Capitale nel XXI secolo
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Capitale nel XXI secolo
Un francese a New York dà lezioni di economia
Thomas Piketty con il suo studio sulle disuguaglianze sta conquistando l’America,
compresi Krugman e Stiglitz con cui si è confrontato.
di Federico Rampini, da Repubblica, 18 aprile 2014
NEW YORK - Era dai tempi dell’inglese John Maynard Keynes, oltre 80 anni fa, che l’America non si lasciava conquistare da un economista europeo. La nazione più ricca e più avanzata del mondo riteneva di non aver nulla da imparare dalla vecchia Europa, almeno nella scienza economica. Oggi si ricrede. È merito di un quarantenne francese, Thomas Piketty, autore del Capitale nel XXI secolo, un monumentale studio su due secoli di diseguaglianze, la loro storia e le loro cause. L’editore americano ha dovuto anticiparne la traduzione dal francese, perché sommerso di prenotazioni online (e le prime edizioni sono già esaurite).
Il think tank democratico più vicino a Barack Obama, il Center for America Progress, lo ha invitato lunedì a Washington e il presidente ha mandato diversi consiglieri ad ascoltarlo. Harvard lo aspetta per stasera. In mezzo, la sua tappa di 48 ore a New York è stata un fuoco d’artificio. All’università Cuny, il francese è riuscito a fare un piccolo miracolo: riunire i due premi Nobel dell’economia Paul Krugman e Joseph Stglitz, due superstar inclini al protagonismo e noti per la loro rivalità accademica. Per Stiglitz lo studio di Piketty «è un contributo fondamentale», Krugman si dice «affascinato». In cerca di un nuovo «pensiero forte» dopo la grande crisi del 2008, l’America sembra averlo trovato in questo francese che l’ha ripudiata anni fa. Appena ventenne, Piketty insegnò qui al prestigioso Massachusetts Institute of Technology. Poi preferì tornare in Francia, perché diffidente verso la «deriva matematica» dei suoi colleghi americani. Verso i quali non lesina le critiche, accusando molti di loro di essere prigionieri di conflitti d’interessi, al servizio di un’ideologia che perpetua i privilegi delle oligarchie.
L’originalità di Piketty da una parte sta nell’aver ricostruito (guidando una squadra mondiale di oltre trenta economisti) l’andamento secolare delle diseguaglianze, sia nei redditi sia nei patrimoni. Dopo la descrizione, l’interpretazione. Una causa delle diseguaglianze odierne sta nel fatto che un’élite – prevalentemente di top manager – ha «fatto secessione » dal resto della società, si è conquistata il potere di fissare i propri stipendi in modo autonomo, senza alcun collegamento con la propria produttività. Il secondo fattore è perfino più importante: quando la crescita economica e demografica ristagna, prende il sopravvento la rendita finanziaria, automaticamente chi ha patrimoni accumulati diventa sempre più ricco e distanzia il resto. Ecco i passaggi più significativi del dibattito al Cuny.
Thomas Piketty: «Questo studio collettivo è cominciato 15 anni fa ed è composto di due parti. Da un lato abbiamo raccolto dati sui redditi, in quei paesi dov’è esistita da tempo un’imposta personale sui redditi. Cioè tutti i paesi occidentali ed anche Cina, India, molte nazioni dell’America latina. Dall’altro lato abbiamo raccolto i dati sui patrimoni, usando anche le statistiche sulle tasse di successione. Europa e Giappone sono due esempi illuminanti per capire come si crea una società “patrimoniale”, dove contano le ricchezze ereditarie: bassa natalità e bassa crescita economica rendono prevalenti le ricchezze già accumulate. Questa sta diventando la regola nel mondo intero. La chiave di tutto sta nel rapporto tra due variabili: da una parte il rendimento netto del capitale, dall’altra la crescita economica (a sua volta legata anche a quella demografica). Se il rendimento del capitale supera la crescita economica, come sta accadendo, ecco che il XXI secolo assomiglia sempre di più all’Ottocento: si va verso delle società oligarchiche. L’eccezione, l’anomalia più importante, l’abbiamo avuta per un lungo periodo del Novecento, dopo le due guerre mondiali, e in particolare nel “trentennio dorato” che va dalla ricostruzione post-bellica agli anni Settanta. Le diseguaglianze diminuirono sia per la forte crescita economica e demografica, sia per gli aumenti nella tassazione dei ricchi. Ci furono prelievi fiscali straordinari sui patrimoni, spesso legati allo sforzo bellico. E ci fu un forte aumento della tassazione progressiva sui redditi. A partire dagli Stati Uniti. Oggi può stupire, ma fu l’America a inventare una patrimoniale progressiva, con questa giustificazione: non voleva diventare una società ineguale come quella europea. E gli americani dopo la seconda guerra mondiale esportarono la loro elevata tassazione nelle due potenze sconfitte, Germania e Giappone, come un segno distintivo di civiltà».
Joseph Stiglitz: «Molti di noi studiarono all’università proprio nel trentennio magico, l’Età dell’Oro della crescita, e abbiamo finito per credere che quello fosse lo stato naturale. È importante l’attenzione che Piketty rivolge all’eredità come fonte di diseguaglianze. La successione ereditaria riguarda il capitale finanziario, immobiliare, e anche il capitale umano, visto l’accesso sempre più ineguale all’istruzione di alto livello. Noi qui in America crediamo di vivere in una società meritocratica per eccellenza, invece stiamo diventando una società di tipo ereditario, con una mobilità sociale perfino inferiore ad alcune nazioni europee. Le diseguaglianze, come dimostra Piketty, non sono il risultato di forze economiche ineluttabili, ma sono il prodotto delle politiche. La politica a sua volta è plasmata dalle diseguaglianze, viviamo in un sistema dove il potere politico è concentrato verso l’alto, e assistiamo a uno svuotamento del ceto medio. Oltre al rapporto tra rendimento del capitale e crescita, illustrato da Piketty, gli altri fattori che pesano sulle diseguaglianze sono la distribuzione del capitale stesso, le norme sulla successione ereditaria, la “segregazione economica” che deriva dagli accessi selettivi alle università o dai matrimoni “endogamici”, infine la tassazione del capitale. È importante capire che creando una società più equa, andremmo anche verso un’economia più efficiente e dinamica».
Paul Krugman: «Il lavoro di Piketty apre una nuova frontiera intellettuale. Se stasera siete venuti così numerosi ad ascoltarlo qui, se il suo libro ci colpisce con tanta forza, è perché ne sentivamo il bisogno. Le élite hanno avuto la capacità di imporre un’ideologia che giustifica i loro privilegi. Per esempio hanno descritto le diseguaglianze come l’ineluttabile conseguenza di livelli d’istruzione diversi: non è affatto decisiva questa spiegazione, tant’è che un prof di liceo e un top manager hanno una preparazione culturale comparabile. Le performance individuali non hanno più un nesso con i guadagni dei top manager, che costituiscono gran parte dello 0,1% degli straricchi. Qui non siamo più nel mondo di Gordon Gekko, il personaggio di Oliver Stone nel film Wall Street di 27 anni fa, qui siamo in un capitalismo patrimoniale dove i protagonisti sono i figli di Gordon Gekko che hanno ereditato la sua fortuna. Mi colpisce l’analogia ideologica con la Terza Repubblica francese che descrive Piketty. I privilegiati della Belle Époque usavano questo argomento: c’è stata la Rivoluzione francese, come possiamo definirci una società diseguale se abbiamo tutti gli stessi diritti? È lo stesso discorso che fanno i privilegiati nell’America del XXI secolo. Mi piace questa espressione di Piketty: il passato divora il futuro. Cattura l’essenza di ciò che è una società patrimoniale».
Stiglitz: «Nei grafici di Piketty si vede che l’imposta marginale Usa scese negli anni Venti del secolo scorso, proprio quando le diseguaglianze erano già estreme e si sarebbe dovuto fare l’esatto contrario per ovviarvi. Questo conferma la forza dell’ideologia. Oggi viviamo in America sotto un’ideologia sintetizzata da una sentenza della Corte suprema secondo cui “le imprese sono come persone”, hanno gli stessi diritti meritevoli di tutela».
Piketty: «Non siamo giunti alla fine di questo processo di divaricazione. Le diseguaglianze cresceranno ancora, rendendoci simili alla Francia pre-rivoluzionaria, dove i nobili rappresentavano l’1% della popolazione. È decisiva l’importanza dell’apparato di persuasione, con cui i privilegiati possono rendere la diseguaglianza accettabile, o inevitabile. Il XX secolo per invertire la tendenza alle diseguaglianze e imporre un cambiamento di direzione, ebbe bisogno di due guerre mondiali».
Il secolo delle diseguaglianze
di Anna Maria Merlo, da il manifesto
L’ex galeotto Vautrin, rivelando cinicamente allo studente spiantato Eugène de Rastignac i meccanismi sociali, gli aveva spiegato che era molto più conveniente sposare un’ereditiera che studiare e lavorare. Balzac scrive Le Père Goriot nel 1835. Per tutto il XIX secolo e l’inizio del XX, fino alla Belle Epoque, questo suggerimento resta valido. Ai tempi di Proust, a Parigi viveva un ventesimo della popolazione francese, ma la capitale concentrava un quarto dei patrimoni del paese. La “prima mondializzazione” (1870-1914) ha accresciuto le diseguaglianze sociali. Poi le due guerre mondiali, le distruzioni materiali, l’inflazione e anche alcune scelte politiche hanno ridotto il peso dei patrimoni. Ma oggi, nell’epoca di un’altra mondializzazione, il XXI secolo rischia di tornare al passato e di assomigliare al XIX.
È la tesi di un poderoso volume dal titolo ambizioso, Le capital au XXIe siècle, che l’economista Thomas Piketty pubblica da Seuil (969 pag., 25€). “All’inizio del XXI secolo l’eredità non è lontana dal ritrovare l’importanza che aveva all’epoca del Père Goriot” afferma Piketty. La spiegazione economica di questa minaccia è la seguente: “poiché il tasso di rendimento del capitale oltrepassa durevolmente il tasso di crescita della produzione e del reddito, situazione che è durata fino alla fine del XIX secolo e che rischia fortemente di tornare ad essere la norma nel XXI secolo, il capitalismo produce meccanicamente delle ineguaglianze insostenibili, arbitrarie, rimettendo radicalmente in causa i valori meritocratici sui quali si fondano le società democratiche”.
Piketty, basandosi su una considerevole massa di dati statistici (soprattutto di Francia, Gran Bretagna, Usa, ma anche dei paesi emergenti grazie alla World Top Incomes Database), analizza la questione della ripartizione delle ricchezze e, quindi, dell’ineguaglianza. Tra Marx, che aveva analizzato l’accumulazione del capitale che avrebbe condotto a una concentrazione in mano di pochi e Kuznets, che ottimisticamente credeva nelle forze equilibratrici della crescita, della concorrenza e del progresso tecnico, che avrebbe dovuto portare spontaneamente alla riduzione delle ineguaglianze.
Gli spari dei poliziotti contro i minatori, a Marikana vicino a Johannesburg il 16 agosto 2012, che hanno fatto 34 morti tra i lavoratori che chiedevano un aumento di stipendio che la compagnia mineraria con sede a Londra non voleva concedere per poter versare maggiori dividendi agli azionisti, ci ricorda l’attualità dello scontro tra redditi da lavoro e redditi da capitale. A Heymarket Square, a Chicago, il 1° maggio 1886 c’erano state violenze analoghe. “Lo scontro tra capitale e lavoro appartiene al passato oppure sarà una delle chiavi del XXI secolo?” si chiede Piketty.
La questione della ripartizione delle ricchezze è già al centro delle analisi dell’economia politica classica. Malthus, a fine ‘700, vede la minaccia nella sovrappopolazione. Ricardo si inquieta del prezzo della terra, bene raro, e dell’evoluzione della rendita fondiaria. Cinquant’anni dopo Ricardo, Marx analizza la dinamica del capitalismo in piena crescita. I dati statistici dicono che “una crescita debole permette di equilibrare solo debolmente il principio marxista di accumulazione permanente”. Storicamente, nei paesi europei industrializzati i salari cominciano a crescere, molto debolmente, solo nell’ultimo terzo del XIX secolo: ma “dal momento in cui il tasso di crescita della popolazione e della produttività è relativamente debole, i patrimoni accumulati nel passato assumono naturalmente un’importanza considerevole, potenzialmente smisurata e destabilizzatrice per le società”.
L’happy-end prevista dalla curva a U di Simon Kuznets a metà del secolo scorso – le ineguaglianze di reddito destinate a diminuire nella fase avanzata dello sviluppo capitalistico – non ha luogo all’inizio del XXI secolo. Certo, c’è stata una forte riduzione delle ineguaglianze di reddito tra la prima guerra mondiale e la fine della seconda: negli Usa, per esempio, il 10% degli americani più ricchi concentrava ogni anno il 45-50% del reddito nazionale negli anni ’10. Alla fine degli anni ’40, questa percentuale è caduta al 30-35% (oltre alle guerre e all’inflazione, un ruolo l’ha avuto anche l’imposta progressiva sul reddito, introdotta nel 1913 negli Usa, nel 1909 in Gran Bretagna, nel 1914 in Francia, nel 1922 in India, nel 1932 in Argentina). Ma dagli anni ’70-’80, la tendenza si è invertita. Dal secondo dopoguerra c’è stato il tempo per ricostruire i patrimoni e la svolta di Reagan, con l’abbassamento delle tasse, ha fatto il resto. Le ineguaglianze crescono: negli Usa, dimostra Piketty, “la concentrazione dei redditi ha ritrovato negli anni 2000-2010, o addirittura leggermente oltrepassato, il livello record degli anni 1910-1920”. Negli anni 2000-2010 nei paesi ricchi è stato ritrovato il livello di capitalizzazione di Borsa (in proporzione alla produzione interna o al reddito nazionale) esistente a Parigi o a Londra negli anni 1900-1910.
Oggi, il valore del capitale finanziario, immobiliare – cioè del capitale non umano – nei paesi ricchi è equivalente a sei anni di produzione e di reddito nazionale, un rapporto simile a quello che esisteva nel XIX secolo. Piketty si chiede: “il mondo del 2050 o 2100 sarà posseduto dai traders, dai super dirigenti e da chi controlla patrimoni importanti, oppure dai paesi petroliferi, o ancora dalla Banca di Cina, a meno che non siano i paradisi fiscali, che ospitano, in un modo o nell’altro, l’insieme di questi attori?”.
Per evitare questa deriva – sempre più accentuata dallo squilibrio tra tassi di crescita che non vanno più al di là dell’1-2% nel mondo ricco, di fronte a una rendita del capitale, finanziario e immobiliare, intorno al 4-5% - Pikeyy invoca scelte politiche, poiché “non esiste nessun processo naturale e spontaneo che permetta di evitare che le tendenze destabilizzatrici e che portano all’ineguaglianza con l’abbiano vinta durevolmente”. La principale fonte di convergenza dei redditi è la diffusione delle conoscenze e l’investimento nella scuola per tutti, sia all’interno di ogni paese che tra paesi. A questo Pikeyy suggerisce di aggiungere un’imposta mondiale progressiva sui redditi da capitale, perché l’eguaglianza formale dei diritti di fronte alla forza del mercato non è sufficiente per garantire una società più giusta. Ma la vicenda della Tassa sulle transazioni finanziarie, che avrebbe dovuto essere introdotta in nove paesi della Ue, ma che progressivamente è svuotata di ogni contenuto e di fatto abbandonata, ci dice che la battaglia sarà lunga e difficile, senza nessuna certezza di vincerla.
(18 aprile 2014)
http://temi.repubblica.it/micromega-onl ... -economia/
Thomas Piketty con il suo studio sulle disuguaglianze sta conquistando l’America,
compresi Krugman e Stiglitz con cui si è confrontato.
di Federico Rampini, da Repubblica, 18 aprile 2014
NEW YORK - Era dai tempi dell’inglese John Maynard Keynes, oltre 80 anni fa, che l’America non si lasciava conquistare da un economista europeo. La nazione più ricca e più avanzata del mondo riteneva di non aver nulla da imparare dalla vecchia Europa, almeno nella scienza economica. Oggi si ricrede. È merito di un quarantenne francese, Thomas Piketty, autore del Capitale nel XXI secolo, un monumentale studio su due secoli di diseguaglianze, la loro storia e le loro cause. L’editore americano ha dovuto anticiparne la traduzione dal francese, perché sommerso di prenotazioni online (e le prime edizioni sono già esaurite).
Il think tank democratico più vicino a Barack Obama, il Center for America Progress, lo ha invitato lunedì a Washington e il presidente ha mandato diversi consiglieri ad ascoltarlo. Harvard lo aspetta per stasera. In mezzo, la sua tappa di 48 ore a New York è stata un fuoco d’artificio. All’università Cuny, il francese è riuscito a fare un piccolo miracolo: riunire i due premi Nobel dell’economia Paul Krugman e Joseph Stglitz, due superstar inclini al protagonismo e noti per la loro rivalità accademica. Per Stiglitz lo studio di Piketty «è un contributo fondamentale», Krugman si dice «affascinato». In cerca di un nuovo «pensiero forte» dopo la grande crisi del 2008, l’America sembra averlo trovato in questo francese che l’ha ripudiata anni fa. Appena ventenne, Piketty insegnò qui al prestigioso Massachusetts Institute of Technology. Poi preferì tornare in Francia, perché diffidente verso la «deriva matematica» dei suoi colleghi americani. Verso i quali non lesina le critiche, accusando molti di loro di essere prigionieri di conflitti d’interessi, al servizio di un’ideologia che perpetua i privilegi delle oligarchie.
L’originalità di Piketty da una parte sta nell’aver ricostruito (guidando una squadra mondiale di oltre trenta economisti) l’andamento secolare delle diseguaglianze, sia nei redditi sia nei patrimoni. Dopo la descrizione, l’interpretazione. Una causa delle diseguaglianze odierne sta nel fatto che un’élite – prevalentemente di top manager – ha «fatto secessione » dal resto della società, si è conquistata il potere di fissare i propri stipendi in modo autonomo, senza alcun collegamento con la propria produttività. Il secondo fattore è perfino più importante: quando la crescita economica e demografica ristagna, prende il sopravvento la rendita finanziaria, automaticamente chi ha patrimoni accumulati diventa sempre più ricco e distanzia il resto. Ecco i passaggi più significativi del dibattito al Cuny.
Thomas Piketty: «Questo studio collettivo è cominciato 15 anni fa ed è composto di due parti. Da un lato abbiamo raccolto dati sui redditi, in quei paesi dov’è esistita da tempo un’imposta personale sui redditi. Cioè tutti i paesi occidentali ed anche Cina, India, molte nazioni dell’America latina. Dall’altro lato abbiamo raccolto i dati sui patrimoni, usando anche le statistiche sulle tasse di successione. Europa e Giappone sono due esempi illuminanti per capire come si crea una società “patrimoniale”, dove contano le ricchezze ereditarie: bassa natalità e bassa crescita economica rendono prevalenti le ricchezze già accumulate. Questa sta diventando la regola nel mondo intero. La chiave di tutto sta nel rapporto tra due variabili: da una parte il rendimento netto del capitale, dall’altra la crescita economica (a sua volta legata anche a quella demografica). Se il rendimento del capitale supera la crescita economica, come sta accadendo, ecco che il XXI secolo assomiglia sempre di più all’Ottocento: si va verso delle società oligarchiche. L’eccezione, l’anomalia più importante, l’abbiamo avuta per un lungo periodo del Novecento, dopo le due guerre mondiali, e in particolare nel “trentennio dorato” che va dalla ricostruzione post-bellica agli anni Settanta. Le diseguaglianze diminuirono sia per la forte crescita economica e demografica, sia per gli aumenti nella tassazione dei ricchi. Ci furono prelievi fiscali straordinari sui patrimoni, spesso legati allo sforzo bellico. E ci fu un forte aumento della tassazione progressiva sui redditi. A partire dagli Stati Uniti. Oggi può stupire, ma fu l’America a inventare una patrimoniale progressiva, con questa giustificazione: non voleva diventare una società ineguale come quella europea. E gli americani dopo la seconda guerra mondiale esportarono la loro elevata tassazione nelle due potenze sconfitte, Germania e Giappone, come un segno distintivo di civiltà».
Joseph Stiglitz: «Molti di noi studiarono all’università proprio nel trentennio magico, l’Età dell’Oro della crescita, e abbiamo finito per credere che quello fosse lo stato naturale. È importante l’attenzione che Piketty rivolge all’eredità come fonte di diseguaglianze. La successione ereditaria riguarda il capitale finanziario, immobiliare, e anche il capitale umano, visto l’accesso sempre più ineguale all’istruzione di alto livello. Noi qui in America crediamo di vivere in una società meritocratica per eccellenza, invece stiamo diventando una società di tipo ereditario, con una mobilità sociale perfino inferiore ad alcune nazioni europee. Le diseguaglianze, come dimostra Piketty, non sono il risultato di forze economiche ineluttabili, ma sono il prodotto delle politiche. La politica a sua volta è plasmata dalle diseguaglianze, viviamo in un sistema dove il potere politico è concentrato verso l’alto, e assistiamo a uno svuotamento del ceto medio. Oltre al rapporto tra rendimento del capitale e crescita, illustrato da Piketty, gli altri fattori che pesano sulle diseguaglianze sono la distribuzione del capitale stesso, le norme sulla successione ereditaria, la “segregazione economica” che deriva dagli accessi selettivi alle università o dai matrimoni “endogamici”, infine la tassazione del capitale. È importante capire che creando una società più equa, andremmo anche verso un’economia più efficiente e dinamica».
Paul Krugman: «Il lavoro di Piketty apre una nuova frontiera intellettuale. Se stasera siete venuti così numerosi ad ascoltarlo qui, se il suo libro ci colpisce con tanta forza, è perché ne sentivamo il bisogno. Le élite hanno avuto la capacità di imporre un’ideologia che giustifica i loro privilegi. Per esempio hanno descritto le diseguaglianze come l’ineluttabile conseguenza di livelli d’istruzione diversi: non è affatto decisiva questa spiegazione, tant’è che un prof di liceo e un top manager hanno una preparazione culturale comparabile. Le performance individuali non hanno più un nesso con i guadagni dei top manager, che costituiscono gran parte dello 0,1% degli straricchi. Qui non siamo più nel mondo di Gordon Gekko, il personaggio di Oliver Stone nel film Wall Street di 27 anni fa, qui siamo in un capitalismo patrimoniale dove i protagonisti sono i figli di Gordon Gekko che hanno ereditato la sua fortuna. Mi colpisce l’analogia ideologica con la Terza Repubblica francese che descrive Piketty. I privilegiati della Belle Époque usavano questo argomento: c’è stata la Rivoluzione francese, come possiamo definirci una società diseguale se abbiamo tutti gli stessi diritti? È lo stesso discorso che fanno i privilegiati nell’America del XXI secolo. Mi piace questa espressione di Piketty: il passato divora il futuro. Cattura l’essenza di ciò che è una società patrimoniale».
Stiglitz: «Nei grafici di Piketty si vede che l’imposta marginale Usa scese negli anni Venti del secolo scorso, proprio quando le diseguaglianze erano già estreme e si sarebbe dovuto fare l’esatto contrario per ovviarvi. Questo conferma la forza dell’ideologia. Oggi viviamo in America sotto un’ideologia sintetizzata da una sentenza della Corte suprema secondo cui “le imprese sono come persone”, hanno gli stessi diritti meritevoli di tutela».
Piketty: «Non siamo giunti alla fine di questo processo di divaricazione. Le diseguaglianze cresceranno ancora, rendendoci simili alla Francia pre-rivoluzionaria, dove i nobili rappresentavano l’1% della popolazione. È decisiva l’importanza dell’apparato di persuasione, con cui i privilegiati possono rendere la diseguaglianza accettabile, o inevitabile. Il XX secolo per invertire la tendenza alle diseguaglianze e imporre un cambiamento di direzione, ebbe bisogno di due guerre mondiali».
Il secolo delle diseguaglianze
di Anna Maria Merlo, da il manifesto
L’ex galeotto Vautrin, rivelando cinicamente allo studente spiantato Eugène de Rastignac i meccanismi sociali, gli aveva spiegato che era molto più conveniente sposare un’ereditiera che studiare e lavorare. Balzac scrive Le Père Goriot nel 1835. Per tutto il XIX secolo e l’inizio del XX, fino alla Belle Epoque, questo suggerimento resta valido. Ai tempi di Proust, a Parigi viveva un ventesimo della popolazione francese, ma la capitale concentrava un quarto dei patrimoni del paese. La “prima mondializzazione” (1870-1914) ha accresciuto le diseguaglianze sociali. Poi le due guerre mondiali, le distruzioni materiali, l’inflazione e anche alcune scelte politiche hanno ridotto il peso dei patrimoni. Ma oggi, nell’epoca di un’altra mondializzazione, il XXI secolo rischia di tornare al passato e di assomigliare al XIX.
È la tesi di un poderoso volume dal titolo ambizioso, Le capital au XXIe siècle, che l’economista Thomas Piketty pubblica da Seuil (969 pag., 25€). “All’inizio del XXI secolo l’eredità non è lontana dal ritrovare l’importanza che aveva all’epoca del Père Goriot” afferma Piketty. La spiegazione economica di questa minaccia è la seguente: “poiché il tasso di rendimento del capitale oltrepassa durevolmente il tasso di crescita della produzione e del reddito, situazione che è durata fino alla fine del XIX secolo e che rischia fortemente di tornare ad essere la norma nel XXI secolo, il capitalismo produce meccanicamente delle ineguaglianze insostenibili, arbitrarie, rimettendo radicalmente in causa i valori meritocratici sui quali si fondano le società democratiche”.
Piketty, basandosi su una considerevole massa di dati statistici (soprattutto di Francia, Gran Bretagna, Usa, ma anche dei paesi emergenti grazie alla World Top Incomes Database), analizza la questione della ripartizione delle ricchezze e, quindi, dell’ineguaglianza. Tra Marx, che aveva analizzato l’accumulazione del capitale che avrebbe condotto a una concentrazione in mano di pochi e Kuznets, che ottimisticamente credeva nelle forze equilibratrici della crescita, della concorrenza e del progresso tecnico, che avrebbe dovuto portare spontaneamente alla riduzione delle ineguaglianze.
Gli spari dei poliziotti contro i minatori, a Marikana vicino a Johannesburg il 16 agosto 2012, che hanno fatto 34 morti tra i lavoratori che chiedevano un aumento di stipendio che la compagnia mineraria con sede a Londra non voleva concedere per poter versare maggiori dividendi agli azionisti, ci ricorda l’attualità dello scontro tra redditi da lavoro e redditi da capitale. A Heymarket Square, a Chicago, il 1° maggio 1886 c’erano state violenze analoghe. “Lo scontro tra capitale e lavoro appartiene al passato oppure sarà una delle chiavi del XXI secolo?” si chiede Piketty.
La questione della ripartizione delle ricchezze è già al centro delle analisi dell’economia politica classica. Malthus, a fine ‘700, vede la minaccia nella sovrappopolazione. Ricardo si inquieta del prezzo della terra, bene raro, e dell’evoluzione della rendita fondiaria. Cinquant’anni dopo Ricardo, Marx analizza la dinamica del capitalismo in piena crescita. I dati statistici dicono che “una crescita debole permette di equilibrare solo debolmente il principio marxista di accumulazione permanente”. Storicamente, nei paesi europei industrializzati i salari cominciano a crescere, molto debolmente, solo nell’ultimo terzo del XIX secolo: ma “dal momento in cui il tasso di crescita della popolazione e della produttività è relativamente debole, i patrimoni accumulati nel passato assumono naturalmente un’importanza considerevole, potenzialmente smisurata e destabilizzatrice per le società”.
L’happy-end prevista dalla curva a U di Simon Kuznets a metà del secolo scorso – le ineguaglianze di reddito destinate a diminuire nella fase avanzata dello sviluppo capitalistico – non ha luogo all’inizio del XXI secolo. Certo, c’è stata una forte riduzione delle ineguaglianze di reddito tra la prima guerra mondiale e la fine della seconda: negli Usa, per esempio, il 10% degli americani più ricchi concentrava ogni anno il 45-50% del reddito nazionale negli anni ’10. Alla fine degli anni ’40, questa percentuale è caduta al 30-35% (oltre alle guerre e all’inflazione, un ruolo l’ha avuto anche l’imposta progressiva sul reddito, introdotta nel 1913 negli Usa, nel 1909 in Gran Bretagna, nel 1914 in Francia, nel 1922 in India, nel 1932 in Argentina). Ma dagli anni ’70-’80, la tendenza si è invertita. Dal secondo dopoguerra c’è stato il tempo per ricostruire i patrimoni e la svolta di Reagan, con l’abbassamento delle tasse, ha fatto il resto. Le ineguaglianze crescono: negli Usa, dimostra Piketty, “la concentrazione dei redditi ha ritrovato negli anni 2000-2010, o addirittura leggermente oltrepassato, il livello record degli anni 1910-1920”. Negli anni 2000-2010 nei paesi ricchi è stato ritrovato il livello di capitalizzazione di Borsa (in proporzione alla produzione interna o al reddito nazionale) esistente a Parigi o a Londra negli anni 1900-1910.
Oggi, il valore del capitale finanziario, immobiliare – cioè del capitale non umano – nei paesi ricchi è equivalente a sei anni di produzione e di reddito nazionale, un rapporto simile a quello che esisteva nel XIX secolo. Piketty si chiede: “il mondo del 2050 o 2100 sarà posseduto dai traders, dai super dirigenti e da chi controlla patrimoni importanti, oppure dai paesi petroliferi, o ancora dalla Banca di Cina, a meno che non siano i paradisi fiscali, che ospitano, in un modo o nell’altro, l’insieme di questi attori?”.
Per evitare questa deriva – sempre più accentuata dallo squilibrio tra tassi di crescita che non vanno più al di là dell’1-2% nel mondo ricco, di fronte a una rendita del capitale, finanziario e immobiliare, intorno al 4-5% - Pikeyy invoca scelte politiche, poiché “non esiste nessun processo naturale e spontaneo che permetta di evitare che le tendenze destabilizzatrici e che portano all’ineguaglianza con l’abbiano vinta durevolmente”. La principale fonte di convergenza dei redditi è la diffusione delle conoscenze e l’investimento nella scuola per tutti, sia all’interno di ogni paese che tra paesi. A questo Pikeyy suggerisce di aggiungere un’imposta mondiale progressiva sui redditi da capitale, perché l’eguaglianza formale dei diritti di fronte alla forza del mercato non è sufficiente per garantire una società più giusta. Ma la vicenda della Tassa sulle transazioni finanziarie, che avrebbe dovuto essere introdotta in nove paesi della Ue, ma che progressivamente è svuotata di ogni contenuto e di fatto abbandonata, ci dice che la battaglia sarà lunga e difficile, senza nessuna certezza di vincerla.
(18 aprile 2014)
http://temi.repubblica.it/micromega-onl ... -economia/
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Re: Capitale nel XXI secolo
Un francese a New York dà lezioni di economia
......Era ora.................
......Era ora.................
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Re: Capitale nel XXI secolo
Verso i quali non lesina le critiche, accusando molti di loro di essere prigionieri di conflitti d’interessi, al servizio di un’ideologia che perpetua i privilegi delle oligarchie.
*
Che gli economisti siano prigionieri dei loro conflitti d’interesse è stato scritto anche da John Kenneth Galbraith (1908 – 2006)
*
Premesso che tutti i nomi che usiamo sono convenzionali, io non chiamerei mai un bicchiere come un cammello. Né una rana come un idrovolante.
Se vogliamo dare le giuste definizioni, sia quella statunitense, che la nostra, non sono delle democrazie, ma bensì delle oligarchie. Non può essere chiamata democrazia una nazione in cui un cittadino esiste solo quando deve versare l’obolo allo Stato o quando viene chiamato alle urne per segnare una X su di una scheda elettorale.
Questo si può fare benissimo in un sistema di tipo oligarchico.
*
Che gli economisti siano prigionieri dei loro conflitti d’interesse è stato scritto anche da John Kenneth Galbraith (1908 – 2006)
*
Premesso che tutti i nomi che usiamo sono convenzionali, io non chiamerei mai un bicchiere come un cammello. Né una rana come un idrovolante.
Se vogliamo dare le giuste definizioni, sia quella statunitense, che la nostra, non sono delle democrazie, ma bensì delle oligarchie. Non può essere chiamata democrazia una nazione in cui un cittadino esiste solo quando deve versare l’obolo allo Stato o quando viene chiamato alle urne per segnare una X su di una scheda elettorale.
Questo si può fare benissimo in un sistema di tipo oligarchico.
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Re: Capitale nel XXI secolo
Certo, c'è da cantare ALLELUIA!!camillobenso ha scritto:Un francese a New York dà lezioni di economia
......Era ora.................
Anche se ...dire:
"l’eguaglianza formale dei diritti di fronte alla forza del mercato non è sufficiente per garantire una società più giusta."
Non ci vuole molto, lo sa, e ne è convinto da sempre, anche uno terra terra come me.
Ad ogni modo, dirlo in quel consesso è importante ed utile.
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Re: Capitale nel XXI secolo
Era ora... parole giuste...
Ma come tradurle in fatti?
Ma come tradurle in fatti?
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Re: Capitale nel XXI secolo
In edicola sul Fatto del 7 maggio: "Piketty l'economista che ha sconvolto il mondo"
Sulle quattro pagine de il Fatto economico il nuovo Marx, uno studioso francese con le sue teoria sulle disuguaglianze economiche. Poi i piani di Marchionne per la Fiat
http://www.ilfattoquotidiano.it/#?refresh_ce
^^^^^^^^^^^^
In edicola sul Fatto del 7 maggio: “Piketty, l’economista che ha sconvolto il mondo”
Video con annuncio di Stefano Feltri.
http://tv.ilfattoquotidiano.it/2014/05/ ... do/277834/
Sulle quattro pagine de il Fatto economico un approfondimento su Thomas Piketty. Da molti definito come il nuovo Marx, l’economista francese con la sua teoria sulle disuguaglianze economiche, sta spopolando in tutto il mondo suscitando l’attenzione persino dei consiglieri economici del presidente Usa Obama. Il suo “Capital in the Twenthy-First Century” (Il capitale nel XXI secolo), libro criticato duramente dal The Wall Street Journal, definendolo un “bizzarro massetto ideologico”, grazie a tabelle, grafici e modelli matematici ricostruisce l’evoluzione e le dinamiche del capitalismo negli ultimi tre secoli. E il libro in poco tempo è diventato il più venduto su Amazon in America. Il premio Nobel Paul Krugman lo ha definito “un autentico capolavoro destinato a cambiare il modo in cui ragioniamo di economia”. Poi i piani di Sergio Marchionne per la Fiat dopo la fusione con la Chrysler. Ed ancora. Un rapporto riservato sui destini del Servizio Sanitario Nazionale. Ci vediamo ‘In edicola’: ogni sera le anticipazioni su ilfattoquotidiano.it (riprese e montaggio Samuele Orini e Paolo Dimalio, elaborazione grafica Pierpaolo Balani).
Sulle quattro pagine de il Fatto economico il nuovo Marx, uno studioso francese con le sue teoria sulle disuguaglianze economiche. Poi i piani di Marchionne per la Fiat
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In edicola sul Fatto del 7 maggio: “Piketty, l’economista che ha sconvolto il mondo”
Video con annuncio di Stefano Feltri.
http://tv.ilfattoquotidiano.it/2014/05/ ... do/277834/
Sulle quattro pagine de il Fatto economico un approfondimento su Thomas Piketty. Da molti definito come il nuovo Marx, l’economista francese con la sua teoria sulle disuguaglianze economiche, sta spopolando in tutto il mondo suscitando l’attenzione persino dei consiglieri economici del presidente Usa Obama. Il suo “Capital in the Twenthy-First Century” (Il capitale nel XXI secolo), libro criticato duramente dal The Wall Street Journal, definendolo un “bizzarro massetto ideologico”, grazie a tabelle, grafici e modelli matematici ricostruisce l’evoluzione e le dinamiche del capitalismo negli ultimi tre secoli. E il libro in poco tempo è diventato il più venduto su Amazon in America. Il premio Nobel Paul Krugman lo ha definito “un autentico capolavoro destinato a cambiare il modo in cui ragioniamo di economia”. Poi i piani di Sergio Marchionne per la Fiat dopo la fusione con la Chrysler. Ed ancora. Un rapporto riservato sui destini del Servizio Sanitario Nazionale. Ci vediamo ‘In edicola’: ogni sera le anticipazioni su ilfattoquotidiano.it (riprese e montaggio Samuele Orini e Paolo Dimalio, elaborazione grafica Pierpaolo Balani).
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Re: Capitale nel XXI secolo
Piketty riscrive l’economia: i ricchi vinceranno sempre
(Stefano Feltri).
07/05/2014 di triskel182
PikettyCon il suo libro sul “Capitale nel XXI secolo”, l’economista francese è diventato un fenomeno planetario perché rivela i segreti della disuguaglianza.
Nel 2012, il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz ha pubblicato il voluminoso saggio Il prezzo della disuguaglianza – Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro (Einaudi).
Non se n’è accorto nessuno.
Due anni dopo, un libro sullo stesso tema firmato da un economista praticamente sconosciuto, con il difetto di essere francese (tutta la ricerca di frontiera è anglosassone), è stato accolto come il contributo più importante degli ultimi decenni: Il capitale nel Ventunesimo secolo di Thomas Piketty continua a essere il primo nelle classifiche di Amazon, da quando è uscita la traduzione inglese (l’originale francese era passato quasi inosservato) non si parla d’altro, il Financial Times ne discute quasi tutti i giorni, nell’ultimo numero l’Economist gli dedica un articolo dal titolo solo in parte ironico Bigger than Marx, più grande di Marx.
Il barbuto studioso di Treviri, di sicuro, non si è arricchito con il suo Capitale, Piketty che si presenta come un erede più abile a maneggiare i dati e dalle convinzioni più solide, invece, è ormai una superstar del dibattito economico. È quasi con pudore che qualche giornale ha osato ricordare che di lui in passato si era parlato più per i maltrattamenti inflitti alla ex compagna, l’attuale ministro della Cultura francese Aurelie Filippetti, che per i risultati accademici.
PIKETTY È INTERESSANTE per due ragioni: le sue idee e la sua improvvisa popolarità che rivela come la sua analisi abbia risposto a una domanda di senso inespressa, ma percepibile in un momento in cui non ci sono più ideologie e neppure molte idee. Nel suo libro Piketty parte da Karl Marx e dalla sua tesi che il capitale si accumula all’infinito, ma con rendimenti decrescenti, cosa che porta a conflitti tra capitalisti sempre in cerca di nuove opportunità. Se i rendimenti del capitale però sono comunque maggiori della crescita dell’economia reale, i ricchi diventeranno sempre più ricchi e la disuguaglianza aumenterà: il rapporto tra capitale e redditi crescerà da meno di 4,5 del 2010 a 6,5 nel 2100.
Il Nobel Robert Solow, su New Republic, sintetizza così il ragionamento: “Piketty suggerisce che la crescita globale dell’output rallenterà nel prossimo secolo dal 3 all’1,5 per anno. Fissa il tasso di risparmi/investimenti al 10 per cento. Quindi si aspetta che il rapporto tra capitale e reddito crescerà fin quasi a 7”.
.
Per tradurre i numeri: le nostre economie occidentali non si stanno evolvendo in direzione di una maggiore uguaglianza, le spinte verso la socialdemocrazia e la redistribuzione del Novecento sono state un’eccezione e un’illusione, quello che ci aspetta è il ritorno a un capitalismo ottocentesco come quello dei romanzi di Jane Austen e Balzac in cui non importa quanto lavori, qualunque carriera non potrà mai eguagliare un buon matrimonio.
Perché la ricchezza non si accumula, si eredita. E questo non succede (soltanto) perché l’economia occidentale è trainata da tanti avidi Gordon Gekko che, come nel film di Oliver Stone, accumulano profitti a spese della classe media.
No, è la dinamica interna dell’economia: se il capitale (Piketty usa capital come sinonimo di wealth, cioè patrimonio, ricchezza) cresce sempre più in fretta dell’economia reale, visto che i ricchi hanno molta più ricchezza della classe media le cui sorti dipendono dai redditi, i ricchi diventeranno sempre più ricchi.
GLI ATTUALI SUPER STIPENDI dei top manager americani sono l’equivalente dei latifondi ricevuti in dono dai sovrani nelle economie fondali, cioè la premessa per una futura e crescente disuguaglianza tra chi ha e chi non ha (e non potrà mai avere).
Simon Kuznets ci aveva convinto che la disuguaglianza tende a ridursi nelle fasi di sviluppo, a prescindere dalla politica economica: è la marea che spinge in alto tutte le navi, gli yacht come le scialuppe. Al 10 per cento più ricco degli Stati Uniti nel 1913 faceva capo il 40-45 per cento del reddito prodotto in un anno, nel 1948 la quota era scesa al 30-35 per cento e da qui è nata la “curva di Kuznets”. Ma Piketty sostiene, forte di analisi quantitative e storiche, che non è stato il progresso a ridurre la disuguaglianza, ma la Seconda guerra mondiale.
Soltanto eventi traumatici come una guerra possono bilanciare l’effetto di una tensione profonda dell’economia. Tutto il resto sono palliativi, inclusa la proposta contenuta nel libro di una patrimoniale globale sulle grandi ricchezze: 1 per cento sui patrimoni tra uno e cinque milioni di euro, 2 per cento sopra i cinque milioni. Ogni anno e con un coordinamento tra tutti i Paesi del mondo per evitare che i ricchi si rifugino nei paradisi fiscali. Nessuno ha preso sul serio questa ricetta di Piketty: non realizzabile e soprattutto inutile, servirebbe soltanto a rallentare la concentrazione delle grandi ricchezze, ma il meccanismo descritto dall’economista francese sembra invincibile. Tanto che i critici più liberisti, come Carlo Stagnaro sul Foglio, hanno concluso che nel mondo di Piketty i capitalisti non devono poi sentirsi troppo in colpa . Non dipende da loro se diventano sempre più ricchi, it’s the economy, stupid.
Piketty è un economista atipico, che attinge a letteratura, filosofia e storia del pensiero economico, ma non dimentica equazioni e serie storiche che sono la premessa (necessaria ma non sufficiente) per sostenere una tesi e non limitarsi a esprimere un’opinione. Risale molto indietro nel tempo, usando i dati sull’imposizione fiscale invece che soltanto quelli sui redditi, così da riuscire, con qualche semplificazione, a confrontare la ricchezza in epoche molto distanti tra loro. Paul Krugman, premio Nobel e coscienza collettiva dei liberal del mondo e soprattutto di quelli che leggono il New York Times, si è entusiasmato: ecco una valida spiegazione teorica del perché negli ultimi decenni la disuguaglianza è aumentata tanto. Finito l’effetto livellatore della guerra, il capitale ha corso più dell’economia.
SUL FINANCIAL TIMES Martin Wolf ha notato che Piketty ci ha spiegato tutto tranne perché la disuguaglianza è così disdicevole. Il filosofo John Rawls sosteneva che un certo tasso di disuguaglianza fosse accettabile se ne traevano beneficio anche gli ultimi della scala sociale.
C’è una consistente letteratura sul perché società troppo polarizzate funzionano male: due epidemiologi, Richarld Wilkinson e Kate Pinkett, qualche anno fa hanno dimostrato il legame tra disuguaglianza e varie cose sgradevoli (aborti, obesità, droghe, hanno escluso i suicidi perché la depressione nelle egualitarie società scandinave avrebbe indebolito le conclusioni). Piketty ha cambiato la scienza economica, sostiene Krugman. Di sicuro è arrivato al momento giusto: dopo sette anni di crisi, in tutto il mondo gli economisti tirano un sospiro di sollievo.
Finalmente c’è una nuova narrazione che spiega cosa sta succedendo.
E assolve tutti. I ricchi che si arricchiscono, i politici che non fanno abbastanza politiche re-distributive , gli imprenditori che non investono nell’economia reale, le banche che non prestano. Piketty ha aperto un dibattito.
Adesso ci vuole qualcuno (di sinistra) che scopra come distruggere la Pikettynomics e il suo cuore che Robert Solow identifica nel “meccanismo del ricco che diventa più ricco”.
Da Il Fatto Quotidiano del 07/05/2014.
(Stefano Feltri).
07/05/2014 di triskel182
PikettyCon il suo libro sul “Capitale nel XXI secolo”, l’economista francese è diventato un fenomeno planetario perché rivela i segreti della disuguaglianza.
Nel 2012, il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz ha pubblicato il voluminoso saggio Il prezzo della disuguaglianza – Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro (Einaudi).
Non se n’è accorto nessuno.
Due anni dopo, un libro sullo stesso tema firmato da un economista praticamente sconosciuto, con il difetto di essere francese (tutta la ricerca di frontiera è anglosassone), è stato accolto come il contributo più importante degli ultimi decenni: Il capitale nel Ventunesimo secolo di Thomas Piketty continua a essere il primo nelle classifiche di Amazon, da quando è uscita la traduzione inglese (l’originale francese era passato quasi inosservato) non si parla d’altro, il Financial Times ne discute quasi tutti i giorni, nell’ultimo numero l’Economist gli dedica un articolo dal titolo solo in parte ironico Bigger than Marx, più grande di Marx.
Il barbuto studioso di Treviri, di sicuro, non si è arricchito con il suo Capitale, Piketty che si presenta come un erede più abile a maneggiare i dati e dalle convinzioni più solide, invece, è ormai una superstar del dibattito economico. È quasi con pudore che qualche giornale ha osato ricordare che di lui in passato si era parlato più per i maltrattamenti inflitti alla ex compagna, l’attuale ministro della Cultura francese Aurelie Filippetti, che per i risultati accademici.
PIKETTY È INTERESSANTE per due ragioni: le sue idee e la sua improvvisa popolarità che rivela come la sua analisi abbia risposto a una domanda di senso inespressa, ma percepibile in un momento in cui non ci sono più ideologie e neppure molte idee. Nel suo libro Piketty parte da Karl Marx e dalla sua tesi che il capitale si accumula all’infinito, ma con rendimenti decrescenti, cosa che porta a conflitti tra capitalisti sempre in cerca di nuove opportunità. Se i rendimenti del capitale però sono comunque maggiori della crescita dell’economia reale, i ricchi diventeranno sempre più ricchi e la disuguaglianza aumenterà: il rapporto tra capitale e redditi crescerà da meno di 4,5 del 2010 a 6,5 nel 2100.
Il Nobel Robert Solow, su New Republic, sintetizza così il ragionamento: “Piketty suggerisce che la crescita globale dell’output rallenterà nel prossimo secolo dal 3 all’1,5 per anno. Fissa il tasso di risparmi/investimenti al 10 per cento. Quindi si aspetta che il rapporto tra capitale e reddito crescerà fin quasi a 7”.
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Per tradurre i numeri: le nostre economie occidentali non si stanno evolvendo in direzione di una maggiore uguaglianza, le spinte verso la socialdemocrazia e la redistribuzione del Novecento sono state un’eccezione e un’illusione, quello che ci aspetta è il ritorno a un capitalismo ottocentesco come quello dei romanzi di Jane Austen e Balzac in cui non importa quanto lavori, qualunque carriera non potrà mai eguagliare un buon matrimonio.
Perché la ricchezza non si accumula, si eredita. E questo non succede (soltanto) perché l’economia occidentale è trainata da tanti avidi Gordon Gekko che, come nel film di Oliver Stone, accumulano profitti a spese della classe media.
No, è la dinamica interna dell’economia: se il capitale (Piketty usa capital come sinonimo di wealth, cioè patrimonio, ricchezza) cresce sempre più in fretta dell’economia reale, visto che i ricchi hanno molta più ricchezza della classe media le cui sorti dipendono dai redditi, i ricchi diventeranno sempre più ricchi.
GLI ATTUALI SUPER STIPENDI dei top manager americani sono l’equivalente dei latifondi ricevuti in dono dai sovrani nelle economie fondali, cioè la premessa per una futura e crescente disuguaglianza tra chi ha e chi non ha (e non potrà mai avere).
Simon Kuznets ci aveva convinto che la disuguaglianza tende a ridursi nelle fasi di sviluppo, a prescindere dalla politica economica: è la marea che spinge in alto tutte le navi, gli yacht come le scialuppe. Al 10 per cento più ricco degli Stati Uniti nel 1913 faceva capo il 40-45 per cento del reddito prodotto in un anno, nel 1948 la quota era scesa al 30-35 per cento e da qui è nata la “curva di Kuznets”. Ma Piketty sostiene, forte di analisi quantitative e storiche, che non è stato il progresso a ridurre la disuguaglianza, ma la Seconda guerra mondiale.
Soltanto eventi traumatici come una guerra possono bilanciare l’effetto di una tensione profonda dell’economia. Tutto il resto sono palliativi, inclusa la proposta contenuta nel libro di una patrimoniale globale sulle grandi ricchezze: 1 per cento sui patrimoni tra uno e cinque milioni di euro, 2 per cento sopra i cinque milioni. Ogni anno e con un coordinamento tra tutti i Paesi del mondo per evitare che i ricchi si rifugino nei paradisi fiscali. Nessuno ha preso sul serio questa ricetta di Piketty: non realizzabile e soprattutto inutile, servirebbe soltanto a rallentare la concentrazione delle grandi ricchezze, ma il meccanismo descritto dall’economista francese sembra invincibile. Tanto che i critici più liberisti, come Carlo Stagnaro sul Foglio, hanno concluso che nel mondo di Piketty i capitalisti non devono poi sentirsi troppo in colpa . Non dipende da loro se diventano sempre più ricchi, it’s the economy, stupid.
Piketty è un economista atipico, che attinge a letteratura, filosofia e storia del pensiero economico, ma non dimentica equazioni e serie storiche che sono la premessa (necessaria ma non sufficiente) per sostenere una tesi e non limitarsi a esprimere un’opinione. Risale molto indietro nel tempo, usando i dati sull’imposizione fiscale invece che soltanto quelli sui redditi, così da riuscire, con qualche semplificazione, a confrontare la ricchezza in epoche molto distanti tra loro. Paul Krugman, premio Nobel e coscienza collettiva dei liberal del mondo e soprattutto di quelli che leggono il New York Times, si è entusiasmato: ecco una valida spiegazione teorica del perché negli ultimi decenni la disuguaglianza è aumentata tanto. Finito l’effetto livellatore della guerra, il capitale ha corso più dell’economia.
SUL FINANCIAL TIMES Martin Wolf ha notato che Piketty ci ha spiegato tutto tranne perché la disuguaglianza è così disdicevole. Il filosofo John Rawls sosteneva che un certo tasso di disuguaglianza fosse accettabile se ne traevano beneficio anche gli ultimi della scala sociale.
C’è una consistente letteratura sul perché società troppo polarizzate funzionano male: due epidemiologi, Richarld Wilkinson e Kate Pinkett, qualche anno fa hanno dimostrato il legame tra disuguaglianza e varie cose sgradevoli (aborti, obesità, droghe, hanno escluso i suicidi perché la depressione nelle egualitarie società scandinave avrebbe indebolito le conclusioni). Piketty ha cambiato la scienza economica, sostiene Krugman. Di sicuro è arrivato al momento giusto: dopo sette anni di crisi, in tutto il mondo gli economisti tirano un sospiro di sollievo.
Finalmente c’è una nuova narrazione che spiega cosa sta succedendo.
E assolve tutti. I ricchi che si arricchiscono, i politici che non fanno abbastanza politiche re-distributive , gli imprenditori che non investono nell’economia reale, le banche che non prestano. Piketty ha aperto un dibattito.
Adesso ci vuole qualcuno (di sinistra) che scopra come distruggere la Pikettynomics e il suo cuore che Robert Solow identifica nel “meccanismo del ricco che diventa più ricco”.
Da Il Fatto Quotidiano del 07/05/2014.
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Re: Capitale nel XXI secolo
Il Giornale commenta così Piketty:
L'economista Piketty gioca a fare Robin Hood. E resuscita "Il Capitale"
Un saggio cerca di attualizzare la dottrina di Marx. Ma le ricette proposte sono sempre e solo a base di tasse
Antonio Salvi - Gio, 08/05/2014 - 09:36
A volte ritornano. Sono passati 150 anni dalla pubblicazione de Il Capitale di Marx e di nuovo oggi ci troviamo a parlare di un libro (Il capitale nel XXI secolo, sarà pubblicato nel 2015 per i tipi di Bompiani) che ne riprende il pensiero, avvalorandone le conclusioni con una copiosa (e noiosa) messe di dati empirici.
La tesi sostenuta nel nuovo volume è semplice: il capitalismo è un sistema economico che concentra progressivamente la ricchezza in poche mani ed esaspera le disuguaglianze sociali.
Il Marx del terzo millennio si chiama Thomas Piketty ed è già celebrato in tutti i salotti radical-chic che contano. A sostegno della sua tesi, le evidenze portate dall'autore sono funzionali a sostenere la tesi che quando il tasso di rendimento sul capitale è superiore al tasso di crescita dell'economia il rapporto tra stock di capitale e reddito (misura del grado di concentrazione della ricchezza) aumenta e con esso l'incremento della ricchezza nella mani di pochi privilegiati. Sarà. Il nostro autore nel suo volume trascura però di osservare due importanti fattori che sviliscono fortemente le sue conclusioni.
In primo luogo, gli aumenti in disuguaglianza non implicano che i poveri stiano oggi peggio che nel passato. Una corposa letteratura ha dimostrato come gli aumenti in disuguaglianza siano in larga parte dovuti al fatto che, anche se il famigerato 1% è divenuto molto più agiato nel corso del tempo, il restante 99% ha anch'esso registrato una crescita reale nel potere d'acquisto nei decenni passati. Cioè a dire che se vi sono stati miglioramenti in cima alla piramide, ciò non è avvenuto a spese del 99%. La logica di Piketty è invece fondata su un ragionamento a somma zero: i ricchi diventano più ricchi perché sottraggono ricchezza ai più poveri. La tesi di Marx, in sostanza. In realtà, quasi tutti gli economisti, a partire da Adam Smith, hanno dimostrato che il sistema capitalista fa crescere la dimensione complessiva della torta, così che tutti vedono tendenzialmente aumentare la propria fetta in termini reali. Il sistema capitalistico è più forte del sistema redistribuzionista ed egualitario perché sostiene che il problema della disuguaglianza non si risolve facendo scendere chi sta in vetta, ma facendo salire chi sta alla base. E non attraverso una redistribuzione forzata e robinhoodesca quanto invece con l'apertura della competizione a tutti i livelli, lasciando aperta a chi ne abbia voglia e talento la possibilità di poter scalare i gradini sociali. La controprova sono i sistemi comunisti, dove l'uguaglianza è sì realizzata ma al ribasso. Provate a chiedere a un «povero» se preferisce vivere in un sistema in cui alcuni gli sono molto avanti ma in cui è comunque in grado di vivere bene (e dove gli è inoltre lasciata la possibilità di aumentare la velocità per cercare di raggiungerli), piuttosto che in un sistema in cui chi è avanti è solo un po' avanti, ma dove entrambi sono a un passo dal baratro della sopravvivenza.
Il sistema capitalistico attuale è quello che nelle varie Silicon Valleys del mondo sta consentendo a migliaia di ragazzi di realizzare il proprio sogno di successo e di ricchezza partendo dal nulla. Creando intorno a sé un mondo economico-finanziario che dà da vivere (e bene) a centinaia di migliaia di persone.
Il sistema capitalistico genera rendite? E allora? Vogliamo dimenticare che le rendite sono l'altra faccia del risparmio e che dietro il risparmio c'è quasi sempre il sacrificio? Se questi ragazzi di successo un giorno lasceranno il passo ad altri più bravi di loro e si godranno il frutto delle loro intuizioni e del loro sudore, saranno da considerare dannati rentier da penalizzare?
In secondo luogo, l'analisi di Piketty trascura di considerare che il sistema capitalista produce continui cambiamenti nella composizione della ricchezza dovuti a mutamenti strutturali nelle dinamiche sociali, nella tecnologia e nel prezzo relativo dei beni. A tal fine, consiglio una lettura molto più interessante e attuale di Piketty: The second machine age di Brynjolfsson e McAfee, pubblicato nel 2014 in cui si sostiene che la rivoluzione informatica ha prodotto un'economia che favorisce: il fattore capitale rispetto al fattore lavoro; il lavoro specializzato rispetto a quello generico; le grandi aziende globali rispetto alle aziende locali. L'avanzare impetuoso delle computer technologies ha progressivamente ridotto la necessità di lavoro poco specialistico. E i Paesi che patiscono maggiormente un aumento della disparità di reddito sono quelli in cui il talento individuale è poco coltivato, gli investimenti in tecnologie informatiche contenuti, la propensione al local prevalente. Sembra la fotografia del nostro Paese in cui quindi, non a caso, le disparità sembrano così elevate.
Ma quello che fa maggiormente paura in Piketty è la cura proposta per ridurre le disparità. Aumento della progressività della tassazione (con aliquota massima all'80%!) e introduzione (o inasprimento) dell'imposta sulle successioni. La solita storia che chi produce ricchezza deve essere penalizzato e mortificato, e che sacrificarsi per il benessere dei propri figli sia un peccato mortale.
Attenzione, le conclusioni di Piketty costituiranno un cavallo di battaglia dei nuovi mâitre-à-penser del pensiero corretto, delle pinepicierne che ammorbano l'etere da diversi giorni riempiendo la testa degli italiani di impressionanti banalità. Un'avvisaglia inquietante si è già avuta nei giorni scorsi con l'analisi della ricchezza dei primi 10 paperoni d'Italia, la quale equivarrebbe a quella di 500 mila famiglie di operai. Peccato che facendo qualche rapido conto le cose siano leggibili anche così: nel 2012 questi signori hanno dato lavoro diretto a circa 330 mila persone. Se poi si considerano anche le imposte di periodo e si ipotizza di utilizzarle per semplicità tutte per il pagamento di pensioni (dividendo l'ammontare per 15 mila euro) si ottengono circa 150 mila pensioni. Il tutto senza considerare il lavoro dato ai fornitori di beni e servizi e il contributo al made in Italy nel mondo. Grazie paperoni, per tutto quello che fate per la nostra economia.
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/l ... 17105.html
L'economista Piketty gioca a fare Robin Hood. E resuscita "Il Capitale"
Un saggio cerca di attualizzare la dottrina di Marx. Ma le ricette proposte sono sempre e solo a base di tasse
Antonio Salvi - Gio, 08/05/2014 - 09:36
A volte ritornano. Sono passati 150 anni dalla pubblicazione de Il Capitale di Marx e di nuovo oggi ci troviamo a parlare di un libro (Il capitale nel XXI secolo, sarà pubblicato nel 2015 per i tipi di Bompiani) che ne riprende il pensiero, avvalorandone le conclusioni con una copiosa (e noiosa) messe di dati empirici.
La tesi sostenuta nel nuovo volume è semplice: il capitalismo è un sistema economico che concentra progressivamente la ricchezza in poche mani ed esaspera le disuguaglianze sociali.
Il Marx del terzo millennio si chiama Thomas Piketty ed è già celebrato in tutti i salotti radical-chic che contano. A sostegno della sua tesi, le evidenze portate dall'autore sono funzionali a sostenere la tesi che quando il tasso di rendimento sul capitale è superiore al tasso di crescita dell'economia il rapporto tra stock di capitale e reddito (misura del grado di concentrazione della ricchezza) aumenta e con esso l'incremento della ricchezza nella mani di pochi privilegiati. Sarà. Il nostro autore nel suo volume trascura però di osservare due importanti fattori che sviliscono fortemente le sue conclusioni.
In primo luogo, gli aumenti in disuguaglianza non implicano che i poveri stiano oggi peggio che nel passato. Una corposa letteratura ha dimostrato come gli aumenti in disuguaglianza siano in larga parte dovuti al fatto che, anche se il famigerato 1% è divenuto molto più agiato nel corso del tempo, il restante 99% ha anch'esso registrato una crescita reale nel potere d'acquisto nei decenni passati. Cioè a dire che se vi sono stati miglioramenti in cima alla piramide, ciò non è avvenuto a spese del 99%. La logica di Piketty è invece fondata su un ragionamento a somma zero: i ricchi diventano più ricchi perché sottraggono ricchezza ai più poveri. La tesi di Marx, in sostanza. In realtà, quasi tutti gli economisti, a partire da Adam Smith, hanno dimostrato che il sistema capitalista fa crescere la dimensione complessiva della torta, così che tutti vedono tendenzialmente aumentare la propria fetta in termini reali. Il sistema capitalistico è più forte del sistema redistribuzionista ed egualitario perché sostiene che il problema della disuguaglianza non si risolve facendo scendere chi sta in vetta, ma facendo salire chi sta alla base. E non attraverso una redistribuzione forzata e robinhoodesca quanto invece con l'apertura della competizione a tutti i livelli, lasciando aperta a chi ne abbia voglia e talento la possibilità di poter scalare i gradini sociali. La controprova sono i sistemi comunisti, dove l'uguaglianza è sì realizzata ma al ribasso. Provate a chiedere a un «povero» se preferisce vivere in un sistema in cui alcuni gli sono molto avanti ma in cui è comunque in grado di vivere bene (e dove gli è inoltre lasciata la possibilità di aumentare la velocità per cercare di raggiungerli), piuttosto che in un sistema in cui chi è avanti è solo un po' avanti, ma dove entrambi sono a un passo dal baratro della sopravvivenza.
Il sistema capitalistico attuale è quello che nelle varie Silicon Valleys del mondo sta consentendo a migliaia di ragazzi di realizzare il proprio sogno di successo e di ricchezza partendo dal nulla. Creando intorno a sé un mondo economico-finanziario che dà da vivere (e bene) a centinaia di migliaia di persone.
Il sistema capitalistico genera rendite? E allora? Vogliamo dimenticare che le rendite sono l'altra faccia del risparmio e che dietro il risparmio c'è quasi sempre il sacrificio? Se questi ragazzi di successo un giorno lasceranno il passo ad altri più bravi di loro e si godranno il frutto delle loro intuizioni e del loro sudore, saranno da considerare dannati rentier da penalizzare?
In secondo luogo, l'analisi di Piketty trascura di considerare che il sistema capitalista produce continui cambiamenti nella composizione della ricchezza dovuti a mutamenti strutturali nelle dinamiche sociali, nella tecnologia e nel prezzo relativo dei beni. A tal fine, consiglio una lettura molto più interessante e attuale di Piketty: The second machine age di Brynjolfsson e McAfee, pubblicato nel 2014 in cui si sostiene che la rivoluzione informatica ha prodotto un'economia che favorisce: il fattore capitale rispetto al fattore lavoro; il lavoro specializzato rispetto a quello generico; le grandi aziende globali rispetto alle aziende locali. L'avanzare impetuoso delle computer technologies ha progressivamente ridotto la necessità di lavoro poco specialistico. E i Paesi che patiscono maggiormente un aumento della disparità di reddito sono quelli in cui il talento individuale è poco coltivato, gli investimenti in tecnologie informatiche contenuti, la propensione al local prevalente. Sembra la fotografia del nostro Paese in cui quindi, non a caso, le disparità sembrano così elevate.
Ma quello che fa maggiormente paura in Piketty è la cura proposta per ridurre le disparità. Aumento della progressività della tassazione (con aliquota massima all'80%!) e introduzione (o inasprimento) dell'imposta sulle successioni. La solita storia che chi produce ricchezza deve essere penalizzato e mortificato, e che sacrificarsi per il benessere dei propri figli sia un peccato mortale.
Attenzione, le conclusioni di Piketty costituiranno un cavallo di battaglia dei nuovi mâitre-à-penser del pensiero corretto, delle pinepicierne che ammorbano l'etere da diversi giorni riempiendo la testa degli italiani di impressionanti banalità. Un'avvisaglia inquietante si è già avuta nei giorni scorsi con l'analisi della ricchezza dei primi 10 paperoni d'Italia, la quale equivarrebbe a quella di 500 mila famiglie di operai. Peccato che facendo qualche rapido conto le cose siano leggibili anche così: nel 2012 questi signori hanno dato lavoro diretto a circa 330 mila persone. Se poi si considerano anche le imposte di periodo e si ipotizza di utilizzarle per semplicità tutte per il pagamento di pensioni (dividendo l'ammontare per 15 mila euro) si ottengono circa 150 mila pensioni. Il tutto senza considerare il lavoro dato ai fornitori di beni e servizi e il contributo al made in Italy nel mondo. Grazie paperoni, per tutto quello che fate per la nostra economia.
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/l ... 17105.html
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Re: Capitale nel XXI secolo
Francesco il giorno di Pasqua ha rammentato che esiste troppo spreco con il cibo. Ed ha perfettamente ragione.
Le notizie come questa di un giornalista cinese dovrebbero trovare spazio su tutti i quotidiani del mondo.
MAI DIRE MAO - UN GIORNALISTA CINESE RACCONTA IN UN LIBRO LA CARESTIA DEGLI ANNI DEL GRANDE TIMONIERE: IN 4 ANNI 36 MILIONI DI MORTI PER FAME – GENTE RIDOTTA AL PUNTO DI CIBARSI DI ESCREMENTI E CARNE UMANA
Jisheng: “Quando eravamo tutti uguali, non si può dire fossi realmente infelice, ma il problema era che non avevo la più pallida idea di quale fosse la differenza fra essere felice o infelice. Ora lo so, il tasso di felicità è dato dal rapporto fra la qualità della vita attuale e quella passata e la quantità di informazioni a disposizione”…
Alessandro Barbera per "la Stampa"
Nel numero dedicato alla morte del Grande Condottiero, l'11 settembre del 1976 l'«Economist» scrive: «Mao deve essere accettato come uno dei grandi vincitori della storia. Per aver elaborato, contro le prescrizioni di Marx, una strategia rivoluzionaria incentrata sui contadini, che permise al Partito comunista di conquistare il potere a partire dalle campagne, e per aver diretto la trasformazione della Cina da società feudale, distrutta dalla guerra e dissanguata dalla corruzione, a Stato egualitario e unificato, nel quale nessuno muore di fame».
Nel 1976 all'«Economist» non sanno ancora che qualcuno in Cina ha iniziato a raccogliere il materiale che diversi anni dopo incrinerà l'aura che fino a quel momento era penetrata fin nei più insospettabili circoli. A quel tempo Yang Jisheng ha 36 anni, è iscritto al Partito ed è un «orgoglioso giornalista» dell'agenzia di Stato Xinhua. Ma la convinta adesione all'Utopia non gli impedisce di scavare attorno a quel che accadde fra il 1958 e il 1962, gli anni della grande carestia in cui suo padre se ne va, apparentemente per una tragica volontà della natura.
«Era un giorno di primavera del 1959. Avevo 18 anni, ero studente e vivevo a pochi chilometri dal mio villaggio. Non c'era molto da mangiare, ma come immagino accadesse nelle scuole di Hitler e Mussolini una ciotola di riso me la davano tutti i giorni». Un'amica lo avverte di tornare subito a casa. Quando entra in giardino trova l'olmo con la corteccia strappata e diversi buchi attorno alle radici.
Yang Xiushen è in casa, riverso a terra, in fin di vita. «Era pelle ossa, in un modo che solo allora capii cosa volesse significare». Il ragazzo non è sorpreso. «Mio padre stava male da tempo, faceva di tutto per negarlo. Ogni volta che tornavo portavo un po' della mia razione. Lui mi respingeva, non voleva mi privassi del cibo».
Yang Jisheng racconta la sua storia in una calda giornata del maggio romano al tavolino di un ristorante nei pressi di Piazza di Spagna. È in Italia su iniziativa del «Bruno Leoni», l'istituto di studi economici per il quale terrà oggi a Torino l'annuale "discorso". Mentre parla la realtà attorno a lui è straniante anche per chi ascolta.
Il padre di Yang se ne va in tre giorni, ma per almeno dieci anni, fino alla fine delle sue ricerche, fino ai fatti di piazza Tiananmen, Yang non avrà piena consapevolezza di quali fossero le vere ragioni della Grande Carestia, dei suoi 36 milioni di morti in quattro anni, del perché masse di cinesi fossero finite in una condizione tale da spingere i più sfortunati - lo ha ricostruito lui stesso - a cibarsi di escrementi di uccelli o delle carni dei propri defunti.
«Avrei voluto conoscere sin da giovane il senso profondo delle parole "shi shi qiu shi"», un aforisma che in cinese significa «cercare la verità attraverso i fatti» e che fino a quel momento Yang aveva sentito pronunciare retoricamente solo dagli esponenti del regime. «Io non ho mai fatto politica», spiega Yang. Per questo non lo si può definire un dissidente, anche se ben tre ministri dell'informazione lo hanno criticato - «un record» - e i suoi libri si possono comprare solo ad Hong Kong. «Talvolta ho temuto di essere incarcerato, ma se non è accaduto significa che le cose nel mio Paese oggi vanno meglio. Non bene, ma meglio».
Il suo enorme lavoro (1.200 pagine nell'edizione in cinese, 700 in inglese) è stato pubblicato solo nel 2008. Si intitola «Tombstone». Una lapide «per mio padre, per i milioni di morti, per gli errori della Cina di Mao».
Yang sotterra con dovizia di dettagli il fallimento della pianificazione economica, della Cina che aveva concesso - e poi confiscato - al padre un fazzoletto di terra da coltivare, in cui era negata qualunque iniziativa privata, competizione, entusiasmo personale e creatività, nella quale si negava l'esistenza dei prezzi, ciò che avrebbe spinto qualcuno a portare il cibo fino al villaggio di suo padre, evitandogli quella morte orribile. La collettivizzazione dell'economia era arrivata fino alle cucine, dove la gente non aveva nemmeno la libertà di decidere quando e cosa mangiare.
Oggi Yang non ha dubbi nel sostenere che «l'unica uguaglianza alla quale tendere è quella delle opportunità». Non conosce Thomas Picketty, è interessato a capire come mai in Occidente ci sia così tanta domanda di uguaglianza fra le persone, sottolinea quanto il confine fra ricerca dell'uguaglianza e arbitrio sia labile.
«Quando eravamo tutti uguali, non si può dire fossi realmente infelice, ma il problema era che non avevo la più pallida idea di quale fosse la differenza fra essere felice o infelice. Ora lo so, e l'ho spiegata ai cinesi con una formula matematica». Prende un pezzo di carta e scrive: «Il tasso di felicità è dato dal rapporto fra la qualità della vita attuale e quella passata. Alla formula completa manca solo il coefficiente: la quantità di informazioni a disposizione». L'orgoglio del giornalista ha attraversato indenne la storia.
Le notizie come questa di un giornalista cinese dovrebbero trovare spazio su tutti i quotidiani del mondo.
MAI DIRE MAO - UN GIORNALISTA CINESE RACCONTA IN UN LIBRO LA CARESTIA DEGLI ANNI DEL GRANDE TIMONIERE: IN 4 ANNI 36 MILIONI DI MORTI PER FAME – GENTE RIDOTTA AL PUNTO DI CIBARSI DI ESCREMENTI E CARNE UMANA
Jisheng: “Quando eravamo tutti uguali, non si può dire fossi realmente infelice, ma il problema era che non avevo la più pallida idea di quale fosse la differenza fra essere felice o infelice. Ora lo so, il tasso di felicità è dato dal rapporto fra la qualità della vita attuale e quella passata e la quantità di informazioni a disposizione”…
Alessandro Barbera per "la Stampa"
Nel numero dedicato alla morte del Grande Condottiero, l'11 settembre del 1976 l'«Economist» scrive: «Mao deve essere accettato come uno dei grandi vincitori della storia. Per aver elaborato, contro le prescrizioni di Marx, una strategia rivoluzionaria incentrata sui contadini, che permise al Partito comunista di conquistare il potere a partire dalle campagne, e per aver diretto la trasformazione della Cina da società feudale, distrutta dalla guerra e dissanguata dalla corruzione, a Stato egualitario e unificato, nel quale nessuno muore di fame».
Nel 1976 all'«Economist» non sanno ancora che qualcuno in Cina ha iniziato a raccogliere il materiale che diversi anni dopo incrinerà l'aura che fino a quel momento era penetrata fin nei più insospettabili circoli. A quel tempo Yang Jisheng ha 36 anni, è iscritto al Partito ed è un «orgoglioso giornalista» dell'agenzia di Stato Xinhua. Ma la convinta adesione all'Utopia non gli impedisce di scavare attorno a quel che accadde fra il 1958 e il 1962, gli anni della grande carestia in cui suo padre se ne va, apparentemente per una tragica volontà della natura.
«Era un giorno di primavera del 1959. Avevo 18 anni, ero studente e vivevo a pochi chilometri dal mio villaggio. Non c'era molto da mangiare, ma come immagino accadesse nelle scuole di Hitler e Mussolini una ciotola di riso me la davano tutti i giorni». Un'amica lo avverte di tornare subito a casa. Quando entra in giardino trova l'olmo con la corteccia strappata e diversi buchi attorno alle radici.
Yang Xiushen è in casa, riverso a terra, in fin di vita. «Era pelle ossa, in un modo che solo allora capii cosa volesse significare». Il ragazzo non è sorpreso. «Mio padre stava male da tempo, faceva di tutto per negarlo. Ogni volta che tornavo portavo un po' della mia razione. Lui mi respingeva, non voleva mi privassi del cibo».
Yang Jisheng racconta la sua storia in una calda giornata del maggio romano al tavolino di un ristorante nei pressi di Piazza di Spagna. È in Italia su iniziativa del «Bruno Leoni», l'istituto di studi economici per il quale terrà oggi a Torino l'annuale "discorso". Mentre parla la realtà attorno a lui è straniante anche per chi ascolta.
Il padre di Yang se ne va in tre giorni, ma per almeno dieci anni, fino alla fine delle sue ricerche, fino ai fatti di piazza Tiananmen, Yang non avrà piena consapevolezza di quali fossero le vere ragioni della Grande Carestia, dei suoi 36 milioni di morti in quattro anni, del perché masse di cinesi fossero finite in una condizione tale da spingere i più sfortunati - lo ha ricostruito lui stesso - a cibarsi di escrementi di uccelli o delle carni dei propri defunti.
«Avrei voluto conoscere sin da giovane il senso profondo delle parole "shi shi qiu shi"», un aforisma che in cinese significa «cercare la verità attraverso i fatti» e che fino a quel momento Yang aveva sentito pronunciare retoricamente solo dagli esponenti del regime. «Io non ho mai fatto politica», spiega Yang. Per questo non lo si può definire un dissidente, anche se ben tre ministri dell'informazione lo hanno criticato - «un record» - e i suoi libri si possono comprare solo ad Hong Kong. «Talvolta ho temuto di essere incarcerato, ma se non è accaduto significa che le cose nel mio Paese oggi vanno meglio. Non bene, ma meglio».
Il suo enorme lavoro (1.200 pagine nell'edizione in cinese, 700 in inglese) è stato pubblicato solo nel 2008. Si intitola «Tombstone». Una lapide «per mio padre, per i milioni di morti, per gli errori della Cina di Mao».
Yang sotterra con dovizia di dettagli il fallimento della pianificazione economica, della Cina che aveva concesso - e poi confiscato - al padre un fazzoletto di terra da coltivare, in cui era negata qualunque iniziativa privata, competizione, entusiasmo personale e creatività, nella quale si negava l'esistenza dei prezzi, ciò che avrebbe spinto qualcuno a portare il cibo fino al villaggio di suo padre, evitandogli quella morte orribile. La collettivizzazione dell'economia era arrivata fino alle cucine, dove la gente non aveva nemmeno la libertà di decidere quando e cosa mangiare.
Oggi Yang non ha dubbi nel sostenere che «l'unica uguaglianza alla quale tendere è quella delle opportunità». Non conosce Thomas Picketty, è interessato a capire come mai in Occidente ci sia così tanta domanda di uguaglianza fra le persone, sottolinea quanto il confine fra ricerca dell'uguaglianza e arbitrio sia labile.
«Quando eravamo tutti uguali, non si può dire fossi realmente infelice, ma il problema era che non avevo la più pallida idea di quale fosse la differenza fra essere felice o infelice. Ora lo so, e l'ho spiegata ai cinesi con una formula matematica». Prende un pezzo di carta e scrive: «Il tasso di felicità è dato dal rapporto fra la qualità della vita attuale e quella passata. Alla formula completa manca solo il coefficiente: la quantità di informazioni a disposizione». L'orgoglio del giornalista ha attraversato indenne la storia.
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Re: Capitale nel XXI secolo
Chi ha paura
di Piketty
L’autore del best seller dell’anno aveva scritto il programma economico di Hollande. Che però in questi giorni lo tradisce. In nome dell’alleanza con Berlino. Segno che c’è ancora molta strada per far cambiare idea a Merkel. E Draghi lo sa
In pochi mesi il volumone di Thomas Piketty “Il Capitale” - titolo preso in prestito a Carlo Marx ma con l’aggiunta “nel XXI secolo” - ha acceso dibattiti e diviso gli economisti, ma è anche diventato un caso editoriale schizzando in testa alle classifiche di Amazon e vendendo più di 200 mila copie. Eppure è un saggione di 700 pagine zeppo di dati, tabelle ed equazioni comme il faut. E allora? Forse lo hanno aiutato i molti tentativi di smontarne le tesi controcorrente, subito rintuzzati perfino da un premio Nobel, Paul Krugman. Ma nemmeno questo basta a trasformare un libro di economia in un bestseller mondiale. Come si giustifica dunque tanto successo?
Qualche settimana fa lo ha spiegato Uri Dadush (“l’Espresso” n. 24) osservando che le tesi di Piketty, un economista francese poco più che quarantenne svezzato a Parigi e specializzatosi al Mit di Boston, irrompono con decisione nel vivo del dibattito economico che dal 2007 scuote Stati Uniti ed Europa, ma soprattutto danno contenuto ai sentimenti di tanti perché puntano il dito contro le disuguaglianze sociali ed economiche ingigantite dalla Grande Crisi. Secondo questo novello Marx (la definizione è dell’“Economist”), il mondo si trova oggi in una situazione molto simile a quella del XIX secolo, prima cioè della rivoluzione fordista che allargò la platea dei percettori di reddito da lavoro: oggi come allora, infatti, le rendite finanziarie crescono più dell’economia, quindi chi dispone di capitali diventerà sempre più ricco a spese di chi vive solo di lavoro destinato a restare sempre più povero. E così sarà ancora per anni, dice, mettendo a rischio l’essenza stessa della democrazia. Fino a che non si capirà - conclude - che è indispensabile arginare l’eccesso di deregulation dei mercati finanziari e imporre una tassa sulla ricchezza.
Ora, al di là della bontà dell’analisi e della praticabilità delle ricette (ve l’immaginate voi una tassa mondiale sulla ricchezza? Perché se così non fosse, per paradosso non colpirebbe i grandi ricchi liberi di trasferire i loro capitali dove la tassa non c’è), Piketty ha il merito di aver gridato alta e forte la domanda che tutti si fanno, ma alla quale nessun governo ha finora dato risposta concreta: la crescita e il benessere possono identificarsi solo con la buona salute del capitale finanziario? Anzi, molti politici e uomini di governo se la pongono eccome la questione, ma sembrano marciare in tutt’altra direzione. Pochi giorni fa, per esempio, François Hollande ha licenziato il suo ministro dell’Economia Arnaud Montebourg reo di aver criticato la politica di austerità e di aver invocato meno rigore e più crescita. Vale la pena ricordare che Montebourg è un tifoso del nuovo “Capitale” e Piketty non solo è uno dei 42 professori universitari che durante le presidenziali firmarono una lettera aperta anti Sarkozy e pro Hollande, ma anche l’autore del programma economico del futuro presidente francese...
Così va il mondo. Confermando alcune certezze, perfino ovvie, ma con le quali non si fanno i conti fino in fondo. La prima è che non bastano le ricette economiche, ma occorrono decise scelte politiche; che queste pesano ancora molto; che, a proposito, l’asse franco-tedesco che condiziona da decenni la storia europea, è saldo e duraturo e viene prima di un Montebourg e del programma economico del gabinetto Hollande; che, ancora, non si può pensare di risolvere le cose solo a casa propria, ma che bisogna lavorare per coinvolgere alleati e compagni di strada; che, infine, questo non può diventare alibi per non fare i compiti a casa.
Insomma, il cuore del problema è ancora quello: un saggio equilibrio tra rigore e crescita, tra spesa pubblica e investimenti, tra equa tassazione e accanimento fiscale sui soliti noti, tra rigore di bilancio e flessibilità. È la strada che Mario Draghi difende da almeno due anni, cioè da quando la recessione si è colorata di deflazione, e che ha indicato ai banchieri centrali riuniti a Jackson Hole con la formula «oggi è più rischioso fare troppo poco che troppo». Con una carta in più, stavolta: che anche la Germania comincia ad ammalarsi. Speriamo allora che trovi il consenso necessario. E che, come auspica Pierluigi Ciocca, ci sia un economista a Berlino...
Twitter@bmanfellotto
29 agosto 2014© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://espresso.repubblica.it/opinioni/ ... y-1.177953
L’autore del best seller dell’anno aveva scritto il programma economico di Hollande. Che però in questi giorni lo tradisce. In nome dell’alleanza con Berlino. Segno che c’è ancora molta strada per far cambiare idea a Merkel. E Draghi lo sa
In pochi mesi il volumone di Thomas Piketty “Il Capitale” - titolo preso in prestito a Carlo Marx ma con l’aggiunta “nel XXI secolo” - ha acceso dibattiti e diviso gli economisti, ma è anche diventato un caso editoriale schizzando in testa alle classifiche di Amazon e vendendo più di 200 mila copie. Eppure è un saggione di 700 pagine zeppo di dati, tabelle ed equazioni comme il faut. E allora? Forse lo hanno aiutato i molti tentativi di smontarne le tesi controcorrente, subito rintuzzati perfino da un premio Nobel, Paul Krugman. Ma nemmeno questo basta a trasformare un libro di economia in un bestseller mondiale. Come si giustifica dunque tanto successo?
Qualche settimana fa lo ha spiegato Uri Dadush (“l’Espresso” n. 24) osservando che le tesi di Piketty, un economista francese poco più che quarantenne svezzato a Parigi e specializzatosi al Mit di Boston, irrompono con decisione nel vivo del dibattito economico che dal 2007 scuote Stati Uniti ed Europa, ma soprattutto danno contenuto ai sentimenti di tanti perché puntano il dito contro le disuguaglianze sociali ed economiche ingigantite dalla Grande Crisi. Secondo questo novello Marx (la definizione è dell’“Economist”), il mondo si trova oggi in una situazione molto simile a quella del XIX secolo, prima cioè della rivoluzione fordista che allargò la platea dei percettori di reddito da lavoro: oggi come allora, infatti, le rendite finanziarie crescono più dell’economia, quindi chi dispone di capitali diventerà sempre più ricco a spese di chi vive solo di lavoro destinato a restare sempre più povero. E così sarà ancora per anni, dice, mettendo a rischio l’essenza stessa della democrazia. Fino a che non si capirà - conclude - che è indispensabile arginare l’eccesso di deregulation dei mercati finanziari e imporre una tassa sulla ricchezza.
Ora, al di là della bontà dell’analisi e della praticabilità delle ricette (ve l’immaginate voi una tassa mondiale sulla ricchezza? Perché se così non fosse, per paradosso non colpirebbe i grandi ricchi liberi di trasferire i loro capitali dove la tassa non c’è), Piketty ha il merito di aver gridato alta e forte la domanda che tutti si fanno, ma alla quale nessun governo ha finora dato risposta concreta: la crescita e il benessere possono identificarsi solo con la buona salute del capitale finanziario? Anzi, molti politici e uomini di governo se la pongono eccome la questione, ma sembrano marciare in tutt’altra direzione. Pochi giorni fa, per esempio, François Hollande ha licenziato il suo ministro dell’Economia Arnaud Montebourg reo di aver criticato la politica di austerità e di aver invocato meno rigore e più crescita. Vale la pena ricordare che Montebourg è un tifoso del nuovo “Capitale” e Piketty non solo è uno dei 42 professori universitari che durante le presidenziali firmarono una lettera aperta anti Sarkozy e pro Hollande, ma anche l’autore del programma economico del futuro presidente francese...
Così va il mondo. Confermando alcune certezze, perfino ovvie, ma con le quali non si fanno i conti fino in fondo. La prima è che non bastano le ricette economiche, ma occorrono decise scelte politiche; che queste pesano ancora molto; che, a proposito, l’asse franco-tedesco che condiziona da decenni la storia europea, è saldo e duraturo e viene prima di un Montebourg e del programma economico del gabinetto Hollande; che, ancora, non si può pensare di risolvere le cose solo a casa propria, ma che bisogna lavorare per coinvolgere alleati e compagni di strada; che, infine, questo non può diventare alibi per non fare i compiti a casa.
Insomma, il cuore del problema è ancora quello: un saggio equilibrio tra rigore e crescita, tra spesa pubblica e investimenti, tra equa tassazione e accanimento fiscale sui soliti noti, tra rigore di bilancio e flessibilità. È la strada che Mario Draghi difende da almeno due anni, cioè da quando la recessione si è colorata di deflazione, e che ha indicato ai banchieri centrali riuniti a Jackson Hole con la formula «oggi è più rischioso fare troppo poco che troppo». Con una carta in più, stavolta: che anche la Germania comincia ad ammalarsi. Speriamo allora che trovi il consenso necessario. E che, come auspica Pierluigi Ciocca, ci sia un economista a Berlino...
Twitter@bmanfellotto
29 agosto 2014© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://espresso.repubblica.it/opinioni/ ... y-1.177953
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