Il "nuovo" governo Renzi
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Re: Il nuovo governo Renzi
BOTTE E RISPOSTE
L’errore (non lieve)
del Premier polemista
di ANTONIO POLITO 172
Per molti italiani, e non da oggi, il sindacato è effettivamente un fattore di conservazione sociale e di freno al cambiamento. Solo per pochissimi italiani, invece, il signor Piero Pelù merita di essere preso sul serio quando si abbandona alle sue elucubrazioni storico-politiche, soprattutto quando ha un libro in uscita.
Eppure, nonostante ciò, a nessuno dovrebbe piacere il modo in cui il presidente del Consiglio e i suoi infaticabili ventriloqui hanno di recente zittito l’uno e l’altro. C’è infatti nello stile polemico di Renzi qualcosa che inquieta perché travalica la questione di stile: un ricorso troppo frequente alla denigrazione.
Fateci caso: chiunque muova critiche al governo viene additato come portatore di un interesse personale e poco nobile che spiegherebbe la vera ragione del suo dissenso.
La Cgil parla contro il decreto sul lavoro perché gli è stato tagliato il monte ore dei permessi sindacali; il cantante dal palco del Primo Maggio rompe perché ha perso un incarico retribuito a Firenze; i funzionari del Senato, che per dovere d’ufficio devono dare un parere sui decreti, dichiarano i loro dubbi sul bonus di 80 euro solo per vendicarsi della imminente riforma del Senato. E via dicendo.
A tutti viene di solito rinfacciato che per il loro lavoro ricevono un compenso, come se fosse un’aggravante.
C’è un’infinità di critiche politiche motivate e spesso giuste che possono essere rivolte ai critici di Renzi (basti pensare ai danni prodotti dal conservatorismo costituzionale). Ma invece di impegnarsi sul terreno della discussione trasparente e nel merito, che accetta la buona fede dell’avversario, sempre più spesso si ricorre a quella che gli americani chiamano character assassination , la denigrazione pubblica: in pratica una forma di gogna mediatica che offre a una piazza sempre più incattivita un capro espiatorio con cui prendersela.
E non è solo una questione di bon ton: il dilagare di questo stile, che a dire il vero non ha inventato Renzi ma che Renzi sta sublimando, rischia infatti di restringere quella che Habermas ha chiamato la «sfera pubblica», e cioè l’ambito in cui gli individui possono esercitare la loro critica contro il potere dello Stato.
In un’epoca in cui i Parlamenti non contano più molto, e l’unico vero dibattito pubblico si svolge sui media, l’esito è un impoverimento della qualità della democrazia, che per essere tale ha bisogno di una cittadinanza attiva, informata e vociferante.
Se infatti chiunque dica la sua, magari anche in nome di interessi corporativi o di categoria (come è spesso nel caso dei sindacati, compresi quelli dei giudici e dei prefetti), viene dichiarato non attendibile perché sta solo difendendo un privilegio personale, il nuovo potere è legittimato a non ascoltare più il dissenso, ergendosi a unico e infastidito interprete della «volontà generale».
Non è proprio il modo in cui funzionano le società aperte e liberali. È piuttosto un corto circuito che abbiamo visto spesso all’opera nelle rivoluzioni. Ci auguriamo che non sia a questo che si riferisce il premier quando dice che sta facendo «una rivoluzione».
6 maggio 2014 | 07:54
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/14_magg ... 414c.shtml
L’errore (non lieve)
del Premier polemista
di ANTONIO POLITO 172
Per molti italiani, e non da oggi, il sindacato è effettivamente un fattore di conservazione sociale e di freno al cambiamento. Solo per pochissimi italiani, invece, il signor Piero Pelù merita di essere preso sul serio quando si abbandona alle sue elucubrazioni storico-politiche, soprattutto quando ha un libro in uscita.
Eppure, nonostante ciò, a nessuno dovrebbe piacere il modo in cui il presidente del Consiglio e i suoi infaticabili ventriloqui hanno di recente zittito l’uno e l’altro. C’è infatti nello stile polemico di Renzi qualcosa che inquieta perché travalica la questione di stile: un ricorso troppo frequente alla denigrazione.
Fateci caso: chiunque muova critiche al governo viene additato come portatore di un interesse personale e poco nobile che spiegherebbe la vera ragione del suo dissenso.
La Cgil parla contro il decreto sul lavoro perché gli è stato tagliato il monte ore dei permessi sindacali; il cantante dal palco del Primo Maggio rompe perché ha perso un incarico retribuito a Firenze; i funzionari del Senato, che per dovere d’ufficio devono dare un parere sui decreti, dichiarano i loro dubbi sul bonus di 80 euro solo per vendicarsi della imminente riforma del Senato. E via dicendo.
A tutti viene di solito rinfacciato che per il loro lavoro ricevono un compenso, come se fosse un’aggravante.
C’è un’infinità di critiche politiche motivate e spesso giuste che possono essere rivolte ai critici di Renzi (basti pensare ai danni prodotti dal conservatorismo costituzionale). Ma invece di impegnarsi sul terreno della discussione trasparente e nel merito, che accetta la buona fede dell’avversario, sempre più spesso si ricorre a quella che gli americani chiamano character assassination , la denigrazione pubblica: in pratica una forma di gogna mediatica che offre a una piazza sempre più incattivita un capro espiatorio con cui prendersela.
E non è solo una questione di bon ton: il dilagare di questo stile, che a dire il vero non ha inventato Renzi ma che Renzi sta sublimando, rischia infatti di restringere quella che Habermas ha chiamato la «sfera pubblica», e cioè l’ambito in cui gli individui possono esercitare la loro critica contro il potere dello Stato.
In un’epoca in cui i Parlamenti non contano più molto, e l’unico vero dibattito pubblico si svolge sui media, l’esito è un impoverimento della qualità della democrazia, che per essere tale ha bisogno di una cittadinanza attiva, informata e vociferante.
Se infatti chiunque dica la sua, magari anche in nome di interessi corporativi o di categoria (come è spesso nel caso dei sindacati, compresi quelli dei giudici e dei prefetti), viene dichiarato non attendibile perché sta solo difendendo un privilegio personale, il nuovo potere è legittimato a non ascoltare più il dissenso, ergendosi a unico e infastidito interprete della «volontà generale».
Non è proprio il modo in cui funzionano le società aperte e liberali. È piuttosto un corto circuito che abbiamo visto spesso all’opera nelle rivoluzioni. Ci auguriamo che non sia a questo che si riferisce il premier quando dice che sta facendo «una rivoluzione».
6 maggio 2014 | 07:54
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http://www.corriere.it/politica/14_magg ... 414c.shtml
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Re: Il nuovo governo Renzi
Sembra che il gov con le sue riforme oscene fatte con un pregiudicato con una ministra tutti attributi e niente cervello con la Camusso contro il gov che toglie democrazia, gli 80 euro finti, ... ebbene tutto sta cadendo in pezzi.
Che vadano a farsi fottere dilettanti allo sbaraglio renzi e renziani e voltagabbana d'accattonaggio tipo Zanda, Gentiloni, Franceschini. Speranza, D'Alema, ecc. ecc.
Ammmiro molto Elly Schlein di OccupyPD e ciwatiana ma non la voterò perchè da tempo il voto utile è un inganno.
Che vadano a farsi fottere dilettanti allo sbaraglio renzi e renziani e voltagabbana d'accattonaggio tipo Zanda, Gentiloni, Franceschini. Speranza, D'Alema, ecc. ecc.
Ammmiro molto Elly Schlein di OccupyPD e ciwatiana ma non la voterò perchè da tempo il voto utile è un inganno.
Toro Seduto (Ta-Tanka I-Yo-Tanka)
‘‘Lo Stato perirà nel momento in cui il potere legislativo sarà più corrotto dell’esecutivo’’. C.L. Montesquieu
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Re: Il nuovo governo Renzi
<<Matteo, …Dio esiste ma non sei tu…, quindi rilassati…....>>
Il confessore di Matteo Renzi
Flash sulla hp di IFQ:
Renzi a Camusso: "La musica è cambiata. Sindacati diano una mano, noi non aspettiamo"
Il confessore di Matteo Renzi
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Renzi a Camusso: "La musica è cambiata. Sindacati diano una mano, noi non aspettiamo"
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Re: Il nuovo governo Renzi
“Il programma della P2 è già qui”
(Fabrizio d’Esposito).
03/05/2014 di triskel182
Rino Formica L’ex ministro socialista.
Rino Formica, per tantissimi motivi, non è come Piero Pelù o Beppe Grillo. Ma l’ex ministro socialista, peraltro amico di Giorgio Napolitano, è stato il primo, lo ha ricordato ieri Dagospia, a scoprire il virus del gellismo nel programma pseudoriformista del premier, basato sul patto scellerato BR, cioè B. più Renzi.
Gelli è vecchio e malato, ma la continuità piduista appare come una maledizione eterna. Adesso tocca alla sinistra. È la prima volta che accade.
Non soffermiamoci sull’evocazione nominalistica, non mi interessa e non è questo il punto, se Renzi sia massone oppure no. Piuttosto bisogna capire un fatto profondo.
Quale?
Che cos’era il Piano di rinascita democratica di Gelli?
Lei ha scritto che, dopo 35 anni, vede il suo compimento. L’abolizione del Senato, il monocameralismo, l’indebolimento dei sindacati. Troppe analogie inquietanti.
Dall’Unità a oggi, in centocinquanta anni, il bisogno di avere più concentrazione di potere e meno controllo democratico è stato costante. Il piano di Rinascita rappresenta questa spinta e il punto di applicazione è lo snervamento della democrazia politica e sociale organizzata.
Cioè i partiti e sindacati.
In questo ventennio il processo di depauperazione della democrazia organizzata è arrivato al punto finale con Renzi.
Perché proprio con lui?
La sua Opa sul Pd non è casuale. E parlo di Opa perché Renzi non ha conquistato il partito dall’interno, ma dall’esterno, utilizzando quello strumento di ipocrisia democratica che sono le primarie. Adesso il secondo attacco è alla rappresentanza istituzionale. Mussolini, nel 1926, fece una leggina per mettere i podestà nei comuni sotto i 5 mila abitanti, eliminando i consigli comunali. Poi, poco alla volta, li mise in tutti. La rappresentanza fu completamente abolita.
Mussolini e Gelli sono richiami infamanti per un premier di centrosinistra.
La distruzione di partiti e sindacati, cioè dei corpi intermedi, è stata fatta per via autoritaria dal fascismo e poi cercata con vari tentativi di golpe. Il piano di Gelli è invece per via democratica.
Così Renzi sembra davvero il boy scout del Venerabile Licio.
Lei parla di catto-massonismo.
Vede, quando io cito la massoneria, per quanto riguarda la maggioranza in sonno tra Berlusconi e Renzi, mi riferisco al metodo. Un metodo che porta a decisioni prese in modo occulto, in ambienti massonici o paramassonici. E poi non dimentichiamo la grande suggestione offerta dalla potente rete della massoneria toscana.
I sospetti sul plurinquisito Verdini, lo sherpa toscano di B. per le riforme.
Piuttosto ricorderei quello che è successo nel 1996 con Lamberto Dini.
Altro presunto fratello.
Nel 1994 dopo Berlusconi ci fu Dini al governo. Strada facendo si organizzò per conto suo e alle Politiche del 1996 si presentò con una propria lista nel centrosinistra. C’era lo sbarramento del 4 per cento e in Toscana il Pds fece una trasfusione di sangue “rosso” per consentirgli di raggiungere il quorum. Così subito dopo le elezioni Dini fece un manifesto politico per riproporre le riforme del piano di Gelli. Questa spinta alla riduzione democratica ha una sola madre ma tanti padri, come si può notare.
E chi è la madre?
È una filosofia della rappresentanza che omaggia la forma, non la sostanza. Sulla decretazione d’urgenza sono previste riforme che non riuscirono nemmeno al fascismo. Per non parlare del Senato, che si vuole trasformare in un organo ridicolo e mefitico.
Perché mefitico?
Sarà composto dai consiglieri degli organi più infetti e più sputtanati dagli scandali.
Le Regioni.
Ecco, saranno anche loro a decidere come cambiare la Costituzione e chi eleggere al Quirinale.
La continuità piduista è viva e lotta a sinistra, stavolta.
I programmi di Gelli e Renzi sono uguali e oggi non c’è alcuna forza maggioritaria, compresa quella di Grillo, che si pone il problema della democrazia organizzata.
Voi del Fatto fate battaglie giuste e di verità, ma date una mano alla demolizione quando non distinguete le istituzioni da chi le occupa provvisoriamente. Fate attenzione.
Da Il Fatto Quotidiano del 03/05/2014.
(Fabrizio d’Esposito).
03/05/2014 di triskel182
Rino Formica L’ex ministro socialista.
Rino Formica, per tantissimi motivi, non è come Piero Pelù o Beppe Grillo. Ma l’ex ministro socialista, peraltro amico di Giorgio Napolitano, è stato il primo, lo ha ricordato ieri Dagospia, a scoprire il virus del gellismo nel programma pseudoriformista del premier, basato sul patto scellerato BR, cioè B. più Renzi.
Gelli è vecchio e malato, ma la continuità piduista appare come una maledizione eterna. Adesso tocca alla sinistra. È la prima volta che accade.
Non soffermiamoci sull’evocazione nominalistica, non mi interessa e non è questo il punto, se Renzi sia massone oppure no. Piuttosto bisogna capire un fatto profondo.
Quale?
Che cos’era il Piano di rinascita democratica di Gelli?
Lei ha scritto che, dopo 35 anni, vede il suo compimento. L’abolizione del Senato, il monocameralismo, l’indebolimento dei sindacati. Troppe analogie inquietanti.
Dall’Unità a oggi, in centocinquanta anni, il bisogno di avere più concentrazione di potere e meno controllo democratico è stato costante. Il piano di Rinascita rappresenta questa spinta e il punto di applicazione è lo snervamento della democrazia politica e sociale organizzata.
Cioè i partiti e sindacati.
In questo ventennio il processo di depauperazione della democrazia organizzata è arrivato al punto finale con Renzi.
Perché proprio con lui?
La sua Opa sul Pd non è casuale. E parlo di Opa perché Renzi non ha conquistato il partito dall’interno, ma dall’esterno, utilizzando quello strumento di ipocrisia democratica che sono le primarie. Adesso il secondo attacco è alla rappresentanza istituzionale. Mussolini, nel 1926, fece una leggina per mettere i podestà nei comuni sotto i 5 mila abitanti, eliminando i consigli comunali. Poi, poco alla volta, li mise in tutti. La rappresentanza fu completamente abolita.
Mussolini e Gelli sono richiami infamanti per un premier di centrosinistra.
La distruzione di partiti e sindacati, cioè dei corpi intermedi, è stata fatta per via autoritaria dal fascismo e poi cercata con vari tentativi di golpe. Il piano di Gelli è invece per via democratica.
Così Renzi sembra davvero il boy scout del Venerabile Licio.
Lei parla di catto-massonismo.
Vede, quando io cito la massoneria, per quanto riguarda la maggioranza in sonno tra Berlusconi e Renzi, mi riferisco al metodo. Un metodo che porta a decisioni prese in modo occulto, in ambienti massonici o paramassonici. E poi non dimentichiamo la grande suggestione offerta dalla potente rete della massoneria toscana.
I sospetti sul plurinquisito Verdini, lo sherpa toscano di B. per le riforme.
Piuttosto ricorderei quello che è successo nel 1996 con Lamberto Dini.
Altro presunto fratello.
Nel 1994 dopo Berlusconi ci fu Dini al governo. Strada facendo si organizzò per conto suo e alle Politiche del 1996 si presentò con una propria lista nel centrosinistra. C’era lo sbarramento del 4 per cento e in Toscana il Pds fece una trasfusione di sangue “rosso” per consentirgli di raggiungere il quorum. Così subito dopo le elezioni Dini fece un manifesto politico per riproporre le riforme del piano di Gelli. Questa spinta alla riduzione democratica ha una sola madre ma tanti padri, come si può notare.
E chi è la madre?
È una filosofia della rappresentanza che omaggia la forma, non la sostanza. Sulla decretazione d’urgenza sono previste riforme che non riuscirono nemmeno al fascismo. Per non parlare del Senato, che si vuole trasformare in un organo ridicolo e mefitico.
Perché mefitico?
Sarà composto dai consiglieri degli organi più infetti e più sputtanati dagli scandali.
Le Regioni.
Ecco, saranno anche loro a decidere come cambiare la Costituzione e chi eleggere al Quirinale.
La continuità piduista è viva e lotta a sinistra, stavolta.
I programmi di Gelli e Renzi sono uguali e oggi non c’è alcuna forza maggioritaria, compresa quella di Grillo, che si pone il problema della democrazia organizzata.
Voi del Fatto fate battaglie giuste e di verità, ma date una mano alla demolizione quando non distinguete le istituzioni da chi le occupa provvisoriamente. Fate attenzione.
Da Il Fatto Quotidiano del 03/05/2014.
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Re: Il nuovo governo Renzi
A Ballarò è la candidata della Lega ad accennare alla sentenza della Cassazione del 4 aprile scorso n. 8878/14.
Non hanno fatto una piega. L'informazione è scivolata via come una goccia d'acqua su un ombrello.
Non hanno fatto una piega. L'informazione è scivolata via come una goccia d'acqua su un ombrello.
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Re: Il nuovo governo Renzi
Da Wikipedia
http://it.wikipedia.org/wiki/Piano_di_r ... #Sindacati
Sindacati[modifica | modifica sorgente]
ricondurre il sindacato alla sua «naturale funzione» di
« interlocutore del fenomeno produttivo in luogo di quello illegittimamente assunto di interlocutore in vista di decisioni politiche aziendali e governative »
il sindacato non deve fare politica. In quest'ottica occorre
« limitare il diritto di sciopero alle causali economiche ed assicurare comunque la libertà di lavoro »
provvedere alla
« restaurazione della libertà individuale nelle fabbriche e aziende in genere per consentire l'elezione dei consigli di fabbrica con effettive garanzie di segretezza del voto »
Il primo obiettivo è collegato al tema della insufficiente delimitazione di chiari confini e della sovrapposizione di poteri, che indeboliscono lo Stato. Come esempio:
« lo spostamento dei centri di potere reale del Parlamento ai sindacati e dal Governo ai padronati multinazionali con i correlativi strumenti di azione finanziaria »
I due obiettivi si realizzano con due ipotesi:
sollecitazione alla rottura di CISL e UIL e successiva unione con i sindacati autonomi;
controllo delle correnti interne:
« acquisire con strumenti finanziari di pari entità i più disponibili fra gli attuali confederali allo scopo di rovesciare i rapporti di forza all'interno dell'attuale trimurti. »
Lo Statuto dei lavoratori art. 17 vietava il finanziamento a sindacati di comodo; È lasciato come ultima scelta
« un fenomeno clamoroso come la costituzione di un vero sindacato che agiti la bandiera della libertà di lavoro e della tutela economica dei lavoratori »
http://it.wikipedia.org/wiki/Piano_di_r ... #Sindacati
Sindacati[modifica | modifica sorgente]
ricondurre il sindacato alla sua «naturale funzione» di
« interlocutore del fenomeno produttivo in luogo di quello illegittimamente assunto di interlocutore in vista di decisioni politiche aziendali e governative »
il sindacato non deve fare politica. In quest'ottica occorre
« limitare il diritto di sciopero alle causali economiche ed assicurare comunque la libertà di lavoro »
provvedere alla
« restaurazione della libertà individuale nelle fabbriche e aziende in genere per consentire l'elezione dei consigli di fabbrica con effettive garanzie di segretezza del voto »
Il primo obiettivo è collegato al tema della insufficiente delimitazione di chiari confini e della sovrapposizione di poteri, che indeboliscono lo Stato. Come esempio:
« lo spostamento dei centri di potere reale del Parlamento ai sindacati e dal Governo ai padronati multinazionali con i correlativi strumenti di azione finanziaria »
I due obiettivi si realizzano con due ipotesi:
sollecitazione alla rottura di CISL e UIL e successiva unione con i sindacati autonomi;
controllo delle correnti interne:
« acquisire con strumenti finanziari di pari entità i più disponibili fra gli attuali confederali allo scopo di rovesciare i rapporti di forza all'interno dell'attuale trimurti. »
Lo Statuto dei lavoratori art. 17 vietava il finanziamento a sindacati di comodo; È lasciato come ultima scelta
« un fenomeno clamoroso come la costituzione di un vero sindacato che agiti la bandiera della libertà di lavoro e della tutela economica dei lavoratori »
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Re: Il nuovo governo Renzi
“Al contadino non far sapere quant'è buono il formaggio con le pere”, recita un vecchio proverbio italiano.
Da questo proverbio si può mutuare che al cittadino italiano non far sapere quanto è bello metterglielo nel sedere.
Breve sondaggio indigeno in questi ultimi 5 giorni per conoscere quanti sanno in che posizione si trova l'Italia nella graduatoria della libertà di stampa dei Paesi del pianeta.
ZERO. Nessuno è al corrente.
VA' BENE COSI'.
Così i media possono fare tranquillamente il lavaggio, il controlavaggio e lo sciacquaggio al cervello degli italiani.
Formica ha quindi ragione quando afferma che “Il programma della P2 è già qui”.
Gli italiani non se ne sono neppure accorti.
********
il Fatto 7.5.14
La strategia del rottamatore
Si va allo scontro finale. Per un pugno di voti
di Antonello Caporale
Nella sceneggiatura renziana il potere di interdizione o solo di mediazione del sindacato non è tollerato. Non c’era bisogno di un mago per intuire che il massimo profitto politico Matteo Renzi lo avrebbe colto in uno scontro senza pari con il sindacato, meglio se di sinistra. E infatti ciò è avvenuto. Se lo fa, anzi, se gli è permesso di farlo è grazie alla caduta della reputazione del sindacato, alla sfiducia circa la sua capacità di rappresentare gli interessi di tutti i lavoratori, alla sua inadeguatezza a immaginare strumenti innovativi per far fronte a una crisi economica così straordinaria. All’idea soprattutto che nella casta, nell’imperdonabile élite conservatrice e immobile, Cgil Cisl e Uil figurino come protagonisti di rilievo. È vera l’accusa della Camusso: Renzi torce la democrazia, riduce la complessità dei problemi e anche il diritto di parola, di critica, di semplice riflessione. Renzi conduce al suo cerchietto magico il titolo per ogni giudizio definitivo e finale. Ma questo allargamento dei confini del potere renziano anche oltre il lecito è appunto conseguenza, prova di un errore storico, sintesi di una degenerazione avvenuta. Perché oggi il sindacato appare più che come realtà sensibile e aperta, costruita per favorire il lavoro, come un grande facitore di singole carriere? È colpa della Cgil soprattutto se la trasparenza nella selezione del gruppo dirigente e nel finanziamento delle sue attività siano costantemente risucchiati in una nebbia che appare fitta, impenetrabile. Magari non è così, ma così appare. Si vota in Cgil? Certo che sì. Ma come viene formata la volontà degli iscritti, quanto è ampio il loro coinvolgimento nella scelta dei dirigenti e quanto è invece imposto, deciso, concluso prima che ogni congresso inizi?
SUI RITARDI del sindacato ha giocato e gioca Renzi. Che non vedeva l’ora di dire: la musica è cambiata. Oggi ancor di più di ieri perché lo scontro gli porterà voti, non gliene toglierà, e la rottura sarà illustrata come una prova di forza, un coraggio che i suoi predecessori non hanno avuto. Poco conta che alla base di questo proposito belligerante ci sia la carica sinceramente populista del premier e l’idea che egli ha di un esercizio accentrato e solitario del potere. Renzi ha scritto la legge elettorale convocando il leader dell’opposizione (appena rimosso dal suo scranno di senatore per indegnità) non il Parlamento , ha definito una grande riforma costituzionale con il volto più inquietante del berlusconismo (lo statista Denis Verdini). Figurarsi se sulla riforma del lavoro avrebbe permesso ai sindacati di partecipare non alla stesura, ma alla minima discussione preparatoria. Questo è il piatto, prendere o lasciare. È chiaro che Renzi forza oltre misura il campo delle sue prerogative. Ed è evidente che in questo modo “torce” la democrazia. Ma è anche evidente, solare, limpida la responsabilità storica del sindacato che ha sempre chiesto senza mai dare. Il sindacato è divenuto un palazzo di marmo con i portoni sbarrati a qualunque energia nuova. Pesa sulla Camusso la colpa di non aver divelto al suo interno le porte serrate. È colpa grave. E se oggi qualcuno ne approfitta, chi pagherà il conto?
Da questo proverbio si può mutuare che al cittadino italiano non far sapere quanto è bello metterglielo nel sedere.
Breve sondaggio indigeno in questi ultimi 5 giorni per conoscere quanti sanno in che posizione si trova l'Italia nella graduatoria della libertà di stampa dei Paesi del pianeta.
ZERO. Nessuno è al corrente.
VA' BENE COSI'.
Così i media possono fare tranquillamente il lavaggio, il controlavaggio e lo sciacquaggio al cervello degli italiani.
Formica ha quindi ragione quando afferma che “Il programma della P2 è già qui”.
Gli italiani non se ne sono neppure accorti.
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il Fatto 7.5.14
La strategia del rottamatore
Si va allo scontro finale. Per un pugno di voti
di Antonello Caporale
Nella sceneggiatura renziana il potere di interdizione o solo di mediazione del sindacato non è tollerato. Non c’era bisogno di un mago per intuire che il massimo profitto politico Matteo Renzi lo avrebbe colto in uno scontro senza pari con il sindacato, meglio se di sinistra. E infatti ciò è avvenuto. Se lo fa, anzi, se gli è permesso di farlo è grazie alla caduta della reputazione del sindacato, alla sfiducia circa la sua capacità di rappresentare gli interessi di tutti i lavoratori, alla sua inadeguatezza a immaginare strumenti innovativi per far fronte a una crisi economica così straordinaria. All’idea soprattutto che nella casta, nell’imperdonabile élite conservatrice e immobile, Cgil Cisl e Uil figurino come protagonisti di rilievo. È vera l’accusa della Camusso: Renzi torce la democrazia, riduce la complessità dei problemi e anche il diritto di parola, di critica, di semplice riflessione. Renzi conduce al suo cerchietto magico il titolo per ogni giudizio definitivo e finale. Ma questo allargamento dei confini del potere renziano anche oltre il lecito è appunto conseguenza, prova di un errore storico, sintesi di una degenerazione avvenuta. Perché oggi il sindacato appare più che come realtà sensibile e aperta, costruita per favorire il lavoro, come un grande facitore di singole carriere? È colpa della Cgil soprattutto se la trasparenza nella selezione del gruppo dirigente e nel finanziamento delle sue attività siano costantemente risucchiati in una nebbia che appare fitta, impenetrabile. Magari non è così, ma così appare. Si vota in Cgil? Certo che sì. Ma come viene formata la volontà degli iscritti, quanto è ampio il loro coinvolgimento nella scelta dei dirigenti e quanto è invece imposto, deciso, concluso prima che ogni congresso inizi?
SUI RITARDI del sindacato ha giocato e gioca Renzi. Che non vedeva l’ora di dire: la musica è cambiata. Oggi ancor di più di ieri perché lo scontro gli porterà voti, non gliene toglierà, e la rottura sarà illustrata come una prova di forza, un coraggio che i suoi predecessori non hanno avuto. Poco conta che alla base di questo proposito belligerante ci sia la carica sinceramente populista del premier e l’idea che egli ha di un esercizio accentrato e solitario del potere. Renzi ha scritto la legge elettorale convocando il leader dell’opposizione (appena rimosso dal suo scranno di senatore per indegnità) non il Parlamento , ha definito una grande riforma costituzionale con il volto più inquietante del berlusconismo (lo statista Denis Verdini). Figurarsi se sulla riforma del lavoro avrebbe permesso ai sindacati di partecipare non alla stesura, ma alla minima discussione preparatoria. Questo è il piatto, prendere o lasciare. È chiaro che Renzi forza oltre misura il campo delle sue prerogative. Ed è evidente che in questo modo “torce” la democrazia. Ma è anche evidente, solare, limpida la responsabilità storica del sindacato che ha sempre chiesto senza mai dare. Il sindacato è divenuto un palazzo di marmo con i portoni sbarrati a qualunque energia nuova. Pesa sulla Camusso la colpa di non aver divelto al suo interno le porte serrate. È colpa grave. E se oggi qualcuno ne approfitta, chi pagherà il conto?
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Re: Il nuovo governo Renzi
La Camusso per quale motivo non fa uno sciopero generale sulla legge del lavoro?
Se fossero stati all'oppozizione avrebbero mobilitato mari e monti.
L'Unico che si salva è la Fiom con Landini.
Ciao
Paolo11
Se fossero stati all'oppozizione avrebbero mobilitato mari e monti.
L'Unico che si salva è la Fiom con Landini.
Ciao
Paolo11
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Re: Il nuovo governo Renzi
Sottoscrivo Landini unico uomo di sx nel sindacato.paolo11 ha scritto:La Camusso per quale motivo non fa uno sciopero generale sulla legge del lavoro?
Se fossero stati all'oppozizione avrebbero mobilitato mari e monti.
L'Unico che si salva è la Fiom con Landini.
Ciao
Paolo11
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‘‘Lo Stato perirà nel momento in cui il potere legislativo sarà più corrotto dell’esecutivo’’. C.L. Montesquieu
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Re: Il nuovo governo Renzi
LA NOTA
Governo in difesa incalzato
dal Pd e dalla crisi economica
Spread ai minimi e Draghi avverte: non violate i vincoli europei
di Massimo Franco
La differenza tra gli interessi pagati per i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi ieri è scesa a 148 punti: il minimo dal maggio del 2011.
Eppure, il governo di Matteo Renzi fatica a gioire per questo risultato. Più si avvicina il voto europeo del 25 maggio, più si ha l’impressione che l’esecutivo nato sotto il segno della velocità, delle riforme-lampo, stia scivolando sulla difensiva: quasi in trincea.
Non sono tanto le critiche di Forza Italia, che anche ieri ha attaccato duramente il pasticcio della maggioranza in Senato col rinvio della riforma a giugno. Quegli attacchi servono a bilanciare il sostegno che Silvio Berlusconi e Denis Verdini offrono a Renzi nei passaggi più delicati.
Il problema vero sono i contrasti tra palazzo Chigi e il proprio partito in Parlamento; l’inclinazione del premier e di alcuni ministri a forzare le cose quando si trovano davanti un dissenso, senza però riuscire più a imporre loro l’ubbidienza; una crisi economica che non dà segno di raddrizzarsi; e il «peccato originale» di un presidente del Consiglio non eletto ma scelto da Giorgio Napolitano dopo una decisione della direzione del Pd che ha sfiduciato Enrico Letta, esponente dello stesso partito.
È significativo che Renzi abbia sentito il bisogno di difendersi dall’accusa di avere scalzato l’ex premier con un golpe interno.
«Letta è andato al potere con una manovra parlamentare, esattamente come me», è la tesi espressa da Renzi sul settimanale statunitense Time .
«Non era neppure leader del partito».
Sono indizi di nervosismo, che si inseriscono in uno sfondo di conflittualità crescente.
E lo sorprendono in una condizione difficile, dalla quale tuttavia sembra in grado di uscire rafforzato se, come dicono i sondaggi, a maggio il partito supererà il 30 per cento dei voti.
Il premier ha bisogno di una vittoria del Pd, come surrogato della legittimazione popolare che non ha: non ancora, almeno. L’incognita è su come ci arriverà.
Lo scontro tra premier e Cgil fa dire a Massimo D’Alema che il conflitto è tra sindacato e Palazzo Chigi, non col Pd: un distinguo politico non da poco.
E Vannino Chiti, che propone una riforma del Senato diversa da quella del governo, avverte che «forzare non serve a nessuno».
A questo vanno aggiunti i veleni sprigionati dagli arresti di Milano per i casi di corruzione all’Expo, e l’inquietudine per l’ordine pubblico negli stadi di calcio.
E sullo sfondo si allineano dati economici a dir poco contraddittori.
Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ieri ha dovuto registrare le parole critiche dal presidente della Bce, Mario Draghi, dopo la richiesta italiana di rinviare il pareggio di bilancio al 2016.
«Minare la credibilità delle regole esistenti non è mai una buona politica che può generare crescita», ha detto, pur non riferendosi soltanto all’Italia.
Padoan ha dovuto replicare con una punta di imbarazzo che il rinvio «è stato chiesto per il peggioramento del clima economico e per pagare i debiti della Pubblica amministrazione».
Ma il titolare dell’Economia si trova stretto tra l’esigenza di non sciupare la credibilità di un governo ambizioso a poche settimane dall’inizio del semestre di presidenza italiana, e pressioni elettorali crescenti.
Alcuni partiti adesso vorrebbero allargare i benefici della riduzione dell’Irpef anche a famiglie e imprese: mossa dal chiaro sapore elettorale. Padoan avverte che «un Paese come l’Italia deve ulteriormente dimostrare che è serio sulle strategia di riforma e sull’agenda strutturale».
Anche perché all’inizio di giugno la Commissione Ue si pronuncerà sulle richieste italiane. A quel punto le elezioni saranno alle spalle. Ma si passerà al «voto», altrettanto insidioso, delle istituzioni e dei mercati.
9 maggio 2014 | 08:07
© RIPRODUZIONE RISERVATALA NOTA
Governo in difesa incalzato
dal Pd e dalla crisi economica
Spread ai minimi e Draghi avverte: non violate i vincoli europei
di Massimo Franco
4 GOVERNO
shadow
La differenza tra gli interessi pagati per i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi ieri è scesa a 148 punti: il minimo dal maggio del 2011. Eppure, il governo di Matteo Renzi fatica a gioire per questo risultato. Più si avvicina il voto europeo del 25 maggio, più si ha l’impressione che l’esecutivo nato sotto il segno della velocità, delle riforme-lampo, stia scivolando sulla difensiva: quasi in trincea. Non sono tanto le critiche di Forza Italia, che anche ieri ha attaccato duramente il pasticcio della maggioranza in Senato col rinvio della riforma a giugno. Quegli attacchi servono a bilanciare il sostegno che Silvio Berlusconi e Denis Verdini offrono a Renzi nei passaggi più delicati.
Il problema vero sono i contrasti tra palazzo Chigi e il proprio partito in Parlamento; l’inclinazione del premier e di alcuni ministri a forzare le cose quando si trovano davanti un dissenso, senza però riuscire più a imporre loro l’ubbidienza; una crisi economica che non dà segno di raddrizzarsi; e il «peccato originale» di un presidente del Consiglio non eletto ma scelto da Giorgio Napolitano dopo una decisione della direzione del Pd che ha sfiduciato Enrico Letta, esponente dello stesso partito. È significativo che Renzi abbia sentito il bisogno di difendersi dall’accusa di avere scalzato l’ex premier con un golpe interno.
«Letta è andato al potere con una manovra parlamentare, esattamente come me», è la tesi espressa da Renzi sul settimanale statunitense Time . «Non era neppure leader del partito». Sono indizi di nervosismo, che si inseriscono in uno sfondo di conflittualità crescente. E lo sorprendono in una condizione difficile, dalla quale tuttavia sembra in grado di uscire rafforzato se, come dicono i sondaggi, a maggio il partito supererà il 30 per cento dei voti. Il premier ha bisogno di una vittoria del Pd, come surrogato della legittimazione popolare che non ha: non ancora, almeno. L’incognita è su come ci arriverà.
Lo scontro tra premier e Cgil fa dire a Massimo D’Alema che il conflitto è tra sindacato e Palazzo Chigi, non col Pd: un distinguo politico non da poco. E Vannino Chiti, che propone una riforma del Senato diversa da quella del governo, avverte che «forzare non serve a nessuno». A questo vanno aggiunti i veleni sprigionati dagli arresti di Milano per i casi di corruzione all’Expo, e l’inquietudine per l’ordine pubblico negli stadi di calcio. E sullo sfondo si allineano dati economici a dir poco contraddittori. Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ieri ha dovuto registrare le parole critiche dal presidente della Bce, Mario Draghi, dopo la richiesta italiana di rinviare il pareggio di bilancio al 2016. «Minare la credibilità delle regole esistenti non è mai una buona politica che può generare crescita», ha detto, pur non riferendosi soltanto all’Italia.
Padoan ha dovuto replicare con una punta di imbarazzo che il rinvio «è stato chiesto per il peggioramento del clima economico e per pagare i debiti della Pubblica amministrazione». Ma il titolare dell’Economia si trova stretto tra l’esigenza di non sciupare la credibilità di un governo ambizioso a poche settimane dall’inizio del semestre di presidenza italiana, e pressioni elettorali crescenti. Alcuni partiti adesso vorrebbero allargare i benefici della riduzione dell’Irpef anche a famiglie e imprese: mossa dal chiaro sapore elettorale. Padoan avverte che «un Paese come l’Italia deve ulteriormente dimostrare che è serio sulle strategia di riforma e sull’agenda strutturale». Anche perché all’inizio di giugno la Commissione Ue si pronuncerà sulle richieste italiane. A quel punto le elezioni saranno alle spalle. Ma si passerà al «voto», altrettanto insidioso, delle istituzioni e dei mercati.
9 maggio 2014 | 08:07
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http://www.corriere.it/politica/14_magg ... 8b1e.shtml
Governo in difesa incalzato
dal Pd e dalla crisi economica
Spread ai minimi e Draghi avverte: non violate i vincoli europei
di Massimo Franco
La differenza tra gli interessi pagati per i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi ieri è scesa a 148 punti: il minimo dal maggio del 2011.
Eppure, il governo di Matteo Renzi fatica a gioire per questo risultato. Più si avvicina il voto europeo del 25 maggio, più si ha l’impressione che l’esecutivo nato sotto il segno della velocità, delle riforme-lampo, stia scivolando sulla difensiva: quasi in trincea.
Non sono tanto le critiche di Forza Italia, che anche ieri ha attaccato duramente il pasticcio della maggioranza in Senato col rinvio della riforma a giugno. Quegli attacchi servono a bilanciare il sostegno che Silvio Berlusconi e Denis Verdini offrono a Renzi nei passaggi più delicati.
Il problema vero sono i contrasti tra palazzo Chigi e il proprio partito in Parlamento; l’inclinazione del premier e di alcuni ministri a forzare le cose quando si trovano davanti un dissenso, senza però riuscire più a imporre loro l’ubbidienza; una crisi economica che non dà segno di raddrizzarsi; e il «peccato originale» di un presidente del Consiglio non eletto ma scelto da Giorgio Napolitano dopo una decisione della direzione del Pd che ha sfiduciato Enrico Letta, esponente dello stesso partito.
È significativo che Renzi abbia sentito il bisogno di difendersi dall’accusa di avere scalzato l’ex premier con un golpe interno.
«Letta è andato al potere con una manovra parlamentare, esattamente come me», è la tesi espressa da Renzi sul settimanale statunitense Time .
«Non era neppure leader del partito».
Sono indizi di nervosismo, che si inseriscono in uno sfondo di conflittualità crescente.
E lo sorprendono in una condizione difficile, dalla quale tuttavia sembra in grado di uscire rafforzato se, come dicono i sondaggi, a maggio il partito supererà il 30 per cento dei voti.
Il premier ha bisogno di una vittoria del Pd, come surrogato della legittimazione popolare che non ha: non ancora, almeno. L’incognita è su come ci arriverà.
Lo scontro tra premier e Cgil fa dire a Massimo D’Alema che il conflitto è tra sindacato e Palazzo Chigi, non col Pd: un distinguo politico non da poco.
E Vannino Chiti, che propone una riforma del Senato diversa da quella del governo, avverte che «forzare non serve a nessuno».
A questo vanno aggiunti i veleni sprigionati dagli arresti di Milano per i casi di corruzione all’Expo, e l’inquietudine per l’ordine pubblico negli stadi di calcio.
E sullo sfondo si allineano dati economici a dir poco contraddittori.
Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ieri ha dovuto registrare le parole critiche dal presidente della Bce, Mario Draghi, dopo la richiesta italiana di rinviare il pareggio di bilancio al 2016.
«Minare la credibilità delle regole esistenti non è mai una buona politica che può generare crescita», ha detto, pur non riferendosi soltanto all’Italia.
Padoan ha dovuto replicare con una punta di imbarazzo che il rinvio «è stato chiesto per il peggioramento del clima economico e per pagare i debiti della Pubblica amministrazione».
Ma il titolare dell’Economia si trova stretto tra l’esigenza di non sciupare la credibilità di un governo ambizioso a poche settimane dall’inizio del semestre di presidenza italiana, e pressioni elettorali crescenti.
Alcuni partiti adesso vorrebbero allargare i benefici della riduzione dell’Irpef anche a famiglie e imprese: mossa dal chiaro sapore elettorale. Padoan avverte che «un Paese come l’Italia deve ulteriormente dimostrare che è serio sulle strategia di riforma e sull’agenda strutturale».
Anche perché all’inizio di giugno la Commissione Ue si pronuncerà sulle richieste italiane. A quel punto le elezioni saranno alle spalle. Ma si passerà al «voto», altrettanto insidioso, delle istituzioni e dei mercati.
9 maggio 2014 | 08:07
© RIPRODUZIONE RISERVATALA NOTA
Governo in difesa incalzato
dal Pd e dalla crisi economica
Spread ai minimi e Draghi avverte: non violate i vincoli europei
di Massimo Franco
4 GOVERNO
shadow
La differenza tra gli interessi pagati per i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi ieri è scesa a 148 punti: il minimo dal maggio del 2011. Eppure, il governo di Matteo Renzi fatica a gioire per questo risultato. Più si avvicina il voto europeo del 25 maggio, più si ha l’impressione che l’esecutivo nato sotto il segno della velocità, delle riforme-lampo, stia scivolando sulla difensiva: quasi in trincea. Non sono tanto le critiche di Forza Italia, che anche ieri ha attaccato duramente il pasticcio della maggioranza in Senato col rinvio della riforma a giugno. Quegli attacchi servono a bilanciare il sostegno che Silvio Berlusconi e Denis Verdini offrono a Renzi nei passaggi più delicati.
Il problema vero sono i contrasti tra palazzo Chigi e il proprio partito in Parlamento; l’inclinazione del premier e di alcuni ministri a forzare le cose quando si trovano davanti un dissenso, senza però riuscire più a imporre loro l’ubbidienza; una crisi economica che non dà segno di raddrizzarsi; e il «peccato originale» di un presidente del Consiglio non eletto ma scelto da Giorgio Napolitano dopo una decisione della direzione del Pd che ha sfiduciato Enrico Letta, esponente dello stesso partito. È significativo che Renzi abbia sentito il bisogno di difendersi dall’accusa di avere scalzato l’ex premier con un golpe interno.
«Letta è andato al potere con una manovra parlamentare, esattamente come me», è la tesi espressa da Renzi sul settimanale statunitense Time . «Non era neppure leader del partito». Sono indizi di nervosismo, che si inseriscono in uno sfondo di conflittualità crescente. E lo sorprendono in una condizione difficile, dalla quale tuttavia sembra in grado di uscire rafforzato se, come dicono i sondaggi, a maggio il partito supererà il 30 per cento dei voti. Il premier ha bisogno di una vittoria del Pd, come surrogato della legittimazione popolare che non ha: non ancora, almeno. L’incognita è su come ci arriverà.
Lo scontro tra premier e Cgil fa dire a Massimo D’Alema che il conflitto è tra sindacato e Palazzo Chigi, non col Pd: un distinguo politico non da poco. E Vannino Chiti, che propone una riforma del Senato diversa da quella del governo, avverte che «forzare non serve a nessuno». A questo vanno aggiunti i veleni sprigionati dagli arresti di Milano per i casi di corruzione all’Expo, e l’inquietudine per l’ordine pubblico negli stadi di calcio. E sullo sfondo si allineano dati economici a dir poco contraddittori. Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ieri ha dovuto registrare le parole critiche dal presidente della Bce, Mario Draghi, dopo la richiesta italiana di rinviare il pareggio di bilancio al 2016. «Minare la credibilità delle regole esistenti non è mai una buona politica che può generare crescita», ha detto, pur non riferendosi soltanto all’Italia.
Padoan ha dovuto replicare con una punta di imbarazzo che il rinvio «è stato chiesto per il peggioramento del clima economico e per pagare i debiti della Pubblica amministrazione». Ma il titolare dell’Economia si trova stretto tra l’esigenza di non sciupare la credibilità di un governo ambizioso a poche settimane dall’inizio del semestre di presidenza italiana, e pressioni elettorali crescenti. Alcuni partiti adesso vorrebbero allargare i benefici della riduzione dell’Irpef anche a famiglie e imprese: mossa dal chiaro sapore elettorale. Padoan avverte che «un Paese come l’Italia deve ulteriormente dimostrare che è serio sulle strategia di riforma e sull’agenda strutturale». Anche perché all’inizio di giugno la Commissione Ue si pronuncerà sulle richieste italiane. A quel punto le elezioni saranno alle spalle. Ma si passerà al «voto», altrettanto insidioso, delle istituzioni e dei mercati.
9 maggio 2014 | 08:07
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http://www.corriere.it/politica/14_magg ... 8b1e.shtml
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