza una vera discussione pubblica, nel 2012 è stata approvata una modifica dell’articolo 81 della Costituzione, prevedendo il pareggio di bilancio. Allora si chiese, invano, ai parlamentari di non approvare quella riforma con la maggioranza dei due terzi, per consentire di promuovere eventualmente un referendum su un cambiamento tanto profondo. La ragione era chiara. Si parla molto di coinvolgimento dei cittadini e si dimentica che quella maggioranza era stata prevista quando la legge elettorale era proporzionale, dando così garanzie in Parlamento che sono state fortemente ridotte dal passaggio al maggioritario. Oggi la stessa richiesta viene rivolta ai senatori che si accingono a votare in seconda lettura la modifica dell’articolo 138. Vi sarà tra loro un gruppo dotato di sensibilità istituzionale che accoglierà questo invito, affidando anche ai cittadini il giudizio sulla sospensione di una procedura di garanzia che altri, in futuro, potrebbero utilizzare invocando qualche diversa urgenza o emergenza? Non basta, infatti, aver previsto un referendum alla fine dell’iter della riforma finale, se rimane un dubbio sulla correttezza del modo in cui quel cammino è cominciato. La discussione sul merito delle proposte assume significato diverso se queste non alterano l’impianto costituzionale e sono già sorrette da consenso sociale, come quelle più volte citate, o se invece implicano un mutamento della forma di governo. Per quest’ultima, nella relazione del Comitato dei “saggi” sono state fatte due operazioni. In via generale, sono state legittimate tre ipotesi tra loro ben diverse. E poi si è indicata tra queste una sorta di mediazione, definita come “forma di governo parlamentare del Primo Ministro”, che in realtà introduce un presidenzialismo mascherato, costituzionalizzando l’indicazione sulla scheda del candidato premier e ridimensionando così il potere di nomina da parte del presidente della Repubblica e quello del Parlamento di dare la fiducia. Ha detto bene Gaetano Azzariti sottolineando che così si realizza «l’indebolimento della forma di governo parlamentare e il definitivo approdo in Costituzione delle pulsioni presidenziali». Una politica debole cerca così una scorciatoia efficientista attraverso un accentramento/ personalizzazione dei poteri e sembra rassegnarsi ad una crisi dei partiti che, incapaci di presentarsi come effettivi rappresentanti dei cittadini, non sono più in grado di cogliere la pienezza del ruolo dell’istituzione in cui sono presenti, il Parlamento, alterando così gli equilibri costituzionali.
Ma l’assunzione della logica dell’emergenza e della pura efficienza svuota lo spazio costituzionale di tutto ciò che si presenta come “incompatibile” con essa. I diritti fondamentali sono respinti sullo sfondo e si perde il loro più profondo significato, in cui si esprime non solo il riconoscimento della persona nella sua integralità, ma un limite alla discrezionalità politica che, soprattutto in tempi di risorse scarse, deve costruire le sue priorità partendo proprio dalla garanzia di quei diritti. Sbagliano quelli che, con una mossa infastidita, dichiarano l’irrilevanza della discussione sulle riforme di fronte ai bisogni reali delle persone. Questi vengono sacrificati proprio perché la politica ha perduto la sua dimensione costituzionale, e fa venir meno garanzie in nome di un’efficienza tutta da dimostrare, come accade per il lavoro. Se non si coglie questo nesso, rischiano d’essere vane anche le iniziative su questioni specifiche, e i lineamenti della Repubblica verranno stravolti assai più di quanto possa accadere con un mutamento della forma di governo.
138, ultima chiamata al Pd: “Consentite il referendum sul ddl”
Oggi il Senato vota il testo che stravolge la Carta
Senza il sì dei 2/3 possibile la consultazione popolare
di Luca De Carolis
Assalto alla Carta, ultimo atto in Senato. Con un’unica, flebile incognita (o ancora di salvezza): il numero dei votanti. Oggi Palazzo Madama approverà in seconda lettura il ddl costituzionale 813-b, che stravolge l’articolo 138, la “valvola di sicurezza” della Carta, e affida a un comitato di 42 parlamentari il compito di riscrivere almeno metà della Costituzione. Cifre alla mano, non c’è partita: a favore della riforma voteranno i partiti di governo più Lega Nord e gruppi sparsi. Contrari, solo Cinque Stelle e Sel. Ovvero, 57 senatori su 321. Insomma, il ddl che spalanca le porte alla riforma presidenzialista passerà di certo a Palazzo Madama.
RIMANE una speranza: ossia, che il testo non venga approvato dai dei due terzi dei suoi componenti (214 voti), così da rendere possibile un referendum sul testo, impossibile in caso di approvazione con maggioranza “qualificata”. I firmatari del manifesto in difesa della Carta, “Via Maestra”, hanno rivolto un appello pubblico a tutti i senatori: “Permettete anche ai semplici cittadini di dire la loro, rendete possibile il referendum”. Parole indirizzate innanzitutto al Pd, il gruppo più ampio a palazzo Madama con 108 senatori. Lo scorso 11 luglio, in occasione del primo passaggio in Senato, i Democratici votarono compatti sì al ddl. Con due eccezioni: Walter Tocci e Silvana Amati, astenuti. “La nostra generazione ha dimostrato abbondantemente l’inadeguatezza al compito costituente, pensare che possa compierlo ora è un ardimento senza responsabilità” spiegò Tocci in aula. Oggi potrebbe votare contro, assieme ad Amati e a Corradino Mineo, che ha anticipato al Fatto il suo no al ddl. Le indiscrezioni parlano di altri 3 o 4 malpancisti, in bilico tra astensione e voto contrario. Complicato pensare che il fronte dei contrari possa allargarsi. Anche e soprattutto perché si voterà con scrutinio palese. “Ma di appelli e inviti di ripensarci sul 138 ce ne arrivano tanti” ammetteva ieri un senatore dem. Sullo sfondo, un’altra ipotetica via d’uscita: le assenze nel Pdl (91 senatori). La scorsa volta, il ddl passò con “soli” 204 sì (con meno dei 2/3, quindi) proprio per i vuoti nel centrodestra. Mancava uno su quattro, nel partito di Berlusconi, che però proprio in quel giorno aveva fissato un delicato ufficio di presidenza. Oggi di motivi per assentarsi non dovrebbero essercene . Mentre un senatore Pdl riflette: “Se falchi e colombe vogliono farsi i dispetti, difficile che lo facciano a voto palese sulle riforme”. È però evidente come il tema Costituzione non appassioni a destra. E poi, ci sono le fibrillazioni in Scelta Civica (20 senatori, prima della bufera ). Tirate le somme, il quorum dei 2/3 è ampiamente alla portata della maggioranza. Ma qualche intoppo è possibile. Alberto Airola (M5S): “Comunque vada, è evidente che si aggrappano a questa riforma per tirare avanti. Sono i partiti che vanno cambiati, non la Costituzione”. Oggi in aula si inizia con la replica del governo e le dichiarazioni di voto. Poi lo scrutinio. Chiusa la partita in Senato, ultimo passaggio alla Camera a dicembre. Dove l’assalto alla Carta potrebbe diventare legge.
Repubblica 23.10.13
Riforma costituzionale, voce ai cittadini
di Stefano Rodotà
So bene quanto sia difficile, oggi in Italia, una discussione ispirata a criteri di ragione e rispetto. È quel che sta accadendo per il tema della riforma della Costituzione. Ma questo non deve indurre a ritrarsi da una discussione che trova talora toni sgradevoli. Impone, invece, di fare ogni sforzo perché una questione davvero fondamentale possa essere affrontata in modo rispettoso dei dati di realtà e delle diverse posizioni in campo.
Quel che si sta discutendo è l’assetto futuro della Repubblica, l’equilibrio tra i poteri, lo spazio stesso della politica, dunque il rapporto tra istituzioni e società delineato dalla Costituzione, il patto al quale sono consegnate le ragioni del nostro stare insieme. Tuttavia, prima di affrontare questioni così impegnative, è necessario ristabilire alcune minime verità. Nell’affannosa ricerca di argomenti a difesa della strada verso la revisione costituzionale scelta da governo e maggioranza, infatti, si sta operando un vero e proprio stravolgimento della posizione di alcuni critici di questa scelta. Premono le ragioni della propaganda e così si alzano i toni, con una mossa rivelatrice dell’intima debolezza delle proprie ragioni. Spiace che in questa operazione si sia fatto coinvolgere lo stesso presidente del Consiglio, che non perde occasione per additare i critici come quelli che vogliono rendere impossibile la riduzione del numero dei parlamentari, l’uscita dal bicameralismo paritario, la riscrittura dello sciagurato titolo V della Costituzione sui rapporti tra Stato e Regioni.
Ripeto: questa è una assoluta distorsione della realtà. Fin dall’inizio di questa vicenda, di fronte al “cronoprogramma” del governo era stato indicato un cammino diverso, che sottolineava proprio la possibilità di una rapida approvazione di riforme per le quali esisteva già un vasto consenso sociale, appunto quelle ricordate prima. Se governo e Parlamento avessero subito seguito questa indicazione, è ragionevole ritenere che saremmo già a buon punto, vicini ad una dignitosa riscrittura di norme della Costituzione concordemente ritenute bisognose di modifiche. Come si sa, è stata scelta una strada diversa, tortuosa e pericolosa, con variegate investiture di gruppi di “saggi” e con l’abbandono della procedura di revisione indicata dall’articolo 138della Costituzione. I tempi si sono allungati e i contrasti si sono fatti più acuti.
Questo non è un dettaglio, come vorrebbero farlo apparire quelli che, con sufficienza, invitano a guardare al merito delle proposte e a non impigliarsi in questioni meramente procedurali. Quando si tratta di garanzie, la regola sulla procedura è tutto, dà la certezza che un obiettivo così impegnativo, come la revisione costituzionale, non venga piegato a esigenze strumentali, a logiche congiunturali. È proprio quello che sta avvenendo, sì che non è arbitrario ritenere che la strada scelta nasconda un altro proposito – quello di agganciare a riforme condivise anche una forzatura, riguardante il cambiamento della forma di governo.
È caricaturale, e improprio, descrivere la discussione attuale come un conflitto tra conservatori e innovatori. Si stanno confrontando, e non da oggi, due linee di riforma. Di fronte a quella scelta da governo e maggioranza non v’è un arroccamento cieco, un pregiudiziale no a qualsiasi cambiamento. Vi è una proposta diversa, che può essere così riassunta: rispetto della procedura dell’articolo 138, avvio immediato delle tre specifiche riforme già citate, mantenimento della forma di governo parlamentare rivista negli aspetti che appaiono più deboli.
Torniamo, allora, alle questioni più generali. Da alcuni anni si è istituita una relazione perversa traemergenza economica, impotenza politica e cambiamenti della Costituzione. Con una accelerazione violenta, e senza una vera discussione pubblica, nel 2012 è stata approvata una modifica dell’articolo 81 della Costituzione, prevedendo il pareggio di bilancio. Allora si chiese, invano, ai parlamentari di non approvare quella riforma con la maggioranza dei due terzi, per consentire di promuovere eventualmente un referendum su un cambiamento tanto profondo. La ragione era chiara. Si parla molto di coinvolgimento dei cittadini e si dimentica che quella maggioranza era stata prevista quando la legge elettorale era proporzionale, dando così garanzie in Parlamento che sono state fortemente ridotte dal passaggio al maggioritario. Oggi la stessa richiesta viene rivolta ai senatori che si accingono a votare in seconda lettura la modifica dell’articolo 138. Vi sarà tra loro un gruppo dotato di sensibilità istituzionale che accoglierà questo invito, affidando anche ai cittadini il giudizio sulla sospensione di una procedura di garanzia che altri, in futuro, potrebbero utilizzare invocando qualche diversa urgenza o emergenza? Non basta, infatti, aver previsto un referendum alla fine dell’iter della riforma finale, se rimane un dubbio sulla correttezza del modo in cui quel cammino è cominciato. La discussione sul merito delle proposte assume significato diverso se queste non alterano l’impianto costituzionale e sono già sorrette da consenso sociale, come quelle più volte citate, o se invece implicano un mutamento della forma di governo. Per quest’ultima, nella relazione del Comitato dei “saggi” sono state fatte due operazioni. In via generale, sono state legittimate tre ipotesi tra loro ben diverse. E poi si è indicata tra queste una sorta di mediazione, definita come “forma di governo parlamentare del Primo Ministro”, che in realtà introduce un presidenzialismo mascherato, costituzionalizzando l’indicazione sulla scheda del candidato premier e ridimensionando così il potere di nomina da parte del presidente della Repubblica e quello del Parlamento di dare la fiducia. Ha detto bene Gaetano Azzariti sottolineando che così si realizza «l’indebolimento della forma di governo parlamentare e il definitivo approdo in Costituzione delle pulsioni presidenziali». Una politica debole cerca così una scorciatoia efficientista attraverso un accentramento/ personalizzazione dei poteri e sembra rassegnarsi ad una crisi dei partiti che, incapaci di presentarsi come effettivi rappresentanti dei cittadini, non sono più in grado di cogliere la pienezza del ruolo dell’istituzione in cui sono presenti, il Parlamento, alterando così gli equilibri costituzionali.
Ma l’assunzione della logica dell’emergenza e della pura efficienza svuota lo spazio costituzionale di tutto ciò che si presenta come “incompatibile” con essa. I diritti fondamentali sono respinti sullo sfondo e si perde il loro più profondo significato, in cui si esprime non solo il riconoscimento della persona nella sua integralità, ma un limite alla discrezionalità politica che, soprattutto in tempi di risorse scarse, deve costruire le sue priorità partendo proprio dalla garanzia di quei diritti. Sbagliano quelli che, con una mossa infastidita, dichiarano l’irrilevanza della discussione sulle riforme di fronte ai bisogni reali delle persone. Questi vengono sacrificati proprio perché la politica ha perduto la sua dimensione costituzionale, e fa venir meno garanzie in nome di un’efficienza tutta da dimostrare, come accade per il lavoro. Se non si coglie questo nesso, rischiano d’essere vane anche le iniziative su questioni specifiche, e i lineamenti della Repubblica verranno stravolti assai più di quanto possa accadere con un mutamento della forma di governo.
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