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camillobenso
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Re: Top News

Messaggio da camillobenso »

20 MAG 2014 18:42
LA RETE CHE UCCIDE – GREENWALD, IL BRACCIO MEDIATICO DI SNOWDEN CONTRO NSA, LA CENTRALE DELLO SPIONAGGIO USA: "TRASFORMARE INTERNET IN UNA RETE DI SORVEGLIANZA UCCIDE LE NOSTRE LIBERTA', IL DIRITTO ALLA PRIVACY NON E' UN OPTIONAL"

«Potere politico ed economico convergono nel cercare di convincerci che la riservatezza non conta. È molto pericoloso. Sulla raccolta di dati, però, c’è una differenza: se usi Facebook e poi fai una ricerca su Google, mandi una mail con Yahoo! chatti su Skype, Facebook non ha accesso ai dati. Solo l’Nsa arriva dappertutto»...


Massimo Gaggi per "Il Corriere della Sera"


«Oltre al potere sterminato e incontrollabile che dà a una nazione, la cosa più spaventosa del sistema di sorveglianza senza limiti messo in piedi dall'Nsa, la centrale dello spionaggio Usa, è la demolizione della nozione stessa di privacy », dice Glenn Greenwald che incontro a New York.


«E la privacy , il diritto alla riservatezza, non è certo un optional, come anche le aziende della Rete vogliono farci credere, ma un ingrediente essenziale delle nostre libertà, della formazione della nostra personalità. Se la perdiamo, veniamo privati di un diritto essenziale ma anche della capacità di sperimentare, di esplorare noi stessi, di comportarci spontaneamente. Se saprai di essere costantemente sotto controllo non farai nulla di tutto questo. Sorvegliare a tappeto non solo dà un potere immenso e pericolosissimo a chi controlla il sistema, ma uccide anche la creatività».


Per un anno intero le rivelazioni sul funzionamento e l'estensione della rete di intelligence americana e sulla scelta di raccogliere tutti i dati che la tecnologia consente di raggiungere e non solo quelli realmente essenziali per le indagini in corso, hanno fatto rumore in tutto il mondo.

Mentre il governo Usa cercava invano di bloccare Edward Snowden, la fonte di questo stillicidio di informazioni trafugate negli anni in cui lavorava per i servizi segreti, Barack Obama è stato costretto ad ammettere che nell'era di «big data» i confini dello spionaggio possono essersi dilatati oltre il necessario: si è scusato, ha cercato di rassicurare gli alleati finiti anche loro sotto sorveglianza e ha avviato una revisione dell'intera materia.

Non per questo, però, gli Usa hanno smesso di ricercare Snowden, rifugiatosi prima a Hong Kong poi in Russia, da dove ha reso pubblico il contenuto dei file sottratti agli archivi della National Security Agency. Servendosi, per questo, del lavoro di Glenn Greenwald, originale figura di avvocato, giornalista e attivista di battaglie per i diritti civili condotte sempre cavalcando una linea radicale. Per Snowden, che lo ha studiato a lungo, Greenwald era la persona giusta: coraggioso, ostinato, capace di evitare trappole e infortuni legali.

I tentativi di raggiungerlo in tutta segretezza, i primi approcci, i racconti rocamboleschi dei loro primi incontri a New York danno un ritmo da thriller alla prima parte di Sotto Controllo , il libro appena pubblicato da Glenn (in Italia edito da Rizzoli).

Il titolo originale, No place to hide , nessun posto in cui nascondersi, dà l'idea di una condizione nella quale nessuno di noi può sottrarsi a una sorveglianza permanente, preso com'è in una rete che ha occhi ovunque: Internet, telefonini, telecamere nelle strade, nei negozi, negli uffici, negli ascensori, dati delle carte di credito, navigatori satellitari.

Anche per questo Snowden ha scelto di rivelare sin dall'inizio la sua identità, cercando rifugio in Stati che non lo avrebbero estradato negli Usa. Per molto tempo anche Greenwald, che è americano ma vive a Rio de Janeiro, ha evitato di tornare nel suo Paese temendo di essere arrestato.


Di recente si è, però, convinto che non sarebbe stato perseguito per la sua attività giornalistica, che negli Usa gode di una speciale protezione costituzionale. Così è rientrato per presentare un libro che, oltre al fascino di una narrazione da «spy story» e alla denuncia della pervasività dello spionaggio, ha il valore storico della ricostruzione dettagliata e con mille retroscena di una vicenda che sta cambiando i rapporti tra gli Stati e costringe chi utilizza Internet, e tutto il mondo dell'informazione, a fare i conti in modo nuovo con l'universo di «big data».

Oltre che con l'Nsa, lei è molto duro anche con le imprese di Internet: si dicono vittime, costrette dalla legge a collaborare con l'intelligence, mentre secondo lei sono complici.
«Ho dedicato quasi tutto il quarto capitolo a questo. Collaborare non era obbligatorio. Basta vedere Twitter, che si è rifiutata. La verità è che - un po' per un malinteso patriottismo, un po' per convenienza - hanno scelto di collaborare. È nella loro logica. Pensi alla privacy. Per Mark Zuckerberg non è più una norma sociale, è un concetto obsoleto nella società dell'informazione.


Mentre secondo Eric Schmidt, "se c'è un'azione che vuoi compiere senza essere visto, forse è meglio che non la fai". È falso, così uccidi la libertà dell'individuo e la sua creatività. È contrario allo spirito di Internet: trasformare la rete in un sistema di sorveglianza significa stroncare il suo potenziale più prezioso. E i primi a saperlo sono i capi di Facebook e Google che difendono con grande determinazione la loro privacy come dimostrato da tanti episodi, alcuni citati nel libro».

Anche queste aziende hanno una enorme capacità di raccogliere dati. E non sono sottoposte a controlli. Non devono riferire al Congresso. In «The Circle», l'ultimo romanzo di Dave Eggers, l'occhio che spia tutti non è più lo Stato come in «1984» di Orwell, ma un'azienda.

«Potere politico e potere economico convergono nel cercare di convincerci che la riservatezza non conta. È molto pericoloso. Sulla raccolta di dati, però, c'è una differenza: se usi Facebook e poi fai una ricerca su Google, mandi una mail con Yahoo! o hai una chat su Skype, Facebook non ha accesso ai dati. Solo l'Nsa arriva dappertutto».

Nel libro c'è qualche rivelazione in più. Forse quella che colpisce di più è la storia di server, router e altri sistemi di rete esportati dagli Usa.
«Sì, attrezzature che vengono intercettate e modificate mettendoci dentro un'apparecchiatura di sorveglianza. E poi di nuovo sigillate, così il destinatario non si accorge di nulla».


Le aziende fornitrici americane erano consapevoli delle manipolazioni dello spionaggio?
«Non lo sappiamo. I documenti che abbiamo non dicono nulla in proposito. Cisco, una delle aziende che esportano questi sistemi, si dice all'oscuro. Quello che è più curioso è che il governo Usa prima ha scoraggiato l'uso dell'elettronica cinese temendo inquinamenti del loro spionaggio, poi si è comportato nello stesso modo».

L'America, che difende le libertà essenziali e i diritti umani assai più di altre potenze e regimi autoritari, deve proteggere il primato con la tecnologia digitale che è l'unico vantaggio di cui dispone, dice chi sostiene la legittimità dell'uso dello spionaggio informatico.
«Non credo che tutto questo apparato possa essere giustificato con la sorveglianza della Russia, della Cina o dell'Iran. Intanto perché il sistema è in gran parte domestico, rivolto verso cittadini americani. Un apparato gigantesco, che costa 75 miliardi di dollari l'anno. Oltretutto è un sistema che indebolisce protocolli e sistemi di crittaggio creando varchi che possono essere sfruttati da agenti esterni, anche hacker cinesi e russi».

Lei critica Obama, dice che non si vedeva niente di simile dai tempi di Nixon, se la prende con le prudenze del «New York Times», ha nostalgia dell'era di Daniel Ellsberg, il suo eroe, quando i «Pentagon Papers» venivano pubblicati senza reticenze.

Ma quelli - parliamo del 1971 - erano tempi diversi: non c'erano la minaccia del terrorismo, il mondo frammentato e sempre più ingovernabile di oggi, né la disponibilità di tecnologie così pervasive.


«Non penso che le minacce di oggi siano superiori a quelle che gli Usa dovevano fronteggiare quando Ellsberg consegnò al New York Times quei documenti sconvolgenti. Allora l'Urss, con migliaia di missili balistici puntati sull'America, rappresentava la minaccia più potente della storia umana. E anche il terrorismo, da quello palestinese dell'Olp all'Ira, era già molto attivo».

Lei ha lasciato il giornalismo dei «mainstream media» per passare a una sua piattaforma digitale nel nuovo gruppo creato da Pierre Omydiar. Un giornalismo di impatto più forte ma a senso unico, dicono i suoi critici. Lei attacca la stampa tradizionale che giudica troppo prudente, deferente col potere. Ma un giornale cerca di dare una visione bilanciata della realtà. Cosa la spinge a giudicare codardi organi che sono sempre stati considerati una garanzia di libertà?

«La stampa è impaurita, è diventata reticente. Anche quando denuncia gli scandali dello spionaggio lo fa in modo involuto, poco comprensibile, con mille distinguo. Ci sono vari motivi. Le cose sono cambiate dopo l'attacco terroristico dell'11 settembre. Una pressione che ha spinto ad adottare uno stile più patriottico. Poi, negli ultimi 20-30 anni, siamo passati dal giornalismo delle famiglie di editori puri a quello di corporation che gestiscono anche altri business e hanno un interesse prioritario a mantenere buoni rapporti col governo».

Lei a suo tempo si è scontrato con Bill Keller sul futuro del giornalismo: ne venne fuori un dibattito al quale il «Corriere» dedicò molta attenzione. Il successore di Keller alla guida del «New York Times», Jill Abramson, anche lei finita sotto i suoi strali, è stata appena licenziata.


«Per me è un'altra prova che la stampa è su una brutta china. Anche se l'ho criticata, Jill aveva la sana abitudine di considerare quello tra il giornale e il governo come un rapporto conflittuale, tra avversari. E stava cercando di portare nella cabina di regia un'altra giornalista aggressiva come Janine Gibson. Credo che con il nuovo direttore, con il quale ho avuto in passato diversi incidenti - storie che non sono state pubblicate perché davano fastidio al governo - ci sarà maggior sottomissione al potere».
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Re: Top News

Messaggio da camillobenso »

TERRORE IN BELGIO
Bruxelles, spari nel Museo ebraico:
«Attacco antisemita»: tre morti

Nel quartiere del Sablon, vicino al Museo Ebraico. Il vicepremier: «Sono choccato»
di Luigi Offeddu


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BRUXELLES- Due donne e un uomo sono stati uccisi, e un’altra dozzina feriti a colpi d’arma da fuoco, in un attentato compiuto alle 15,50 di questo pomeriggio nei pressi del Museo ebraico di Bruxelles, nel pieno centro della capitale. «C’è la forte probabilità che si tratti di un atto antisemita», hanno detto le fonti ufficiali. Sia il ministro degli Interni che quello degli Esteri –quest’ultimo casualmente presente sul luogo al momento della sparatoria- hanno comunque avvalorato la pista di un atto terroristico. Ma non vi è stata finora alcuna rivendicazione, e le indagini puntano su almeno due piste ben distinte: terrorismo islamico, e terrorismo di matrice naonazista. Una persona sarebbe stata fermata e sarebbe ora sotto interrogatorio, ma finora non vi sono sospetti. Ancora poco fa l’intero quartiere –il «Salon» celebre per i suoi negozi di antiquari, a pochi passi dalla grande sinagoga di Bruxelles e dalla Grand Place- era bloccato dalla polizia intervenuta in forze, e la caccia ai colpevoli era ancora in corso.

http://www.corriere.it/esteri/14_maggio ... f5dc.shtml
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Re: Top News

Messaggio da camillobenso »

E' lecito chiedersi se la criminalità organizzata controlla l'intera Europa?????





Regno Unito, con droga e prostituzione il Pil aumenta di 12 miliardi
Le nuove voci di calcolo delle ricchezze nazionali arrivano proprio mentre Londra riceve il poco invidiabile titolo di “capitale europea del consumo di cocaina”

di Daniele Guido Gessa | 2 giugno 2014Commenti (23)



Se droga e prostituzione, inseriti nei conti dell’Italia, potrebbero salvare – o almeno aiutare – i conti del Paese, anche l’economia del Regno Unito potrebbe beneficiare della nuova contabilità imposta dall’Eurostat, l’ente europeo di statistica, che ha stabilito come ogni membro dell’Unione debba applicare questi due nuovi parametri nel calcolo delle ricchezze nazionali.

Le nuove regole sono arrivate al di qua della Manica proprio mentre Londra riceve il poco invidiabile titolo di “capitale europea del consumo di cocaina”, anche se ora nei ministeri e negli uffici statistici britannici si tira un sospiro di sollievo per la quasi “normalizzazione”.

Così anche quei fiumi di polvere bianca che, dicono gli esperti, una volta assorbiti dai corpi dei londinesi finiscono nel Tamigi grazie alle fogne (così è stato calcolato il primato), verranno usati per un fine più nobile: far apparire più ricco di quanto non lo sia già il Regno Unito. Almeno sulla carta. Il mondo che cambia e un approccio più morbido a temi delicati e a fenomeni permeati di problemi e criminalità, pesano sicuramente sulla decisione. Insieme alla consapevolezza, da parte dell’Europa e del Regno Unito, che anche chi delinque contribuisce a rendere più ricco il paese.

Per prepararsi ai nuovi dati che partiranno da settembre, l’Office for national statistics ha fatto una stima del mercato della droga e della prostituzione nel 2009, anche per calcolare dall’ultimo trimestre di quest’anno l’apporto dei traffici illeciti all’economia del regno di Elisabetta. Così si scopre che cinque anni fa – secondo l’istituto – l’apporto di droga e prostituzione per il Pil britannico è stato pari a 9,7 miliardi di sterline, circa 12 miliardi di euro al cambio attuale. Di questi, 4,4 miliardi provenienti dal traffico di cocaina, ecstasy, crack, cannabis, eroina e anfetamine, mentre gli altri 5,3 miliardi direttamente dal traffico e dallo sfruttamento di esseri umani che finiscono nel giro della prostituzione. Cifre paradossali, ma l’economia è fatta di calcoli più che di morale, commenta in queste ore la stampa britannica. Il Guardian riporta che nel 2009 operavano nel Regno Unito circa 61mila prostitute, con una media di 25 clienti a settimana a donna e una spesa media, a cliente, di 68 sterline, circa 85 euro.

Nelle stime dell’ente – così come riportate dal quotidiano progressista – quei 2,2 milioni di consumatori di marijuana, nello stesso anno, hanno reso più ricco il paese con 1,2 miliardi di sterline. Un mercato illecito che, oltre a incassare guadagni, deve sostenere delle spese: per coltivare la marijuana sono stati sborsati, sempre nel 2009, ben 154 milioni di sterline in elettricità, riscaldamento e materie prime per la coltivazione. Anche l’acqua, il terreno e il concime hanno un costo, pure nel caso di un utilizzo non propriamente encomiabile, e tutto questo non è sfuggito agli statistici britannici. Questi 9,7 miliardi di sterline, nel 2009, rappresentarono lo 0,7% del Pil del Regno Unito.

Ma ora, dice l’ufficio nazionale di statistica, questo dato dovrà essere visto sicuramente al rialzo. Lo si scoprirà a settembre, appunto, e questi dati faranno sicuramente venire qualche pensierino all’Hrmc, il fisco britannico, per quei possibili ed eventuali introiti in caso di legalizzazione di droghe leggere e delle case del piacere. Stupefacenti proibiti a parte (il Regno Unito infatti non è l’Olanda e non è il Colorado), al momento nel paese è illegale per le prostitute abitare in compagnia e in una casa non può risiedere più di una lavoratrice del sesso.

Ma non preoccupiamoci, dice un economista di Scotiabank, Alan Clarke, intervistato dal Guardian: l’attività delle donne che vendono il proprio corpo già ora porta soldi alle casse dello Stato. Come? Ogni volta che prendono un taxi (e avviene molto spesso) o con tutte le telefonate che fanno, così come con l’elettricità che consumano nelle loro dimore, anche le loro attività hanno un ritorno in termini fiscali. Dalle case chiuse a un’economia sempre più aperta, quindi, almeno all’apporto di nuovi introiti e giri di affari registrabili dagli statistici.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/06 ... l/1010351/
camillobenso
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Mal di Tech
di Paolo Ottolina - @pottolina
Un freno ai cookies: si potrà dire no ai “biscotti” di Internet
5 GIUGNO 2014 | di Paolo Ottolina


Ieri il Garante per la Privacy ha emanato un provvedimento per i normare l’utilizzo dei cookies (non quelli “tecnici” ma quelli con finalità di marketing) da parte dei siti web. Ne ho scritto un breve riassunto (l’argomento in verità è assai vasto) sul Corriere di oggi:

Un po’ meno biscotti indigesti sul web italiano. Il Garante per la Privacy, dopo una consultazione pubblica, ha deciso di regolamentare i cookies (“biscotti” in inglese). Che cosa sono? Qualcosa con cui tutti, più o meno consapevolmente, abbiamo a che fare quando navighiamo sul web. Sono piccoli file di testo depositati sul nostro computer da un sito che abbiamo visitato. Quando torniamo sulla medesima pagina web, il cookie viene ritrasmesso al sito. Per molte operazioni sono utilissimi: ad esempio ci evitano di dover inserire ogni volta il nome utente e la password (pensiamo alle varie webmail).

Nello stesso tempo però sono il modo con cui i siti costruiscono, per fini commerciali, la nostra identità in rete. Che pagine vediamo, quanto a lungo, quanto spesso, in quali orari e così via. Quella che si chiama “profilazione” dell’utente. E’ proprio a quest’ultima pratica che il Garante vuole mettere un freno. Che cosa succede adesso? D’ora in poi, quando ci colleghiamo per la prima volta a un sito, un avviso ci avvertirà che saranno usati cookies per finalità di marketing. Ci dovrà dire anche se riceveremo “biscottini” da altri siti, diversi da quello che visitiamo (attraverso link della pagina). Servirà un’informativa dettagliata su come viene tracciato il nostro comportamento online. Infine un ulteriore messaggio ci avvertirà che proseguendo nella navigazione si dà il consenso all’uso dei cookies.

La nuova normativa, che prevede sanzioni per i siti non in regola, tampona lo iato esistente tra il mondo analogico e quello digitale. Negli ultimi anni abbiamo familiarizzato con le clausole sul trattamento dei dati personali contenute in qualsiasi contratto cartaceo. I gestori della nostra vita digitale invece potevano sottoporci a uno scrutinio quotidiano senza prendersi il disturbo di avvertirci. Ora avremo qualche (noioso) clic in più ma in cambio ci sarà qualche biscotto spione in meno nella credenza digitale. Anche se alla fine, assai spesso, il consenso ai cookies lo daremo. Ci spiano, ma sono una comodità. E Internet insegna che la maggioranza preferisce la comodità alla difesa della privacy.Mal di Tech
di Paolo Ottolina - @pottolina
Un freno ai cookies: si potrà dire no ai “biscotti” di Internet
5 GIUGNO 2014 | di Paolo Ottolina
shadow

(foto di Kristina Alexanderson da Flickr)

Ieri il Garante per la Privacy ha emanato un provvedimento per i normare l’utilizzo dei cookies (non quelli “tecnici” ma quelli con finalità di marketing) da parte dei siti web. Ne ho scritto un breve riassunto (l’argomento in verità è assai vasto) sul Corriere di oggi:

Un po’ meno biscotti indigesti sul web italiano. Il Garante per la Privacy, dopo una consultazione pubblica, ha deciso di regolamentare i cookies (“biscotti” in inglese). Che cosa sono? Qualcosa con cui tutti, più o meno consapevolmente, abbiamo a che fare quando navighiamo sul web. Sono piccoli file di testo depositati sul nostro computer da un sito che abbiamo visitato. Quando torniamo sulla medesima pagina web, il cookie viene ritrasmesso al sito. Per molte operazioni sono utilissimi: ad esempio ci evitano di dover inserire ogni volta il nome utente e la password (pensiamo alle varie webmail).

Nello stesso tempo però sono il modo con cui i siti costruiscono, per fini commerciali, la nostra identità in rete. Che pagine vediamo, quanto a lungo, quanto spesso, in quali orari e così via. Quella che si chiama “profilazione” dell’utente. E’ proprio a quest’ultima pratica che il Garante vuole mettere un freno. Che cosa succede adesso? D’ora in poi, quando ci colleghiamo per la prima volta a un sito, un avviso ci avvertirà che saranno usati cookies per finalità di marketing. Ci dovrà dire anche se riceveremo “biscottini” da altri siti, diversi da quello che visitiamo (attraverso link della pagina). Servirà un’informativa dettagliata su come viene tracciato il nostro comportamento online. Infine un ulteriore messaggio ci avvertirà che proseguendo nella navigazione si dà il consenso all’uso dei cookies.

La nuova normativa, che prevede sanzioni per i siti non in regola, tampona lo iato esistente tra il mondo analogico e quello digitale. Negli ultimi anni abbiamo familiarizzato con le clausole sul trattamento dei dati personali contenute in qualsiasi contratto cartaceo. I gestori della nostra vita digitale invece potevano sottoporci a uno scrutinio quotidiano senza prendersi il disturbo di avvertirci. Ora avremo qualche (noioso) clic in più ma in cambio ci sarà qualche biscotto spione in meno nella credenza digitale. Anche se alla fine, assai spesso, il consenso ai cookies lo daremo. Ci spiano, ma sono una comodità. E Internet insegna che la maggioranza preferisce la comodità alla difesa della privacy.

http://malditech.corriere.it/2014/06/05/2100/
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Re: Top News

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Comunali, affluenza: 34% alle 19
Meno 19 punti rispetto a 25 maggio
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Re: Top News

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l’Unità 21.6.14
Ai lettori
Ecco i giornalisti che hanno realizzato il giornale oggi in edicola. La redazione continuerà la sua battaglia in difesa del giornale e dei posti di lavoro fino all’incontro con i liquidatori della società editrice. In quell’occasione, chiederemo certezze sul futuro del quotidiano e sul pagamento di tutte le spettanze maturate. Senza queste certezze dovute, lo sciopero sarà inevitabile così come iniziative di carattere legale a tutela della testata e dei nostri posti di lavoro.
IL CDR
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Re: Top News

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Italia a Brandelli
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Re: Top News

Messaggio da camillobenso »

Sessant'anni fa, dopo acquazzoni come quello di ieri mattina a Milano, da ragazzi della periferia estrema di Milano inforcavamo le biciclette per andare a vedere un'inedita Venezia sotto la Madonnina.
Vedere le barche in Viale Fulvio Testi non era cosa da poco.

In sessant'anni hanno speso i soldi a vanvera, buttati dalla finestra, ma i disagi del Seveso che esonda a Niguarda non sono mai stati risolti, ne dai succhialisti della Milano da bere, nei dai barbari di Roma ladrona, e neppure dalla sinistra di Pisapippa ( e questo mi addolora per evidenti ragioni. Quando affermano che sono tutti uguali è difficile ribattere al giorno d'oggi).

Le foto del Corriere.it

http://milano.corriere.it/foto-gallery/ ... 2665.shtml
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Re: Top News

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È morto a Torino Giorgio Faletti (Foto)
Ritratto - L’artista col mezzo sorriso sul volto
Ai fan: “Acciacchi dell’età” / Videointervista / I personaggi
http://www.lastampa.it/2014/07/04/edizi ... agina.html
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Re: Top News

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l’Unità 13.7.14
l’Unità in lotta
Una bandiera da sfogliare

di Paolo Di Paolo

HA SVENTOLATO PER QUASI UN SECOLO NELLE PIAZZE ITALIANE. È qualcosa di più che un giornale. C’era chi la domenica usciva per le strade - sole, pioggia o vento non importava - con un pacco di copie sotto il braccio.

l’Unità si è stretta a doppio nodo ai grandi momenti della storia del nostro Paese e della storia della sinistra, raccontando e alimentando l’evoluzione della società, di un partito, di un ideale. «L’onorevole Giacomo Matteotti scomparso», titolava nel giugno di novant’anni fa esatti, e di lì in avanti c’è stata sempre: anche clandestina, ciclostilata, negli anni della dittatura e della guerra, con il suo nome «puro e semplice» come lo definiva Antonio Gramsci.
C’è stata con il suo slancio, con la sua visione dei fatti, con i suoi abbagli, talvolta, e con i suoi errori, con l’impegno sempre: di guardare il mondo da sinistra, e del mondo, della collettività le speranze, le conquiste, i fallimenti, le tragedie. Qualcosa di più che un giornale. Le proteste, le manifestazioni, milioni di persone, le bandiere, le feste d’estate - e l’Unità presente come un simbolo, una sfida, una scommessa. Al passaggio tra un secolo e l’altro - era sempre luglio, ma del 2000 - la società editrice fu messa in liquidazione. Il giornale restò lontano dalle edicole fino alla primavera del 2001, quando fu rilanciato dalla direzione di Furio Colombo. È di nuovo luglio, è il 2014, l’Unità rischia di nuovo. Un paradosso è che questo avvenga pochi mesi dopo avere festeggiato il novantesimo compleanno. Ma sarebbe sbagliato pensare che l’Unità meriti di essere salvata solo in virtù della sua lunga e prodigiosa storia, di ciò che ha testimoniato, delle idee che ha mosso e nutrito, delle firme che nel tempo l’hanno resa autorevole, di quelle che ha ospitato nel corso degli anni, dei protagonisti che l’hanno fatta grande, da Ingrao a Reichlin, degli intellettuali che ha ospitato, da Ada Gobetti a Vittorini, da Calvino a Tabucchi, da Lajolo a Pavese a Pasolini.

Non è solo un immenso patrimonio a essere messo in pericolo, e con tale patrimonio quasi un secolo di storia italiana, di lotte, di dibattito civile, di conquiste sociali e intellettuali. A rischio è un presente vitale - l’Unità di ogni giorno, con le sue scelte, il suo modo di raccontare, con la passione e la fiducia contrapposte all’Italia del cinismoe dell’aggressività cieca - e una possibilità di futuro. Di un futuro italiano in cui il contributo de l’Unità possa alimentare un orizzonte in cui la parola «sinistra» abbia ancora un senso e un peso: nonostante il crollo di muri e la fine di ideologie, nonostante il nostro essere «dopo», oltre il Novecento. C’è spazio e c’è bisogno che il cantiere della sinistra, di una sinistra aggiornata e attrezzata ad affrontare il nuovo escolo, disponga ancora di questo architrave essenziale. Un luogo - su carta e in rete - dove aprire un confronto, una dialettica, sia sempre possibile. Una finestra, sì, da cui affacciarsi: per vedere non solo come va il mondo, ma come potrebbe andare (meglio); una lente che continui a posarsi soprattutto sulle disuguaglianze, sulle ingiustizie sociali; un amplificatore, non delle urla e degli strepiti, non della retorica dei politici, ma di chi non ha voce abbastanza per farsi sentire. Il novantesimo compleanno di questo giornale ha mostrato quanto sia ancora tenace - nonostante la generale crisi dell’editoria e dei periodici - il legame con i lettori, con generazioni diverse di lettori. È raro che il rapporto con un quotidiano sia tanto impastato di vita, vita vissuta, di memorie private e collettive, di staffette fra padri, figli, nipoti. È raro che il solo nome di un giornale evochi all’istante qualcosa, anche per chi ne è distante politicamente. Dici l’Unità, e chiunque sa, chiunque sente. Che è un pezzo di storia, uno spazio condiviso, una regione della testa e anche del cuore, a sinistra. Qualcosa di più che un giornale. Molto di più.
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