La stagione dei morti viventi e il nipote del Conte Mascetti
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La stagione dei morti viventi e il nipote del Conte Mascetti
13 APR 2014 18:25
MAI DIRE PD! - I ROTTAMATI PIDDINI NON ASPETTANO NEANCHE IL DOPO EUROPEE PER APRIRE LE OSTILITÀ CONTRO RENZACCIO, MA L’ASSEMBLEA ROMANA DIVENTA UN’ADUNATA DI REDUCI IN CERCA DI POLTRONE (DENTRO AL PARTITO)
D’Alema parla di un partito moribondo, ma i sondaggi lo danno al massimo storico. Il cavallo di battaglia dei dalemian-bersaniani: rifare il tesseramento… Il vecchio Pd pronto a divorare il suo quinto segretario in sei anni, ma il potere (e il consenso) accumulato da Renzi non è quello di un Epifani qualunque…
1. IL RITORNO DELLA DOPPIA SINISTRA
Federico Geremicca per "La Stampa"
A Torino, Renzi, ad aprire la campagna elettorale europea con le sue cinque capolista; a Roma, gli ultimi due segretari, Bersani ed Epifani (più D'Alema e altri dirigenti di prima fila) che riaprono le ostilità nei confronti del premier-segretario. Facile parlare dell'esistenza di «due Pd»: e non c'è nulla di scandaloso, in democrazia, che una maggioranza debba fare i conti con una minoranza che si oppone.
Più sorprendenti, invece - e per certi versi preoccupanti - tempi e contenuti del riesplodere della polemica. Il nuovo scontro, che naturalmente ha motivazioni «ufficiose» assai concrete - e che riguardano il potere che Matteo Renzi sta via via accumulando fuori e dentro il Pd - ieri si è ufficialmente giocato sulla dicotomia destra/sinistra, categorie politiche che vanno perdendo - e ce ne si può perfino rammaricare - senso e importanza per un numero crescente di cittadini.
«Le norme sbagliate della destra non diventano giuste se a proporle siamo noi», ha accusato da Roma Cuperlo; «La sinistra che non cambia, diventa destra», ha replicato Renzi da Torino. E a metterla così, è chiaro che si tratta di una discussione che difficilmente farà fare un solo passo avanti tanto al Pd quanto al Paese: che di rimettersi in moto, invece, ha un disperato bisogno.
Ma tale discussione, per quanto ammantata da richiami ideologici, in realtà conferma il perdurare (e anzi il crescere) di un vero e proprio rigetto del fenomeno-Renzi da parte dei settori più tradizionali - appunto - della sinistra italiana.
Infatti, non sono stati solo i suoi amici di partito, ieri, a mettere nel mirino il presidente del Consiglio, sul cui capo è caduto di tutto: dalle ironie di Susanna Camusso («Ci sono giovani che rappresentano abbastanza poco, anche se sono in posti chiave») alla definitiva scomunica comminata da Stefano Rodotà: «Il nostro sistema politico è segnato da tre populismi diversi tra loro: quello di Berlusconi, quello di Grillo e il nuovo populismo di Renzi».
Il segretario-premier, insomma, sembra esser considerato sempre più un «corpo estraneo» rispetto alle tradizioni (recenti) del Pd, e più ancora a quelle dei partiti che lo hanno incubato: il suo modo di fare, una evidente insofferenza al confronto ed una sorta di indifferenza rispetto a quanto è stato fino ad oggi solitamente considerato «di sinistra» (e, al contrario, «di destra») non vanno giù, e questo è comprensibile.
Ciò che appare meno condivisibile, però, è la contestazione di concreti elementi di verità, la cui sottovalutazione si fatica a intendere, se non alla luce - appunto - della forte polemica politica in corso. In questo senso si può citare l'intervento svolto ieri da Massimo D'Alema - solitamente freddo nell'analisi - tornato a parlare di cose italiane all'assemblea della minoranza democratica.
«Il Pd - ha spiegato - vive un processo di impoverimento che può prendere una piega drammatica. Questo partito non lo possiamo lasciar morire, lo dobbiamo far funzionare noi, dobbiamo aprire i circoli e fare il tesseramento...». Si tratta di una fotografia catastrofica dello stato di salute del Pd, accompagnata da un richiamo all'antico, alla tradizione.
Ma è una fotografia che non corrisponde alla realtà delle cose, se è vero che ogni sondaggio - in vista delle europee - attribuisce al Partito di D'Alema percentuali superiori a ogni più recente tornata elettorale, e vicine ai consensi-record raccolti da Veltroni nelle elezioni politiche del 2008.
Il punto, dunque, sarebbe forse interrogarsi sul come e sul perché è stato ed è possibile che un «giovane populista» (per mettere assieme le accuse di Epifani e Rodotà) abbia nel giro di due mesi - dicembre 2013, febbraio 2014 - conquistato il più importante partito italiano, prima, e addirittura la guida del governo, poi.
C'è qualcuno che ha sbagliato qualcosa? C'è qualcun altro che non ha inteso l'altissimo livello di insofferenza diffuso tra i cittadini-elettori del Paese? La riflessione della minoranza Pd dovrebbe dunque partire da qui, piuttosto che adagiarsi su schemi di comodo.
E dovrebbe esser avviata - per il Bene Superiore del Partito, che pure viene così invocato - forse non giusto a ridosso di una importante (forse decisiva) sfida elettorale come quella di maggio. A meno che, naturalmente, non si intenda con tali polemiche segnalare a iscritti e simpatizzanti che nulla è cambiato, e che il Pd è pronto - appena ne avrà l'occasione - a divorare il suo quinto segretario in sei anni. Faccenda con la quale, lo si riconoscerà, la dicotomia destra/sinistra non c'entra un bel niente...
2. L'ASSEMBLEA DEI REDUCI PD
Mattia Feltri per "La Stampa"
Dove andare non è soltanto un problema politico. Livia Turco per esempio va nella direzione opposta, nel senso che si lascia alle spalle il teatro Ghione, dove si riunisce la minoranza Pd. Si è persa? Si è scocciata? Sono entrambe posizioni ideologicamente comprensibili se un uomo delizioso come Staino, storico vignettista dell'Unità, è alla caparbia ricerca della terza via: «Sono qui perché Cuperlo mi ha precettato sul piano dell'affetto».
Però, dice, non mi piace né il nuovismo renziano né questo reducismo. La piantina politico-sentimentale del Pd è fitta di alternative: Francesco Boccia è qui come invitato ma non parla perché deve andare in Puglia; Goffredo Bettini è qui ma non aderisce, ha semplicemente delle cose da dire.
In ossequio alla cronaca servono dettagli: ore 10,30, Roma, zona San Pietro, teatro Ghione, in perfetta coincidenza con l'apertura torinese della campagna elettorale renziana, Gianni Cuperlo, Massimo D'Alema, Pierluigi Bersani, più Stefano Fassina, Barbara Pollastrini e un paio di altre centinaia di persone si riuniscono per indicare la strada giusta. E quindi: la sovrapposizione degli eventi non ha intenzioni ostili, «siamo idealmente a Torino», dicono tutti e lo dice per primo Roberto Gualtieri candidato alle Europee.
Casualità. Anzi, l'iniziativa di Cuperlo era stata organizzata prima e, al limite, come dice D'Alema, doveva essere Matteo Renzi a cambiare data. Però non perdiamo il filo: siamo qui ma siamo anche a Torino. E, osserva Cuperlo appena salito sul palco, siamo qui ma non stiamo celebrando la coda del congresso.
Anzi, siamo renziani ma non renziani nel modo in cui intende Renzi. Cioè: «Aiuteremo le riforme, sono decisive per il Paese, ma dobbiamo farlo rivendicando principi e merito delle scelte». Durante tutto questo tempo, D'Alema meriterebbe una telecamera dedicata: strabuzza gli occhi, aggrotta la fronte, gonfia le guance, si infila una penna in bocca che stringe fra i denti come il coltello di Tarzan.
Non che disapprovi, ma chissà se si riconosce nella stravagante parabola cuperliana dell'aquila dal becco e dagli artigli deboli che, dunque, si sbriciola il becco medesimo contro una roccia affinché ricresca più forte e, quando sarà ricresciuto, si strapperà gli artigli di modo che anche quelli tornino robusti e, insomma, l'aquila sarebbero proprio Cuperlo e gli altri. Vabbè.
Però la poetica dell'ex sfidante di Renzi - secondo cui «bisogna smettere di essere minoranza e diventare pensiero» - trova compimento nella splendida concretezza di D'Alema: «Forse la minoranza non deve tanto aspirare a diventare pensiero quanto maggioranza, diciamo». Puro buon senso, ma come? Qui la rotta appare già più incerta perché - confermato che anche a D'Alema le riforme garbano, ma non gli garbano a questa maniera, né quella elettorale né quella del Senato - l'ex presidente del Consiglio esprime il suo sdegno a proposito del «processo di destrutturazione e impoverimento del partito».
Non fanno più nemmeno il tesseramento, dice. E allora facciamolo noi il tesseramento, aggiunge. E avrà senz'altro ragione, D'Alema, ma non saremmo sicurissimi che si tratti di temi vincenti con un avversario come Renzi.
E nemmeno che lo sia l'adorabile prosa della sindacalista Carla Cantone, incaricata di ricordare i bei tempi della concertazione e dei partiti collettivi anziché personali. E allora dove si deve andare? Perché degli ottanta euro sono contenti, ma non è tutto lì. Perché la riduzione degli stipendi dei manager è ineccepibile, ma serve ben altro.
Perché, come dice il più applaudito di tutti, Pierluigi Bersani, anche la politica deve «stringere la cinghia ma non è accettabile cancellare il finanziamento pubblico alle attività politiche». Dove andare se alla fine rimane un senso di vaghezza, come davanti ai cartelli che indicano "tutte le direzioni"?
MAI DIRE PD! - I ROTTAMATI PIDDINI NON ASPETTANO NEANCHE IL DOPO EUROPEE PER APRIRE LE OSTILITÀ CONTRO RENZACCIO, MA L’ASSEMBLEA ROMANA DIVENTA UN’ADUNATA DI REDUCI IN CERCA DI POLTRONE (DENTRO AL PARTITO)
D’Alema parla di un partito moribondo, ma i sondaggi lo danno al massimo storico. Il cavallo di battaglia dei dalemian-bersaniani: rifare il tesseramento… Il vecchio Pd pronto a divorare il suo quinto segretario in sei anni, ma il potere (e il consenso) accumulato da Renzi non è quello di un Epifani qualunque…
1. IL RITORNO DELLA DOPPIA SINISTRA
Federico Geremicca per "La Stampa"
A Torino, Renzi, ad aprire la campagna elettorale europea con le sue cinque capolista; a Roma, gli ultimi due segretari, Bersani ed Epifani (più D'Alema e altri dirigenti di prima fila) che riaprono le ostilità nei confronti del premier-segretario. Facile parlare dell'esistenza di «due Pd»: e non c'è nulla di scandaloso, in democrazia, che una maggioranza debba fare i conti con una minoranza che si oppone.
Più sorprendenti, invece - e per certi versi preoccupanti - tempi e contenuti del riesplodere della polemica. Il nuovo scontro, che naturalmente ha motivazioni «ufficiose» assai concrete - e che riguardano il potere che Matteo Renzi sta via via accumulando fuori e dentro il Pd - ieri si è ufficialmente giocato sulla dicotomia destra/sinistra, categorie politiche che vanno perdendo - e ce ne si può perfino rammaricare - senso e importanza per un numero crescente di cittadini.
«Le norme sbagliate della destra non diventano giuste se a proporle siamo noi», ha accusato da Roma Cuperlo; «La sinistra che non cambia, diventa destra», ha replicato Renzi da Torino. E a metterla così, è chiaro che si tratta di una discussione che difficilmente farà fare un solo passo avanti tanto al Pd quanto al Paese: che di rimettersi in moto, invece, ha un disperato bisogno.
Ma tale discussione, per quanto ammantata da richiami ideologici, in realtà conferma il perdurare (e anzi il crescere) di un vero e proprio rigetto del fenomeno-Renzi da parte dei settori più tradizionali - appunto - della sinistra italiana.
Infatti, non sono stati solo i suoi amici di partito, ieri, a mettere nel mirino il presidente del Consiglio, sul cui capo è caduto di tutto: dalle ironie di Susanna Camusso («Ci sono giovani che rappresentano abbastanza poco, anche se sono in posti chiave») alla definitiva scomunica comminata da Stefano Rodotà: «Il nostro sistema politico è segnato da tre populismi diversi tra loro: quello di Berlusconi, quello di Grillo e il nuovo populismo di Renzi».
Il segretario-premier, insomma, sembra esser considerato sempre più un «corpo estraneo» rispetto alle tradizioni (recenti) del Pd, e più ancora a quelle dei partiti che lo hanno incubato: il suo modo di fare, una evidente insofferenza al confronto ed una sorta di indifferenza rispetto a quanto è stato fino ad oggi solitamente considerato «di sinistra» (e, al contrario, «di destra») non vanno giù, e questo è comprensibile.
Ciò che appare meno condivisibile, però, è la contestazione di concreti elementi di verità, la cui sottovalutazione si fatica a intendere, se non alla luce - appunto - della forte polemica politica in corso. In questo senso si può citare l'intervento svolto ieri da Massimo D'Alema - solitamente freddo nell'analisi - tornato a parlare di cose italiane all'assemblea della minoranza democratica.
«Il Pd - ha spiegato - vive un processo di impoverimento che può prendere una piega drammatica. Questo partito non lo possiamo lasciar morire, lo dobbiamo far funzionare noi, dobbiamo aprire i circoli e fare il tesseramento...». Si tratta di una fotografia catastrofica dello stato di salute del Pd, accompagnata da un richiamo all'antico, alla tradizione.
Ma è una fotografia che non corrisponde alla realtà delle cose, se è vero che ogni sondaggio - in vista delle europee - attribuisce al Partito di D'Alema percentuali superiori a ogni più recente tornata elettorale, e vicine ai consensi-record raccolti da Veltroni nelle elezioni politiche del 2008.
Il punto, dunque, sarebbe forse interrogarsi sul come e sul perché è stato ed è possibile che un «giovane populista» (per mettere assieme le accuse di Epifani e Rodotà) abbia nel giro di due mesi - dicembre 2013, febbraio 2014 - conquistato il più importante partito italiano, prima, e addirittura la guida del governo, poi.
C'è qualcuno che ha sbagliato qualcosa? C'è qualcun altro che non ha inteso l'altissimo livello di insofferenza diffuso tra i cittadini-elettori del Paese? La riflessione della minoranza Pd dovrebbe dunque partire da qui, piuttosto che adagiarsi su schemi di comodo.
E dovrebbe esser avviata - per il Bene Superiore del Partito, che pure viene così invocato - forse non giusto a ridosso di una importante (forse decisiva) sfida elettorale come quella di maggio. A meno che, naturalmente, non si intenda con tali polemiche segnalare a iscritti e simpatizzanti che nulla è cambiato, e che il Pd è pronto - appena ne avrà l'occasione - a divorare il suo quinto segretario in sei anni. Faccenda con la quale, lo si riconoscerà, la dicotomia destra/sinistra non c'entra un bel niente...
2. L'ASSEMBLEA DEI REDUCI PD
Mattia Feltri per "La Stampa"
Dove andare non è soltanto un problema politico. Livia Turco per esempio va nella direzione opposta, nel senso che si lascia alle spalle il teatro Ghione, dove si riunisce la minoranza Pd. Si è persa? Si è scocciata? Sono entrambe posizioni ideologicamente comprensibili se un uomo delizioso come Staino, storico vignettista dell'Unità, è alla caparbia ricerca della terza via: «Sono qui perché Cuperlo mi ha precettato sul piano dell'affetto».
Però, dice, non mi piace né il nuovismo renziano né questo reducismo. La piantina politico-sentimentale del Pd è fitta di alternative: Francesco Boccia è qui come invitato ma non parla perché deve andare in Puglia; Goffredo Bettini è qui ma non aderisce, ha semplicemente delle cose da dire.
In ossequio alla cronaca servono dettagli: ore 10,30, Roma, zona San Pietro, teatro Ghione, in perfetta coincidenza con l'apertura torinese della campagna elettorale renziana, Gianni Cuperlo, Massimo D'Alema, Pierluigi Bersani, più Stefano Fassina, Barbara Pollastrini e un paio di altre centinaia di persone si riuniscono per indicare la strada giusta. E quindi: la sovrapposizione degli eventi non ha intenzioni ostili, «siamo idealmente a Torino», dicono tutti e lo dice per primo Roberto Gualtieri candidato alle Europee.
Casualità. Anzi, l'iniziativa di Cuperlo era stata organizzata prima e, al limite, come dice D'Alema, doveva essere Matteo Renzi a cambiare data. Però non perdiamo il filo: siamo qui ma siamo anche a Torino. E, osserva Cuperlo appena salito sul palco, siamo qui ma non stiamo celebrando la coda del congresso.
Anzi, siamo renziani ma non renziani nel modo in cui intende Renzi. Cioè: «Aiuteremo le riforme, sono decisive per il Paese, ma dobbiamo farlo rivendicando principi e merito delle scelte». Durante tutto questo tempo, D'Alema meriterebbe una telecamera dedicata: strabuzza gli occhi, aggrotta la fronte, gonfia le guance, si infila una penna in bocca che stringe fra i denti come il coltello di Tarzan.
Non che disapprovi, ma chissà se si riconosce nella stravagante parabola cuperliana dell'aquila dal becco e dagli artigli deboli che, dunque, si sbriciola il becco medesimo contro una roccia affinché ricresca più forte e, quando sarà ricresciuto, si strapperà gli artigli di modo che anche quelli tornino robusti e, insomma, l'aquila sarebbero proprio Cuperlo e gli altri. Vabbè.
Però la poetica dell'ex sfidante di Renzi - secondo cui «bisogna smettere di essere minoranza e diventare pensiero» - trova compimento nella splendida concretezza di D'Alema: «Forse la minoranza non deve tanto aspirare a diventare pensiero quanto maggioranza, diciamo». Puro buon senso, ma come? Qui la rotta appare già più incerta perché - confermato che anche a D'Alema le riforme garbano, ma non gli garbano a questa maniera, né quella elettorale né quella del Senato - l'ex presidente del Consiglio esprime il suo sdegno a proposito del «processo di destrutturazione e impoverimento del partito».
Non fanno più nemmeno il tesseramento, dice. E allora facciamolo noi il tesseramento, aggiunge. E avrà senz'altro ragione, D'Alema, ma non saremmo sicurissimi che si tratti di temi vincenti con un avversario come Renzi.
E nemmeno che lo sia l'adorabile prosa della sindacalista Carla Cantone, incaricata di ricordare i bei tempi della concertazione e dei partiti collettivi anziché personali. E allora dove si deve andare? Perché degli ottanta euro sono contenti, ma non è tutto lì. Perché la riduzione degli stipendi dei manager è ineccepibile, ma serve ben altro.
Perché, come dice il più applaudito di tutti, Pierluigi Bersani, anche la politica deve «stringere la cinghia ma non è accettabile cancellare il finanziamento pubblico alle attività politiche». Dove andare se alla fine rimane un senso di vaghezza, come davanti ai cartelli che indicano "tutte le direzioni"?
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Re: La stagione dei morti viventi e il nipote del Conte Masc
13 APR 2014 13:10
AVVISATE RENZI CHE L’ITALICUM È MORTO - D’ALEMA E BERSANI TORNANO UNITI DOPO IL GRANDE GELO: IL SENATO LO FACCIAMO PASSARE, LA “LEGGE DI VERDINI” NO – STAINO: “NON RIESCO PIÙ A SOPPORTARE IL VECCHIO MASSIMO”
C’è stata una sola vera novità politica nella giornata democratica di ieri: dopo lungo guerra interna iniziata da anni e culminata nel cortocircuito sul Quirinale del dopo-elezioni, Bersani e D’Alema si sono ritrovati per la prima volta insieme nella trincea anti-Renzi…
1. L'ITALICUM È MORTO MA RENZI NON LO SA
Marco Palombi per Il Fatto
C'è stata una sola vera novità politica nella giornata democratica di ieri: dopo lungo guerra interna iniziata da anni e culminata nel cortocircuito sul Quirinale del dopo-elezioni, Pier Luigi Bersani e Massimo D'Alema si sono ritrovati per la prima volta insieme nella trincea anti-Renzi. Lo hanno fatto in quella sorta di riunione dei reduci e combattenti che è stato il convegno dalla minoranza Pd al teatro Ghione di Roma, svoltasi proprio mentre Matteo Renzi inaugurava la campagna per le europee a Torino.
Poco carino, per carità, ma d'altronde il premier non era stato molto carino coi due ex capi partito: Renzi, per dire, ha già spaccato la minoranza Pd prendendo con sé un bel pezzo dei quarantenni che sui giornali vengono ancora chiamati bersaniani o dalemiani. I ministri Andrea Orlando e Maurizio Martina, ad esempio, e altri come il capogruppo alla Camera Roberto Speranza o l'ex responsabile organizzazione del Pd Davide Zoggia (non a caso ieri tutti presenti a Torino).
Il risultato è che l'Italicum così come lo conosciamo è morto. Alla fine verrà cambiato perché i numeri sono sempre numeri, specialmente quelli del gruppo democratico in Senato, e perché il ridimensionamento di Silvio Berlusconi porta con sé anche il ridimensionamento dell'accordo del Nazareno. "C'è una maggioranza di governo che si va allargando - spiega un dirigente del Pd - e non si può non tenerne conto mentre si fanno le riforme istituzionali".
Il duo Bersani-D'Alema, al di là dei toni duri che ora vedremo, offre a Matteo Renzi una via d'uscita politica: passi pure il Senato non elettivo, ma la legge elettorale ipermaggioritaria no. Le critiche di Bersani, in particolare, riecheggiano quelle dei "professoroni" sbertucciati dal premier (una la intervistiamo qui accanto): "Ora c'è una legge elettorale per una sola Camera con un megapremio di maggioranza per cui chi vince col 52% si può nominare il presidente della Repubblica, la Consulta e tutti gli assetti istituzionali del Paese.
Questo da parte di un Parlamento formato essenzialmente da ‘abbastanza nominati'. Poi ci sono delle primarie non regolamentate per plebiscitare il nominante universale". Conseguenza: "Dobbiamo batterci per consentire alla gente di scegliere gli eletti". La butta sul romantico, Bersani, parla della sinistra italiana, se ne intesta la storia, la concede in ostensione ai presenti, reclama quella che Berlusconi chiamerebbe "agibilità politica" dentro il Pd per il presente e per il passato: "
D'Alema è più pragmatico, cosa che è insieme il suo pregio e la sua dannazione. Si concentra sul partito, sull'organizzazione, sulle tessere: "Noi siamo una parte grande della militanza e questa forza deve attivarsi. Il Pd dobbiamo farlo funzionare noi, dobbiamo lavorare per il tesseramento del Pd anche se le tessere non si stampano più. Noi nelle sezioni, nei circoli ci siamo, vediamo se ci stanno anche loro".
Il partito, scandisce il fu leader Maximo, appassisce, sta morendo: "Il Pd sta diventando un comitato elettorale del leader, un partito radicato nelle istituzioni e ‘servente'. Ma il partito delle primarie senza il partito che cosa è, cosa diventa?". Stilettata finale: "C'è il rischio di un mutamento qualitativo del sistema democratico". Pure sull'Italicum si riversa il veleno di Massimo D'Alema: "Nessuno toglierà al premier il merito di aver rimesso in moto questo processo riformatore, anche se la legge elettorale verrà fuori un po' meglio di come è nata.
L'ha scritta Verdini, non veniva fuori da un circolo di riformatori illuminati, e serviva a tenere la destra ancorata a Berlusconi". La cosa strana di questo attacco così duro è che nel Pd si dà per scontato che D'Alema abbia già l'accordo con Renzi sulla sua nomina a commissario Ue: "Sì, ma non si fida - spiega una fonte di minoranza - È convinto che non avrà niente se non tratta da posizioni di forza".
Matteo Renzi, dal canto suo, sembra non aver capito che la situazione sta rapidamente cambiando. Ieri a Torino per lanciare la campagna per le europee e per le regionali in Piemonte ha lavorato la folla col solito atteggiamento da velocista: "Nei prossimi mesi non perdiamo tempo a litigare tra noi, c'è tanto da fare, dobbiamo andare pancia a terra per cambiare l'Italia. La sinistra che non cambia diventa destra".
I suoi fedelissimi la buttano sull'indice di gradimento: "Ma che volete? Nei sondaggi siamo al 33,9%, un livello mai toccato", si irrita Federico Gelli. Il compito di rispondergli è toccato a Gianni Cuperlo, benedetto ieri coram populo dal duo Bersani-D'Alema leader unico della minoranza: "Una cosa di destra non diventa di sinistra perché la proponiamo noi". Chiosa di Bersani: "Calma, ci vuole lo stesso tempo a fare le cose giuste e quelle sbagliate".
2. "NON RIESCO PIÙ A SOPPORTARE IL VECCHIO MASSIMO"
g. d. m. per La Repubblica
«Non lo sopporto più». Appena D'Alema comincia a parlare Sergio Staino, l'inventore di Bobo, il fondatore di Tango che "Massimo" lo ha disegnato centinaia di volte nelle sue vignette satiriche, si alza e svicola verso l'uscita. Un gesto voluto. «Doveva essere un'assemblea di giovani, irrequieti e incazzati. Oppure, seguendo la bussola del bellissimo discorso di Cuperlo, un luogo per sviluppare il pensiero di una nuova sinistra. Invece salgono sul palco ancora loro. D'Alema, Bersani, quella della Cgil Carla Cantone, pure simpatica ma si capisce che ha imparato a prendere applausi alla scuola Pci. Così è diventato l'appuntamento dei reduci sconfitti ».
È Cuperlo ad averlo organizzato in questo modo.
«Lo so. Non riesce a lasciarli andare. Ne avessero azzeccata una. Ma non mollano.
Mettono il cappello su ogni cosa. Lo dico con affetto, gli abbiamo voluto bene. Adesso basta, però. Gianni potrebbe viaggiare solo, ha testa e idee per disegnare una nuova rotta. Eppure non resiste al richiamo dei vecchi dirigenti. Sa quanto ha preso Cuperlo a Firenze nelle primarie? L'11 per cento. Zero, una miseria».
Che è successo?
«Era circondato dai dalemiani, sempre gli stessi. La gente li ha visti, li ha riconosciuti. Allora, tra le solite facce e Renzi che mescola tutto, ha scelto Renzi. Almeno col rimescolamento si apre una speranza».
A Bobo non garba Renzi, ma si trova a disagio anche con la minoranza.
«Ero venuto per sentire Cuperlo. Poi arriva D'Alema e dice all'apparato che il pensiero non serve, che bisogna tornare a essere maggioranza. Ha rovinato tutto».
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Re: La stagione dei morti viventi e il nipote del Conte Masc
POLITICA
12/04/2014
“Il Pd non è comitato elettorale di Renzi”
D’Alema torna all’attacco del premier
Il leader storico frena il segretario: «Il partito è una risorsa, non un peso»
E sprona la minoranza: dobbiamo diventare la prossima maggioranza
“Meno male che ci sono tanti oratori giovani, perché il percorso per salire sul palco è un po’ difficile…”. È l’una del pomeriggio quando Massimo D’Alema fa il suo intervento al Teatro Ghione di Roma, lì dove Gianni Cuperlo ha tentato di riunire tutta la minoranza del Pd. In prima fila ci sono gli ex segretari Bersani ed Epifani, c’è il grande vecchio Alfredo Reichlin, l’ex viceministro Stefano Fassina, l’ex ministro Barbara Pollastrini, il candidato alle Europee Goffredo Bettini.
E c’è l’ex premier D’Alema: perché fare proprio oggi una convention, oggi che a Torino il segretario apre la campagna elettorale? Sorride accanto a lui il lettiano Francesco Boccia, mostrando la mail di invito datata 22 marzo, “questa manifestazione è stata organizzata molto prima che venisse scelta la stessa data, alla stessa ora, per aprire la campagna elettorale”, risponde D’Alema. Forse allora sarebbe stato opportuno che Renzi scegliesse un’altra data? “Certo”.
Ma le parole più critiche verso il segretario-premier le pronuncia poco dopo, dal palco, sulla gestione del partito. Perché il “punto debole della visione dell’attuale maggioranza del Pd è considerare il partito più un peso, un ostacolo, che non una straordinaria risorsa”, è “l’idea di partito-comitato elettorale del leader, di partito servente”.
Tanto che, denuncia, “c’è oggi in atto un processo di impoverimento che può prendere una piega drammatica”. E allora, sprona la minoranza che lo ascolta con attenzione, “questo partito noi non lo possiamo lasciare morire e spegnere, non possiamo accettare che diventi altra cosa”, usa parole che provocheranno reazioni piccate di qualche renziano, per cui la sfida della minoranza è “lanciare una sfida alla maggioranza”. Apriamo le sedi, stampiamo le tessere del Pd, invoca. “Noi ci siamo, speriamo ci siano anche loro”.
Una minoranza che, corregge bonariamente Cuperlo, deve aspirare a diventare maggioranza: (“Dobbiamo essere non una minoranza, ma un pensiero su questo Paese”, aveva detto lo sfidante alle primarie di Renzi) “siamo minoranza che deve aspirare a diventare maggioranza – ricorda D’Alema - Un fine dal quale non ci si deve fare assillare, considero essere minoranza un accidente e non sostanza”. A lui, ricorda, “non è capitato spesso”, ma certo, lancia una stilettata a chi è salito sul carro del vincitore a costo di rivedere le proprie convinzioni, “è troppo facile diventare maggioranza col pensiero degli altri: qualcuno lo ha fatto”.
Ora, questa minoranza riunita, che, ricorda, ha avuto il 18% al congresso ma molto di più, “circa la metà” nel voto tra gli iscritti, non deve tenere “un atteggiamento rancoroso”, né “un atteggiamento ‘sì, ma’, di resistenza: non dobbiamo dare la sensazione che siamo un segmento del mondo della conservazione come piace a Renzi descrivere tutti quelli che non sono d’accordo con lui”. La posizione non deve essere contro le riforme, anzi: “Di più e meglio”. Meglio sulla legge elettorale, “il Parlamento ha diritto di discutere, anche perché il testo da cui siamo partiti porta una forte impronta di Berlusconi, l’ha scritta Verdini, non un circolo di riformisti illuminati”, scatena applausi e risate, così come “l’accanimento contro i redditi dei manager pubblici è solo una piccola parte del riequilibrio sociale: perché non si interviene sui super redditi di tutti?”. Lunghi applausi, militanti che chiedono una foto. A qualche centinaia di chilometri di distanza, da Torino qualcuno si stizzisce per le sue parole ruvide.
12/04/2014
“Il Pd non è comitato elettorale di Renzi”
D’Alema torna all’attacco del premier
Il leader storico frena il segretario: «Il partito è una risorsa, non un peso»
E sprona la minoranza: dobbiamo diventare la prossima maggioranza
“Meno male che ci sono tanti oratori giovani, perché il percorso per salire sul palco è un po’ difficile…”. È l’una del pomeriggio quando Massimo D’Alema fa il suo intervento al Teatro Ghione di Roma, lì dove Gianni Cuperlo ha tentato di riunire tutta la minoranza del Pd. In prima fila ci sono gli ex segretari Bersani ed Epifani, c’è il grande vecchio Alfredo Reichlin, l’ex viceministro Stefano Fassina, l’ex ministro Barbara Pollastrini, il candidato alle Europee Goffredo Bettini.
E c’è l’ex premier D’Alema: perché fare proprio oggi una convention, oggi che a Torino il segretario apre la campagna elettorale? Sorride accanto a lui il lettiano Francesco Boccia, mostrando la mail di invito datata 22 marzo, “questa manifestazione è stata organizzata molto prima che venisse scelta la stessa data, alla stessa ora, per aprire la campagna elettorale”, risponde D’Alema. Forse allora sarebbe stato opportuno che Renzi scegliesse un’altra data? “Certo”.
Ma le parole più critiche verso il segretario-premier le pronuncia poco dopo, dal palco, sulla gestione del partito. Perché il “punto debole della visione dell’attuale maggioranza del Pd è considerare il partito più un peso, un ostacolo, che non una straordinaria risorsa”, è “l’idea di partito-comitato elettorale del leader, di partito servente”.
Tanto che, denuncia, “c’è oggi in atto un processo di impoverimento che può prendere una piega drammatica”. E allora, sprona la minoranza che lo ascolta con attenzione, “questo partito noi non lo possiamo lasciare morire e spegnere, non possiamo accettare che diventi altra cosa”, usa parole che provocheranno reazioni piccate di qualche renziano, per cui la sfida della minoranza è “lanciare una sfida alla maggioranza”. Apriamo le sedi, stampiamo le tessere del Pd, invoca. “Noi ci siamo, speriamo ci siano anche loro”.
Una minoranza che, corregge bonariamente Cuperlo, deve aspirare a diventare maggioranza: (“Dobbiamo essere non una minoranza, ma un pensiero su questo Paese”, aveva detto lo sfidante alle primarie di Renzi) “siamo minoranza che deve aspirare a diventare maggioranza – ricorda D’Alema - Un fine dal quale non ci si deve fare assillare, considero essere minoranza un accidente e non sostanza”. A lui, ricorda, “non è capitato spesso”, ma certo, lancia una stilettata a chi è salito sul carro del vincitore a costo di rivedere le proprie convinzioni, “è troppo facile diventare maggioranza col pensiero degli altri: qualcuno lo ha fatto”.
Ora, questa minoranza riunita, che, ricorda, ha avuto il 18% al congresso ma molto di più, “circa la metà” nel voto tra gli iscritti, non deve tenere “un atteggiamento rancoroso”, né “un atteggiamento ‘sì, ma’, di resistenza: non dobbiamo dare la sensazione che siamo un segmento del mondo della conservazione come piace a Renzi descrivere tutti quelli che non sono d’accordo con lui”. La posizione non deve essere contro le riforme, anzi: “Di più e meglio”. Meglio sulla legge elettorale, “il Parlamento ha diritto di discutere, anche perché il testo da cui siamo partiti porta una forte impronta di Berlusconi, l’ha scritta Verdini, non un circolo di riformisti illuminati”, scatena applausi e risate, così come “l’accanimento contro i redditi dei manager pubblici è solo una piccola parte del riequilibrio sociale: perché non si interviene sui super redditi di tutti?”. Lunghi applausi, militanti che chiedono una foto. A qualche centinaia di chilometri di distanza, da Torino qualcuno si stizzisce per le sue parole ruvide.
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Re: La stagione dei morti viventi e il nipote del Conte Masc
l’Unità 13.4.14
Sì alla proposta di Chiti. Senza se e senza ma
di Pietro Folena
TROVO ABBASTANZA INCREDIBILE IL CLIMA CONFORMISTA E INTIMIDITO CHE IN MOLTI, NEL PARTITO DEMOCRATICO, HANNO ASSUNTO A FRONTE DEL PROGETTO DI RIFORMA COSTITUZIONALE. Capisco quando Matteo Renzi chiede coesione e compattezza sull’azione di governo: per ottenerla bisognerebbe, anche su materie economiche e sociali, ascoltare di più tutte le opinioni. Ma non capisco sinceramente il clima intimidatorio che si è creato alla Camera in occasione della discussione sull’Italicum, che ha visto anche la minoranza del Pd sostanzialmente subalterna e incapace di un’iniziativa significativa. E ancor di meno capisco il clima che si sta creando al Senato, o le parole di dileggio dei «professori» che il segretario- premier ha pronunciato alla Direzione.
Si pretende addirittura che, senza discussione, venga adottato come testo base quello del governo, sostanzialmente immodificabile, a causa dell’accordo con Forza Italia.
Scherziamo? Stiamo parlando di Costituzione. I membri di sinistra della Bicamerale del 1998 vennero crocifissi per le sole ipotesi di riforma di cui si parlava. Oggi si vuole invece correre, senza riflettere, verso un modello ipermaggioritario in una sola Camera, con tutto il sistema delle garanzie nelle mani di chi vince - e quindi con l’offuscarsi della separazione dei poteri - , dando vita a un confuso Senato delle Autonomie, che si accompagna con una proposta di svuotamento di tutte le competenze regionali, in senso antifederalista e neocentralista.
Almeno si può discutere?
Si possono valutare altre ipotesi? Ci si può porre il problema dei contrappesi democratici non a Matteo Renzi, ma a chiunque vinca?
L’argomento dell’accordo Pd-Forza Italia, con tutta evidenza, per ammissione del ministro Boschi e del premier, non esiste più. E a breve Forza Italia si sfilerà anche formalmente. Perché non coinvolgere nella riforma più ampiamente Sel, il Movimento Cinque Stelle, quella parte del centrodestra e della destra che già ragionano in termini post-berlusconiani?
E soprattutto perché non porsi il problema di un sistema equilibrato, che possa funzionare col vento e con la bonaccia, col sole e con la tempesta? A Renzi va riconosciuto il merito di aver rotto gli indugi, e costretto tutti ad avviare un processo senza il quale la politica e la democrazia verrebbero seppellite. Basta che questo processo non sia esso stesso un funerale.
Matteo Renzi dovrebbe ascoltare di più chi è mosso non da istinti conservatori, ma da fondamentali preoccupazioni democratiche. Vannino Chiti, un uomo misurato e equilibrato, non certo un estremista, e i ventidue senatori firmatari del suo progetto di legge hanno avuto il merito di piantare con chiarezza un paletto che può aiutare tutti, se non partono scomuniche.
La minoranza del Partito democratico, piuttosto che dividersi in tanti pezzi e litigare su improbabili leadership future, dovrebbe ora con chiarezza dare tutto il suo sostegno all’iniziativa di Chiti e dei senatori.
Sì alla proposta di Chiti. Senza se e senza ma
di Pietro Folena
TROVO ABBASTANZA INCREDIBILE IL CLIMA CONFORMISTA E INTIMIDITO CHE IN MOLTI, NEL PARTITO DEMOCRATICO, HANNO ASSUNTO A FRONTE DEL PROGETTO DI RIFORMA COSTITUZIONALE. Capisco quando Matteo Renzi chiede coesione e compattezza sull’azione di governo: per ottenerla bisognerebbe, anche su materie economiche e sociali, ascoltare di più tutte le opinioni. Ma non capisco sinceramente il clima intimidatorio che si è creato alla Camera in occasione della discussione sull’Italicum, che ha visto anche la minoranza del Pd sostanzialmente subalterna e incapace di un’iniziativa significativa. E ancor di meno capisco il clima che si sta creando al Senato, o le parole di dileggio dei «professori» che il segretario- premier ha pronunciato alla Direzione.
Si pretende addirittura che, senza discussione, venga adottato come testo base quello del governo, sostanzialmente immodificabile, a causa dell’accordo con Forza Italia.
Scherziamo? Stiamo parlando di Costituzione. I membri di sinistra della Bicamerale del 1998 vennero crocifissi per le sole ipotesi di riforma di cui si parlava. Oggi si vuole invece correre, senza riflettere, verso un modello ipermaggioritario in una sola Camera, con tutto il sistema delle garanzie nelle mani di chi vince - e quindi con l’offuscarsi della separazione dei poteri - , dando vita a un confuso Senato delle Autonomie, che si accompagna con una proposta di svuotamento di tutte le competenze regionali, in senso antifederalista e neocentralista.
Almeno si può discutere?
Si possono valutare altre ipotesi? Ci si può porre il problema dei contrappesi democratici non a Matteo Renzi, ma a chiunque vinca?
L’argomento dell’accordo Pd-Forza Italia, con tutta evidenza, per ammissione del ministro Boschi e del premier, non esiste più. E a breve Forza Italia si sfilerà anche formalmente. Perché non coinvolgere nella riforma più ampiamente Sel, il Movimento Cinque Stelle, quella parte del centrodestra e della destra che già ragionano in termini post-berlusconiani?
E soprattutto perché non porsi il problema di un sistema equilibrato, che possa funzionare col vento e con la bonaccia, col sole e con la tempesta? A Renzi va riconosciuto il merito di aver rotto gli indugi, e costretto tutti ad avviare un processo senza il quale la politica e la democrazia verrebbero seppellite. Basta che questo processo non sia esso stesso un funerale.
Matteo Renzi dovrebbe ascoltare di più chi è mosso non da istinti conservatori, ma da fondamentali preoccupazioni democratiche. Vannino Chiti, un uomo misurato e equilibrato, non certo un estremista, e i ventidue senatori firmatari del suo progetto di legge hanno avuto il merito di piantare con chiarezza un paletto che può aiutare tutti, se non partono scomuniche.
La minoranza del Partito democratico, piuttosto che dividersi in tanti pezzi e litigare su improbabili leadership future, dovrebbe ora con chiarezza dare tutto il suo sostegno all’iniziativa di Chiti e dei senatori.
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Re: La stagione dei morti viventi e il nipote del Conte Masc
il Fatto 13.4.14
Grandi manovre. Doppio ‘congresso’ tra Capitale e Torino
Renzi, Bersani, D’Alema De profundis Italicum
L’Italicum è morto ma Renzi non lo sa
“La legge elettorale di Verdini non passerà”
D’Alema e Bersani tornano uniti dopo il grande gelo: il senato lo facciamo passare, la “Legge di Verdini” no
di Marco Palombi
I 2 leader della minoranza Pd si ritrovano per la prima volta dopo un lungo gelo: Il presidente del Consiglio, in Piemonte per lanciare la candidatura di Chiamparino, replica: “Basta perdere tempo litigando”.
C’è stata una sola vera novità politica nella giornata democratica di ieri: dopo lungo guerra interna iniziata da anni e culminata nel cortocircuito sul Quirinale del dopo-elezioni, Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema si sono ritrovati per la prima volta insieme nella trincea anti-Renzi. Lo hanno fatto in quella sorta di riunione dei reduci e combattenti che è stato il convegno dalla minoranza Pd al teatro Ghione di Roma, svoltasi proprio mentre Matteo Renzi inaugurava la campagna per le europee a Torino. Poco carino, per carità, ma d’altronde il premier non era stato molto carino coi due ex capi partito: Renzi, per dire, ha già spaccato la minoranza Pd prendendo con sé un bel pezzo dei quarantenni che sui giornali vengono ancora chiamati bersaniani o dalemiani. I ministri Andrea Orlando e Maurizio Martina, ad esempio, e altri come il capogruppo alla Camera Roberto Speranza o l’ex responsabile organizzazione del Pd Davide Zoggia (non a caso ieri tutti presenti a Torino).
IL RISULTATO è che l’Italicum così come lo conosciamo è morto. Alla fine verrà cambiato perché i numeri sono sempre numeri, specialmente quelli del gruppo democratico in Senato, e perché il ridimensionamento di Silvio Berlusconi porta con sé anche il ridimensionamento dell’accordo del Nazareno. “C’è una maggioranza di governo che si va allargando - spiega un dirigente del Pd - e non si può non tenerne conto mentre si fanno le riforme istituzionali”. Il duo Bersani-D’Alema, al di là dei toni duri che ora vedremo, offre a Matteo Renzi una via d’uscita politica: passi pure il Senato non elettivo, ma la legge elettorale ipermaggioritaria no. Le critiche di Bersani, in particolare, riecheggiano quelle dei “professoroni” sbertucciati dal premier (una la intervistiamo qui accanto): “Ora c’è una legge elettorale per una sola Camera con un megapremio di maggioranza per cui chi vince col 52% si può nominare il presidente della Repubblica, la Consulta e tutti gli assetti istituzionali del Paese. Questo da parte di un Parlamento formato essenzialmente da ‘abbastanza nominati’. Poi ci sono delle primarie non regolamentate per plebiscitare il nominante universale”. Conseguenza: “Dobbiamo batterci per consentire alla gente di scegliere gli eletti”. La butta sul romantico, Bersani, parla della sinistra italiana, se ne intesta la storia, la concede in ostensione ai presenti, reclama quella che Berlusconi chiamerebbe “agibilità politica” dentro il Pd per il presente e per il passato: “
D’ALEMA è più pragmatico, cosa che è insieme il suo pregio e la sua dannazione. Si concentra sul partito, sull’organizzazione, sulle tessere: “Noi siamo una parte grande della militanza e questa forza deve attivarsi. Il Pd dobbiamo farlo funzionare noi, dobbiamo lavorare per il tesseramento del Pd anche se le tessere non si stampano più. Noi nelle sezioni, nei circoli ci siamo, vediamo se ci stanno anche loro”. Il partito, scandisce il fu leader Maximo, appassisce, sta morendo: “Il Pd sta diventando un comitato elettorale del leader, un partito radicato nelle istituzioni e ‘servente’. Ma il partito delle primarie senza il partito che cosa è, cosa diventa?”. Stilettata finale: “C’è il rischio di un mutamento qualitativo del sistema democratico”. Pure sull’Italicum si riversa il veleno di Massimo D’Alema: “Nessuno toglierà al premier il merito di aver rimesso in moto questo processo riformatore, anche se la legge elettorale verrà fuori un po’ meglio di come è nata. L’ha scritta Verdini, non veniva fuori da un circolo di riformatori illuminati, e serviva a tenere la destra ancorata a Berlusconi”. La cosa strana di questo attacco così duro è che nel Pd si dà per scontato che D’Alema abbia già l’accordo con Renzi sulla sua nomina a commissario Ue: “Sì, ma non si fida - spiega una fonte di minoranza - È convinto che non avrà niente se non tratta da posizioni di forza”.
Matteo Renzi, dal canto suo, sembra non aver capito che la situazione sta rapidamente cambiando. Ieri a Torino per lanciare la campagna per le europee e per le regionali in Piemonte ha lavorato la folla col solito atteggiamento da velocista: “Nei prossimi mesi non perdiamo tempo a litigare tra noi, c’è tanto da fare, dobbiamo andare pancia a terra per cambiare l’Italia. La sinistra che non cambia diventa destra”. I suoi fedelissimi la buttano sull’indice di gradimento: “Ma che volete? Nei sondaggi siamo al 33,9%, un livello mai toccato”, si irrita Federico Gelli. Il compito di rispondergli è toccato a Gianni Cuperlo, benedetto ieri coram populo dal duo Bersani-D’Alema leader unico della minoranza: “Una cosa di destra non diventa di sinistra perché la proponiamo noi”. Chiosa di Bersani: “Calma, ci vuole lo stesso tempo a fare le cose giuste e quelle sbagliate”.
Grandi manovre. Doppio ‘congresso’ tra Capitale e Torino
Renzi, Bersani, D’Alema De profundis Italicum
L’Italicum è morto ma Renzi non lo sa
“La legge elettorale di Verdini non passerà”
D’Alema e Bersani tornano uniti dopo il grande gelo: il senato lo facciamo passare, la “Legge di Verdini” no
di Marco Palombi
I 2 leader della minoranza Pd si ritrovano per la prima volta dopo un lungo gelo: Il presidente del Consiglio, in Piemonte per lanciare la candidatura di Chiamparino, replica: “Basta perdere tempo litigando”.
C’è stata una sola vera novità politica nella giornata democratica di ieri: dopo lungo guerra interna iniziata da anni e culminata nel cortocircuito sul Quirinale del dopo-elezioni, Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema si sono ritrovati per la prima volta insieme nella trincea anti-Renzi. Lo hanno fatto in quella sorta di riunione dei reduci e combattenti che è stato il convegno dalla minoranza Pd al teatro Ghione di Roma, svoltasi proprio mentre Matteo Renzi inaugurava la campagna per le europee a Torino. Poco carino, per carità, ma d’altronde il premier non era stato molto carino coi due ex capi partito: Renzi, per dire, ha già spaccato la minoranza Pd prendendo con sé un bel pezzo dei quarantenni che sui giornali vengono ancora chiamati bersaniani o dalemiani. I ministri Andrea Orlando e Maurizio Martina, ad esempio, e altri come il capogruppo alla Camera Roberto Speranza o l’ex responsabile organizzazione del Pd Davide Zoggia (non a caso ieri tutti presenti a Torino).
IL RISULTATO è che l’Italicum così come lo conosciamo è morto. Alla fine verrà cambiato perché i numeri sono sempre numeri, specialmente quelli del gruppo democratico in Senato, e perché il ridimensionamento di Silvio Berlusconi porta con sé anche il ridimensionamento dell’accordo del Nazareno. “C’è una maggioranza di governo che si va allargando - spiega un dirigente del Pd - e non si può non tenerne conto mentre si fanno le riforme istituzionali”. Il duo Bersani-D’Alema, al di là dei toni duri che ora vedremo, offre a Matteo Renzi una via d’uscita politica: passi pure il Senato non elettivo, ma la legge elettorale ipermaggioritaria no. Le critiche di Bersani, in particolare, riecheggiano quelle dei “professoroni” sbertucciati dal premier (una la intervistiamo qui accanto): “Ora c’è una legge elettorale per una sola Camera con un megapremio di maggioranza per cui chi vince col 52% si può nominare il presidente della Repubblica, la Consulta e tutti gli assetti istituzionali del Paese. Questo da parte di un Parlamento formato essenzialmente da ‘abbastanza nominati’. Poi ci sono delle primarie non regolamentate per plebiscitare il nominante universale”. Conseguenza: “Dobbiamo batterci per consentire alla gente di scegliere gli eletti”. La butta sul romantico, Bersani, parla della sinistra italiana, se ne intesta la storia, la concede in ostensione ai presenti, reclama quella che Berlusconi chiamerebbe “agibilità politica” dentro il Pd per il presente e per il passato: “
D’ALEMA è più pragmatico, cosa che è insieme il suo pregio e la sua dannazione. Si concentra sul partito, sull’organizzazione, sulle tessere: “Noi siamo una parte grande della militanza e questa forza deve attivarsi. Il Pd dobbiamo farlo funzionare noi, dobbiamo lavorare per il tesseramento del Pd anche se le tessere non si stampano più. Noi nelle sezioni, nei circoli ci siamo, vediamo se ci stanno anche loro”. Il partito, scandisce il fu leader Maximo, appassisce, sta morendo: “Il Pd sta diventando un comitato elettorale del leader, un partito radicato nelle istituzioni e ‘servente’. Ma il partito delle primarie senza il partito che cosa è, cosa diventa?”. Stilettata finale: “C’è il rischio di un mutamento qualitativo del sistema democratico”. Pure sull’Italicum si riversa il veleno di Massimo D’Alema: “Nessuno toglierà al premier il merito di aver rimesso in moto questo processo riformatore, anche se la legge elettorale verrà fuori un po’ meglio di come è nata. L’ha scritta Verdini, non veniva fuori da un circolo di riformatori illuminati, e serviva a tenere la destra ancorata a Berlusconi”. La cosa strana di questo attacco così duro è che nel Pd si dà per scontato che D’Alema abbia già l’accordo con Renzi sulla sua nomina a commissario Ue: “Sì, ma non si fida - spiega una fonte di minoranza - È convinto che non avrà niente se non tratta da posizioni di forza”.
Matteo Renzi, dal canto suo, sembra non aver capito che la situazione sta rapidamente cambiando. Ieri a Torino per lanciare la campagna per le europee e per le regionali in Piemonte ha lavorato la folla col solito atteggiamento da velocista: “Nei prossimi mesi non perdiamo tempo a litigare tra noi, c’è tanto da fare, dobbiamo andare pancia a terra per cambiare l’Italia. La sinistra che non cambia diventa destra”. I suoi fedelissimi la buttano sull’indice di gradimento: “Ma che volete? Nei sondaggi siamo al 33,9%, un livello mai toccato”, si irrita Federico Gelli. Il compito di rispondergli è toccato a Gianni Cuperlo, benedetto ieri coram populo dal duo Bersani-D’Alema leader unico della minoranza: “Una cosa di destra non diventa di sinistra perché la proponiamo noi”. Chiosa di Bersani: “Calma, ci vuole lo stesso tempo a fare le cose giuste e quelle sbagliate”.
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Re: La stagione dei morti viventi e il nipote del Conte Masc
l’Unità 13.4.14
Cuperlo lancia i Comitati della sinistra
Appuntamento a Roma della minoranza Pd
D’Alema: «Non accettiamo che il partito si spenga, facciamolo funzionare noi e torniamo maggioranza»
Bersani: «No a riforme sbrigative»
di Marcella Ciarnelli
C’era il rischio, sventato dall’intelligenza e dalla passione dei protagonisti, che si consumasse una frattura tra il Pd che si è radunato a Torino attorno al segretario e premier per l’avvio della campagna elettorale, e il Pd che si riconosce in una minoranza diventata tale a seguito di una sconfitta congressuale, che Gianni Cuperlo ha chiamato al Teatro Ghione di Roma per invitare a rimettersi tutti in moto, anche in un orizzonte più allargato e più disponibile. Per guardare al futuro ritrovando la passione del fare politica e dimostrando, sul campo, che «la minoranza non siamo noi».
Entusiasmo e voglia di fare ce n’è stata tanta fin dall’inizio della manifestazione. Bandiere, applausi, un riconoscersi positivo. È andata avanti così per sette ore di discussione quando Gianni Cuperlo, traendo le conclusioni e superando di slancio la sua natura («l’organizzazione non è il mio forte») ha dettato l’agenda per il lavoro da portare avanti dai prossimi giorni in poi. Di certo per il voto imminente perché «la campagna elettorale va vissuta senza risparmiarsi» ma, innanzitutto, ritrovando quanto c’è di positivo nel confronto delle idee. «Dobbiamo dare vita ai comitati promotori di una sinistra democratica rinnovata» ha detto Cuperlo. «Comitati aperti, inclusivi, in ogni città e in ogni circolo. Comitati per temi, campagne e progetti». E già prima dell’Assemblea del Pd è prevista l’organizzazione di due appuntamenti aperti, uno sulla situazione internazionale con un focus su Russia e Crimea e l’altro su cosa è oggi il partito e cosa dovrà essere in futuro. Comitati proposti come strumenti per «uscire dai palazzi romani e tornare a costruire politica e democrazia sul territorio. O facciamo questa scelta o saremo risucchiati in una logica di potere fine a se stesso. Lo so che dopo una sconfitta è più difficile, ma non dobbiamo perdere il senso di una sinistra da reinventare, per la quale servono fantasia, coraggio e passione, poi saranno le nostre scelte a dire chi siamo e quanti siamo».
Se nel momento del bilancio la giornata di ieri è apparsa «bella» a Torino come a Roma, legata da un filo rosso che non si è spezzato, resta il fatto che tutto quello che c’era da dire sull’attuale situazione politica, sulle iniziative del governo, sulle indiscusse capacità di rinnovamento di Renzi a volte troppo ruvide, è stato detto. Con schiettezza e sincerità. C’è preoccupazione per alcune scelte. Quelle sul mercato del lavoro, sulle riforme, sulla legge elettorale. «Non sono disposto a sacrificare la Bibbia costituzionale sull’altare di uno scambio» ha detto Cuperlo. «Aiuteremo le riforme con spirito costruttivo ma dobbiamo farlo rivendicando sempre i principi e il merito delle scelte», perché «sono in gioco i principi scolpiti nella prima parte della Costituzione» e «alla fine di quel percorso di riforma noi non possiamo votare qualunque cosa». Cuperlo ha insistito in particolare sulla riforma della legge elettorale che a suo avviso «va migliorata su punti di fondo: liste bloccate, soglia troppo alta per l'accesso al parlamento, assenza di una norma sulla democrazia paritaria».
«Le riforme vanno fatte rapidamente ma non sbrigativamente perché ci vuole lo stesso tempo a fare le cose giuste e le cose sbagliate» ha detto Pier Luigi Bersani, accolto da uno straordinario e affettuoso applauso. E se sul Senato si può cercare di trovare qualche aggiustamento perché non possiamo «essere accusati di voler bloccare le riforme» ma neanche, come ha detto il segretario, essere accusati di opporsi «per conservare gli emolumenti» nella legge elettorale ci sono almeno «sette, otto cose che non vanno ». Quindi «la legge elettorale va cambiata. Non è serio che uno ottiene il premio di maggioranza mettendo insieme liste che non possono eleggere nessuno e poi, con il 52 per cento, quei parlamentari, nominati anche loro, eleggono il presidente della Repubblica, i giudici costituzionali, i membri del Csm. Se poi si fanno primarie non regolate per plebiscitare i nominati, io non ci sto».
Avanzati suoi dubbi su alcune riforme Massimo D’Alema ha rivendicato alla minoranza il diritto di diventare maggioranza. «Noi dobbiamo essere il Pd, non possiamo accettare che diventi il partito un’altra cosa, che si spenga». Ed ha aggiunto: «Noi siamo una grande parte della militanza e questa forza deve attivarsi. Il Pd dobbiamo farlo funzionare noi, dobbiamo lavorare per il tesseramento anche se le tessere non si stampano più. Noi ci siamo nelle sezioni e nei circoli. Vediamo se ci sono anche gli altri » nell’impegno a non fare «appassire il partito»: «Se siamo la forza fondamentale che fa vivere il Pd nella società la prospettiva potrebbe essere quella di tornare a essere maggioranza». Il ruolo della minoranza non può ridursi ad «una frazione parlamentare che frena il riformismo di Renzi. Dobbiamo essere noi a rilanciare la sfida riformista, non dobbiamo piegarci ad essere vissuti solo come il passato». Né, ha detto Cuperlo, ad accettare che il confronto si tramuti in «un conflitto tra riformisti e conservatori». Sette ore di confronto aperto a ogni idea. Goffredo Bettini, esponente di Campo democratico, alle primarie schierato con Renzi, è intervenuto per ricordare come «può piacere o no, ma Renzi agli occhi degli italiani ha rappresentato il ritorno alla politica, alla decisione politica, al rapporto diretto con i cittadini. Noi che vogliamo difendere la presenza di una sinistra dobbiamo spingere perché si torni alla vita reale e si giochi il suo avvenire nei flutti della storia di oggi e non dentro i simulacri del passato».
Cuperlo lancia i Comitati della sinistra
Appuntamento a Roma della minoranza Pd
D’Alema: «Non accettiamo che il partito si spenga, facciamolo funzionare noi e torniamo maggioranza»
Bersani: «No a riforme sbrigative»
di Marcella Ciarnelli
C’era il rischio, sventato dall’intelligenza e dalla passione dei protagonisti, che si consumasse una frattura tra il Pd che si è radunato a Torino attorno al segretario e premier per l’avvio della campagna elettorale, e il Pd che si riconosce in una minoranza diventata tale a seguito di una sconfitta congressuale, che Gianni Cuperlo ha chiamato al Teatro Ghione di Roma per invitare a rimettersi tutti in moto, anche in un orizzonte più allargato e più disponibile. Per guardare al futuro ritrovando la passione del fare politica e dimostrando, sul campo, che «la minoranza non siamo noi».
Entusiasmo e voglia di fare ce n’è stata tanta fin dall’inizio della manifestazione. Bandiere, applausi, un riconoscersi positivo. È andata avanti così per sette ore di discussione quando Gianni Cuperlo, traendo le conclusioni e superando di slancio la sua natura («l’organizzazione non è il mio forte») ha dettato l’agenda per il lavoro da portare avanti dai prossimi giorni in poi. Di certo per il voto imminente perché «la campagna elettorale va vissuta senza risparmiarsi» ma, innanzitutto, ritrovando quanto c’è di positivo nel confronto delle idee. «Dobbiamo dare vita ai comitati promotori di una sinistra democratica rinnovata» ha detto Cuperlo. «Comitati aperti, inclusivi, in ogni città e in ogni circolo. Comitati per temi, campagne e progetti». E già prima dell’Assemblea del Pd è prevista l’organizzazione di due appuntamenti aperti, uno sulla situazione internazionale con un focus su Russia e Crimea e l’altro su cosa è oggi il partito e cosa dovrà essere in futuro. Comitati proposti come strumenti per «uscire dai palazzi romani e tornare a costruire politica e democrazia sul territorio. O facciamo questa scelta o saremo risucchiati in una logica di potere fine a se stesso. Lo so che dopo una sconfitta è più difficile, ma non dobbiamo perdere il senso di una sinistra da reinventare, per la quale servono fantasia, coraggio e passione, poi saranno le nostre scelte a dire chi siamo e quanti siamo».
Se nel momento del bilancio la giornata di ieri è apparsa «bella» a Torino come a Roma, legata da un filo rosso che non si è spezzato, resta il fatto che tutto quello che c’era da dire sull’attuale situazione politica, sulle iniziative del governo, sulle indiscusse capacità di rinnovamento di Renzi a volte troppo ruvide, è stato detto. Con schiettezza e sincerità. C’è preoccupazione per alcune scelte. Quelle sul mercato del lavoro, sulle riforme, sulla legge elettorale. «Non sono disposto a sacrificare la Bibbia costituzionale sull’altare di uno scambio» ha detto Cuperlo. «Aiuteremo le riforme con spirito costruttivo ma dobbiamo farlo rivendicando sempre i principi e il merito delle scelte», perché «sono in gioco i principi scolpiti nella prima parte della Costituzione» e «alla fine di quel percorso di riforma noi non possiamo votare qualunque cosa». Cuperlo ha insistito in particolare sulla riforma della legge elettorale che a suo avviso «va migliorata su punti di fondo: liste bloccate, soglia troppo alta per l'accesso al parlamento, assenza di una norma sulla democrazia paritaria».
«Le riforme vanno fatte rapidamente ma non sbrigativamente perché ci vuole lo stesso tempo a fare le cose giuste e le cose sbagliate» ha detto Pier Luigi Bersani, accolto da uno straordinario e affettuoso applauso. E se sul Senato si può cercare di trovare qualche aggiustamento perché non possiamo «essere accusati di voler bloccare le riforme» ma neanche, come ha detto il segretario, essere accusati di opporsi «per conservare gli emolumenti» nella legge elettorale ci sono almeno «sette, otto cose che non vanno ». Quindi «la legge elettorale va cambiata. Non è serio che uno ottiene il premio di maggioranza mettendo insieme liste che non possono eleggere nessuno e poi, con il 52 per cento, quei parlamentari, nominati anche loro, eleggono il presidente della Repubblica, i giudici costituzionali, i membri del Csm. Se poi si fanno primarie non regolate per plebiscitare i nominati, io non ci sto».
Avanzati suoi dubbi su alcune riforme Massimo D’Alema ha rivendicato alla minoranza il diritto di diventare maggioranza. «Noi dobbiamo essere il Pd, non possiamo accettare che diventi il partito un’altra cosa, che si spenga». Ed ha aggiunto: «Noi siamo una grande parte della militanza e questa forza deve attivarsi. Il Pd dobbiamo farlo funzionare noi, dobbiamo lavorare per il tesseramento anche se le tessere non si stampano più. Noi ci siamo nelle sezioni e nei circoli. Vediamo se ci sono anche gli altri » nell’impegno a non fare «appassire il partito»: «Se siamo la forza fondamentale che fa vivere il Pd nella società la prospettiva potrebbe essere quella di tornare a essere maggioranza». Il ruolo della minoranza non può ridursi ad «una frazione parlamentare che frena il riformismo di Renzi. Dobbiamo essere noi a rilanciare la sfida riformista, non dobbiamo piegarci ad essere vissuti solo come il passato». Né, ha detto Cuperlo, ad accettare che il confronto si tramuti in «un conflitto tra riformisti e conservatori». Sette ore di confronto aperto a ogni idea. Goffredo Bettini, esponente di Campo democratico, alle primarie schierato con Renzi, è intervenuto per ricordare come «può piacere o no, ma Renzi agli occhi degli italiani ha rappresentato il ritorno alla politica, alla decisione politica, al rapporto diretto con i cittadini. Noi che vogliamo difendere la presenza di una sinistra dobbiamo spingere perché si torni alla vita reale e si giochi il suo avvenire nei flutti della storia di oggi e non dentro i simulacri del passato».
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Re: La stagione dei morti viventi e il nipote del Conte Masc
Repubblica 13.4.14
D’Alema parla alla minoranza “Il partito muore riprendiamocelo”
di Goffredo De Marchis
IL RACCONTO. ROMA. Dalla riunione degli “sconfitti” sale il grido di battaglia: riprendiamoci il partito. Gianni Cuperlo dice: «Abbiamo perso il congresso ma anche no. Sento che oggi la minoranza non siamo noi». Massimo D’Alema sfida l’impossibile, al momento: «Siamo minoranza e non mi sento a mio agio, non sono abituato. Il nostro obiettivo non è solo il pensiero di sinistra, ma tornare maggioranza del Pd». Pier Luigi Bersani appare più cauto sui destini del partito. «Nella legge elettorale ci sono 7-8 cose da cambiare», avverte. Ossia, lavoriamo sulle riforme e cambiamole. Ma anche lui è tornato. «Mi sono ripreso - saluta prima di scappare via -. Si ricomincia, devo andare a Bologna. Ormai faccio due manifestazioni al giorno».
Il teatro Ghione di Roma è pieno: la platea, la galleria, la piccionaia. Ci si muove tra i velluti rossi, le luci soffuse anche nei corridoi. Dall’8 dicembre, il giorno delle primarie, è cambiato il mondo, Anzi, è cambiato verso. Renzi ha stravinto la corsa per la segreteria, Cuperlo si è fermato al 18 per cento, l’ex sindaco ha spodestato Letta a Palazzo Chigi. In contemporanea a Torino il premier lancia la campagna per le europee e per la regione Piemonte. Quattro mesi dopo lo shock, l’area degli ex Ds sceglie lo stesso giorno per provare a rilanciarsi. L’obiettivo è ambizioso, riconquistare il terreno perduto. Lo è ancora di più se verranno confermati i sondaggi delle Europee che oggi danno il Pd sopra al 30per cento, un risultato storico. Ma il 25 maggio finisce la tregua con Renzi, a prescindere dai rapporti di forza che comunque in Parlamento sono diversi da quelli congressuali. In sala ci sono Epifani, Stefano Fassina, Alfredo D’Attorre, Goffredo Bettini, Alfredo Reichlin e Francesco Boccia, uno dei pochi a non aver avuto la tessera dei Ds in tasca.
La riunione è autofinanziata. La scenografia inesistente: tre bandiere, del Pd, italiana e europea, un simbolino appeso al podio. Gli oratori sfilano davanti a un pannello bianco. D’Alema parla in francese con la sua portavoce Daniela Reggiani che ha vissuto Oltralpe e fa qualche selfiecon imilitanti.La strada la indica Cuperlo: «Abbiamo perso le primarie ma non abbiamo smarrito il senso di una sinistra da reinventare». Bisogna fare come l’aquila che quando è vecchia si rifugia in cima alla montagna, spacca da sola il becco stanco e aspetta che ne ricresca uno nuovo. Una resurrezione ma per fare cosa, su quali basi? «Sul lavoro le norme della destra non diventano giuste se le proponiamo noi», dice Cuperlo. La legge elettorale va smontata: «Non è buona. Il treno delle riforme doveva partire, ma non possiamo votare qualsiasi cosa». Lo spiega anche Bersani che è inaccettabile avere «un superpremio di maggioranza, una sola camera di nominati che nomina il capo dello Stato, la corte costituzionale, il Csm. Il tutto condito da primarie non regolate che scelgono il nominante universale». Ce l’ha con Renzi.
Il premier è oggi un fantasma che appare imprendibile. Si affaccia appena nei discorsi del teatro Ghione. Cuperlo lo evoca rammaricandosi dello «spirito del tempo», della «velocità che non basta» ad affrontare i problemi della crisi. Bersani, senza citarlo, ricorda al segretario che non si può criticare ogni voce dissidente, che «non si può dire a chi si oppone alle riforme che lo fa per l’indennità. C’è gente che ha la pelle sottile». Ma occorre risvegliare l’orgoglio di questa parte del Pd che vede crescere l’onda travolgente del renzismo. D’Alema si prende la croce: «Il partito sta morendo - dice l’ex premier - . Quelli che lo guidano lo considerano un peso, un ostacolo anziché una straordinaria risorsa. Vogliono farne un comitato elettorale. Allora tocca a noi, ai militanti impedirlo ». D’Alema non rinuncia alla battaglia: «Non fanno il tesseramento perché non ci sono neanche le tessere. Stampiamole noi, le tessere. Un atto di protesta. Ma non per la minoranza. Per il Pd». I conti veri però si fanno il 25 maggio.
D’Alema parla alla minoranza “Il partito muore riprendiamocelo”
di Goffredo De Marchis
IL RACCONTO. ROMA. Dalla riunione degli “sconfitti” sale il grido di battaglia: riprendiamoci il partito. Gianni Cuperlo dice: «Abbiamo perso il congresso ma anche no. Sento che oggi la minoranza non siamo noi». Massimo D’Alema sfida l’impossibile, al momento: «Siamo minoranza e non mi sento a mio agio, non sono abituato. Il nostro obiettivo non è solo il pensiero di sinistra, ma tornare maggioranza del Pd». Pier Luigi Bersani appare più cauto sui destini del partito. «Nella legge elettorale ci sono 7-8 cose da cambiare», avverte. Ossia, lavoriamo sulle riforme e cambiamole. Ma anche lui è tornato. «Mi sono ripreso - saluta prima di scappare via -. Si ricomincia, devo andare a Bologna. Ormai faccio due manifestazioni al giorno».
Il teatro Ghione di Roma è pieno: la platea, la galleria, la piccionaia. Ci si muove tra i velluti rossi, le luci soffuse anche nei corridoi. Dall’8 dicembre, il giorno delle primarie, è cambiato il mondo, Anzi, è cambiato verso. Renzi ha stravinto la corsa per la segreteria, Cuperlo si è fermato al 18 per cento, l’ex sindaco ha spodestato Letta a Palazzo Chigi. In contemporanea a Torino il premier lancia la campagna per le europee e per la regione Piemonte. Quattro mesi dopo lo shock, l’area degli ex Ds sceglie lo stesso giorno per provare a rilanciarsi. L’obiettivo è ambizioso, riconquistare il terreno perduto. Lo è ancora di più se verranno confermati i sondaggi delle Europee che oggi danno il Pd sopra al 30per cento, un risultato storico. Ma il 25 maggio finisce la tregua con Renzi, a prescindere dai rapporti di forza che comunque in Parlamento sono diversi da quelli congressuali. In sala ci sono Epifani, Stefano Fassina, Alfredo D’Attorre, Goffredo Bettini, Alfredo Reichlin e Francesco Boccia, uno dei pochi a non aver avuto la tessera dei Ds in tasca.
La riunione è autofinanziata. La scenografia inesistente: tre bandiere, del Pd, italiana e europea, un simbolino appeso al podio. Gli oratori sfilano davanti a un pannello bianco. D’Alema parla in francese con la sua portavoce Daniela Reggiani che ha vissuto Oltralpe e fa qualche selfiecon imilitanti.La strada la indica Cuperlo: «Abbiamo perso le primarie ma non abbiamo smarrito il senso di una sinistra da reinventare». Bisogna fare come l’aquila che quando è vecchia si rifugia in cima alla montagna, spacca da sola il becco stanco e aspetta che ne ricresca uno nuovo. Una resurrezione ma per fare cosa, su quali basi? «Sul lavoro le norme della destra non diventano giuste se le proponiamo noi», dice Cuperlo. La legge elettorale va smontata: «Non è buona. Il treno delle riforme doveva partire, ma non possiamo votare qualsiasi cosa». Lo spiega anche Bersani che è inaccettabile avere «un superpremio di maggioranza, una sola camera di nominati che nomina il capo dello Stato, la corte costituzionale, il Csm. Il tutto condito da primarie non regolate che scelgono il nominante universale». Ce l’ha con Renzi.
Il premier è oggi un fantasma che appare imprendibile. Si affaccia appena nei discorsi del teatro Ghione. Cuperlo lo evoca rammaricandosi dello «spirito del tempo», della «velocità che non basta» ad affrontare i problemi della crisi. Bersani, senza citarlo, ricorda al segretario che non si può criticare ogni voce dissidente, che «non si può dire a chi si oppone alle riforme che lo fa per l’indennità. C’è gente che ha la pelle sottile». Ma occorre risvegliare l’orgoglio di questa parte del Pd che vede crescere l’onda travolgente del renzismo. D’Alema si prende la croce: «Il partito sta morendo - dice l’ex premier - . Quelli che lo guidano lo considerano un peso, un ostacolo anziché una straordinaria risorsa. Vogliono farne un comitato elettorale. Allora tocca a noi, ai militanti impedirlo ». D’Alema non rinuncia alla battaglia: «Non fanno il tesseramento perché non ci sono neanche le tessere. Stampiamole noi, le tessere. Un atto di protesta. Ma non per la minoranza. Per il Pd». I conti veri però si fanno il 25 maggio.
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Re: La stagione dei morti viventi e il nipote del Conte Masc
Corriere 13.4.14
La sinistra interna cerca una strada
La linea di D’Alema: riprendiamoci il Pd
di Andrea Garibaldi
ROMA — Qui al Teatro Ghione, cento metri dalla cupola di San Pietro, non si riunisce la fronda del Pd contro il segretario Renzi. Più precisamente, fra questi velluti rossi un po’ consumati, si riuniscono coloro che credono ancora nella funzione ammodernata ma tradizionale del partito, che temono un Pd trasformato in un partito personale, col nome del leader nel simbolo, proprio come tutti gli altri. Una riunione di ex comunisti, decisi a fronteggiare i renziani ex popolari, cattolici? Un po’ è così, anche se si vede un ex Margherita come Boccia e anche se non c’è la minoranza al completo. Assente Civati, assente Chiti che sul Senato ha presentato una riforma diversa da quella del governo, assenti i «giovani turchi» di Orfini.
A dire le cose nel modo più netto è l’antico leone Massimo D’Alema: «Noi dobbiamo prendere l’impegno e la sfida di organizzare il partito, non possiamo lasciarlo spegnere, morire. Ho l’impressione che stia diventando un comitato elettorale di Renzi. Noi siamo la parte maggiore della militanza, dobbiamo far funzionare il Pd, fare il tesseramento anche se non si stampano più le tessere». Ancora, risvegliando l’orgoglio della platea: «Oggi siamo vissuti come un peso, considerati un ostacolo e non una straordinaria risorsa. Noi nelle sezioni, nei circoli ci siamo, speriamo ci siano anche loro...».
Poi, le questioni di merito. La legge elettorale a D’Alema «pare congegnata per mettere la destra intorno a Berlusconi». Per Pier Luigi Bersani, ironico, «ci sono solo sette-otto cose da correggere». Il leader giovane qui è Gianni Cuperlo, secondo arrivato alle primarie. Spetta a lui entrare nel merito: «Non possiamo votare qualsiasi cosa». Tre punti da correggere nell’«Italicum»: liste bloccate, soglia troppo alta per l’accesso in Parlamento, assenza di una norma sulla rappresentanza di genere. Sul Senato il problema non si deve ridurre ai costi. Con un avvertimento: «Non sacrificherò mai la Bibbia della Costituzione sull’altare di un accordo politico». L’attacco più duro è sulla riforma del mercato del lavoro: «Se sbagliava la destra a introdurre norme rischiose sul fronte dei diritti di chi lavora, quelle norme non diventano di colpo giuste quando a proporle siamo noi». No, dunque, all’eliminazione della causale nei contratti a termine, no all’eliminazione dell’obbligo della formazione nei contratti di apprendistato: «Tra Carniti o Trentin e Sacconi non mi è chiaro perché dovremmo scegliere il terzo». Tutto questo, però, con richiami continui a un percorso ben dentro i confini del partito, alla ricerca di un comune denominatore, «perché migliorare le riforme è il modo più leale per aiutare il governo a fare riforme giuste». Colpi e carezze. Il governo «corre e fa bene», ma quelle frasi di Renzi - «si fa in questo modo o me ne vado a casa», «prendere o lasciare» - non sono esempi «della forza mite della democrazia».
Ci sono, fra tanti altri l’ex segretario Epifani, Andrea Orlando, ministro prima di Letta e ora di Renzi, Goffredo Bettini, sostenitore di Renzi alle primarie. Alla fine, dopo sette ore, Cuperlo lancia i «comitati promotori di una sinistra democratica rinnovata». Fa un appello unitario per la campagna elettorale, collegandosi idealmente con Torino, dove Renzi ha sostenuto la candidatura Chiamparino. Chiude così, ottimista: «Sento che la minoranza non siamo noi».
La sinistra interna cerca una strada
La linea di D’Alema: riprendiamoci il Pd
di Andrea Garibaldi
ROMA — Qui al Teatro Ghione, cento metri dalla cupola di San Pietro, non si riunisce la fronda del Pd contro il segretario Renzi. Più precisamente, fra questi velluti rossi un po’ consumati, si riuniscono coloro che credono ancora nella funzione ammodernata ma tradizionale del partito, che temono un Pd trasformato in un partito personale, col nome del leader nel simbolo, proprio come tutti gli altri. Una riunione di ex comunisti, decisi a fronteggiare i renziani ex popolari, cattolici? Un po’ è così, anche se si vede un ex Margherita come Boccia e anche se non c’è la minoranza al completo. Assente Civati, assente Chiti che sul Senato ha presentato una riforma diversa da quella del governo, assenti i «giovani turchi» di Orfini.
A dire le cose nel modo più netto è l’antico leone Massimo D’Alema: «Noi dobbiamo prendere l’impegno e la sfida di organizzare il partito, non possiamo lasciarlo spegnere, morire. Ho l’impressione che stia diventando un comitato elettorale di Renzi. Noi siamo la parte maggiore della militanza, dobbiamo far funzionare il Pd, fare il tesseramento anche se non si stampano più le tessere». Ancora, risvegliando l’orgoglio della platea: «Oggi siamo vissuti come un peso, considerati un ostacolo e non una straordinaria risorsa. Noi nelle sezioni, nei circoli ci siamo, speriamo ci siano anche loro...».
Poi, le questioni di merito. La legge elettorale a D’Alema «pare congegnata per mettere la destra intorno a Berlusconi». Per Pier Luigi Bersani, ironico, «ci sono solo sette-otto cose da correggere». Il leader giovane qui è Gianni Cuperlo, secondo arrivato alle primarie. Spetta a lui entrare nel merito: «Non possiamo votare qualsiasi cosa». Tre punti da correggere nell’«Italicum»: liste bloccate, soglia troppo alta per l’accesso in Parlamento, assenza di una norma sulla rappresentanza di genere. Sul Senato il problema non si deve ridurre ai costi. Con un avvertimento: «Non sacrificherò mai la Bibbia della Costituzione sull’altare di un accordo politico». L’attacco più duro è sulla riforma del mercato del lavoro: «Se sbagliava la destra a introdurre norme rischiose sul fronte dei diritti di chi lavora, quelle norme non diventano di colpo giuste quando a proporle siamo noi». No, dunque, all’eliminazione della causale nei contratti a termine, no all’eliminazione dell’obbligo della formazione nei contratti di apprendistato: «Tra Carniti o Trentin e Sacconi non mi è chiaro perché dovremmo scegliere il terzo». Tutto questo, però, con richiami continui a un percorso ben dentro i confini del partito, alla ricerca di un comune denominatore, «perché migliorare le riforme è il modo più leale per aiutare il governo a fare riforme giuste». Colpi e carezze. Il governo «corre e fa bene», ma quelle frasi di Renzi - «si fa in questo modo o me ne vado a casa», «prendere o lasciare» - non sono esempi «della forza mite della democrazia».
Ci sono, fra tanti altri l’ex segretario Epifani, Andrea Orlando, ministro prima di Letta e ora di Renzi, Goffredo Bettini, sostenitore di Renzi alle primarie. Alla fine, dopo sette ore, Cuperlo lancia i «comitati promotori di una sinistra democratica rinnovata». Fa un appello unitario per la campagna elettorale, collegandosi idealmente con Torino, dove Renzi ha sostenuto la candidatura Chiamparino. Chiude così, ottimista: «Sento che la minoranza non siamo noi».
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Re: La stagione dei morti viventi e il nipote del Conte Masc
Repubblica 13.4.14
L’intervista
Staino: “Non riesco più a sopportare il vecchio Massimo”
di G. D. M.
ROMA. «Non lo sopporto più». Appena D’Alema comincia a parlare Sergio Staino, l’inventore di Bobo, il fondatore di Tango che “Massimo” lo ha disegnato centinaia di volte nelle sue vignette satiriche, si alza e svicola verso l’uscita. Un gesto voluto. «Doveva essere un’assemblea di giovani, irrequieti e incazzati. Oppure, seguendo la bussola del bellissimo discorso di Cuperlo, un luogo per sviluppare il pensiero di una nuova sinistra. Invece salgono sul palco ancora loro. D’Alema, Bersani, quella della Cgil Carla Cantone, pure simpatica ma si capisce che ha imparato a prendere applausi alla scuola Pci. Così è diventato l’appuntamento dei reduci sconfitti ».
È Cuperlo ad averlo organizzato in questo modo.
«Lo so. Non riesce a lasciarli andare. Ne avessero azzeccata una. Ma non mollano.
Mettono il cappello su ogni cosa. Lo dico con affetto, gli abbiamo voluto bene. Adesso basta, però. Gianni potrebbe viaggiare solo, ha testa e idee per disegnare una nuova rotta. Eppure non resiste al richiamo dei vecchi dirigenti. Sa quanto ha preso Cuperlo a Firenze nelle primarie? L’11 per cento. Zero, una miseria».
Che è successo?
«Era circondato dai dalemiani, sempre gli stessi. La gente li ha visti, li ha riconosciuti. Allora, tra le solite facce e Renzi che mescola tutto, ha scelto Renzi. Almeno col rimescolamento si apre una speranza».
A Bobo non garba Renzi, ma si trova a disagio anche con la minoranza.
«Ero venuto per sentire Cuperlo. Poi arriva D’Alema e dice all’apparato che il pensiero non serve, che bisogna tornare a essere maggioranza. Ha rovinato tutto».
L’intervista
Staino: “Non riesco più a sopportare il vecchio Massimo”
di G. D. M.
ROMA. «Non lo sopporto più». Appena D’Alema comincia a parlare Sergio Staino, l’inventore di Bobo, il fondatore di Tango che “Massimo” lo ha disegnato centinaia di volte nelle sue vignette satiriche, si alza e svicola verso l’uscita. Un gesto voluto. «Doveva essere un’assemblea di giovani, irrequieti e incazzati. Oppure, seguendo la bussola del bellissimo discorso di Cuperlo, un luogo per sviluppare il pensiero di una nuova sinistra. Invece salgono sul palco ancora loro. D’Alema, Bersani, quella della Cgil Carla Cantone, pure simpatica ma si capisce che ha imparato a prendere applausi alla scuola Pci. Così è diventato l’appuntamento dei reduci sconfitti ».
È Cuperlo ad averlo organizzato in questo modo.
«Lo so. Non riesce a lasciarli andare. Ne avessero azzeccata una. Ma non mollano.
Mettono il cappello su ogni cosa. Lo dico con affetto, gli abbiamo voluto bene. Adesso basta, però. Gianni potrebbe viaggiare solo, ha testa e idee per disegnare una nuova rotta. Eppure non resiste al richiamo dei vecchi dirigenti. Sa quanto ha preso Cuperlo a Firenze nelle primarie? L’11 per cento. Zero, una miseria».
Che è successo?
«Era circondato dai dalemiani, sempre gli stessi. La gente li ha visti, li ha riconosciuti. Allora, tra le solite facce e Renzi che mescola tutto, ha scelto Renzi. Almeno col rimescolamento si apre una speranza».
A Bobo non garba Renzi, ma si trova a disagio anche con la minoranza.
«Ero venuto per sentire Cuperlo. Poi arriva D’Alema e dice all’apparato che il pensiero non serve, che bisogna tornare a essere maggioranza. Ha rovinato tutto».
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Re: La stagione dei morti viventi e il nipote del Conte Masc
Corriere 13.4.14
Renzi ai suoi: chi non cambia è di destra
di Marco Imarisio
Altolà a minoranza (e Grillo). «Entreremo nella burocrazia con la ruspa» DAL NOSTRO INVIATO TORINO — «Avanti veloce, in fila per due». Alla giovane Valentina Caputo, segretaria di un circolo cittadino del Pd, è toccato il ruolo del caposquadra. Lei adempie con zelo, seminando il panico tra i candidati democratici a Regionali, Europee, Amministrative. «Chi non ha il pass si scordi di fare la foto» urla con voce stentorea, generando convulse ricerche collettive del prezioso talloncino.
Nella città più fordista d’Italia entra in funzione una catena umana di montaggio che dice molto sugli attuali rapporti di forza interni al Pd. Matteo Renzi ha appena finito il suo comizio di apertura della campagna elettorale. Dal podio del Palaolimpico, al quale una scenografia forse ispirata a Dracula ha conferito un aspetto sul lugubre andante, tappeto rosso, buio in sala e lumini in platea, il presidente del Consiglio parla per quasi un’ora, diluendo la sua capacità istrionica in un discorso a tratti molto istituzionale.
Ad attenderlo, allineati nel sottopassaggio come da ordini della feroce Valentina, ci sono trecento aspiranti europarlamentari e amministratori, bisognosi della foto con il leader alla quale attribuiscono virtù taumaturgiche nell’urna. «Vale almeno un cinque per cento in più» sostiene Rita Cavani che vuole riconsegnare Siziano, provincia di Pavia, al centrosinistra. Gli altri annuiscono. «Forse anche dieci» chiosa il giovane Raffaele Gallo, ultimo di una dinastia cara al Pd locale, in corsa per il consiglio regionale. Non ci sarà il nome di Renzi nel simbolo, ma guardando e ascoltando queste aspettative, il partito personale sembra già realtà.
La scelta di Torino è stata facile. Qui si voterà per le Regionali con Sergio Chiamparino che parte decisamente favorito. Per Renzi è come giocare in casa, e infatti agli austeri democratici piemontesi viene propinato un filmato introduttivo che mischia Maradona e la sua mano di Dio, già vista alla prima Leopolda, Forrest Gump che si libera dalle stampelle di ferro, idem, e l’immancabile Fantozzi, onnipresente nelle kermesse fiorentine. Chiamparino, uno dei pochi in sala a potersi dire renziano della prima ora, rivela di essersi reiscritto al Pd, dove mancava dal 2011, e lo accoglie con un omaggio venato di rimpianto personale. «Matteo ha avuto il coraggio di rompere gli schemi consolidati di una sinistra che rischiava di rifugiarsi nel conservatorismo. Io e gli altri come me non abbiamo avuto questo coraggio».
Renzi prende la palla al balzo e appena si avvicina al microfono ribadisce il concetto, parlando all’amico Chiamparino perché la minoranza del Pd intenda. «La sinistra che non cambia si chiama destra. Ecco perché andiamo in Europa, per cambiare l’Europa dei tecnici e delle banche, per farla diventare l’Europa delle famiglie». E poi, nello specifico, sullo scarso entusiasmo suscitato in una parte del Pd dalla riforma/abolizione del Senato: «L’idea di superare il bicameralismo perfetto è sempre stata patrimonio di questo partito. Se qualcuno ha cambiato idea, è un problema suo». In un passaggio abbastanza freudiano del suo discorso arriva a citare nella stessa frase il nemico esterno, ovvero Grillo, e l’opposizione interna al Pd. «Non facciamo la campagna elettorale seguendo i profeti dell’insulto, lasciamo Grillo e i suoi blog dire quello che vogliono. Il Pd non perda tempo a litigare al suo interno, ma lavori per cambiare l’Italia».
Alla voce annunci e progetti, da segnalare un passaggio molto deciso sull’impiego statale. «Abbiamo bisogno di vincere la sfida del Fisco, a maggio dobbiamo entrare con la ruspa dentro la Pubblica amministrazione». A «Chiampa», come lo chiama lui, che gli consiglia di tagliare l’Irpef ai pensionati con meno di mille euro risponde con un «bella idea!» neppure ironico. Nella tappa seguente, a Lucca, la farà sua, tra una promessa di nuovi regolamenti parlamentari per avere leggi più veloci e quella di mettere online le spese di partiti, sindacati e Pubblica amministrazione.
Intanto, la stanza del corridoio che porta agli spogliatoi è già stata addobbata come uno studio di posa, due luci su cavalletto, uno sfondo bianco. Renzi fa aspettare i candidati e riceve una delegazione degli 82 lavoratori della Agrati, una azienda di Collegno, che hanno problemi più seri, come la perdita improvvisa del posto di lavoro. Poi comincia la lunga sessione fotografica. «Come ti chiami?». «Dai che ce la facciamo». Una pacca sulla spalla. «Sorridi». Avanti un altro. Alberto Avetta, ex assessore provinciale, si è portato da casa la cornice blu con sopra il suo nome e la scritta «L’Europa ti aspetta». «Un incontro breve ma intenso».
I candidati escono con aria estasiata. Passa Roberto Speranza, che in una vita precedente era stato molto vicino a Pier Luigi Bersani. «Mai vista una cosa del genere». Lo interrompe l’urlo della feroce Valentina. «E con questi cinque abbiamo finito!».
Renzi ai suoi: chi non cambia è di destra
di Marco Imarisio
Altolà a minoranza (e Grillo). «Entreremo nella burocrazia con la ruspa» DAL NOSTRO INVIATO TORINO — «Avanti veloce, in fila per due». Alla giovane Valentina Caputo, segretaria di un circolo cittadino del Pd, è toccato il ruolo del caposquadra. Lei adempie con zelo, seminando il panico tra i candidati democratici a Regionali, Europee, Amministrative. «Chi non ha il pass si scordi di fare la foto» urla con voce stentorea, generando convulse ricerche collettive del prezioso talloncino.
Nella città più fordista d’Italia entra in funzione una catena umana di montaggio che dice molto sugli attuali rapporti di forza interni al Pd. Matteo Renzi ha appena finito il suo comizio di apertura della campagna elettorale. Dal podio del Palaolimpico, al quale una scenografia forse ispirata a Dracula ha conferito un aspetto sul lugubre andante, tappeto rosso, buio in sala e lumini in platea, il presidente del Consiglio parla per quasi un’ora, diluendo la sua capacità istrionica in un discorso a tratti molto istituzionale.
Ad attenderlo, allineati nel sottopassaggio come da ordini della feroce Valentina, ci sono trecento aspiranti europarlamentari e amministratori, bisognosi della foto con il leader alla quale attribuiscono virtù taumaturgiche nell’urna. «Vale almeno un cinque per cento in più» sostiene Rita Cavani che vuole riconsegnare Siziano, provincia di Pavia, al centrosinistra. Gli altri annuiscono. «Forse anche dieci» chiosa il giovane Raffaele Gallo, ultimo di una dinastia cara al Pd locale, in corsa per il consiglio regionale. Non ci sarà il nome di Renzi nel simbolo, ma guardando e ascoltando queste aspettative, il partito personale sembra già realtà.
La scelta di Torino è stata facile. Qui si voterà per le Regionali con Sergio Chiamparino che parte decisamente favorito. Per Renzi è come giocare in casa, e infatti agli austeri democratici piemontesi viene propinato un filmato introduttivo che mischia Maradona e la sua mano di Dio, già vista alla prima Leopolda, Forrest Gump che si libera dalle stampelle di ferro, idem, e l’immancabile Fantozzi, onnipresente nelle kermesse fiorentine. Chiamparino, uno dei pochi in sala a potersi dire renziano della prima ora, rivela di essersi reiscritto al Pd, dove mancava dal 2011, e lo accoglie con un omaggio venato di rimpianto personale. «Matteo ha avuto il coraggio di rompere gli schemi consolidati di una sinistra che rischiava di rifugiarsi nel conservatorismo. Io e gli altri come me non abbiamo avuto questo coraggio».
Renzi prende la palla al balzo e appena si avvicina al microfono ribadisce il concetto, parlando all’amico Chiamparino perché la minoranza del Pd intenda. «La sinistra che non cambia si chiama destra. Ecco perché andiamo in Europa, per cambiare l’Europa dei tecnici e delle banche, per farla diventare l’Europa delle famiglie». E poi, nello specifico, sullo scarso entusiasmo suscitato in una parte del Pd dalla riforma/abolizione del Senato: «L’idea di superare il bicameralismo perfetto è sempre stata patrimonio di questo partito. Se qualcuno ha cambiato idea, è un problema suo». In un passaggio abbastanza freudiano del suo discorso arriva a citare nella stessa frase il nemico esterno, ovvero Grillo, e l’opposizione interna al Pd. «Non facciamo la campagna elettorale seguendo i profeti dell’insulto, lasciamo Grillo e i suoi blog dire quello che vogliono. Il Pd non perda tempo a litigare al suo interno, ma lavori per cambiare l’Italia».
Alla voce annunci e progetti, da segnalare un passaggio molto deciso sull’impiego statale. «Abbiamo bisogno di vincere la sfida del Fisco, a maggio dobbiamo entrare con la ruspa dentro la Pubblica amministrazione». A «Chiampa», come lo chiama lui, che gli consiglia di tagliare l’Irpef ai pensionati con meno di mille euro risponde con un «bella idea!» neppure ironico. Nella tappa seguente, a Lucca, la farà sua, tra una promessa di nuovi regolamenti parlamentari per avere leggi più veloci e quella di mettere online le spese di partiti, sindacati e Pubblica amministrazione.
Intanto, la stanza del corridoio che porta agli spogliatoi è già stata addobbata come uno studio di posa, due luci su cavalletto, uno sfondo bianco. Renzi fa aspettare i candidati e riceve una delegazione degli 82 lavoratori della Agrati, una azienda di Collegno, che hanno problemi più seri, come la perdita improvvisa del posto di lavoro. Poi comincia la lunga sessione fotografica. «Come ti chiami?». «Dai che ce la facciamo». Una pacca sulla spalla. «Sorridi». Avanti un altro. Alberto Avetta, ex assessore provinciale, si è portato da casa la cornice blu con sopra il suo nome e la scritta «L’Europa ti aspetta». «Un incontro breve ma intenso».
I candidati escono con aria estasiata. Passa Roberto Speranza, che in una vita precedente era stato molto vicino a Pier Luigi Bersani. «Mai vista una cosa del genere». Lo interrompe l’urlo della feroce Valentina. «E con questi cinque abbiamo finito!».
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