Cause ed effetti
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Re: Cause ed effetti
Funerali di non è Stato
(Massimo Gramellini).
18/10/2013 di triskel182
Come può prendersi cura dei vivi un Paese che non riesce a decidere nemmeno sui morti? La bara di Priebke gira l’Italia da una settimana, strattonata e presa a calci appena si affaccia per strada, senza trovare una buca dove andare a nascondersi. Intanto ci siamo dimenticati di fare i funerali alle vittime di Lampedusa. Proprio così: dimenticati. Ministri, primi ministri e affettate figure istituzionali hanno sfilato con sguardi dolenti sul molo e davanti alle salme della tragedia. C’è stato cordoglio, c’è stato sdegno, c’è stato lo sciame sismico di dichiarazioni scontate. Quel che non c’è stato, come sempre, è lo Stato. Qualcuno che, tra un cordoglio e uno sdegno, trovasse il tempo per allestire una cerimonia solenne di congedo per quei poveri cristi.
A chiunque di noi si rechi in visita a una camera ardente viene spontaneo chiedere il giorno e il luogo dei funerali. Invece a Lampedusa i nostri globetrotter della lacrima non si sono neppure domandati se fossero previsti, dei funerali. Colpisce la loro ostinazione nel rifiutarsi di sfogliare almeno le figure del manuale del buonsenso. Dopo avere riunito su una zattera centinaia di disgraziati, il destino li ha infine dispersi tra vari cimiteri siciliani, tumulati in silenzio dentro tombe anonime. Ma lo scrupolo di coscienza, che è il nome con cui dalle nostre parti si chiama la coda di paglia, ha suggerito allo Stato di correre ai ripari. Lunedì prossimo, a cadaveri ampiamente sepolti, si terrà una commemorazione ad Agrigento, città nota per avere dato i natali al filosofo Empedocle e poi, per compensare, ad Alfano.
Da La Stampa del 18/10/2013.
(Massimo Gramellini).
18/10/2013 di triskel182
Come può prendersi cura dei vivi un Paese che non riesce a decidere nemmeno sui morti? La bara di Priebke gira l’Italia da una settimana, strattonata e presa a calci appena si affaccia per strada, senza trovare una buca dove andare a nascondersi. Intanto ci siamo dimenticati di fare i funerali alle vittime di Lampedusa. Proprio così: dimenticati. Ministri, primi ministri e affettate figure istituzionali hanno sfilato con sguardi dolenti sul molo e davanti alle salme della tragedia. C’è stato cordoglio, c’è stato sdegno, c’è stato lo sciame sismico di dichiarazioni scontate. Quel che non c’è stato, come sempre, è lo Stato. Qualcuno che, tra un cordoglio e uno sdegno, trovasse il tempo per allestire una cerimonia solenne di congedo per quei poveri cristi.
A chiunque di noi si rechi in visita a una camera ardente viene spontaneo chiedere il giorno e il luogo dei funerali. Invece a Lampedusa i nostri globetrotter della lacrima non si sono neppure domandati se fossero previsti, dei funerali. Colpisce la loro ostinazione nel rifiutarsi di sfogliare almeno le figure del manuale del buonsenso. Dopo avere riunito su una zattera centinaia di disgraziati, il destino li ha infine dispersi tra vari cimiteri siciliani, tumulati in silenzio dentro tombe anonime. Ma lo scrupolo di coscienza, che è il nome con cui dalle nostre parti si chiama la coda di paglia, ha suggerito allo Stato di correre ai ripari. Lunedì prossimo, a cadaveri ampiamente sepolti, si terrà una commemorazione ad Agrigento, città nota per avere dato i natali al filosofo Empedocle e poi, per compensare, ad Alfano.
Da La Stampa del 18/10/2013.
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Re: Cause ed effetti
Corriere 18.10.13
L’ultimo sondaggio assegna al Front National di estrema destra il 24% dei consensi, più di ogni altro partito in Francia
Sinistra arcaica, Destra screditata dietro il successo di Marine Le Pen
di Jean Marie Colombani
Esiste un pericolo Fronte nazionale in Francia? Nel momento in cui l’ondata populista rappresenta, su tutto il territorio europeo, una minaccia, quella di sconvolgere l’equilibrio del Parlamento europeo durante le elezioni della prossima primavera, questa domanda non è sorprendente. Se in Austria, che non ha disoccupazione, l’estrema destra sfiora il 30 per cento, in Francia, che ha una disoccupazione di massa, ci sono tutte le ragioni di preoccuparsi per l’ascesa del Partito della famiglia Le Pen, padre e figlia. Inoltre, c’è oggi un male francese che si chiama catastrofismo. Che siate membro dell’opposizione, giornalista, dirigente d’azienda, insomma chiunque voi siate, in Francia vi distinguerete e attirerete l’attenzione solo a condizione di descrivere la realtà sotto il suo aspetto più cupo. Sembra che il Paese non abbia come punto di riferimento nella storia che il Giugno 1940 e la disfatta, e sia irresistibilmente attirato verso l’abisso. A costo di scavare la propria tomba. In politica, questo significherebbe spianare la strada al Fronte nazionale.
Così, a partire da un’elezione cantonale (i dipartimenti sono divisi in cantoni) e da un sondaggio, che situa la lista di Marine Le Pen in cima alle intenzioni di voto nelle elezioni europee, i mass media e numerosi politici hanno decretato, in coro, che il Fronte nazionale è il «primo partito di Francia». La realtà è diversa. L’elezione cantonale di Brignoles, nel dipartimento del Var, vinta dal Fn, è stata esageratamente mediatizzata e interpretata. Ma esiste in effetti il pericolo che l’estrema destra si rinforzi a seconda che altri, in particolare fra gli intellettuali, sostengano sempre più le sue idee.
Brignoles è una piccola città tipica dell’arcata mediterranea, da Perpignano a Nizza, dove l’estrema destra, grazie in particolare all’inizio, a una forte presenza di coloro che sono rimpatriati dall’Algeria, è ben installata. Da moltissimo tempo, in una città come Marsiglia, il cui sindaco è dell’Ump (il Partito della destra classica), all’interno di un dipartimento a maggioranza socialista, gli elettori si dividono in tre terzi: un terzo di destra, un terzo di sinistra e un terzo di estrema destra. Il cantone di Brignoles quindi era di estrema destra già nel 2011. Era stato ripreso dalla sinistra grazie all’annullamento dello scrutinio. Questo porta a due, sui 4.500 cantoni che esistono in Francia, il numero dei seggi detenuti nelle assemblee dipartimentali dall’estrema destra. E’ dunque urgente mantenere il senso della misura.
Quanto al sondaggio, occorre ricordare, come tutte le inchieste d’opinione, che esso non ha valore predittivo. Riflette una costante: i francesi sanno, come gli altri europei, che questo scrutinio non incide sull’esercizio del potere nazionale. E’ quindi tradizionalmente molto favorevole alle «piccole» formazioni, quelle che sono poco o per nulla rappresentate in Parlamento, cioè l’estrema destra, gli ecologisti e il centro. E’ quindi improprio e falso far credere che il Fronte nazionale sia il primo partito. Per ora, il primo resta il partito socialista, non solo perché ha la maggioranza in Parlamento, ma anche perché controlla la quasi totalità delle regioni, i due terzi dei dipartimenti e il 60 per cento delle grandi città. E l’Ump incarna fin da adesso l’alternanza. La prima scadenza che abbiamo davanti, le elezioni municipali per le quali il Fronte nazionale ha difficoltà a trovare candidati, dovrebbe riportare l’estrema destra al suo posto, quello di un Partito protestatario che certamente sconvolge le carte in tavola, ma al quale non si è sicuri, o ci si vieta, di affidare l’esercizio del potere.
Tuttavia, l’estrema destra cresce. E si rafforza nell’opinione pubblica. E’ colpa della crisi? La crisi è una buona scusa. E’ vero che il partito di Marine Le Pen propone, come si dice in Francia, di «raser gratis», cioè promette quel che sa di non poter mantenere: ritorno alla pensione a 60 anni, aumento dei salari, svalutazione massiccia, quindi uscita dall’euro e così via. Tutte promesse assurde che hanno l’effetto di attirare un voto popolare. Ma uno sguardo su trent’anni di insediamento dell’estrema destra nel paesaggio francese non lascia alcun dubbio: le spinte in avanti dell’estrema destra sono direttamente correlate alla questione dell’immigrazione, al suo aumento evidente. Là dove i tassi di immigrazione sono marginali, il Fn resta marginale (è così in tutta la parte occidentale del Paese). E quando si dice immigrazione, bisogna essere consapevoli che si tratta, per una parte dell’opinione pubblica tentata dal Fn, di rifiutare figli di immigrati i cui genitori, per esempio, erano originari del Nord Africa e che oggi sono giovani francesi che aspirano a trovare un lavoro.
In effetti, il Fn oggi approfitta soprattutto delle difficoltà della sinistra, del discredito della destra, e della ripresa da parte di quest’ultima dei temi portanti dell’estrema destra: fra questi, al primo posto c’è il rifiuto dell’immigrazione.
La sinistra? L’impopolarità del potere è tale, oggi come ogni volta che c’è un’elezione parziale a qualunque livello, che l’elettorato della sinistra si astiene. Svanisce. Scompare. Tale evaporazione è aggravata dalle divisioni della sinistra: un Partito socialista che ha mantenuto perlopiù riflessi arcaici, ecologisti che non vedono al di là della gestione del loro piccolo mondo, comunisti prigionieri di Jean-Luc Mélenchon, che si abbandona costantemente a eccessi demagogici devastatori.
In tale contesto, la destra dovrebbe prepararsi a governare. Riconoscere i propri errori passati (cosa che rifiuta di fare), visto che ha lasciato la Francia in un desolante stato economico, ma anche morale. Invece, fa di tutto per rendere isterico il dibattito e proclama il presidente della Repubblica illegittimo. Mentre la sua preoccupazione principale è chiedersi chi, fra Nicolas Sarkozy, François Fillon o Jean-François Copé, presidente dell’Ump, abbia le migliori possibilità di vincere le presidenziali del 2017. A parte Alain Juppé, che oggi appare come il grande saggio, tutti cercano di far trionfare ciascuno il proprio campione. E la battaglia è al culmine. Ma poiché, al tempo stesso, la destra ha rinunciato alla maggior parte delle barriere ideologiche che la distinguono dall’estrema destra, essa facilita il trasferimento a quest’ultima dei propri voti. E quando François Fillon dice che, di fronte alla scelta di votare per i socialisti o per l’ estrema destra, egli sceglie il partito «meno settario», dimentica l’essenziale: la parola «pericoloso». Se il Fn non è più pericoloso, allora gli elettori di destra hanno il permesso di votare per l’estrema destra.
Un presidente che non riesce a tener in riga i suoi, un governo che manca di professionismo, e ancora nessun risultato da mettere in avanti, una destra che si discredita da sola: sono questi i veri atout del Fronte nazionale. Con, in più, i mass media che fanno a gara nel catastrofismo e ogni giorno trovano una qualità supplementare in Marine Le Pen. Omettendo di leggere i suoi discorsi, in cui potrebbero facilmente constatare che lei non aspira ad allearsi con l’Ump e la destra classica, ma a sostituirsi ad essa. Prima o poi, sarà bene che destra e sinistra rinsaviscano...
(traduzione di Daniela Maggioni )
L’ultimo sondaggio assegna al Front National di estrema destra il 24% dei consensi, più di ogni altro partito in Francia
Sinistra arcaica, Destra screditata dietro il successo di Marine Le Pen
di Jean Marie Colombani
Esiste un pericolo Fronte nazionale in Francia? Nel momento in cui l’ondata populista rappresenta, su tutto il territorio europeo, una minaccia, quella di sconvolgere l’equilibrio del Parlamento europeo durante le elezioni della prossima primavera, questa domanda non è sorprendente. Se in Austria, che non ha disoccupazione, l’estrema destra sfiora il 30 per cento, in Francia, che ha una disoccupazione di massa, ci sono tutte le ragioni di preoccuparsi per l’ascesa del Partito della famiglia Le Pen, padre e figlia. Inoltre, c’è oggi un male francese che si chiama catastrofismo. Che siate membro dell’opposizione, giornalista, dirigente d’azienda, insomma chiunque voi siate, in Francia vi distinguerete e attirerete l’attenzione solo a condizione di descrivere la realtà sotto il suo aspetto più cupo. Sembra che il Paese non abbia come punto di riferimento nella storia che il Giugno 1940 e la disfatta, e sia irresistibilmente attirato verso l’abisso. A costo di scavare la propria tomba. In politica, questo significherebbe spianare la strada al Fronte nazionale.
Così, a partire da un’elezione cantonale (i dipartimenti sono divisi in cantoni) e da un sondaggio, che situa la lista di Marine Le Pen in cima alle intenzioni di voto nelle elezioni europee, i mass media e numerosi politici hanno decretato, in coro, che il Fronte nazionale è il «primo partito di Francia». La realtà è diversa. L’elezione cantonale di Brignoles, nel dipartimento del Var, vinta dal Fn, è stata esageratamente mediatizzata e interpretata. Ma esiste in effetti il pericolo che l’estrema destra si rinforzi a seconda che altri, in particolare fra gli intellettuali, sostengano sempre più le sue idee.
Brignoles è una piccola città tipica dell’arcata mediterranea, da Perpignano a Nizza, dove l’estrema destra, grazie in particolare all’inizio, a una forte presenza di coloro che sono rimpatriati dall’Algeria, è ben installata. Da moltissimo tempo, in una città come Marsiglia, il cui sindaco è dell’Ump (il Partito della destra classica), all’interno di un dipartimento a maggioranza socialista, gli elettori si dividono in tre terzi: un terzo di destra, un terzo di sinistra e un terzo di estrema destra. Il cantone di Brignoles quindi era di estrema destra già nel 2011. Era stato ripreso dalla sinistra grazie all’annullamento dello scrutinio. Questo porta a due, sui 4.500 cantoni che esistono in Francia, il numero dei seggi detenuti nelle assemblee dipartimentali dall’estrema destra. E’ dunque urgente mantenere il senso della misura.
Quanto al sondaggio, occorre ricordare, come tutte le inchieste d’opinione, che esso non ha valore predittivo. Riflette una costante: i francesi sanno, come gli altri europei, che questo scrutinio non incide sull’esercizio del potere nazionale. E’ quindi tradizionalmente molto favorevole alle «piccole» formazioni, quelle che sono poco o per nulla rappresentate in Parlamento, cioè l’estrema destra, gli ecologisti e il centro. E’ quindi improprio e falso far credere che il Fronte nazionale sia il primo partito. Per ora, il primo resta il partito socialista, non solo perché ha la maggioranza in Parlamento, ma anche perché controlla la quasi totalità delle regioni, i due terzi dei dipartimenti e il 60 per cento delle grandi città. E l’Ump incarna fin da adesso l’alternanza. La prima scadenza che abbiamo davanti, le elezioni municipali per le quali il Fronte nazionale ha difficoltà a trovare candidati, dovrebbe riportare l’estrema destra al suo posto, quello di un Partito protestatario che certamente sconvolge le carte in tavola, ma al quale non si è sicuri, o ci si vieta, di affidare l’esercizio del potere.
Tuttavia, l’estrema destra cresce. E si rafforza nell’opinione pubblica. E’ colpa della crisi? La crisi è una buona scusa. E’ vero che il partito di Marine Le Pen propone, come si dice in Francia, di «raser gratis», cioè promette quel che sa di non poter mantenere: ritorno alla pensione a 60 anni, aumento dei salari, svalutazione massiccia, quindi uscita dall’euro e così via. Tutte promesse assurde che hanno l’effetto di attirare un voto popolare. Ma uno sguardo su trent’anni di insediamento dell’estrema destra nel paesaggio francese non lascia alcun dubbio: le spinte in avanti dell’estrema destra sono direttamente correlate alla questione dell’immigrazione, al suo aumento evidente. Là dove i tassi di immigrazione sono marginali, il Fn resta marginale (è così in tutta la parte occidentale del Paese). E quando si dice immigrazione, bisogna essere consapevoli che si tratta, per una parte dell’opinione pubblica tentata dal Fn, di rifiutare figli di immigrati i cui genitori, per esempio, erano originari del Nord Africa e che oggi sono giovani francesi che aspirano a trovare un lavoro.
In effetti, il Fn oggi approfitta soprattutto delle difficoltà della sinistra, del discredito della destra, e della ripresa da parte di quest’ultima dei temi portanti dell’estrema destra: fra questi, al primo posto c’è il rifiuto dell’immigrazione.
La sinistra? L’impopolarità del potere è tale, oggi come ogni volta che c’è un’elezione parziale a qualunque livello, che l’elettorato della sinistra si astiene. Svanisce. Scompare. Tale evaporazione è aggravata dalle divisioni della sinistra: un Partito socialista che ha mantenuto perlopiù riflessi arcaici, ecologisti che non vedono al di là della gestione del loro piccolo mondo, comunisti prigionieri di Jean-Luc Mélenchon, che si abbandona costantemente a eccessi demagogici devastatori.
In tale contesto, la destra dovrebbe prepararsi a governare. Riconoscere i propri errori passati (cosa che rifiuta di fare), visto che ha lasciato la Francia in un desolante stato economico, ma anche morale. Invece, fa di tutto per rendere isterico il dibattito e proclama il presidente della Repubblica illegittimo. Mentre la sua preoccupazione principale è chiedersi chi, fra Nicolas Sarkozy, François Fillon o Jean-François Copé, presidente dell’Ump, abbia le migliori possibilità di vincere le presidenziali del 2017. A parte Alain Juppé, che oggi appare come il grande saggio, tutti cercano di far trionfare ciascuno il proprio campione. E la battaglia è al culmine. Ma poiché, al tempo stesso, la destra ha rinunciato alla maggior parte delle barriere ideologiche che la distinguono dall’estrema destra, essa facilita il trasferimento a quest’ultima dei propri voti. E quando François Fillon dice che, di fronte alla scelta di votare per i socialisti o per l’ estrema destra, egli sceglie il partito «meno settario», dimentica l’essenziale: la parola «pericoloso». Se il Fn non è più pericoloso, allora gli elettori di destra hanno il permesso di votare per l’estrema destra.
Un presidente che non riesce a tener in riga i suoi, un governo che manca di professionismo, e ancora nessun risultato da mettere in avanti, una destra che si discredita da sola: sono questi i veri atout del Fronte nazionale. Con, in più, i mass media che fanno a gara nel catastrofismo e ogni giorno trovano una qualità supplementare in Marine Le Pen. Omettendo di leggere i suoi discorsi, in cui potrebbero facilmente constatare che lei non aspira ad allearsi con l’Ump e la destra classica, ma a sostituirsi ad essa. Prima o poi, sarà bene che destra e sinistra rinsaviscano...
(traduzione di Daniela Maggioni )
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Re: Cause ed effetti
il Fatto 19.10.13
Attentato incendiario all’Anpi di Legnano
ATTI VANDALICI ieri notte contro la sede dell’Anpi di Legnano. Sono stati lanciati ordigni incendiari che hanno causato la rottura di alcuni vetri e un principio d’incendio sull’atrio, danneggiando l’ingresso. All’esterno della sede sono comparse scritte ingiuriose: “Partigiani boia”. Al momento sono in corso i rilievi della Digos. “Adesso no a manifestazioni e presidi neo fascisti”: a chiedere di impedirli sono l’Anpi di Milano e di Legnano, dopo l’attentato incendiario subito dalla sede dell’associazione partigiani nella cittadina del milanese. In un comunicato l’Anpi condanna il “grave attentato” e denuncia un “clima e preoccupante creatosi nel Paese” e anche le “presenze sul territorio di formazioni politiche che praticano e diffondono opinione e atteggiamenti che si richiamano alle esperienze nazi-fasciste”. Per questo domanda a istituzioni e forze dell’ordine “di impedire a tali formazioni le agibilità che praticano attraverso presidi o manifestazioni”.
Attentato incendiario all’Anpi di Legnano
ATTI VANDALICI ieri notte contro la sede dell’Anpi di Legnano. Sono stati lanciati ordigni incendiari che hanno causato la rottura di alcuni vetri e un principio d’incendio sull’atrio, danneggiando l’ingresso. All’esterno della sede sono comparse scritte ingiuriose: “Partigiani boia”. Al momento sono in corso i rilievi della Digos. “Adesso no a manifestazioni e presidi neo fascisti”: a chiedere di impedirli sono l’Anpi di Milano e di Legnano, dopo l’attentato incendiario subito dalla sede dell’associazione partigiani nella cittadina del milanese. In un comunicato l’Anpi condanna il “grave attentato” e denuncia un “clima e preoccupante creatosi nel Paese” e anche le “presenze sul territorio di formazioni politiche che praticano e diffondono opinione e atteggiamenti che si richiamano alle esperienze nazi-fasciste”. Per questo domanda a istituzioni e forze dell’ordine “di impedire a tali formazioni le agibilità che praticano attraverso presidi o manifestazioni”.
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Re: Cause ed effetti
l’Unità 19.10.13
Con la memoria non si scherza
di Silvia Ballestra
Giornata della memoria, musei, sacrari, programmi scolastici, seminari. E ancora: romanzi, film, correva l'anno, teche Rai, documentari di History Channel. La memoria istituzionalizzata, pubblica, condivisa, si regge su riti, luoghi, momenti che non si discutono. SEGUE A
Eppure, la memoria è cosa fragile, a rischio, spesso sotto attacco di revisionismo, negazionismo addirittura. E quindi va protetta, sostenuta, alimentata, come giustamente non ci si stanca di ripetere. Eppure, puntualmete, anche il discorso sulla memoria può dividere. Tanto è benedetta, incoraggiata e sostenuta una memoria del ricordo, una memoria tramandata, tanto è derisa e vilipesa qualsiasi memoria «militante». Si sa, per definizione la memoria è cosa che pesca dal passato per guardare all’oggi e al domani. Eppure quando la memoria si declina al presente – quando per così dire si colgono i frutti di quel ricordo difeso e protetto, quando si mette in pratica la lezione della memoria – ecco scattare i distinguo, le dissociazioni, ecco spuntare un «buonsenso» che quella memoria tende a negarla.
Si dirà (e si è detto) che quello di Albano Laziale non è stato un bello spettacolo. Vero. Ma vero anche che la rivolta, spontanea e sincera, contro il feretro maledetto del boia Priebke è stata una manifestazione di rabbia vera, popolare, viva, contro lo sfregio del passaggio di quella salma che nessuno voleva. È il caso più recente, ma non l’unico. Tutti si adoprano a celebrare la memoria, ma quando per Milano passa un corteo di croci uncinate e passi dell’oca, si trova sempre chi giustifica e sopporta. E quando un sindaco lombardo (a Cantù) concede agibilità ai nipotini dichiarati di Priebke, provenienti da tutta Europa, lo scandalo non sembra poi così grande. È uno strano testacoda. Viva la memoria, quando è museale, teorica, quando non sporca, quando non blocca il traffico, quando non riguarda l’oggi. E invece, colpo di scena, abbasso la memoria quando si applica nella vita reale, quando risponde ad offese brucianti in presa diretta, quando sputa e tira calci.
Non dovrebbe essere questo, la memoria? Ricordare le vergogne passate per evitarne di nuove? E non sarebbe una buona applicazione della memoria – materia tanto benedetta – impedire di insultare una ministra di colore? O impedire marcette nazifasciste in una città italiana?
C’è una sorta di doppia morale nei commenti, così sensati e posati, così benpensanti e ragionevoli, ai fatti di Albano. Un apprezzamento senza se e senza ma di una memoria teorica, e una condanna variegata («incivile», «becera», «sguaiata», eccetera) di una memoria viva, vorrei dire militante. Impedire che in una città medaglia d’oro della Resistenza (Milano, per dire) passi un corteo di camicie nere con il braccio teso, o che si tenga un funerale indesiderato dalla popolazione in una cittadina partigiana (Albano, per dire) è questo: è memoria applicata. Certo, ha i suoi toni accesi, le sue cose brutte, le sue ineleganze, i suoi eccessi.
Ma non ha i suoi eccessi e le sue schifezze anche la storia che si vuole ricordare? Anche la memoria, come le guerre, le rivoluzioni, i rivolgimenti sociali, non è un pranzo di gala, può sporcarsi le mani, può incattivirsi. I cittadini di Albano, i sindaci che negano raduni nazisti, le iniziative che bloccano revisionismo e negazionismo fanno questo. Fanno memoria. Ricordano il passato e applicano quella lezione al presente. Niente di più, niente di meno. Ed è memoria non meno utile e preziosa di quella che sta nei libri.
l’Unità 19.10.13
Ardeatine, il boia che non si è pentito
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta
L’assalto della folla al carro funebre di Priebke ha creato forti tensioni. C’è chi ha scagliato calci, chi ha tirato sassi contro la bara e chi, invece, al passaggio del funerale ha fatto il saluto romano. La storia e il perdono sono temi non sempre plasmabili. Io, per esempio, anche se in zona, non sarei andato al funerale. Mi sarei astenuto da qualsiasi forma di manifestazione. È morto Priebke? Amen. FABIO SÌCARI
Chiamato a commemorare l'eccidio delle Fosse Ardeatine l'allora sindaco Argan decise di sostituire il suo discorso con un silenzio. Meglio delle parole il silenzio ci avrebbe permesso di contemplare l’orrore di quello che era accaduto, diceva Argan e di silenzio invece che di parole ci sarebbe stato bisogno, dico io, anche oggi, in morte di Priebke. Con una motivazione molto simile perché un gran bisogno abbiamo di capire che cosa è successo, prima durante e dopo, nella mente dell'uomo che quell'eccidio decise e realizzò. Prima, perché la ricostruzione storica ha permesso di verificare come, da Hitler in poi, quello operato dal nazismo fu un reclutamento massiccio di quadri che si vendicavano, odiando e uccidendo, delle loro infanzie infelici. Durante e dopo perché gravissima deve essere stata la condizione di malattia che ha permesso ad Erich Priebke di negare, l'orrore e il dolore che dalla sua decisione erano derivati. Frutto di patologia e non di intervento del maligno, il male che l’uomo fa ai suoi simili condannando sé stesso al ruolo di mostro dovrebbe essere prevenuto e curato se davvero vogliamo che la storia dell’uomo non sia segnata in futuro da altri eccidi e da altri mostri. Di fronte ai quali io non riesco a sentire, oggi, che una pena infinita.
l’Unità 19.10.13
L'infamia della falsa retorica
Chiediamoci come vengono trattati oggi i rom e i sinti
che furono oggetto dello stesso destino toccato agli ebrei
di Moni Ovadia
LO SCORSO MERCOLEDÌ, RICORREVA IL SETTANTESIMO ANNIVERSARIO DELLA DEPORTAZIONE DEGLI EBREI ROMANI DAL GHETTO EBRAICO DELL'URBE. L'azione programmata dalla metodicità nazista, avvenne al cospetto della popolazione stordita e sotto le finestre del Vaticano. La deportazione era stata preceduta da una delle tipiche messe in scena dei nazisti, ovvero la richiesta, da parte delle autorità naziste alla comunità ebraica capitolina, di fornire cinquanta chili d'oro alle «affamate» casse del Reich per evitare la deportazione stessa che come prevedibile vigliaccamente fu messa in atto ugualmente.
Il ricordo di questo tragico evento, ha visto molte commemorazioni alle quali ha partecipato anche il presidente Giorgio Napolitano insieme ad altre autorità e personalità della politica in occasione della cerimonia tenuta nella sinagoga principale della capitale.
A me personalmente, è toccato il privilegio di dare la voce a parti di un’opera folgorante di Giacomo Debenedetti, grande critico letterario ebreo, 16 ottobre 1943, scritta a ridosso dell'impressione provocata dal rastrellamento degli ebrei romani e di alcuni episodi immediatamente successivi. Ho letto il testo per il programma di Rai 3 Ad alta voce. Per la stessa occasione sono stato invitato a partecipare al bel talk show della mattina Agorà, in onda sulla stessa rete e, in attesa del discorso di Napolitano, ad un approfondimento sul tema proposto da Rai News 24 dov’ero in compagnia di due delle migliori teste pensanti dell'ebraismo italiano: la professoressa Anna Foa ed il professor David Meghnagi.
Come mia consuetudine da molti anni a questa parte, non ho tanto parlato della tragedia ebraica, ma del profluvio di retorica e di falsa coscienza che si accompagna alle commemorazioni di rito. Ancorché io sia ebreo e senta il dovere della memoria di ciò che accadde alla mia gente come un irrinunciabile imperativo, ritengo che questo dovere, oggi debba essere esercitato smascherando strumentalizzazioni e intossicazioni retoriche.
L'Italia è il mio Paese e, a mio parere, rischia di morire soffocato dalle sistematiche menzogne e falsificazioni che gli impediscono di accedere ad un confronto salvifico con stesso. La madre di tutte le retoriche è lo slogan «italiani brava gente». Ora, sia chiaro in Italia c'era e c'è tanta brava gente, ma non in quanto tale; i bravi e i coraggiosi furono e sono tali, gli altri no! Un Paese di brava gente non avrebbe lasciato espellere da asili e scuole bambini colpevoli solo di essere ciò che erano e tanto meno li avrebbe lasciati deportare con inaudita crudeltà nell'indifferenza. I fascisti italiani – la «brava gente» commisero in proprio, senza l'aiuto dei tedeschi – la «cattiva gente» -, due tentati genocidi, Cirenaica ed Etiopia. Tutto ciò appartiene al passato? Davvero? Andate a verificare come vengono trattati oggi i rom e i sinti che furono oggetto dello stesso destino toccato agli ebrei e che oggi, nel Paese della brava gente, vengono ancora perseguitati, segregati, sgomberati con perversa cattiveria, oggi come ieri. So che ascoltare tutto ciò può far imbestialire, ma siccome amo il mio Paese, non sono disposto a farne il danno con l'infamia della falsa retorica.
Con la memoria non si scherza
di Silvia Ballestra
Giornata della memoria, musei, sacrari, programmi scolastici, seminari. E ancora: romanzi, film, correva l'anno, teche Rai, documentari di History Channel. La memoria istituzionalizzata, pubblica, condivisa, si regge su riti, luoghi, momenti che non si discutono. SEGUE A
Eppure, la memoria è cosa fragile, a rischio, spesso sotto attacco di revisionismo, negazionismo addirittura. E quindi va protetta, sostenuta, alimentata, come giustamente non ci si stanca di ripetere. Eppure, puntualmete, anche il discorso sulla memoria può dividere. Tanto è benedetta, incoraggiata e sostenuta una memoria del ricordo, una memoria tramandata, tanto è derisa e vilipesa qualsiasi memoria «militante». Si sa, per definizione la memoria è cosa che pesca dal passato per guardare all’oggi e al domani. Eppure quando la memoria si declina al presente – quando per così dire si colgono i frutti di quel ricordo difeso e protetto, quando si mette in pratica la lezione della memoria – ecco scattare i distinguo, le dissociazioni, ecco spuntare un «buonsenso» che quella memoria tende a negarla.
Si dirà (e si è detto) che quello di Albano Laziale non è stato un bello spettacolo. Vero. Ma vero anche che la rivolta, spontanea e sincera, contro il feretro maledetto del boia Priebke è stata una manifestazione di rabbia vera, popolare, viva, contro lo sfregio del passaggio di quella salma che nessuno voleva. È il caso più recente, ma non l’unico. Tutti si adoprano a celebrare la memoria, ma quando per Milano passa un corteo di croci uncinate e passi dell’oca, si trova sempre chi giustifica e sopporta. E quando un sindaco lombardo (a Cantù) concede agibilità ai nipotini dichiarati di Priebke, provenienti da tutta Europa, lo scandalo non sembra poi così grande. È uno strano testacoda. Viva la memoria, quando è museale, teorica, quando non sporca, quando non blocca il traffico, quando non riguarda l’oggi. E invece, colpo di scena, abbasso la memoria quando si applica nella vita reale, quando risponde ad offese brucianti in presa diretta, quando sputa e tira calci.
Non dovrebbe essere questo, la memoria? Ricordare le vergogne passate per evitarne di nuove? E non sarebbe una buona applicazione della memoria – materia tanto benedetta – impedire di insultare una ministra di colore? O impedire marcette nazifasciste in una città italiana?
C’è una sorta di doppia morale nei commenti, così sensati e posati, così benpensanti e ragionevoli, ai fatti di Albano. Un apprezzamento senza se e senza ma di una memoria teorica, e una condanna variegata («incivile», «becera», «sguaiata», eccetera) di una memoria viva, vorrei dire militante. Impedire che in una città medaglia d’oro della Resistenza (Milano, per dire) passi un corteo di camicie nere con il braccio teso, o che si tenga un funerale indesiderato dalla popolazione in una cittadina partigiana (Albano, per dire) è questo: è memoria applicata. Certo, ha i suoi toni accesi, le sue cose brutte, le sue ineleganze, i suoi eccessi.
Ma non ha i suoi eccessi e le sue schifezze anche la storia che si vuole ricordare? Anche la memoria, come le guerre, le rivoluzioni, i rivolgimenti sociali, non è un pranzo di gala, può sporcarsi le mani, può incattivirsi. I cittadini di Albano, i sindaci che negano raduni nazisti, le iniziative che bloccano revisionismo e negazionismo fanno questo. Fanno memoria. Ricordano il passato e applicano quella lezione al presente. Niente di più, niente di meno. Ed è memoria non meno utile e preziosa di quella che sta nei libri.
l’Unità 19.10.13
Ardeatine, il boia che non si è pentito
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta
L’assalto della folla al carro funebre di Priebke ha creato forti tensioni. C’è chi ha scagliato calci, chi ha tirato sassi contro la bara e chi, invece, al passaggio del funerale ha fatto il saluto romano. La storia e il perdono sono temi non sempre plasmabili. Io, per esempio, anche se in zona, non sarei andato al funerale. Mi sarei astenuto da qualsiasi forma di manifestazione. È morto Priebke? Amen. FABIO SÌCARI
Chiamato a commemorare l'eccidio delle Fosse Ardeatine l'allora sindaco Argan decise di sostituire il suo discorso con un silenzio. Meglio delle parole il silenzio ci avrebbe permesso di contemplare l’orrore di quello che era accaduto, diceva Argan e di silenzio invece che di parole ci sarebbe stato bisogno, dico io, anche oggi, in morte di Priebke. Con una motivazione molto simile perché un gran bisogno abbiamo di capire che cosa è successo, prima durante e dopo, nella mente dell'uomo che quell'eccidio decise e realizzò. Prima, perché la ricostruzione storica ha permesso di verificare come, da Hitler in poi, quello operato dal nazismo fu un reclutamento massiccio di quadri che si vendicavano, odiando e uccidendo, delle loro infanzie infelici. Durante e dopo perché gravissima deve essere stata la condizione di malattia che ha permesso ad Erich Priebke di negare, l'orrore e il dolore che dalla sua decisione erano derivati. Frutto di patologia e non di intervento del maligno, il male che l’uomo fa ai suoi simili condannando sé stesso al ruolo di mostro dovrebbe essere prevenuto e curato se davvero vogliamo che la storia dell’uomo non sia segnata in futuro da altri eccidi e da altri mostri. Di fronte ai quali io non riesco a sentire, oggi, che una pena infinita.
l’Unità 19.10.13
L'infamia della falsa retorica
Chiediamoci come vengono trattati oggi i rom e i sinti
che furono oggetto dello stesso destino toccato agli ebrei
di Moni Ovadia
LO SCORSO MERCOLEDÌ, RICORREVA IL SETTANTESIMO ANNIVERSARIO DELLA DEPORTAZIONE DEGLI EBREI ROMANI DAL GHETTO EBRAICO DELL'URBE. L'azione programmata dalla metodicità nazista, avvenne al cospetto della popolazione stordita e sotto le finestre del Vaticano. La deportazione era stata preceduta da una delle tipiche messe in scena dei nazisti, ovvero la richiesta, da parte delle autorità naziste alla comunità ebraica capitolina, di fornire cinquanta chili d'oro alle «affamate» casse del Reich per evitare la deportazione stessa che come prevedibile vigliaccamente fu messa in atto ugualmente.
Il ricordo di questo tragico evento, ha visto molte commemorazioni alle quali ha partecipato anche il presidente Giorgio Napolitano insieme ad altre autorità e personalità della politica in occasione della cerimonia tenuta nella sinagoga principale della capitale.
A me personalmente, è toccato il privilegio di dare la voce a parti di un’opera folgorante di Giacomo Debenedetti, grande critico letterario ebreo, 16 ottobre 1943, scritta a ridosso dell'impressione provocata dal rastrellamento degli ebrei romani e di alcuni episodi immediatamente successivi. Ho letto il testo per il programma di Rai 3 Ad alta voce. Per la stessa occasione sono stato invitato a partecipare al bel talk show della mattina Agorà, in onda sulla stessa rete e, in attesa del discorso di Napolitano, ad un approfondimento sul tema proposto da Rai News 24 dov’ero in compagnia di due delle migliori teste pensanti dell'ebraismo italiano: la professoressa Anna Foa ed il professor David Meghnagi.
Come mia consuetudine da molti anni a questa parte, non ho tanto parlato della tragedia ebraica, ma del profluvio di retorica e di falsa coscienza che si accompagna alle commemorazioni di rito. Ancorché io sia ebreo e senta il dovere della memoria di ciò che accadde alla mia gente come un irrinunciabile imperativo, ritengo che questo dovere, oggi debba essere esercitato smascherando strumentalizzazioni e intossicazioni retoriche.
L'Italia è il mio Paese e, a mio parere, rischia di morire soffocato dalle sistematiche menzogne e falsificazioni che gli impediscono di accedere ad un confronto salvifico con stesso. La madre di tutte le retoriche è lo slogan «italiani brava gente». Ora, sia chiaro in Italia c'era e c'è tanta brava gente, ma non in quanto tale; i bravi e i coraggiosi furono e sono tali, gli altri no! Un Paese di brava gente non avrebbe lasciato espellere da asili e scuole bambini colpevoli solo di essere ciò che erano e tanto meno li avrebbe lasciati deportare con inaudita crudeltà nell'indifferenza. I fascisti italiani – la «brava gente» commisero in proprio, senza l'aiuto dei tedeschi – la «cattiva gente» -, due tentati genocidi, Cirenaica ed Etiopia. Tutto ciò appartiene al passato? Davvero? Andate a verificare come vengono trattati oggi i rom e i sinti che furono oggetto dello stesso destino toccato agli ebrei e che oggi, nel Paese della brava gente, vengono ancora perseguitati, segregati, sgomberati con perversa cattiveria, oggi come ieri. So che ascoltare tutto ciò può far imbestialire, ma siccome amo il mio Paese, non sono disposto a farne il danno con l'infamia della falsa retorica.
Re: Cause ed effetti
"il nastro bianco" di Hanekela ricostruzione storica ha permesso di verificare come, da Hitler in poi, quello operato dal nazismo fu un reclutamento massiccio di quadri che si vendicavano, odiando e uccidendo, delle loro infanzie infelici.
http://www.mymovies.it/film/2009/ilnastrobianco/
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