quo vadis PD ????
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Re: quo vadis PD ????
Se la memoria non mi tradisce, aaaa4 e lucfig frequentano il blog di Civati.Domanda:Ma siete in grado di dialogare?
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Re: quo vadis PD ????
Anche se l'ho incontrato una volta non sono in grado di contattarlo personalmente di persona (come dice lui).camillobenso ha scritto:Se la memoria non mi tradisce, aaaa4 e lucfig frequentano il blog di Civati.Domanda:Ma siete in grado di dialogare?
Ma posso contattare persone vicine a lui (Civati).
Outing: sono nella mozione ma dopo la fiducia al Governo Renzi ci sto pensando ...
Credo però che alla mozione interessi molto questo forum, per il fatto che ha sempre dichiarato che vuole essere "il ponte" con la sinistra esterna al PD e recuperare quei consensi ormai persi.
Il motivo del mio ripensamento è che con la fiducia del Governo Renzi sarà molto difficile esere credibili ...
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«Non si discute per aver ragione, ma per capire» (Peanuts)
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Re: quo vadis PD ????
Scrisse a Prodi per chiedergli di restare nel Pd, segretaria circolo si dimette: “Basta”
Cecilia Alessandrini, coordinatrice della sede Pd Joyce Lussu dove è iscritto anche l'ex premier, ha scritto una lettera per annunciare il suo ritiro: "Il Partito democratico di progressista non ha più nulla e non certo perché Renzi ne è il segretario. E' così da tempo". Era stata lei, dopo il tradimento dei 101, a cercare di convincere il candidato alla Presidenze della Repubblica a non andarsene
di Giulia Zaccariello | Bologna | 27 febbraio 2014Commenti (17)
Solo qualche mese fa, prese carta e penna e scrisse a Romano Prodi per convincerlo a rinnovare la tessera, nonostante il tradimento dei 101 e lo stop della sua corsa al Colle.
Il professore, alla fine, alla sede dei democratici si presentò parecchio tempo dopo, a dicembre, per votare alla primarie, ma sull’iscrizione glissò con un ironico “non esageriamo”.
Oggi invece è lei a trovarsi dall’altra parte, nel drappello dei delusi.
E così, questa volta, la lettera non le serve per dissuadere qualche militante fuggito, ma per annunciare il suo addio.
Lei si chiama Cecilia Alessandrini, e non è una militante come altri ma è la coordinatrice del circolo Pd Joyce Lussu di via Orfeo, a Bologna, lo stesso dove era iscritto l’ex premier.
A due giorni dal voto di fiducia della Camera al governo Renzi, Alessadrini ha deciso di inviare una email per “comunicare la decisione irrevocabile” di dimettersi dal ruolo di segreteria del circolo, ma anche “da membro della Direzione provinciale del Pd di Bologna e da membro dell’esecutivo della conferenza delle donne del Pd di Bologna”. E l’intenzione di “lasciare il partito e non militare più in esso”.
Trentaquattro anni, insegnante precaria, marchigiana di nascita ma bolognese d’adozione, negli ultimi tempi si era schierata accanto a Pippo Civati.
Ora però in quasi due pagine di lettera, spiega i motivi che l’hanno spinta a chiudere per sempre l’esperienza nel partito.
Una decisione sofferta, ammette.
“È maturata dopo le ultime vicende che hanno portato, con la complicità del nostro partito, alla nomina da parte del presidente della Repubblica del terzo ( Monti, Letta, Renzi) presidente del Consiglio il cui progetto politico non è stato votato alle elezioni”. E non solo.
La parola fine è arrivata anche dopo aver visto altri colleghi, tutti del circolo Galvani di via Orfeo, lasciare la militanza. “In questi giorni” racconta “ho ricevuto le dimissioni di quattro membri del direttivo del circolo, di cui tre membri anche della segreteria”. Li chiama per nome, Mario, Elisa, Umberto e Fabrizio: “Sono tutte persone con un’età compresa tra i 18 ai 36 anni, che non hanno cariche o ruoli da difendere nel partito e quindi sono sicura che il loro disagio è sincero”.
E se l’estate scorsa era stata lei stessa a tentare di riportare Prodi nella casa del Pd e a provare a convincere i tanti iscritti delusi che tempestavano il circolo di mail amare, oggi sembra che qualcosa si sia rotto definitivamente.
L’analisi dello stato di salute del Pd è impietosa.
“È un partito che di progressista non ha più nulla e non certo perché Renzi ne è il segretario.
Il Pd è un partito che non è più progressista da tempo.
I suoi dirigenti, sui diversi livelli, e anche parte della sua base mostrano una totale subalternità di idee e di azione al pensiero dominante”. E ancora: “Nessuna idea di rottura, nessun coraggio, nessuna capacità di prospettiva, nessuna volontà di buttare il cuore oltre l’ostacolo solo un dimenarsi infinito tra le idee preconfezionate e imposte attraverso i grandi media dall’establishment italiano sia esso universitario, imprenditoriale, politico”.
Nel testo anche un riferimento alla scelta dei civatiani di votare la fiducia, sotto la minaccia dell’espulsione dal partito.
“Me ne vado oggi, perché nel Pd immaginare di costruire un mondo nuovo non è neanche possibile, solo a professare questa volontà si è malvisti”.
Le conclusioni, quindi, sono durissime.
“Credo che il Pd continuando a scegliere, ormai da anni, il male minore si dimentichi di scegliere comunque un male e stia facendo oggettivamente un danno all’Italia privandola in un momento storico, in cui crescono le disuguaglianze sociali, di un partito strutturato che difenda davvero gli interessi dei deboli, degli sfruttati. Poiché sono sicura che la storia non ci assolverà preferisco andarmene prima di iniziare a sentirmi troppo complice”.
Pubblicato anche su Facebook, l’intervento è stato commentato tra gli altri dal senatore bolognese Sergio Lo Giudice, esponente Pd sostenitore di Civati e indeciso fino all’ultimo sul sostegno al governo Renzi.
“Provo rabbia per il fatto che il Pd che abbiamo costruito non sia più considerato la propria casa politica da una come te” le scrive.
“Allora ti dico: non perdiamoci di vista. Facciamo in modo che le relazioni umane e politiche fra chi, dentro e fuori il Pd, ha lo stesso desiderio di rinnovamento e di buona politica aiutino a navigare nella stessa direzione e a dare un contributo di valori e di pratiche per rifondare il centrosinistra”.
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Re: quo vadis PD ????
Penati, la prescrizione è definitiva il Pg: non vi ha voluto rinunciare
(SANDRO DE RICCARDIS).
28/02/2014 di triskel182
“ Sistema Sesto”, la Cassazione respinge l’istanza dell’ex dem.
MILANO — La conferma, inevitabile, è arrivata ieri. La sesta sezione penale della Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso con cui Filippo Penati chiedeva di annullare la sentenza di prescrizione del Tribunale di Monza, pronunciata lo scorso 22 maggio. Quel giorno, l’ex presidente Pd della Provincia di Milano ed ex braccio destro di Pierluigi Bersani, non si presentò in aula per rinunciare alla prescrizione e «difendersi nel processo», come ripeteva spesso nelle interviste, e i giudici non hanno potuto far altro che dichiarare l’estinzione del reato.
Anche il procuratore generale Giuseppe Volpe, ieri, nel chiedere di «rigettare la richiesta del ricorrente», ha ricordato quell’udienza, l’unico luogo in cui il politico avrebbe dovuto dichiarare di volere il processo. «Anche nel momento clou — ha ricordato Volpe — quando si doveva dichiarare cosa manifestare al tribunale, la difesa non ha espresso la sua decisione». Così la Suprema Corte si è limitata a condannare Penati al pagamento delle spese processuali.
«Celebrare il processo mi avrebbe consentito di difendermi e dimostrare la mia innocenza — ha commentato ieri Penati — Contro di me ci sono solo menzogne, e io non intendo fermarmi. Non rinuncio comunque a dimostrare la mia totale estraneità ai fatti che mi sono stati contestati». Ma il tempo processuale è ormai scaduto, ponendo fine a uno dei filoni d’inchiesta dei pm di Monza, Walter Mapelli e Franca Macchia, che indagano sul “Sistema Sesto”: i presunti appalti truccati e le tangenti relativi alla riqualificazione delle ex aree industriali Falck e Marelli a Sesto San Giovanni, comune a nord di Milano.
Già il “decreto anticorruzione” dell’allora ministro della Giustizia, Paola Severino, aveva abbattuto i tempi di prescrizione per la concussione, salvando Penati ma anche gli uomini delle coop rosse indagati a Monza. Poi, lo scorso 22 maggio, Penati non si è presentato in udienza. Quando il presidente del tribunale, Letizia Brambilla, ha chiesto al suo legale, Matteo Calori, se il politico intendesse presentarsi per dichiarare un’eventuale rinuncia, l’avvocato tentò di contattare l’ex presidente, senza riuscirci. «Penati non verrà, non posso dire altro sulla sua volontà» rispose Calori, che non aveva una procura per pronunciarsi sulla prescrizione.
Evaporarono così i tre capi d’imputazione sulle presunte tangenti per le Falck e le Marelli di Sesto, dove Penati è stato sindaco dal 1994 al 2001, il filone più corposo dell’inchiesta di Monza. È invece ancora in corso il processo per i finanziamenti ricevuti dalla fondazione di Penati, “Fare Metropoli”; per l’appalto per i lavori della terza corsia della A7; e per la finta compravendita di un immobile tra i Gavio e il grande accusatore di Penati, l’imprenditore Piero Di Caterina, con una caparra da due milioni che per i pm serviva a «restituire i prestiti» in contanti che Di Caterina aveva fatto negli anni al politico.
Da La Repubblica del 28/02/2014.
(SANDRO DE RICCARDIS).
28/02/2014 di triskel182
“ Sistema Sesto”, la Cassazione respinge l’istanza dell’ex dem.
MILANO — La conferma, inevitabile, è arrivata ieri. La sesta sezione penale della Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso con cui Filippo Penati chiedeva di annullare la sentenza di prescrizione del Tribunale di Monza, pronunciata lo scorso 22 maggio. Quel giorno, l’ex presidente Pd della Provincia di Milano ed ex braccio destro di Pierluigi Bersani, non si presentò in aula per rinunciare alla prescrizione e «difendersi nel processo», come ripeteva spesso nelle interviste, e i giudici non hanno potuto far altro che dichiarare l’estinzione del reato.
Anche il procuratore generale Giuseppe Volpe, ieri, nel chiedere di «rigettare la richiesta del ricorrente», ha ricordato quell’udienza, l’unico luogo in cui il politico avrebbe dovuto dichiarare di volere il processo. «Anche nel momento clou — ha ricordato Volpe — quando si doveva dichiarare cosa manifestare al tribunale, la difesa non ha espresso la sua decisione». Così la Suprema Corte si è limitata a condannare Penati al pagamento delle spese processuali.
«Celebrare il processo mi avrebbe consentito di difendermi e dimostrare la mia innocenza — ha commentato ieri Penati — Contro di me ci sono solo menzogne, e io non intendo fermarmi. Non rinuncio comunque a dimostrare la mia totale estraneità ai fatti che mi sono stati contestati». Ma il tempo processuale è ormai scaduto, ponendo fine a uno dei filoni d’inchiesta dei pm di Monza, Walter Mapelli e Franca Macchia, che indagano sul “Sistema Sesto”: i presunti appalti truccati e le tangenti relativi alla riqualificazione delle ex aree industriali Falck e Marelli a Sesto San Giovanni, comune a nord di Milano.
Già il “decreto anticorruzione” dell’allora ministro della Giustizia, Paola Severino, aveva abbattuto i tempi di prescrizione per la concussione, salvando Penati ma anche gli uomini delle coop rosse indagati a Monza. Poi, lo scorso 22 maggio, Penati non si è presentato in udienza. Quando il presidente del tribunale, Letizia Brambilla, ha chiesto al suo legale, Matteo Calori, se il politico intendesse presentarsi per dichiarare un’eventuale rinuncia, l’avvocato tentò di contattare l’ex presidente, senza riuscirci. «Penati non verrà, non posso dire altro sulla sua volontà» rispose Calori, che non aveva una procura per pronunciarsi sulla prescrizione.
Evaporarono così i tre capi d’imputazione sulle presunte tangenti per le Falck e le Marelli di Sesto, dove Penati è stato sindaco dal 1994 al 2001, il filone più corposo dell’inchiesta di Monza. È invece ancora in corso il processo per i finanziamenti ricevuti dalla fondazione di Penati, “Fare Metropoli”; per l’appalto per i lavori della terza corsia della A7; e per la finta compravendita di un immobile tra i Gavio e il grande accusatore di Penati, l’imprenditore Piero Di Caterina, con una caparra da due milioni che per i pm serviva a «restituire i prestiti» in contanti che Di Caterina aveva fatto negli anni al politico.
Da La Repubblica del 28/02/2014.
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Re: quo vadis PD ????
Il mercato delle vacche.
Io do una cosa a te e tu dai una cosa a me.....
Ma come fanno i merli della sinistra a credere al rinnovamento di Pittibimbo???????????
NEL GIORNO DELL’ACCORDO SULL’ITALICUM, LA GIUNTA DOVEVA VOTARE (A UN ANNO DALLA RICHIESTA DEL GIP) L’UTILIZZO DELLE INTERCETTAZIONI P3. MA IL SENATO HA RINVIATO ANCORA.
Nona seduta e nono rinvio della Giunta delle immunità del Senato, ieri, sulla richiesta del Gip di Roma di autorizzazione all’uso di intercettazioni telefoniche di Denis Verdini, senatore, Nicola Cosentino e Marcello Dell’Utri, tutti parlamentari all’epoca dei fatti. Tutti concordi nel riparlarne oggi, Pd compreso, ovviamente. L’inchiesta è quella sulla presunta associazione segreta P3, finalizzata secondo l’accusa al pilotaggio di appalti e sentenze, oltre che al dossieraggio al danno di nemici politici. La faccenda, però, è ormai antichissima e chissà se al tribunale di Roma si ricordano ancora di quella lontana richiesta sugli ascolti dei tre pesi massimi berlusconiani: il Gip, infatti, l’ha presentata al Parlamento il lontano 12 aprile dell’anno scorso, ma a palazzo Madama ancora non hanno trovato il tempo di dire cosa ne pensano.
LA PRESIDENZA del Senato, per dire, la soppesò per due mesi prima di convincersi, l’11 giugno, ad annunciarne l’arrivo all’aula e ad assegnarla alla Giunta per le elezioni e le immunità. Quest’ultima, però, forse troppo impegnata a discutere di come rinviare l’inevitabile epilogo della decadenza di Silvio Berlusconi, trovò modo di occuparsene la prima volta solo il 24 settembre 2013, oltre sei mesi dopo l’arrivo. Di lì a dicembre, la Giunta trovò il modo di discuterne altre quattro volte, compresa l’accorata audizione di Verdini proprio alla fine dell’anno. Votare? Macché. Col 2014, però, il vento sembrava cambiato: Berlusconi , e pure Verdini, dunque, non erano più al governo e allora si poteva autorizzare i magistrati a usare le telefonate senza pagare prezzi politici elevati. Tre sedute filate e finalmente la decisione di votare: appuntamento per il 4 marzo, cioè ieri. Solo che poi c’è stato l’intoppo e non se n’è fatto niente: c’erano le concomitanti riunioni di Copasir e Antimafia - ha spiegato il senatore Andrea Augello di Ncd – meglio rimandare ancora per consentire una più ampia partecipazione dei senatori commissari. Il Pd, democraticamente, acconsente. “Giusto, per carità – spiega un senatore di maggioranza – ma Verdini ieri stava anche facendo da tramite tra Renzi e Berlusconi sulla legge elettorale: meglio non esacerbare gli animi e stare tranquilli”. Nel frattempo, infatti, il Cavaliere è tornato al centro della scena e il buon Denis fa addirittura lo statista grazie al rapporto antico e amichevole col nuovo presidente del Consiglio. Fatto l’accordo sulla legge elettorale, ora si potrebbe teoricamente procedere: si vedrà oggi, visto che il presidente della Giunta Dario Stefàno ha convocato una nuova riunione proprio nel pomeriggio.
Da Il Fatto Quotidiano del 05/03/2014.
Io do una cosa a te e tu dai una cosa a me.....
Ma come fanno i merli della sinistra a credere al rinnovamento di Pittibimbo???????????
NEL GIORNO DELL’ACCORDO SULL’ITALICUM, LA GIUNTA DOVEVA VOTARE (A UN ANNO DALLA RICHIESTA DEL GIP) L’UTILIZZO DELLE INTERCETTAZIONI P3. MA IL SENATO HA RINVIATO ANCORA.
Nona seduta e nono rinvio della Giunta delle immunità del Senato, ieri, sulla richiesta del Gip di Roma di autorizzazione all’uso di intercettazioni telefoniche di Denis Verdini, senatore, Nicola Cosentino e Marcello Dell’Utri, tutti parlamentari all’epoca dei fatti. Tutti concordi nel riparlarne oggi, Pd compreso, ovviamente. L’inchiesta è quella sulla presunta associazione segreta P3, finalizzata secondo l’accusa al pilotaggio di appalti e sentenze, oltre che al dossieraggio al danno di nemici politici. La faccenda, però, è ormai antichissima e chissà se al tribunale di Roma si ricordano ancora di quella lontana richiesta sugli ascolti dei tre pesi massimi berlusconiani: il Gip, infatti, l’ha presentata al Parlamento il lontano 12 aprile dell’anno scorso, ma a palazzo Madama ancora non hanno trovato il tempo di dire cosa ne pensano.
LA PRESIDENZA del Senato, per dire, la soppesò per due mesi prima di convincersi, l’11 giugno, ad annunciarne l’arrivo all’aula e ad assegnarla alla Giunta per le elezioni e le immunità. Quest’ultima, però, forse troppo impegnata a discutere di come rinviare l’inevitabile epilogo della decadenza di Silvio Berlusconi, trovò modo di occuparsene la prima volta solo il 24 settembre 2013, oltre sei mesi dopo l’arrivo. Di lì a dicembre, la Giunta trovò il modo di discuterne altre quattro volte, compresa l’accorata audizione di Verdini proprio alla fine dell’anno. Votare? Macché. Col 2014, però, il vento sembrava cambiato: Berlusconi , e pure Verdini, dunque, non erano più al governo e allora si poteva autorizzare i magistrati a usare le telefonate senza pagare prezzi politici elevati. Tre sedute filate e finalmente la decisione di votare: appuntamento per il 4 marzo, cioè ieri. Solo che poi c’è stato l’intoppo e non se n’è fatto niente: c’erano le concomitanti riunioni di Copasir e Antimafia - ha spiegato il senatore Andrea Augello di Ncd – meglio rimandare ancora per consentire una più ampia partecipazione dei senatori commissari. Il Pd, democraticamente, acconsente. “Giusto, per carità – spiega un senatore di maggioranza – ma Verdini ieri stava anche facendo da tramite tra Renzi e Berlusconi sulla legge elettorale: meglio non esacerbare gli animi e stare tranquilli”. Nel frattempo, infatti, il Cavaliere è tornato al centro della scena e il buon Denis fa addirittura lo statista grazie al rapporto antico e amichevole col nuovo presidente del Consiglio. Fatto l’accordo sulla legge elettorale, ora si potrebbe teoricamente procedere: si vedrà oggi, visto che il presidente della Giunta Dario Stefàno ha convocato una nuova riunione proprio nel pomeriggio.
Da Il Fatto Quotidiano del 05/03/2014.
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Re: quo vadis PD ????
07 MAR 2014 16:05
MINZO SPIA! – DIETRO LE QUINTE I ‘ROTTAMATI’ PD PROVANO A ROTTAMARE RENZI, ‘’PIÙ PARACULO DEL CAVALIERE’ - BERSANI: ‘MATTEO È UN PAZZO, HA VINTO SOLO LE PRIMARIE E PENSA DI POTER FARE LA RIVOLUZIONE’ – D’ALEMA: ‘HO UN SOLO PARTITO, SOLO CHE STA IN EUROPA: IL PSE’
Per pacificare gli animi Renzi lusinga Bersani con la presidenza del partito e D’Alema con un posto in Europa e promette che si voterà alle calende greche - Latorre: ‘Il giovanotto è più paraculo del Cavaliere’ - Ma gli annali di Palazzo Chigi sono pieni di premier ‘rottamati’ nel tentativo di restare attaccati alla poltrona. Enrico Letta docet…
Augusto Minzolini per "il Giornale"
Per comprendere quello che si muove nella palude dei Palazzi romani bisogna parlare con un ex-ministro trombato come Mario Mauro, amico del Colle e gran conoscitore del ventre moderato.
«Renzi spiega con un sorriso beffardo- si è innamorato di Palazzo Chigi. Durante le consultazioni mi disse: "Voglio andare al governo solo per fare le elezioni da Premier".
Gli risposi che non ero d'accordo, ma che la sua posizione era legittima. Ora, invece, credo che alle urne non ci pensi proprio.
Gli è piaciuto il giocattolo. Se si logorerà? Credo che tutto resterà com'è ora.
Una legge elettorale per la Camera e un'altra proporzionale, il Consultellum, per il Senato. Un sistema anfibio che, nei fatti, garantisce il ruolo dei partitini di centro che si metteranno insieme.
Anche perché il Senato resterà. Calderoli già ha fatto capire che come ci sono le proposte per abolire Palazzo Madama, ci sono anche quelle per abolire la Camera».
Gira che ti rigira il fascino del Potere contagia tutti.
E, a quanto pare, anche il rottamatore non ne è immune.
E se non si ha l'antidoto per evitare il contagio dall'insidioso virus denominato «poltronum», si finisce per essere ingoiati, adottando il lessico renziano, proprio dalla «palude».
I sintomi ci sono tutti. La decisione di accettare l'emendamento della minoranza del Pd e degli alfaniani che rende l'Italicum utilizzabile solo per la Camera, è stata la dimostrazione plateale che il contagio è avvenuto.
E gli effetti sulla capacità di Renzi di imporre una svolta, saranno devastanti.
Il premier è disarmato.
La sua arma più micidiale, cioè la minaccia di elezioni anticipate, è diventata una pallottola spuntata.
Se si andasse a votare con il sistema anfibio (Italicum più Consultellum), i partitini non sarebbero più terrorizzati dal rischio di estinzione: mettendosi insieme in una federazione centrista, infatti, manterrebbero almeno in Senato un ruolo politico, visto che sarebbero necessari per mettere in piedi una maggioranza (è difficile che uno dei partiti maggiori arrivi da solo al 51%).
E che alla fine resti il Senato con il Consultellum è un epilogo molto probabile.
Bastava leggere ieri sul Corriere della Sera Marzio Breda, quirinalista doc, per capire che il Quirinale è già pronto a legittimare il sistema anfibio, un sistema che, secondo gli uomini di Napolitano, ha una sua logica politico- istituzionale intrinseca: «La Camera fungerà da motore politico e il Senato avrà una funzione moderatrice ».
Se si pensa a tutte le esternazioni di questi anni sull'impossibilità di andare al voto con il Porcellum per il rischio di avere due maggioranze diverse, viene da ridere.
Già, il Palazzo contagia. Vale anche per Renzi.
Risultato: se fai il segretario del Pd puoi anche essere il capo del partito delle elezioni anticipate; se fai il premier diventi il leader del partito del «non voto». Purtroppo è quello che rischia di avvenire. Anche perché Renzi è meno forte di quanto sembri.
Lo ha ammesso lui stesso con il Cav quando gli ha spiegato che non poteva mantenere i patti alla lettera,che doveva accettare l'emendamento della minoranza Pd che limitava l'utilizzo della nuova legge elettorale, l'Italicum, solo alla Camera: «A scrutinio segreto i miei mi votano contro. Vado sotto e va in crisi il governo». Così, l'uomo che prometteva sfracelli è stato costretto ad abbozzare.
Ha ceduto ad Alfano, ma, soprattutto, ha subito la sua minoranza interna: quella dei Bersani,D'Alema,Letta,Fassina.... Insomma, è venuto a più miti consigli. Anche perché, a parte la simpatia del Cav, il neopremier ha contro tutti. Ce l'hanno con lui tutti quelli che ha rottamato, dentro il Pd e fuori. Una sorta di «fronte del rancore ».
«Tutti i rottamati- osserva una fedelissima del Premier come Rosa Maria Giorgi - hanno fatto fronte comune e vogliono togliersi la soddisfazione di rottamare il rottamatore ».
Appunto, il rancore. Basta grattare un pochino ed esce fuori. L'altro giorno in un bar Bersani non nascondeva la sua insoddisfazione con alcuni amici.
«Renzi è un pazzo - si sfogava - . Io ho vinto alla grande le primarie, ho vinto le elezione sia pure di poco. Lui ha vinto solo le primarie e pensa di poter fare la rivoluzione».
Non parliamo poi di D'Alema che, con l'inconfondibile sarcasmo, comunica a chiunque di aver dato l'addio al Pd renziano: «Io ho un solo partito. Ma è in Europa: il Pse».
Tanta freddezza nasconde tanta voglia di rivalsa. E Renzi? Il rottamatore, per pacificare gli animi, usa gli stessi mezzi dei suoi predecessori: ha adottato il manuale Cencelli delle correnti del Pd per scegliere i ministri; lusinga Bersani con la presidenza del partito e D'Alema con un posto in Europa.
E, ovviamente, promette alla «palude» che si andrà a votare alle calende greche: «Non si voterà prima del 2025 - ironizza un renziano acquisito come Nicola Latorre - . Il giovanotto è più paraculo del Cavaliere».
Magari questo è da vedere, sicuramente somiglia sempre più ad un premier qualunque. Basterà? Il Matteo nazionale deve farsi bene i conti: arrivare a patti con «il fronte del rancore », non significa che si sopisca il rancore; e se per far questo deve venir meno alla parola data, potrebbe allungarsi l'elenco dei potenziali nemici. Gli annali di Palazzo Chigi sono pieni di premier «rottamati », nel tentativo di restare attaccati alla poltrona. Enrico Letta docet.
MINZO SPIA! – DIETRO LE QUINTE I ‘ROTTAMATI’ PD PROVANO A ROTTAMARE RENZI, ‘’PIÙ PARACULO DEL CAVALIERE’ - BERSANI: ‘MATTEO È UN PAZZO, HA VINTO SOLO LE PRIMARIE E PENSA DI POTER FARE LA RIVOLUZIONE’ – D’ALEMA: ‘HO UN SOLO PARTITO, SOLO CHE STA IN EUROPA: IL PSE’
Per pacificare gli animi Renzi lusinga Bersani con la presidenza del partito e D’Alema con un posto in Europa e promette che si voterà alle calende greche - Latorre: ‘Il giovanotto è più paraculo del Cavaliere’ - Ma gli annali di Palazzo Chigi sono pieni di premier ‘rottamati’ nel tentativo di restare attaccati alla poltrona. Enrico Letta docet…
Augusto Minzolini per "il Giornale"
Per comprendere quello che si muove nella palude dei Palazzi romani bisogna parlare con un ex-ministro trombato come Mario Mauro, amico del Colle e gran conoscitore del ventre moderato.
«Renzi spiega con un sorriso beffardo- si è innamorato di Palazzo Chigi. Durante le consultazioni mi disse: "Voglio andare al governo solo per fare le elezioni da Premier".
Gli risposi che non ero d'accordo, ma che la sua posizione era legittima. Ora, invece, credo che alle urne non ci pensi proprio.
Gli è piaciuto il giocattolo. Se si logorerà? Credo che tutto resterà com'è ora.
Una legge elettorale per la Camera e un'altra proporzionale, il Consultellum, per il Senato. Un sistema anfibio che, nei fatti, garantisce il ruolo dei partitini di centro che si metteranno insieme.
Anche perché il Senato resterà. Calderoli già ha fatto capire che come ci sono le proposte per abolire Palazzo Madama, ci sono anche quelle per abolire la Camera».
Gira che ti rigira il fascino del Potere contagia tutti.
E, a quanto pare, anche il rottamatore non ne è immune.
E se non si ha l'antidoto per evitare il contagio dall'insidioso virus denominato «poltronum», si finisce per essere ingoiati, adottando il lessico renziano, proprio dalla «palude».
I sintomi ci sono tutti. La decisione di accettare l'emendamento della minoranza del Pd e degli alfaniani che rende l'Italicum utilizzabile solo per la Camera, è stata la dimostrazione plateale che il contagio è avvenuto.
E gli effetti sulla capacità di Renzi di imporre una svolta, saranno devastanti.
Il premier è disarmato.
La sua arma più micidiale, cioè la minaccia di elezioni anticipate, è diventata una pallottola spuntata.
Se si andasse a votare con il sistema anfibio (Italicum più Consultellum), i partitini non sarebbero più terrorizzati dal rischio di estinzione: mettendosi insieme in una federazione centrista, infatti, manterrebbero almeno in Senato un ruolo politico, visto che sarebbero necessari per mettere in piedi una maggioranza (è difficile che uno dei partiti maggiori arrivi da solo al 51%).
E che alla fine resti il Senato con il Consultellum è un epilogo molto probabile.
Bastava leggere ieri sul Corriere della Sera Marzio Breda, quirinalista doc, per capire che il Quirinale è già pronto a legittimare il sistema anfibio, un sistema che, secondo gli uomini di Napolitano, ha una sua logica politico- istituzionale intrinseca: «La Camera fungerà da motore politico e il Senato avrà una funzione moderatrice ».
Se si pensa a tutte le esternazioni di questi anni sull'impossibilità di andare al voto con il Porcellum per il rischio di avere due maggioranze diverse, viene da ridere.
Già, il Palazzo contagia. Vale anche per Renzi.
Risultato: se fai il segretario del Pd puoi anche essere il capo del partito delle elezioni anticipate; se fai il premier diventi il leader del partito del «non voto». Purtroppo è quello che rischia di avvenire. Anche perché Renzi è meno forte di quanto sembri.
Lo ha ammesso lui stesso con il Cav quando gli ha spiegato che non poteva mantenere i patti alla lettera,che doveva accettare l'emendamento della minoranza Pd che limitava l'utilizzo della nuova legge elettorale, l'Italicum, solo alla Camera: «A scrutinio segreto i miei mi votano contro. Vado sotto e va in crisi il governo». Così, l'uomo che prometteva sfracelli è stato costretto ad abbozzare.
Ha ceduto ad Alfano, ma, soprattutto, ha subito la sua minoranza interna: quella dei Bersani,D'Alema,Letta,Fassina.... Insomma, è venuto a più miti consigli. Anche perché, a parte la simpatia del Cav, il neopremier ha contro tutti. Ce l'hanno con lui tutti quelli che ha rottamato, dentro il Pd e fuori. Una sorta di «fronte del rancore ».
«Tutti i rottamati- osserva una fedelissima del Premier come Rosa Maria Giorgi - hanno fatto fronte comune e vogliono togliersi la soddisfazione di rottamare il rottamatore ».
Appunto, il rancore. Basta grattare un pochino ed esce fuori. L'altro giorno in un bar Bersani non nascondeva la sua insoddisfazione con alcuni amici.
«Renzi è un pazzo - si sfogava - . Io ho vinto alla grande le primarie, ho vinto le elezione sia pure di poco. Lui ha vinto solo le primarie e pensa di poter fare la rivoluzione».
Non parliamo poi di D'Alema che, con l'inconfondibile sarcasmo, comunica a chiunque di aver dato l'addio al Pd renziano: «Io ho un solo partito. Ma è in Europa: il Pse».
Tanta freddezza nasconde tanta voglia di rivalsa. E Renzi? Il rottamatore, per pacificare gli animi, usa gli stessi mezzi dei suoi predecessori: ha adottato il manuale Cencelli delle correnti del Pd per scegliere i ministri; lusinga Bersani con la presidenza del partito e D'Alema con un posto in Europa.
E, ovviamente, promette alla «palude» che si andrà a votare alle calende greche: «Non si voterà prima del 2025 - ironizza un renziano acquisito come Nicola Latorre - . Il giovanotto è più paraculo del Cavaliere».
Magari questo è da vedere, sicuramente somiglia sempre più ad un premier qualunque. Basterà? Il Matteo nazionale deve farsi bene i conti: arrivare a patti con «il fronte del rancore », non significa che si sopisca il rancore; e se per far questo deve venir meno alla parola data, potrebbe allungarsi l'elenco dei potenziali nemici. Gli annali di Palazzo Chigi sono pieni di premier «rottamati », nel tentativo di restare attaccati alla poltrona. Enrico Letta docet.
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Re: quo vadis PD ????
Corriere 17.3.14
Calci, sputi e denunce. La rissa democratica nel Pd
di Fabrizio Roncone
Nel territorio le battaglie sulle primarie: sospetti e file anomale di extracomunitari E sabato il caos all’assemblea del Lazio «E poi... Poi, Matteo, ci sarebbe... beh, sì, insomma: a Roma si sono menati», raccontavano ieri mattina a Matteo Renzi, che vuol essere sempre informato su tutto quando accade all’interno del suo partito, il Pd.
«Menati, scusa, come? E dove? Ma che dici?» (Renzi, tra stupore e fastidio).
«È successo all’assemblea regionale. Stavano ratificando la nomina del segretario, dopo le primarie. Poi hanno iniziato a litigare. Sembra che uno, poveretto, sia perfino finito all’ospedale».
Renzi, a quel punto, si è fatto spiegare meglio (come vedremo, le primarie del Partito democratico stanno seminando ovunque, in Italia, liti furiose e denunce alla magistratura).
A Roma la scena è particolarmente tragica. I protagonisti sono tutti personaggi minori, locali: ma se provate a non farvi condizionare dai loro cognomi sconosciuti, ciò che è accaduto vi apparirà assai grave, ed emblematico.
Sabato pomeriggio, centro congressi della Cgil, molti invitati eccellenti (il governatore del Lazio Nicola Zingaretti, il sindaco di Roma Ignazio Marino, più altri parlamentari di rango: Stefano Fassina, Enrico Gasbarra, David Sassoli). La rissa esplode quando — proclamato segretario Fabio Melilli — la maggioranza del partito decide di eleggere presidente non Lorenza Bonaccorsi, renziana sconfitta da Melilli alle primarie, ma Liliana Mannocchi, nemmeno delegata però fedelissima di Marco Di Stefano, un deputato che nel Lazio controlla un mucchio di voti.
Calci e sputi (letteralmente). Due tessere centrano Melilli sul viso. Pernacchie, fischi, urla. Massimiliano Dolce, un delegato arrivato da Palestrina, crolla a terra, colpito da un principio di crisi epilettica.
Sirene di ambulanze, fotografi scatenati. E piccolo, gustoso retroscena politico: la cortesia a Marco Di Stefano sarebbe stato un gentile omaggio organizzato dal potente Goffredo Bettini che, in vista di una sua candidatura alla elezioni europee, già tesse alleanze.
«È una ignobile falsità!».
Sarà.
«Io non conosco neppure fisicamente certe persone! La verità è che se si affermassero certe mie idee, finirebbe la giostra dei patti tra cordate che purtroppo...».
Proprio lei, il potente Bettini che parla di cordate?
«Basta! Mi creda: questa storia del “potente” Bettini sta diventando un alibi per chi non vuole o non sa dirigere. Da anni, ormai, chi gestisce il partito mi tiene ai margini».
Comunque la sua candidatura alle Europee ha bisogno di voti. E quel Di Stefano ne porta in dote parecchi.
«Una mia candidatura è spinta da amplissimi settori del partito e della società civile. E se Di Stefano pure mi voterà, beh, lo vedremo solo nei prossimi mesi...».
Nei prossimi mesi sarà interessante anche verificare lo stato di salute dell’intero partito. A Modena, le consultazioni per scegliere il candidato sindaco sono degenerate nel volgere di due giorni. La seconda classificata, Francesca Maletti, ha presentato un esposto per denunciare l’irregolarità del voto degli stranieri nei seggi: qualcuno avrebbe fornito agli extracomunitari i due euro necessari per votare e ad un gruppo di filippini sarebbe addirittura stato offerto il pranzo. Commento di Matteo Richetti (comandante delle truppe renziane in Emilia-Romagna, gran frequentatore di talk show): «Irresponsabili».
È andata quasi peggio — «Siete inefficienti e inaffidabili» — ai capetti e caporali del Pd lucano in trasferta a Roma per chiedere a Lorenzo Guerini, il portavoce del partito, uno slittamento del congresso che, nei loro progetti, sarebbe stato utile a «ricompattare il partito». Un partito, sul territorio, non si ricompatta in poche settimane. In Campania, per fare un esempio, divisi erano e divisi sono rimasti. Sfiorando il 60% dei consensi, il nuovo segretario regionale è l’avvocato Assunta Tartaglione di anni 43, vicina a Matteo Renzi e, quindi, anche a Vincenzo De Luca, il sindaco di Salerno noto per avere un controllo delle tessere quasi militare: e stavano ancora lì, a votare, i militanti, quando Guglielmo Vaccaro, 47 anni, deputato di tempio lettiano, che sarà poi il primo degli sconfitti (al 27%), decise di barricarsi nella sede del partito, in via Giovanni Manzo. «Un voto ogni 26 secondi mi sembra un po’ troppo, no?».
Accadono cose strepitose nelle varie primarie del Pd, che poi — spesso — si perdono nelle pagine delle cronache locali.
Per dire: sapete cos’è accaduto in Sicilia? È accaduto che a capo della segreteria regionale hanno eletto Fausto Raciti, 30 anni, un ragusano determinato, cortese, battezzato in politica da D’Alema, fatto eleggere alla Camera da Bersani, appoggiato dai renziani di Faraone e sostenuto infine da chi? Da Mirello Crisafulli, l’ex senatore di Enna cacciato dalle liste del Pd perché ritenuto impresentabile e, addirittura — fare piccolo esercizio di memoria, prego — insultato dal palco della Leopolda, quando vennero ricordati i suoi presunti rapporti con un boss mafioso.
Dice Raciti, senza scomporsi: «Noi, temo, facciamo troppe primarie».
A Firenze, in effetti, per un po’ hanno pure pensato di non farle: per sostituire a Palazzo Vecchio il sindaco diventato premier poteva correre direttamente Dario Nardella. Poi hanno cambiato, saggiamente, idea. Le primarie si fanno, ma senza che a Nardella sia opposto il più temibile degli avversari: Eugenio Giani.
Giani ha rinunciato? No: Giani è stato chiamato a Roma, a Palazzo Chigi. Inventato, per lui, un incarico ad personam: consigliere per le Politiche dello sport.
Perché non è che poi le primarie debbano sempre finire in rissa.
Calci, sputi e denunce. La rissa democratica nel Pd
di Fabrizio Roncone
Nel territorio le battaglie sulle primarie: sospetti e file anomale di extracomunitari E sabato il caos all’assemblea del Lazio «E poi... Poi, Matteo, ci sarebbe... beh, sì, insomma: a Roma si sono menati», raccontavano ieri mattina a Matteo Renzi, che vuol essere sempre informato su tutto quando accade all’interno del suo partito, il Pd.
«Menati, scusa, come? E dove? Ma che dici?» (Renzi, tra stupore e fastidio).
«È successo all’assemblea regionale. Stavano ratificando la nomina del segretario, dopo le primarie. Poi hanno iniziato a litigare. Sembra che uno, poveretto, sia perfino finito all’ospedale».
Renzi, a quel punto, si è fatto spiegare meglio (come vedremo, le primarie del Partito democratico stanno seminando ovunque, in Italia, liti furiose e denunce alla magistratura).
A Roma la scena è particolarmente tragica. I protagonisti sono tutti personaggi minori, locali: ma se provate a non farvi condizionare dai loro cognomi sconosciuti, ciò che è accaduto vi apparirà assai grave, ed emblematico.
Sabato pomeriggio, centro congressi della Cgil, molti invitati eccellenti (il governatore del Lazio Nicola Zingaretti, il sindaco di Roma Ignazio Marino, più altri parlamentari di rango: Stefano Fassina, Enrico Gasbarra, David Sassoli). La rissa esplode quando — proclamato segretario Fabio Melilli — la maggioranza del partito decide di eleggere presidente non Lorenza Bonaccorsi, renziana sconfitta da Melilli alle primarie, ma Liliana Mannocchi, nemmeno delegata però fedelissima di Marco Di Stefano, un deputato che nel Lazio controlla un mucchio di voti.
Calci e sputi (letteralmente). Due tessere centrano Melilli sul viso. Pernacchie, fischi, urla. Massimiliano Dolce, un delegato arrivato da Palestrina, crolla a terra, colpito da un principio di crisi epilettica.
Sirene di ambulanze, fotografi scatenati. E piccolo, gustoso retroscena politico: la cortesia a Marco Di Stefano sarebbe stato un gentile omaggio organizzato dal potente Goffredo Bettini che, in vista di una sua candidatura alla elezioni europee, già tesse alleanze.
«È una ignobile falsità!».
Sarà.
«Io non conosco neppure fisicamente certe persone! La verità è che se si affermassero certe mie idee, finirebbe la giostra dei patti tra cordate che purtroppo...».
Proprio lei, il potente Bettini che parla di cordate?
«Basta! Mi creda: questa storia del “potente” Bettini sta diventando un alibi per chi non vuole o non sa dirigere. Da anni, ormai, chi gestisce il partito mi tiene ai margini».
Comunque la sua candidatura alle Europee ha bisogno di voti. E quel Di Stefano ne porta in dote parecchi.
«Una mia candidatura è spinta da amplissimi settori del partito e della società civile. E se Di Stefano pure mi voterà, beh, lo vedremo solo nei prossimi mesi...».
Nei prossimi mesi sarà interessante anche verificare lo stato di salute dell’intero partito. A Modena, le consultazioni per scegliere il candidato sindaco sono degenerate nel volgere di due giorni. La seconda classificata, Francesca Maletti, ha presentato un esposto per denunciare l’irregolarità del voto degli stranieri nei seggi: qualcuno avrebbe fornito agli extracomunitari i due euro necessari per votare e ad un gruppo di filippini sarebbe addirittura stato offerto il pranzo. Commento di Matteo Richetti (comandante delle truppe renziane in Emilia-Romagna, gran frequentatore di talk show): «Irresponsabili».
È andata quasi peggio — «Siete inefficienti e inaffidabili» — ai capetti e caporali del Pd lucano in trasferta a Roma per chiedere a Lorenzo Guerini, il portavoce del partito, uno slittamento del congresso che, nei loro progetti, sarebbe stato utile a «ricompattare il partito». Un partito, sul territorio, non si ricompatta in poche settimane. In Campania, per fare un esempio, divisi erano e divisi sono rimasti. Sfiorando il 60% dei consensi, il nuovo segretario regionale è l’avvocato Assunta Tartaglione di anni 43, vicina a Matteo Renzi e, quindi, anche a Vincenzo De Luca, il sindaco di Salerno noto per avere un controllo delle tessere quasi militare: e stavano ancora lì, a votare, i militanti, quando Guglielmo Vaccaro, 47 anni, deputato di tempio lettiano, che sarà poi il primo degli sconfitti (al 27%), decise di barricarsi nella sede del partito, in via Giovanni Manzo. «Un voto ogni 26 secondi mi sembra un po’ troppo, no?».
Accadono cose strepitose nelle varie primarie del Pd, che poi — spesso — si perdono nelle pagine delle cronache locali.
Per dire: sapete cos’è accaduto in Sicilia? È accaduto che a capo della segreteria regionale hanno eletto Fausto Raciti, 30 anni, un ragusano determinato, cortese, battezzato in politica da D’Alema, fatto eleggere alla Camera da Bersani, appoggiato dai renziani di Faraone e sostenuto infine da chi? Da Mirello Crisafulli, l’ex senatore di Enna cacciato dalle liste del Pd perché ritenuto impresentabile e, addirittura — fare piccolo esercizio di memoria, prego — insultato dal palco della Leopolda, quando vennero ricordati i suoi presunti rapporti con un boss mafioso.
Dice Raciti, senza scomporsi: «Noi, temo, facciamo troppe primarie».
A Firenze, in effetti, per un po’ hanno pure pensato di non farle: per sostituire a Palazzo Vecchio il sindaco diventato premier poteva correre direttamente Dario Nardella. Poi hanno cambiato, saggiamente, idea. Le primarie si fanno, ma senza che a Nardella sia opposto il più temibile degli avversari: Eugenio Giani.
Giani ha rinunciato? No: Giani è stato chiamato a Roma, a Palazzo Chigi. Inventato, per lui, un incarico ad personam: consigliere per le Politiche dello sport.
Perché non è che poi le primarie debbano sempre finire in rissa.
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Re: quo vadis PD ????
l’Unità 17.3.14
Bersani torna in tv: «Sosterrò Matteo con le mie idee»
di M. Ze
Inizia con un’ovazione il suo ritorno da Fabio Fazio a Che tempo che fa. «Son contento anche io di rivedervi», dice Pier Luigi Bersani, subito aggiungendo che a preoccuparlo di più, dopo la malattia, è stata la lettura della rassegna stampa, «ero più di là che di qua. Ringrazio tutti i giornali, di destra e di sinistra. Mi spiace però che dovrete rifarlo».
Oltre la politica c’è l’umanità, riflette, quella che ha toccato con mano anche da parte dei suoi avversari di sempre. Certo, la rete, il web, non sono stati teneri, «pieni di robacce», ma questo è un male che si cura da solo. Spetta alla politica, allora, «fare uno sforzo in più per trovare un modo combattivo ma rispettoso, ci sono avversari non nemici» dice pensando allo scontro frontale che per anni c’è stato tra il centrosinistra e il centrodestra di Silvio Berlusconi. Eppure non ci sta alla lettura di quel che gli è accaduto come una conseguenza delle fatiche e delle amarezze che proprio la politica gli ha riservato. «Posso smentirlo ». Perché alla fine, ragiona, il Pd, il suo Pd, è diventato un partito centrale, che non ha vinto le elezioni, ma «che su quelle basi adesso sta dando un governo di svolta e per come sono io questo è una soddisfazione» e se nessuno gli riconosce un po’ di merito, «non fa niente». Tutto bene? Per niente. «Vedo un rischio», aggiunge, delle «fragilità», anche per la «forma per cui si è passati da Letta a Renzi».Un passaggio quello che Bersani non ha condiviso - e torna a difender e il governo Letta per alcune delle misure decise e che oggi diventano operative con il governo Renzi - pur avendo detto ai suoi di non ostacolare Renzi nella famosa direzione in cui si decise il cambio di guardia. Quello che lo preoccupa ora è il rischio di personalizzazione del partito. La nuova generazione che sta irrompendo nel Pd, dice, «deve percepire che si immette in un’impresa collettiva», non può vivere il partito come un nastro trasportatore dove scorre tutto ciò che la società chiede. Deve esserci, per l’ex segretario una intenzione dietro un partito.
Sulla velocità e diversità di questo nuovo governo, di questo feeling tra Renzi e il Paese, Bersani ha valutazione positiva, «ci sta mettendo un atteggiamento sfidante», l’effetto «movida va bene », ma «significa anche alzare le aspettative ed è per questo che c’è bisogno dell’aiuto di tutti e io per quanto mi riguarda ce la metterò tutta». Se appoggerà Renzi? «Da me c’è da aspettarsi lealtà ma anche qualche opinione e consiglio», perché lo ripete qui dopo averlo già detto nei giorni scorsi a Montecitorio, «ho salvato il cervello per un pelo non posso consegnarlo così. Adesso bisogna che me lo tenga. Bisogna aspettarsi da me lealtà e fedeltà alla ditta ma anche qualche opinione e buon consiglio».
Nella maggioranza c’è chi sospetta proprio i bersaniani, in asse con i lettiani, di voler rallentare l’iter della riforma elettorale per cercare di incrinare il rapporto di Renzi con Berlusconi. Sospetti che Bersani respinge perché dal suo punto di vista l’Italicum ha diversi punti di criticità, a partire dalla mancata democrazia paritaria, «che ci vuole» perché non arriverà mai per gentile concessione dei segretari dei partiti. Critica anche il premio di maggioranza che un partito potrebbe assicurarsi grazie a partiti che però date le attuali soglie di sbarramento potrebbero restare fuori dal Parlamento. «Chi concorre al premio di maggioranza deve avere posto in Parlamento », dice. Altro punto da riguardare: la soglia dell’8% per un partito che si presenta da solo e «che non ha eguali in Europa ». Ribadisce il rispetto dei patti, ma «non è che Berlusconi può avere l’ultima parola».
Quanto al M5S, con cui aveva inutilmente cercato un punto di contatto durante le consultazioni post-elezioni, Bersani è convinto che «farà tutto da sé» nel perdere quei consensi clamorosi che lo hanno fatto balzare al 25% giusto un anno fa. «Hanno deciso di avere un atteggiamento autoreferenziale, fanno la loro battaglia, ma credo che ci sia un appannamento ».
il Fatto 17.3.14
Bersani pronto a dar guerra sull’Italicum
Il ritorno televisivo di Pier Luigi Bersani è da Fabio Fazio. L’ex segretario del Pd annuncia l’intenzione di dar battaglia sull’Italicum in più direzioni. La prima è quella della parità di genere. La seconda quelle delle liste bloccate, da evitare ad ogni costo. La terza sui partiti minori che pur contribuendo all’attribuizione di un premio di maggioranza di coalzione, se restano sotto la soglia del 4,5% non eleggono deputati. Infine lamenta la soglia dell’8% per il singolo partito candidato: “Esiste solo in Turchia una soglia così alta”,articola.Conclude:“Facciamola bene, prima di doverci pentire al primo giro elettorale”. Il signore sì che se ne intende.
Corriere 17.3.14
Bersani: ho le mie idee ma sono fedele alla ditta
Pier Luigi Bersani, intervistato a Che tempo che fa (foto Ansa) , ha ribadito il suo sostegno a Matteo Renzi, con qualche riserva. «Ho salvato il cervello per un pelo — ha commentato — non posso consegnarlo così. Bisogna aspettarsi da me lealtà e fedeltà alla ditta ma anche qualche opinione e buon consiglio». E ha aggiunto: «La partenza di Renzi è positiva, ci sta mettendo un atteggiamento sfidante e molto combattivo che ci vuole». L’ex segretario, accolto da una standing ovation del pubblico, resta invece critico sulla legge elettorale: «Non sono convinto: deve essere migliorata».
l’Unità 17.3.14
Mancata parità di genere Rimediamo alla sconfitta
di Valeria Fedeli
LA MANCATA MODIFICA ALL’ITALICUM IN MERITO ALLA PARITÀ DI GENERE È UNA SCONFITTA PER L’ITALIA. UNA SCONFITTA CHE MOSTRA PROVINCIALISMO E VISIONE MIOPE, assenza di coraggio e attitudine invece a un conservatorismo difensivo e lontano dagli interessi del Paese. Una sconfitta cui è necessario rimediare nel passaggio al Senato. Si può giudicare come si vuole il testo uscito dalla Camera. Ognuno ha legittimamente la propria opinione. Il punto politico oggi è quello di evitare di riaprire la discussione in generale. Sbaglia chi pensa che su soglie o preferenze ci siano margini di modifica. Chi ipotizza questo mostra eccessiva ingenuità o malafede, perché significherebbe far saltare l’accordo e affossare la riforma. Una riforma che invece è urgente per restituire efficacia e credibilità alle istituzioni, alla politica, al sistema Paese tutto. Non si faccia allora confusione, con l’obiettivo di ritornare a quella prassi di dibattito in cui tutto si mescola, tutto si ipotizza, tutto si somma, ma poi nulla si realizza. Inserire correzioni per garantire che la nuova legge elettorale sia effettivamente paritaria è il punto di modifica possibile nel passaggio della legge al Senato. E su questo si deve concentrare l’impegno del Pd nel costruire le condizioni politiche che rendano possibile l’intesa sulla parità di genere.
Si parte già dall’esistenza di un largo fronte di battaglia, che si è manifestato nel Paese e alla Camera, e che è stato sconfitto dal voto segreto, dalla pavidità di qualche deputato e dal maschilismo di molti. È un fronte trasversale, che unisce donne e uomini di tutte le forze politiche che hanno sostenuto l’accordo e approvato la legge. Un fronte che pur rispettando l’accordo, vuole migliorarlo in un elemento significativo che incide sulla qualità intrinseca della democrazia che vogliamo realizzare anche attraverso la legge elettorale. Vogliamo una democrazia paritaria non per un capriccio, ma perché è l’unico modo per cui davvero la nostra democrazia può accettare la sfida del cambiamento, governare le trasformazioni in atto nel Paese e nel mondo mettendo insieme le energie, le competenze e la forza di tutte e tutti.
La parità di genere non è una questione tecnica, di procedura normativa, ma una questione politica, culturale e strategica decisiva: di qualità della rappresentanza, della democrazia, della competitività e delle possibilità di rilancio dell’Italia. È una questione di valori, una questione che precede ogni riforma, e che deve essere prevista da ogni processo riformatore. Fin dal primo momento in cui si è iniziato concretamente a parlare della nuova legge elettorale, alla fine dello scorso anno, abbiamo detto - e iniziato a costruire un’alleanza larga - che, quale fosse il sistema alla fine scelto, avrebbe dovuto rispettare parità di candidature femminili e maschili e parità tra elette ed eletti. Non si tratta di quote, di un riequilibrio statistico, di un tema di parte, di una battaglia femminile. Una legge elettorale, effettivamente paritaria dal punto di vista di genere è un modo per rendere viva e attuata la nostra Costituzione (lavorando per la rimozione degli ostacoli all’uguaglianza - art.3 - e la promozione delle pari opportunità - art.51 -), un modo per scegliere l’innovazione culturale e di sistema, per dare forza e concretezza alle speranze di cambiamento. Le forze politiche che hanno sostenuto la riforma si comportino in modo responsabile e si assumano l’onore - perché di onore si tratta, non di un onere - di una scelta storica. Il Senato, che non è interessato dalla riforma, che vedrà cambiare la propria natura e funzioni, e che per l’ultima volta si esprimerà in materia di legge elettorale, ha la possibilità di intestarsi questa innovazione, un’innovazione che fa bene all’Italia. Un’innovazione che riguarda non solo la legge elettorale nazionale, ma anche quella per il rinnovo del Parlamento europeo, con il voto della settimana prossima sul ddl di cui sono prima firmataria per introdurre la doppia preferenza di genere. Una norma che va approvata, senza scaricare strumentalmente su di essa i malcontenti legati all’Italicum e invece facendo in modo che la legge sia attuata già dalle Europee di maggio.
Lo dico chiaramente, allora, a tutte e tutti, leader politici, senatori e senatrici, uomini e donne: sulla parità di genere ci giochiamo la credibilità nostra e delle istituzioni, la qualità del processo democratico e del rilancio del Paese, il futuro di tutte e tutti, a partire dalle ragazze e dai ragazzi che saranno cittadine e cittadine dell’Italia di domani. Pensiamo a loro quando dovremo votare, e non agli interessi di una parte politica o della parte sola maschile del Paese.
Bersani torna in tv: «Sosterrò Matteo con le mie idee»
di M. Ze
Inizia con un’ovazione il suo ritorno da Fabio Fazio a Che tempo che fa. «Son contento anche io di rivedervi», dice Pier Luigi Bersani, subito aggiungendo che a preoccuparlo di più, dopo la malattia, è stata la lettura della rassegna stampa, «ero più di là che di qua. Ringrazio tutti i giornali, di destra e di sinistra. Mi spiace però che dovrete rifarlo».
Oltre la politica c’è l’umanità, riflette, quella che ha toccato con mano anche da parte dei suoi avversari di sempre. Certo, la rete, il web, non sono stati teneri, «pieni di robacce», ma questo è un male che si cura da solo. Spetta alla politica, allora, «fare uno sforzo in più per trovare un modo combattivo ma rispettoso, ci sono avversari non nemici» dice pensando allo scontro frontale che per anni c’è stato tra il centrosinistra e il centrodestra di Silvio Berlusconi. Eppure non ci sta alla lettura di quel che gli è accaduto come una conseguenza delle fatiche e delle amarezze che proprio la politica gli ha riservato. «Posso smentirlo ». Perché alla fine, ragiona, il Pd, il suo Pd, è diventato un partito centrale, che non ha vinto le elezioni, ma «che su quelle basi adesso sta dando un governo di svolta e per come sono io questo è una soddisfazione» e se nessuno gli riconosce un po’ di merito, «non fa niente». Tutto bene? Per niente. «Vedo un rischio», aggiunge, delle «fragilità», anche per la «forma per cui si è passati da Letta a Renzi».Un passaggio quello che Bersani non ha condiviso - e torna a difender e il governo Letta per alcune delle misure decise e che oggi diventano operative con il governo Renzi - pur avendo detto ai suoi di non ostacolare Renzi nella famosa direzione in cui si decise il cambio di guardia. Quello che lo preoccupa ora è il rischio di personalizzazione del partito. La nuova generazione che sta irrompendo nel Pd, dice, «deve percepire che si immette in un’impresa collettiva», non può vivere il partito come un nastro trasportatore dove scorre tutto ciò che la società chiede. Deve esserci, per l’ex segretario una intenzione dietro un partito.
Sulla velocità e diversità di questo nuovo governo, di questo feeling tra Renzi e il Paese, Bersani ha valutazione positiva, «ci sta mettendo un atteggiamento sfidante», l’effetto «movida va bene », ma «significa anche alzare le aspettative ed è per questo che c’è bisogno dell’aiuto di tutti e io per quanto mi riguarda ce la metterò tutta». Se appoggerà Renzi? «Da me c’è da aspettarsi lealtà ma anche qualche opinione e consiglio», perché lo ripete qui dopo averlo già detto nei giorni scorsi a Montecitorio, «ho salvato il cervello per un pelo non posso consegnarlo così. Adesso bisogna che me lo tenga. Bisogna aspettarsi da me lealtà e fedeltà alla ditta ma anche qualche opinione e buon consiglio».
Nella maggioranza c’è chi sospetta proprio i bersaniani, in asse con i lettiani, di voler rallentare l’iter della riforma elettorale per cercare di incrinare il rapporto di Renzi con Berlusconi. Sospetti che Bersani respinge perché dal suo punto di vista l’Italicum ha diversi punti di criticità, a partire dalla mancata democrazia paritaria, «che ci vuole» perché non arriverà mai per gentile concessione dei segretari dei partiti. Critica anche il premio di maggioranza che un partito potrebbe assicurarsi grazie a partiti che però date le attuali soglie di sbarramento potrebbero restare fuori dal Parlamento. «Chi concorre al premio di maggioranza deve avere posto in Parlamento », dice. Altro punto da riguardare: la soglia dell’8% per un partito che si presenta da solo e «che non ha eguali in Europa ». Ribadisce il rispetto dei patti, ma «non è che Berlusconi può avere l’ultima parola».
Quanto al M5S, con cui aveva inutilmente cercato un punto di contatto durante le consultazioni post-elezioni, Bersani è convinto che «farà tutto da sé» nel perdere quei consensi clamorosi che lo hanno fatto balzare al 25% giusto un anno fa. «Hanno deciso di avere un atteggiamento autoreferenziale, fanno la loro battaglia, ma credo che ci sia un appannamento ».
il Fatto 17.3.14
Bersani pronto a dar guerra sull’Italicum
Il ritorno televisivo di Pier Luigi Bersani è da Fabio Fazio. L’ex segretario del Pd annuncia l’intenzione di dar battaglia sull’Italicum in più direzioni. La prima è quella della parità di genere. La seconda quelle delle liste bloccate, da evitare ad ogni costo. La terza sui partiti minori che pur contribuendo all’attribuizione di un premio di maggioranza di coalzione, se restano sotto la soglia del 4,5% non eleggono deputati. Infine lamenta la soglia dell’8% per il singolo partito candidato: “Esiste solo in Turchia una soglia così alta”,articola.Conclude:“Facciamola bene, prima di doverci pentire al primo giro elettorale”. Il signore sì che se ne intende.
Corriere 17.3.14
Bersani: ho le mie idee ma sono fedele alla ditta
Pier Luigi Bersani, intervistato a Che tempo che fa (foto Ansa) , ha ribadito il suo sostegno a Matteo Renzi, con qualche riserva. «Ho salvato il cervello per un pelo — ha commentato — non posso consegnarlo così. Bisogna aspettarsi da me lealtà e fedeltà alla ditta ma anche qualche opinione e buon consiglio». E ha aggiunto: «La partenza di Renzi è positiva, ci sta mettendo un atteggiamento sfidante e molto combattivo che ci vuole». L’ex segretario, accolto da una standing ovation del pubblico, resta invece critico sulla legge elettorale: «Non sono convinto: deve essere migliorata».
l’Unità 17.3.14
Mancata parità di genere Rimediamo alla sconfitta
di Valeria Fedeli
LA MANCATA MODIFICA ALL’ITALICUM IN MERITO ALLA PARITÀ DI GENERE È UNA SCONFITTA PER L’ITALIA. UNA SCONFITTA CHE MOSTRA PROVINCIALISMO E VISIONE MIOPE, assenza di coraggio e attitudine invece a un conservatorismo difensivo e lontano dagli interessi del Paese. Una sconfitta cui è necessario rimediare nel passaggio al Senato. Si può giudicare come si vuole il testo uscito dalla Camera. Ognuno ha legittimamente la propria opinione. Il punto politico oggi è quello di evitare di riaprire la discussione in generale. Sbaglia chi pensa che su soglie o preferenze ci siano margini di modifica. Chi ipotizza questo mostra eccessiva ingenuità o malafede, perché significherebbe far saltare l’accordo e affossare la riforma. Una riforma che invece è urgente per restituire efficacia e credibilità alle istituzioni, alla politica, al sistema Paese tutto. Non si faccia allora confusione, con l’obiettivo di ritornare a quella prassi di dibattito in cui tutto si mescola, tutto si ipotizza, tutto si somma, ma poi nulla si realizza. Inserire correzioni per garantire che la nuova legge elettorale sia effettivamente paritaria è il punto di modifica possibile nel passaggio della legge al Senato. E su questo si deve concentrare l’impegno del Pd nel costruire le condizioni politiche che rendano possibile l’intesa sulla parità di genere.
Si parte già dall’esistenza di un largo fronte di battaglia, che si è manifestato nel Paese e alla Camera, e che è stato sconfitto dal voto segreto, dalla pavidità di qualche deputato e dal maschilismo di molti. È un fronte trasversale, che unisce donne e uomini di tutte le forze politiche che hanno sostenuto l’accordo e approvato la legge. Un fronte che pur rispettando l’accordo, vuole migliorarlo in un elemento significativo che incide sulla qualità intrinseca della democrazia che vogliamo realizzare anche attraverso la legge elettorale. Vogliamo una democrazia paritaria non per un capriccio, ma perché è l’unico modo per cui davvero la nostra democrazia può accettare la sfida del cambiamento, governare le trasformazioni in atto nel Paese e nel mondo mettendo insieme le energie, le competenze e la forza di tutte e tutti.
La parità di genere non è una questione tecnica, di procedura normativa, ma una questione politica, culturale e strategica decisiva: di qualità della rappresentanza, della democrazia, della competitività e delle possibilità di rilancio dell’Italia. È una questione di valori, una questione che precede ogni riforma, e che deve essere prevista da ogni processo riformatore. Fin dal primo momento in cui si è iniziato concretamente a parlare della nuova legge elettorale, alla fine dello scorso anno, abbiamo detto - e iniziato a costruire un’alleanza larga - che, quale fosse il sistema alla fine scelto, avrebbe dovuto rispettare parità di candidature femminili e maschili e parità tra elette ed eletti. Non si tratta di quote, di un riequilibrio statistico, di un tema di parte, di una battaglia femminile. Una legge elettorale, effettivamente paritaria dal punto di vista di genere è un modo per rendere viva e attuata la nostra Costituzione (lavorando per la rimozione degli ostacoli all’uguaglianza - art.3 - e la promozione delle pari opportunità - art.51 -), un modo per scegliere l’innovazione culturale e di sistema, per dare forza e concretezza alle speranze di cambiamento. Le forze politiche che hanno sostenuto la riforma si comportino in modo responsabile e si assumano l’onore - perché di onore si tratta, non di un onere - di una scelta storica. Il Senato, che non è interessato dalla riforma, che vedrà cambiare la propria natura e funzioni, e che per l’ultima volta si esprimerà in materia di legge elettorale, ha la possibilità di intestarsi questa innovazione, un’innovazione che fa bene all’Italia. Un’innovazione che riguarda non solo la legge elettorale nazionale, ma anche quella per il rinnovo del Parlamento europeo, con il voto della settimana prossima sul ddl di cui sono prima firmataria per introdurre la doppia preferenza di genere. Una norma che va approvata, senza scaricare strumentalmente su di essa i malcontenti legati all’Italicum e invece facendo in modo che la legge sia attuata già dalle Europee di maggio.
Lo dico chiaramente, allora, a tutte e tutti, leader politici, senatori e senatrici, uomini e donne: sulla parità di genere ci giochiamo la credibilità nostra e delle istituzioni, la qualità del processo democratico e del rilancio del Paese, il futuro di tutte e tutti, a partire dalle ragazze e dai ragazzi che saranno cittadine e cittadine dell’Italia di domani. Pensiamo a loro quando dovremo votare, e non agli interessi di una parte politica o della parte sola maschile del Paese.
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Re: quo vadis PD ????
http://www.youtube.com/watch?v=S83osV132JQ
13/6/2013 Sibilia-Di Battista ai tg: "Corruzione Eni Fassina impotente
Ciao
Paolo11
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Paolo11
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Re: quo vadis PD ????
http://www.youtube.com/watch?v=l7iu_9yr ... ploademail
Assemblea M5S Senato - 17/03/2014
Ciao
Paolo11
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