Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo

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pancho
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Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo

Messaggio da pancho »

"Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo"

di David Harvey

Pubblichiamo una nostra traduzione del prologo (qui rinvenibile in lingua originale) all'ultimo libro di David Harvey, “Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo” (per ora uscito solamente negli Usa e in Inghilterra). Nel testo, che si propone anche come manifesto politico, vengono definite tre tipologie di contraddizioni: fondative (tra capitale e lavoro, tra appropriazione privata e common wealth, tra proprietà privata e Stato, tra valore d'uso e valore di scambio ecc...); mobili (rispetto alla divisione del lavoro, tra monopolio e competizione ecc...) e pericolose (la capitalizzazione infinita della crescita, la relazione tra Capitale e natura, tra alienazione e rivolta dell'umano). Attraverso questa disamina Harvey si propone di svelare nuove prospettive di critica ed organizzazione anticapitalista, ponendosi in una dialettica critica rispetto ad altri approcci attualmente in voga. Pur non condividendone appieno alcune tesi, ci sembra importante leggere questo testo entro il dibattito che si sta sviluppando rispetto ad una lettura politica della crisi.

“Ciò di cui sono in cerca è una migliore comprensione delle contraddizioni del capitale, non del capitalismo. Intendo conoscere come funziona il motore economico del capitalismo, e come mai talvolta esso balbetta, va in stallo o appare essere sull'orlo del collasso. Voglio inoltre mostrare come mai questo motore economico deve essere sostituito, e con cosa.”
dall'Introduzione


L'attuale crisi del capitalismo


Le crisi sono necessarie per la riproduzione del capitalismo. E' nel corso di esse che le instabilità vengono affrontate, riorganizzate e riarticolate per creare una nuova versione di ciò che riguardi il capitalismo. Molte cose vengono abbattute e distrutte per fare posto al nuovo. Quelli che erano paesaggi produttivi vengono trasformati in desolati territori industriali, le vecchie fabbriche vengono abbattute o convertite per nuovi usi, i quartieri della classe operaia vengono gentrificati. In altri contesti, piccole aziende agricole e proprietà contadine vengono sostituite da forme di agricoltura industrializzata su larga scala o da nuove lucenti fabbriche. Zone industriali, Ricerca & Sviluppo, e centri di stoccaggio e distribuzione all'ingrosso si diffondono per il territorio, nel mezzo della distesa di alloggi nei suburb, collegati assieme dagli incroci delle autostrade. Le città centrali gareggiano a chi abbia i più alti e affascinanti grattacieli direzionali ed edifici culturali simbolo, una profusione di centri commerciali giganti prolifera nelle città e nei suburb, alcuni persino raddoppiano come aeroporti attraverso i quali orde di turisti e dirigenti aziendali attraversano costantemente un mondo divenuto cosmopolitico a tavolino. I campi da golf e le gated community di cui gli USA erano stati pionieri possono ora essere visti in Cina, Cile e India, in contrasto con i diffusi fenomeni di insediamenti occupati ed auto-costruiti designati ufficialmente come slum, favelas o quartieri poveri.

Ma ciò che è più impressionante delle crisi non è la completa riconfigurazione del paesaggio fisico, quanto i cambiamenti radicali nelle modalità di pensiero e comprensione, delle istituzioni e delle ideologie dominanti, delle lealtà e dei processi politici, delle soggettività politiche, delle tecnologie e delle forme organizzative, delle relazioni sociali, delle abitudini e dei gusti culturali che informano la vita quotidiana. Le crisi scuotono alle fondamenta le nostre concezioni mentali del mondo e del nostro posto in esso. E noi, come irrequieti partecipanti ed abitanti di questo nuovo mondo emergente, dobbiamo adattarci, attraverso la coercizione od il consenso, a questo nuovo stato di cose, anche se, grazie a quello che facciamo e a come pensiamo e ci comportiamo, aggiungiamo la nostra opinione alle ingarbugliate qualità di questo mondo.

Nel mezzo di una crisi è difficile vedere dove possa essere l'uscita. Le crisi non sono eventi singoli. Pur avendo i loro evidenti inneschi, gli spostamenti tettonici che rappresentano impiegano molti anni per venire alla luce. La prolungata crisi iniziata col tracollo del mercato azionario del 1929 non fu risolta sino agli anni Cinquanta, dopo che il mondo era passato attraverso la Depressione degli anni Trenta e la guerra globale dei Quaranta. Parimenti, la crisi la cui esistenza fu segnalata dalla turbolenza nei mercati valutari internazionali nei tardi anni Sessanta e dagli eventi del 1968 per le strade di molte città (da Parigi e Chicago fino a Città del Messico e Bangkok) non fu risolta sino a metà anni Ottanta, dopo essere passati nei primi anni Settanta attraverso il collasso del sistema monetario internazionale inaugurato a Bretton Woods nel 1944, una turbolenta decade di lotte operaie negli anni Settanta e l'ascesa ed il consolidamento delle politiche di neoliberalizzazione sotto Reagan, Thatcher, Kohl, Pinochet e, per finire, Deng in Cina.

Col senno di poi non è difficile riconoscere abbondanti segnali dei problemi a venire, ben prima che una crisi esploda in maniera lampante. Le impetuose diseguaglianze di ricchezze monetarie e di reddito degli anni Venti e la bolla del mercato immobiliare che esplose negli Usa nel 1928 come presagi del collasso del 1929, ad esempio. Senza dubbio la modalità di uscita da una crisi contiene in sé i semi della crisi successiva. La finanziarizzazione globale, oberata dal debito e crescentemente deregolamentata, iniziata negli anni Ottanta come modalità per risolvere i conflitti con il lavoro attraverso la facilitazione della mobilità e della dispersione geografica, ha prodotto il suo epilogo nel crollo della banca di investimento di Lehman Brothers il 15 settembre 2008.

In questo momento, sono passati più di cinque anni da quell'evento, elemento scatenante dei collassi finanziari a cascata che seguirono. Se il passato è in qualche modo una guida, sarebbe grossolano aspettarsi a questo punto una qualsiasi chiara indicazione di come possa apparire un capitalismo rinvigorito – sempre che ciò sia possibile. Tuttavia ci dovrebbero ormai essere diagnosi concorrenti su ciò che non funziona, e una proliferazione di proposte per aggiustare le cose. Ciò che invece sorprende è la scarsità di nuovi pensieri e nuove politiche. Il mondo è per lo più polarizzato tra una continuazione, se non un approfondimento (come in Europa e negli Stati Uniti), dei rimedi neoliberali, monetaristi e sul lato dell'offerta che enfatizzano l'austerità come medicina appropriata per curare i propri mali; oppure il revival di alcune versioni, solitamente annacquate, di un'espansione keynesiana sul lato della domanda e finanziate dal debito (come in Cina) che ignorano l'accento che Keynes pose sulla redistribuzione dei redditi verso le classi inferiori quale uno dei suoi elementi chiave. A prescindere dalla politica seguita, il risultato è sempre quello di favorire il club dei miliardari che ora forma una plutocrazia dal potere crescente sia all'interno dei singoli paesi (come Rupert Murdoch) che su scala globale. I ricchi stanno diventando sempre più ricchi dappertutto. I 100 maggiori miliardari del mondo (da Cina, Russia, India, Messico e Indonesia come dai tradizionali centri della ricchezza in Nord America ed Europa) hanno aggiunto ai loro forzieri 240 miliardi di dollari solo nel 2012 (abbastanza, secondo Oxfam, da far cessare la povertà globale in una sola notte). Al contrario il benessere delle masse nel migliore dei casi stagna, o più verosimilmente subisce una degradazione accelerata se non catastrofica (come in Grecia e Spagna).

La grossa differenza istituzionale a questo giro sembra essere il ruolo delle banche centrali, con la Federal Reserve degli Stati Uniti che gioca un ruolo guida, se non di dominio, sul palcoscenico globale. Ma sin dal principio (da collocarsi nel 1694 nel contesto britannico), il loro ruolo è stato quello di proteggere e fare da paracadute per i banchieri, e non di prendersi cura del benessere delle popolazioni. Il fatto che gli Stati Uniti siano potuti uscire dalla crisi, in termini statistici, nell'estate del 2009, e che i mercati azionari abbiano potuto pressoché ovunque recuperare le loro perdite, è completamente da imputarsi alle politiche della Federal Reserve. Fa ciò presagire un capitalismo globale condotto dalla dittatura dei banchieri centrali, il cui incarico prioritario è quello di proteggere il potere delle banche e dei plutocrati? Se così fosse, allora sembrano proporsi poche prospettive per una soluzione agli attuali problemi di economie in stagnazione e caduta del tenore di vita della massa della popolazione mondiale.

C'è inoltre un gran chiacchiericcio sulle prospettive di una correzione tecnologica dell'attuale malessere economico. Anche se l'accorpamento di nuove tecnologie e nuove forme organizzative ha sempre giocato un ruolo rilevante nel facilitare l'uscita dalle crisi, non ne ha mai giocato uno decisivo. Oggi la speranza pare focalizzarsi su un capitalismo basato sulla conoscenza (con ingegneria biomedica, genetica ed intelligenza artificiale in prima linea). Ma l'innovazione è sempre un'arma a doppio taglio. Gli anni Ottanta, dopotutto, ci hanno consegnato una deindustrializzazione attraverso l'automazione, come quella che ha oggi soppiantato quale più grande fonte di impiego privata negli Stati Uniti General Motors (che impiegava una forza lavoro ben pagata e sindacalizzata negli anni Sessanta) con Walmart (con una forza lavoro per lo più malpagata e non sindacalizzata). Se l'attuale accelerata di innovazione conduce in una direzione, essa volge verso minori opportunità di impiego per la manodopera e la crescente importanza di rendite estratte dai diritti di proprietà intellettuale per il capitale. Ma se tutti provano a vivere di rendite e nessuno investe nel produrre nulla, è evidente che il capitalismo è diretto verso una crisi di natura completamente differente.

Non sono solo le élite capitaliste ed i loro accoliti accademici e intellettuali a sembrare incapaci di produrre una rottura radicale col loro passato, o di definire una via d'uscita percorribile dalla lamentosa crisi di bassa crescita, stagnazione, ampia disoccupazione e perdita della sovranità statale in favore dei possessori di obbligazioni. Le forze della sinistra tradizionale (partiti politici e sindacati) sono totalmente incapaci di costruire una solida opposizione al potere del capitale. Sono stati abbattuti da trent'anni di aggressione ideologica e politica da parte della destra, mentre il socialismo democratico ha perso credibilità. Lo stigmatizzato collasso del socialismo reale e la “morte del marxismo” dopo il 1989 hanno peggiorato le cose. Ciò che rimane della sinistra radicale opera oggi per lo più al di fuori di ogni canale di opposizione istituzionale od organizzata, nella speranza che azioni di breve respiro e l'attivismo locale possano condurre alla fine a quale forma soddisfacente di alternativa macro. Questa sinistra, che stranamente echeggia una retorica libertaria e talvolta neoliberale di antistatalismo, viene intellettualmente cresciuta da pensatori come Michel Foucault e da tutti quelli che hanno riassemblato le frammentazioni postmoderne sotto la bandiera di un post-strutturalismo largamente incomprensibile che favorisce una politica dell'identità mentre rifugge l'analisi di classe. Sono in evidenza ovunque prospettive ed azioni autonome, anarchiche e localiste. Ma per quanto questa sinistra cerchi di cambiare il mondo senza prendere il potere, tanto più una classe capitalista plutocratica si consolida e rimane incontrastata nella sua possibilità di dominare il mondo senza vincoli. Questa nuova classe dominante è aiutata da uno stato securitario e della sorveglianza per nulla restio ad usare i suoi poteri di polizia per reprimere ogni forma di dissenso nel nome dell'anti-terrorismo.

E' in questo contesto che ho scritto “Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo”. Il tipo di approccio adottato è piuttosto insolito, in quanto segue il metodo di Marx ma non necessariamente le sue prescrizioni, e ciò a monito per i lettori affinché non prendano gli argomenti qui dipanati in una modalità pedissequa. In questi aridi tempi intellettuali è assolutamente necessario qualcosa di nuovo nelle modalità di indagine e nelle concezioni mentali se vogliamo fuggire dall'attuale gap del pensiero economico, politico e relativo alle politiche. Dopotutto, il motore economico del capitalismo è chiaramente in grande difficoltà. Si barcolla tra il procedere a singhiozzi e la minaccia di una brusca frenata o l'esplosione episodica qua e là senza avvertimento. I segnali di pericolo abbondano in ogni momento nel mezzo delle prospettive di una vita più appagante per tutti, da qualche parte più avanti. Nessuno pare avere una comprensione coerente di come, lasciando da parte il perché, il capitalismo sia così travagliato. Ma è sempre stato così. Le crisi globali sono sempre state, come disse una volta Marx, “la vera concentrazione e l'aggiustamento forzoso di tutte le contraddizioni dell'economia borghese”. Sbrogliare queste contraddizioni potrebbe rivelarsi molto utile per svelare i i problemi economici che tanto ci affliggono. Chiaramente quello che ci si propone è un serio tentativo di fare ciò.

E' inoltre sembrato corretto tratteggiare i possibile esiti e le possibili conseguenze politiche che derivano dall'applicazione di questo peculiare modo di pensiero ad una comprensione dell'economia politica capitalista. A prima vista queste conseguenze potrebbero apparire inverosimili, persino impraticabili o politicamente sgradevoli. Ma è vitale che vengano sollevate delle alternative, per quanto esse possano apparire esotiche, ed eventualmente provare ad agguantarle qualora le condizioni lo dovessero imporre. In questo modo può essere aperta una finestra su un intero campo di possibilità inesplorate e non considerate. Abbiamo bisogno di un forum aperto – un'assemblea globale, per così dire – per considerare dove sia il capitale, verso che direzione si stia muovendo e che cosa possa essere fatto al riguardo. Spero che questo libretto possa apportare qualcosa al dibattito.
http://www.sinistrainrete.info/crisi-mo ... smoq-.html

un salutone da pancho
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
aaaa42
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Re: Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo

Messaggio da aaaa42 »

certi argomenti io li inserirei in la teoria del valore lavoro
qui nella nostra piazza tra un aperitivo e uno spriz si giocano a briscola comunque
il prof americano è un continuatore della grande scuola marxista americana sweezy, baran .
a mio avviso 2 sono le questione di fondo ,
1 politica e potere, si puo praticare le riforme di struttura marxiste senza il potere ?
2 si pou fare politica al di fuori del processo interiore di accumulazione del capitale ?
questo saggio introduzione al capitale finanziario di hilfering nella parte finale affronta la problematica
con una analisi delle 3 correnti di pensiero nella sinistra presenti in italia.
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http://www.emilianobrancaccio.it/wp-con ... o-2011.pdf
camillobenso
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Re: Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo

Messaggio da camillobenso »

Questi tipi di problemi sono sempre riconducibili alle incognite di sempre del genere umano, in parte supportati dalla filosofia e dalla religione.

A parte Antonio Socci che sostiene che in Italia 3 milioni sono tornati dall’aldilà, compresa sua figlia (3d-Vero o falso?), un punto di vista più che giustificabile quando ti muore una figlia di soli 24 anni, in quanto la morte anticipata dei figli è vissuto in modo più che doloroso e si attenua debolmente nel tempo. Atei e cattolici di queste parti interpellati sul fatto che questa nostra esperienza di vita possa essere un’esperienza unica di vita, sono la quasi totalità.

La vita ultraterrena dopo la morte che ti è stata raccontata fin da piccolo nel mondo cattolico e in altre religioni, si attenua nel tempo man mano che si procede nel percorso della vita.

Dopodiché subentra la filosofia spicciola di Massimo Catalano:
• È molto meglio essere giovani, belli, ricchi e in buona salute, piuttosto che essere vecchi, brutti, poveri e malati.

L’uomo da sempre, quindi, aspira a giocarsi questa vita nel migliore dei modi possibili. L’esempio ci viene da Silvietto, che certamente non è Alain Delon, né Paul Newman. Ma il denaro ed il potere lo hanno reso simile agli occhi delle donne.

Quindi, denaro, potere, successo, dominano la scena della vita.

Chi poi sale dal basso tende a mantenere intatto il nuovo status simbol appena acquisito, più di altri che deriva dalla nascita in famiglie ricche. Da qui l’eterna lotta tra chi ha e chi vorrebbe avere.

Ad esempio, la classe dirigente dell’ex Pci ha vissuto una vita morigerata nella prima Repubblica. Non così da parte dei nipotini dal 1994 in poi. Con la possibilità di entrare finalmente nella stanza dei bottoni e dei bottini, anche loro si sono adeguati.

Si sono dimenticati completamente gli ardori giovanili che li portavano a difendere le classi inferiori come principio di equità. In modo particolare quella operaia.

Per quasi mezzo secolo si sono dichiarati comunisti ed ostili alla socialdemocrazia. Oggi si sono convertiti.

Ci sarebbe da dire che ai tempi avesse ragione Saragat quando si era staccato dalla sinistra nel 1947.

La tendenza quindi è vivere il meglio possibile la vita individuale aderendo ad organizzazioni che prima tendono a conquistare benessere materiale, e poi a mantenere quelle posizioni.

<<Abbiamo una banca?>> Dichiarò Fassino nel 2007. Il movimento operaio se lo erano già scordato. Adesso aspiravano a fare i banchieri.
paolo11
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Re: Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo

Messaggio da paolo11 »

<<Abbiamo una banca?>> Dichiarò Fassino nel 2007. Il movimento operaio se lo erano già scordato. Adesso aspiravano a fare i banchieri.
camillobenso.
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Mi domando il motovo percui uno debba votare ancora il PD.Forse quelli che stanno bene con questo partito. Come quelli che stanno bene votando FI.
Ciao
Paolo11
paolo11
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Re: Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo

Messaggio da paolo11 »

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Paolo11
Maucat
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Re: Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo

Messaggio da Maucat »

paolo11 ha scritto:Immagine
Paolo11
Non condivido per niente il punto 1 e anche i punti 4 e 6 mi lasciano un pochino perplesso...
aaaa42
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Re: Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo

Messaggio da aaaa42 »

Reading Marx’s Capital Volume I with David Harvey
( c è una parziale traduzione in translation project )

http://davidharvey.org/reading-capital/
aaaa42
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Re: Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo

Messaggio da aaaa42 »

QUESTO INTERVENTO MOLTO INTERESSANTE.
E UN INTERVENTO PROBLEMATICO COME DEVE ESSERE QUALSIASI INTERVENTO DI ANALI ECONOMICA.
UN ASPETTO IMPORTANTE E OVE AFFERMA CHE IL MOLTIPLICATORE KEYNESIANO SI AZIONA SULLA DOMANDA DI INVESTIMENTI E NON SULLA DOMANDA DI CONSUMI.
NEL BREVE PERIODO KEYNESIANO GLI INVESTIMENTI SONO ESOGENI, MA NON SEMPRE LA DOMANDA DI CONSUMI HA UNA RELAZIONE CAUSA-EFFETTO SULLA DOMANDA DI INVESTIMENTI.
UN ALTRO ASPETTO IMPORTANTE E' LA RELAZIONE TRA DOMANDA DI CONSUMI ED IMPORTAZIONI.
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Renato Costanzo Gatti
LOGICA DELLA MANOVRA RENZIANA

Con questo mio intervento, vorrei sollecitare una riflessione comune, tra chi si diletta di esami economici, di quel che significa la manovra renziana in termini macroeconomici. Da studiosi di economia le riflessioni che vorrei sollecitare dovrebbero, metodologicamente, essere esenti da pregiudizi politici e soprattutto dalla pregiudiziale più facile, cui pur io ho ceduto, di interpretare quella manovra come una captatio benevolentiae pre elettorale sul filone dello stile alla Achille Lauro. Punterei ad un superiore livello di onestà intellettuale che affronti il tema che, tuttavia, richiede di essere ben delimitato.

1. La definizione del tema.

Cerchiamo di definire il tema in modo essenziale (anche se con qualche forzata sintesi) ponendo una proposizione seguita da quattro domande:

Proposizione: il governo Renzi tramite deduzioni fiscali o bonus (con le conseguenze classificatorie che l’una o l’altra opzione comportano) inietta nel mondo produttivo 10 miliardi di € canalizzandoli tramite i lavoratori dipendenti il cui reddito si piazzi nel settore medio basso.

1° domanda: quali sono le conseguenze macroeconomiche di questa iniezione di liquidità?
2° domanda: se l’operazione si allargherà agli incapienti, ai pensionati e alle partite iva, e si trasformerà in manovra strutturale permanente nel tempo, quali sono le conseguenze macroeconomiche a medio-lungo termine prevedibili?
3° domanda: questi 10 miliardi di € avrebbero potuto essere iniettati nella circolazione produttiva con altre modalità più efficaci ed efficienti?
4° domanda: ci sono riflessi europei nella logica renziana?

2. Approfondimento della proposizione

La scelta fatta dal governo Renzi rientra nella tematica della crisi del nostro paese che con molte più difficoltà di altri paesi, dimostra di non saper reggere allo sconvolgimento causato dalla crisi del capitalismo finanziario nato nel 2007 ed esploso nel 2008 e a tutt’oggi non risolto.
La crisi del capitalismo finanziario, peraltro rimosso dalle logiche economiche correnti che hanno preferito concentrarsi sul debito pubblico, sugli sprechi della politica, sulle conseguenze del malgoverno e su un moralismo melenso e di maniera, trova in Italia una situazione particolare rappresentata da venti anni di crescita zero (se non negativa) della produttività del sistema Italia.
Il rilancio della produttività, degli investimenti, di una politica industriale conseguente, di una conseguente programmazione di risorse ed impieghi paiono tuttavia essere estranei alla logica governativa. Gli unici soggetti economici che hanno elaborato una proposta in linea con la complessità del tema sono, a mio giudizio, la CGIL e la Confindustria con i loro piani presentati prima delle elezioni di inizio 2013.
Questa “inadeguatezza” che mi par di leggere nella proposta renziana (quanto poi condivisa da Padoan o da questi alla meglio attuata) è uno dei temi che chiederebbe di essere smentita con argomentazioni convincenti.
Il tema comunque si snoda attraverso i seguenti punti:

2.1 Il costo del lavoro è inferiore a quello dei nostri competitors europei;
2.2 Il contenuto di valore aggiunto del nostro lavoro è inferiore a quello dei nostri competitors europei;
2.3 Il costo del lavoro per unità di prodotto è superiore a quello dei nostri competitors europei;
2.4 Il cuneo fiscale è tra i più alti se confrontati a quelli dei nostri competitors europei;
2.5 L’efficacia dei servizi finanziati dal cuneo fiscale è decisamente inferiore a quello dei nostri competitors europei;
2.6 Il netto in busta dei nostri salari e stipendi è inferiore a quello dei lavoratori dei nostri competitors europei;
2.7 La massa dei salari e stipendi è diminuita negli anni nelle quote di imputazione e distribuzione del reddito nazionale;
2.8 La riduzione della massa salariale comporta la debolezza della domanda interna;
2.9 La debolezza della domanda interna non è controbilanciata dalla domanda estera. Le esportazioni, tuttavia, in determinati settori, hanno retto alla crisi del paese:
2.10 Alla diminuzione della massa salariale è corrisposto un innalzamento dell’indice Gini, sia del reddito che della ricchezza;
2.11 L’aumentata quota di redditi e di ricchezza andata ai decili più alti della distribuzione della popolazione non si è trasformata in aumento degli investimenti produttivi, ma ha arricchito i flussi in uscita dalla circolazione produttiva a favore della circolazione finanziaria;
2.12 Le politiche europee nell’affrontare la crisi finanziaria del capitalismo hanno privilegiato approcci hooveriani piuttosto che approcci keynesiani (come invece hanno fatto gli Stati Uniti d’America).
2.13 In questo quadro sintetico come si configura la manovra renziana?

3. Approfondimento delle prime due domande.

La prima e la seconda domanda seguono conseguenti al precedente punto 2.13.

Il rapporto tra livelli salariali e domanda di lavoro è uno dei temi più studiati dagli economisti classici e moderni.
Per gli economisti classici (Stuart Mill, Malthus etc) c’è sempre una relazione inversa ed esclusiva tra domanda di lavoro e salari: quanto maggiore è il salario tanto è minore la domanda di lavoro, per cui in momenti di alta disoccupazione l’unica soluzione razionale è la diminuzione dei livelli salariali. Anche i neo-classici (Marshall, Taussig, Ricardo etc. ) ammettono, anche se con diverse argomentazioni, che la domanda di lavoro sia inclinata negativamente rispetto ai salari.
Le posizioni di Pigou e dei suoi commentatori (Hawtrey, Kaldor, Harrod, Hicks) e soprattutto di Keynes ( con Kahn, Robinson, Harrod e Kalecki) sono estremamente innovative rispetto alle posizioni espresse da classici e neoclassici. Il Keynes, soprattutto, individua le relazioni determinanti la domanda di lavoro su tre relazioni fondamentali: relazione tra profitti prospettici e tasso di interesse; ruolo del moltiplicatore di Kahn; relazione tra reddito reale e tasso di interesse monetario.
La manovra renziana, che ha di fatto aumentato i redditi monetari di una parte dei lavoratori dipendenti e che, se tradotta in manovra strutturale, aumenta costantemente i redditi monetari di una anche più ampia fascia di lavoratori, va decisamente contro alle opinioni degli economisti classici secondo cui in caso di disoccupazione l’unica ricetta sarebbe la diminuzione dei salari reali.
Ma la manovra renziana può essere definita keynesiana? Lo vedremo al prossimo paragrafo, per ora sviluppiamo alcune sottodomande:

3.1 La manovra renziana aumenta sicuramente i consumi, anche se non al 100% ma nella misura della propensione al consumo dello strato di lavoratori beneficiati, e ciò aiuta a contrastare la crisi produttiva?
3.2 In che misura gli 80 euro al mese vengono spesi in consumi interni? Quanti in importazioni, stanti i livelli di scarsa competitività dei prodotti italiani?
3.3 Quanti in pagamento di debiti cumulati nel passato? In tal caso la liquidità quali canali segue? Arriverà ancora una volta alle banche?
3.4 Quanto migliorerà la produttività dei prodotti e dei processi produttivi in seguito alla manovra renziana?
3.5 Ma la manovra renziana se non aumenta produttività o produzione di beni e servizi reali, potrà avere effetti inflazionistici?
3.6 In che misura la maggior domanda creata dai consumi riassorbe il sottoutilizzo dei fattori della produzione e, anche nel medio lungo termine, una volta strutturalizzata, quanto inciderà sulla domanda di beni capitali?
3.7 La copertura della manovra renziana in che misura potrebbe incidere sulla domanda globale se sarà ricercata attraverso una maggior fiscalità?

4. Approfondimento della terza domanda

Riprendiamo la domanda cui ci ha portato la constatazione che la manovra renziana non è sicuramente “classica”, per cui ci chiedevamo se la manovra fosse keynesiana. Per un certo aspetto la risposta è positiva. Keynes infatti si rendeva conto delle deficienze del mercato e della sua incapacità di raggiungere la piena occupazione dei fattori della produzione. In particolare appurato che solo una parte del reddito prodotto viene consumato e cioè rimesso nel ciclo produttivo, e che questa parte dipende dalla propensione al consumo, resosi conto che il mercato è incapace di riappropriarsi di questo reddito uscito dalla circolazione produttiva, auspica un intervento dello Stato che tramite una politica di interventi (meglio se produttivi ma anche inutili come la famosa fossa da scavare e poi da riempire) attivi il moltiplicatore capace (ma solo in presenza di fattori della produzione non interamente occupati) di ricreare le condizioni del pieno impiego. Ma una volta data una mano al mercato, Keynes fida sul fatto che il mercato stesso sia in grado di fare la sua parte e riavviare l’economia su un nuovo equilibrio. Quello che prospetta Keynes è un aiuto al mercato fermatosi per un guasto meccanico, ma in grado di ripartire alla grande dopo la riparazione del guasto. Keynes non era socialista, ciò che ci differenzia da lui sta proprio in questa mai negata superiorità del mercato anche se non più mitizzata come presso i liberisti storici.
La manovra renziana segue lo stesso filone logico keynesiano. Gettati cioè sul mercato 10 miliardi di € si lascia che sia il mercato a farne l’uso migliore certi che ci farà uscire dalla crisi. Facciamo questa iniezione “di sinistra” (perché è fatta a mezzo lavoro dipendente medio basso) e poi lasciamo che il mercato faccia la sua parte. Non mi risulta esista un modellino econometrico che simuli gli effetti di questa iniezione di liquidità. La risposta prospettata sembra una ovvia reazione alla constatazione che la domanda interna sia bassa: quindi alziamola.
La fiducia nella funzionalità del mercato ed il rifiuto di guidare l’intervento dello stato sulla base di un progetto predefinito ed un processo programmatorio, affiancano la logica renziana a quella keynesiana.

Dove invece le logiche divergono è sul tipo di intervento; Keynes basa il suo moltiplicatore sugli investimenti produttivi; la formula del suo moltiplicatore è la formula che determina l’aumento del reddito derivante dall’aumento negli investimenti, algebricamente M = dR/dI (dove M è il moltiplicatore, dR è la derivata del Reddito e dI è la derivata degli investimenti). Tale moltiplicatore può essere scritto anche in termini di occupati: M = dN/dL ( M lo conosciamo, dN è l’aumento dell’occupazione totale e dL è l’aumento dell’occupazione nelle imprese che producono beni capitali). Keynes, al contrario di Renzi, non considera la possibilità di mettere in funzione il moltiplicatore aumentando i salari, ma investendo in beni capitali.

Queste premesse ci aiutano ad impostare la risposta alla terza domanda; forse si poteva operare con più efficacia ed efficienza iniettando 10 miliardi di € in investimenti produttivi capaci di mettere in moto il moltiplicatore keynesiano. Se poi Renzi fosse socialista avrebbe anche programmato quegli investimenti avendo ben presente un simulato progetto di sviluppo, guidando il cammino su cui indirizzare (facilitare, indicare, spingere, compulsare) lo sviluppo del moltiplicatore avendo come risultato il massimo riassorbimento della disoccupazione esistente.
Certo che la strada “socialista” è difficilmente perseguibile senza che sia modificata tutta la politica europea. Ancora una volta il socialismo non è possibile in un paese solo (quand’anche, ma non è il nostro caso, lo si volesse instaurare nel nostro paese).

5. Approfondimento della quarta domanda

Introdotto così l’elemento Europa, possiamo porci la domanda finale, ovvero se questa logica (più che questa manovra) anche in vista del semestre europeo a presidenza italiana, possa essere la logica da portare in Europa come contrasto alla politica di austerity propugnata dalla destra europea.
Quando penso all’Europa, penso alla più grande opera realizzata dall’Europa fin dai primi anni della sua costruzione, un’opera che ci pone al primissimo posto nell’orizzonte mondiale e che parecchi anni a venire continuerà a mantenere questo primato. Penso al CERN al più grande laboratorio scientifico e di ricerca del mondo.
Questo mio ideale, va calato nella realtà concreta e tradotto in politica fattiva, ma senza dimenticare la filosofia della collaborazione e della solidarietà di quella grandiosa realizzazione. E calarlo nella realtà concreta ritengo che la “golden rule di Delors” sia l’obiettivo primo da perseguire in un’Europa non più dominata dai conservatori, hooveriani, monetaristi, liberisti. Ma la “golden rule” non va interpretata solo come una regola contabile di bilancio, bensì come un programma di largo respiro che punti a omogeneizzare i parametri fondamentali delle economie di tutti i paesi europei, ciascuno con le sua particolari vocazioni.
Insomma qualcosa di più elevato della logica renziana ma che presuppone la vittoria dei socialisti nelle prossime elezioni europee.

Ma l’Europa, guardata con occhio disincantato, è stata un’altra cosa. E’ stata quello che disse D’Alema quando riuscimmo, dopo le capriole di Prodi, ad entrare nell’Europa; disse D’Alema “Entrare in Europa non significa aver vinto l’incontro, ma significa essere stati ammessi a salire sul ring; ora comincia l’incontro”. E l’incontro senza i colpi bassi rappresentati dalle svalutazioni competitive, è diventato un vero confronto fra le competitività delle aziende europee. Molte imprese, ma poche in percentuale, si sono adeguate alla tenzone innovando e ricercando, hanno migliorato prodotti e processi produttivi, si sono imposte sul mercato ed hanno aumentato le esportazioni. Purtroppo però, il resto delle imprese italiane ha puntato sul basso costo del lavoro, non ha investito, si è marginalizzata e molte imprese sono entrate in crisi, hanno chiuso, sono fallite. Bancodipendenti come sono, senza capitali propri adeguati, appena le banche hanno chiuso i cordoni della borse sono entrate in crisi finanziaria irreversibile, molti imprenditori si sono suicidati.
Insomma siamo saliti sul ring e siamo stati suonati. Questa è l’Europa, uscirne vuol dire dichiarare fallimento e tornare alle svalutazioni competitive che privilegiano solo il nostro capitalismo straccione.
( SOCIALISMO e SINISTRA FACEBOOK)
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