LA DEMOCRAZIA AUTORITARIA
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Re: LA DEMOCRAZIA AUTORITARIA
RENZI COPIA LE RICETTE DELLA BANCA JP MORGAN: PIÙ RIGORE E MENO SOCIALISMO
SMONTARE LA COSTITUZIONE, ASSERVIRE IL PARLAMENTO AL GOVERNO, GIUSTIZIA E BUROCRAZIA ASSERVITE ALL’ECONOMIA: ECCO COSA SCRIVEVANO GLI ANALISTI NEL RAPPORTO DEL 2013
Alla fine del maggio dello scorso anno un report di Jp Morgan, banca d’affari statunitense, fotografava la crisi economica europea e segnalava la necessità di riforme strutturali.
Anche riguardo alle Costituzioni nate in seguito alla caduta dei fascismi.
Il documento, in 16 pagine, si sofferma anche sulla situazione italiana ed è divenuto parte del dibattito politico nazionale.
Eccone un’ampia sintesi.
La gestione della crisi nell’Eurozona ha due aspetti: la creazione di nuove istituzioni e la soluzione dei problemi nazionali che hanno afflitto il cammino dell’euro fin dall’inizio.
A questo proposito bisogna tener presente che secondo la Germania – il Paese che più di ogni altro determina in che modo viene gestita la crisi – i problemi nazionali vanno risolti dalle singole nazioni prima di procedere a ulteriori passi sulla strada dell’integrazione”.
Si è pertanto creato un quadro disomogeneo. In alcune zone sono stati compiuti progressi notevoli, mentre in altre il processo di aggiustamento è a malapena iniziato. Nell’insieme possiamo affermare che il processo di aggiustamento si trova grosso modo a metà del suo cammino.
O ci pensa la Bce o tocca alle periferie
“Questo approccio alla gestione della crisi ha avuto un impatto enorme sulla macroeconomia deprimendone il rendimento e incrementando il livello di dispersione”.
Certo è che l’Eurozona non è in grado di sopportare altri tre anni come gli ultimi tre.
“Secondo il nostro giudizio si tornerà a crescere senza abbandonare il necessario processo di aggiustamento”.
“Ma senza un molto più energico intervento della Bce, la crescita rimarrà modesta e l’Eurozona resterà esposta agli choc dei mercati. A un certo punto però le cose cambieranno. Ciò potrebbe accadere in due modi: o a seguito del riuscito processo di aggiustamento a livello nazionale, oppure a causa di forti pressioni politiche e sociali a livello periferico”.
Il dato di fondo della gestione della crisi negli ultimi tre anni va individuato nella convinzione che i problemi strutturali nazionali andassero affrontati a livello nazionale prima che la regione tentasse di accelerare il processo di integrazione.
“Prima ancora del salvataggio di Cipro, i Paesi dell’Eurozona hanno dovuto sopportare il peso della ricapitalizzazione delle banche e delle riforme strutturali. La crisi cipriota non ha fatto che rafforzare la convinzione secondo cui i problemi nazionali andassero affrontati a livello nazionale. La Germania ha sempre pensato che un intervento “ex ante” non avrebbe avuto altro effetto se non quello di rendere meno probabili gli aggiustamenti “ex post”.
Per adottare questo approccio era necessaria una liquidità sufficiente a fronteggiare i terremoti dei mercati. Per questo la Bce si impegnò a sostenere le banche.
Spagna, Italia, Germania e le riforme da fare
Ma questo approccio divenne problematico quando le tensioni dei mercati colpirono la Spagna e l’Italia nel 2011, Paesi troppo grandi per poter essere aiutati con semplici iniezioni di liquidità.
“Le Operazioni monetarie definitive (OMT) furono lo strumento attraverso il quale la Bce permise alla Germania di continuare a imporre una gestione della crisi di suo gradimento”.
“All’inizio della crisi si pensò che i problemi strutturali nazionali fossero in larga misura di natura economica: eccessivi costi bancari, non adeguato allineamento del tasso di cambio interno reale e rigidità strutturali. Ma col tempo apparve chiaro che pesavano molto anche i problemi di natura politica.
Le Costituzioni e gli ordinamenti creati nella periferia meridionale dell’Europa dopo la caduta del fascismo, hanno caratteristiche che vanno cambiate se si vuole proseguire sul cammino dell’integrazione.
Quando la Germania parla di un decennio per il processo di aggiustamento, ovviamente pensa sia alla riforma economica sia a quella politica”.
La natura della gestione della crisi ha avuto un impatto enorme sul paesaggio macroeconomico.
L’impatto maggiore è stato a carico della crescita regionale con l’effetto, tra l’altro, di accrescere le tensioni politiche.
L’interrogativo è se la macroeconomia può far registrare miglioramenti anche senza modificare la gestione della crisi. A nostro giudizio la risposta è: sì, ma solo in misura limitata.
Banca centrale e Stati Arriva la pagella
Cruciale sarà il comportamento della Bce. Negli ultimi mesi la Bce è apparsa incline a tollerare maggiormente le debolezze economiche. Quanto più la risposta della Bce sarà limitata, tanto più si allontanerà l’obiettivo dell’aggiustamento.
“La necessità di affrontare i problemi nazionali a livello nazionale crea l’immagine del viaggio. I viaggi e le destinazioni variano da Paese a Paese.
Ma a che punto siamo del viaggio? 1) Aggiustamento del tasso di cambio reale: problema risolto per alcuni Paesi. 2) Riduzione del livello di indebitamento delle istituzioni finanziarie: a metà del cammino. 3) Riduzione del livello di indebitamento delle famiglie in Spagna: ad un quarto del cammino. 4) Riduzione del livello di indebitamento delle banche: diffiuna risposta a causa delle profonde differenze tra Paesi e banche, ma le grandi banche hanno fatto progressi. 5) Riforma strutturale: difficile a dirsi, ma si segnalano progressi. 6) Riforma politica: praticamente nemmeno avviata”.
Quanto alla riduzione del debito sovrano, il Fiscal Compact impone due obiettivi di medio periodo: i Paesi con un debito eccedente il 60% del PIL debbono rientrare al di sotto di questa soglia entro venti anni; per gli altri Paesi l’obiettivo è non superare un deficit annuo dello 0,5%.
Famiglie indebitate e banche troppo fragili
Per ciò che riguarda l’indebitamento delle famiglie la situazione varia molto da Paese a Paese. Questo problema colpisce in modo particolare Spagna e Irlanda. Meno chiaro è l’eventuale impatto sul Pil della riduzione del livello di indebitamento delle famiglie.
“Gli obiettivi per il sistema bancario nel suo complesso sono stati fissati dalla Bce e concernono il ritorno a più sostenibili rapporti tra capitale ed esposizioni e tra prestiti e depositi”.
Il rapporto prestiti-depositi rimane tuttora ben al di sopra del 120% in Italia,Spagna,PortogalloeIrlanda, Paesi nei quali il sistema bancario permane fragile ed esposto alle scosse del mercato e all’andamento della crisi economica nel suo complesso.
Lavoro e burocrazia mali italici
“Indicare con chiarezza un percorso per la riforma strutturale è molto difficile. Va misurata la situazione strutturale dell’economia ed è necessario individuare ciò che va cambiato e in quale misura va cambiato”. (…)
“In linea generale ci sono tre modi per valutare lo stato di salute dell’economia da una prospettiva strutturale. Il primo consiste nel prendere in esame gli indicatori quali la disoccupazione di lungo periodo e le rigidità del sistema. Il secondo consiste nel valutare gli indicatori quantitativi quali quelli forniti dal Fraser Institute, dalla Banca Mondiale e dall’Ocse. Il terzo consiste nel tentare di misurare la percezione dei cittadini rispetto all’andamento dell’economia, cosa che ha fatto il World Economic Forum.
Il problema è che da questi indicatori non emerge necessariamente un quadro omogeneo.
Uno dei modi per sintetizzare i dati consiste nel creare una media ponderata dei vari indicatori. (…)
Osservando i dati vediamo che l’Olanda è il Paese nelle migliori condizioni di salute da un punto di vista strutturale, seguita a breve distanza da Finlandia e Irlanda. In fondo alla classifica troviamo Portogallo, Italia e Grecia.
Esaminando in particolare il caso dell’Italia emerge che le riforme del 2012 rappresentano un progresso, ma che c’è ancora molto da fare.
“Tuttavia va considerato che per migliorare la situazione strutturale dell’economia,l’Italia non può limitarsi ad approvare nuove leggi, ma deve profondamente modificare la burocrazia e la giustizia. Questa realtà si evince dal rapporto tra misure quantitative (leggi a tutela del lavoro e normativa a disciplina del mercato) e percezione sullo stato di salute dell’economia. L’Italia non sarebbe in termini quantitativi molto lontana dalla media dei Paesi dell’Eurozona, ma la percezione per quanto concerne il commercio e il mercato del lavoro è molto lontana da un livello accettabile. Da questo si deduce che il problema riguarda più l’interpretazione delle leggi da parte della complessa burocrazia pubblica e del sistema giudiziario che le leggi in quanto tali”. (…)
La riforma e le Costituzioni troppo “socialiste”
C’è infine la questione della riforma del sistema politico.
“Come già detto, con l’evolversi della crisi si è sempre più compreso che il problema non era solo economico, ma anche politico, in modo particolare in alcune aree dell’Eurozona”.
“Gli ordinamenti costituzionali dei Paesi periferici dell’Eurozona sono stati approvati all’indomani della caduta di regimi dittatoriali e condizionati da questa esperienza. Le costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista a testimonianza della forza politica della sinistra in quel periodo della storia. Questi sistemi politici evidenziano in genere le seguenti caratteristiche:esecutivideboli,debolezza del governo centrale rispetto alle autonomie regionali, tutela costituzionale dei diritti del lavoro, sistemi di costruzione del consenso tali da alimentare il clientelismo.
Questi Paesi non sono riusciti – se non in parte – a realizzare riforme economiche incisive a causa dei limiti costituzionali (Portogallo), del prevalere delle autonomie locali (Spagna) e dell’emergere di partiti populisti (Italia e Grecia)”.
Il problema preoccupa tanto i Paesi periferici quanto l’Unione europea nel suo complesso. Si cominciano a intravedere alcuni cambiamenti.
La Spagna ad esempio si è mossa approvando misure idonee a introdurre un maggiore controllo finanziario sui centri di spesa periferici.
Ma, al di fuori della Spagna, si è fatto poco o nulla.
Il banco di prova sarà il comportamento nell’anno prossimo dell’Italia e del suo nuovo governo che si è detto deciso a riformare il sistema politico.
Traduzione curata da Carlo Antonio Biscotto
(da “Il Fatto Quotidiano”)
http://www.destradipopolo.net/?p=18026
SMONTARE LA COSTITUZIONE, ASSERVIRE IL PARLAMENTO AL GOVERNO, GIUSTIZIA E BUROCRAZIA ASSERVITE ALL’ECONOMIA: ECCO COSA SCRIVEVANO GLI ANALISTI NEL RAPPORTO DEL 2013
Alla fine del maggio dello scorso anno un report di Jp Morgan, banca d’affari statunitense, fotografava la crisi economica europea e segnalava la necessità di riforme strutturali.
Anche riguardo alle Costituzioni nate in seguito alla caduta dei fascismi.
Il documento, in 16 pagine, si sofferma anche sulla situazione italiana ed è divenuto parte del dibattito politico nazionale.
Eccone un’ampia sintesi.
La gestione della crisi nell’Eurozona ha due aspetti: la creazione di nuove istituzioni e la soluzione dei problemi nazionali che hanno afflitto il cammino dell’euro fin dall’inizio.
A questo proposito bisogna tener presente che secondo la Germania – il Paese che più di ogni altro determina in che modo viene gestita la crisi – i problemi nazionali vanno risolti dalle singole nazioni prima di procedere a ulteriori passi sulla strada dell’integrazione”.
Si è pertanto creato un quadro disomogeneo. In alcune zone sono stati compiuti progressi notevoli, mentre in altre il processo di aggiustamento è a malapena iniziato. Nell’insieme possiamo affermare che il processo di aggiustamento si trova grosso modo a metà del suo cammino.
O ci pensa la Bce o tocca alle periferie
“Questo approccio alla gestione della crisi ha avuto un impatto enorme sulla macroeconomia deprimendone il rendimento e incrementando il livello di dispersione”.
Certo è che l’Eurozona non è in grado di sopportare altri tre anni come gli ultimi tre.
“Secondo il nostro giudizio si tornerà a crescere senza abbandonare il necessario processo di aggiustamento”.
“Ma senza un molto più energico intervento della Bce, la crescita rimarrà modesta e l’Eurozona resterà esposta agli choc dei mercati. A un certo punto però le cose cambieranno. Ciò potrebbe accadere in due modi: o a seguito del riuscito processo di aggiustamento a livello nazionale, oppure a causa di forti pressioni politiche e sociali a livello periferico”.
Il dato di fondo della gestione della crisi negli ultimi tre anni va individuato nella convinzione che i problemi strutturali nazionali andassero affrontati a livello nazionale prima che la regione tentasse di accelerare il processo di integrazione.
“Prima ancora del salvataggio di Cipro, i Paesi dell’Eurozona hanno dovuto sopportare il peso della ricapitalizzazione delle banche e delle riforme strutturali. La crisi cipriota non ha fatto che rafforzare la convinzione secondo cui i problemi nazionali andassero affrontati a livello nazionale. La Germania ha sempre pensato che un intervento “ex ante” non avrebbe avuto altro effetto se non quello di rendere meno probabili gli aggiustamenti “ex post”.
Per adottare questo approccio era necessaria una liquidità sufficiente a fronteggiare i terremoti dei mercati. Per questo la Bce si impegnò a sostenere le banche.
Spagna, Italia, Germania e le riforme da fare
Ma questo approccio divenne problematico quando le tensioni dei mercati colpirono la Spagna e l’Italia nel 2011, Paesi troppo grandi per poter essere aiutati con semplici iniezioni di liquidità.
“Le Operazioni monetarie definitive (OMT) furono lo strumento attraverso il quale la Bce permise alla Germania di continuare a imporre una gestione della crisi di suo gradimento”.
“All’inizio della crisi si pensò che i problemi strutturali nazionali fossero in larga misura di natura economica: eccessivi costi bancari, non adeguato allineamento del tasso di cambio interno reale e rigidità strutturali. Ma col tempo apparve chiaro che pesavano molto anche i problemi di natura politica.
Le Costituzioni e gli ordinamenti creati nella periferia meridionale dell’Europa dopo la caduta del fascismo, hanno caratteristiche che vanno cambiate se si vuole proseguire sul cammino dell’integrazione.
Quando la Germania parla di un decennio per il processo di aggiustamento, ovviamente pensa sia alla riforma economica sia a quella politica”.
La natura della gestione della crisi ha avuto un impatto enorme sul paesaggio macroeconomico.
L’impatto maggiore è stato a carico della crescita regionale con l’effetto, tra l’altro, di accrescere le tensioni politiche.
L’interrogativo è se la macroeconomia può far registrare miglioramenti anche senza modificare la gestione della crisi. A nostro giudizio la risposta è: sì, ma solo in misura limitata.
Banca centrale e Stati Arriva la pagella
Cruciale sarà il comportamento della Bce. Negli ultimi mesi la Bce è apparsa incline a tollerare maggiormente le debolezze economiche. Quanto più la risposta della Bce sarà limitata, tanto più si allontanerà l’obiettivo dell’aggiustamento.
“La necessità di affrontare i problemi nazionali a livello nazionale crea l’immagine del viaggio. I viaggi e le destinazioni variano da Paese a Paese.
Ma a che punto siamo del viaggio? 1) Aggiustamento del tasso di cambio reale: problema risolto per alcuni Paesi. 2) Riduzione del livello di indebitamento delle istituzioni finanziarie: a metà del cammino. 3) Riduzione del livello di indebitamento delle famiglie in Spagna: ad un quarto del cammino. 4) Riduzione del livello di indebitamento delle banche: diffiuna risposta a causa delle profonde differenze tra Paesi e banche, ma le grandi banche hanno fatto progressi. 5) Riforma strutturale: difficile a dirsi, ma si segnalano progressi. 6) Riforma politica: praticamente nemmeno avviata”.
Quanto alla riduzione del debito sovrano, il Fiscal Compact impone due obiettivi di medio periodo: i Paesi con un debito eccedente il 60% del PIL debbono rientrare al di sotto di questa soglia entro venti anni; per gli altri Paesi l’obiettivo è non superare un deficit annuo dello 0,5%.
Famiglie indebitate e banche troppo fragili
Per ciò che riguarda l’indebitamento delle famiglie la situazione varia molto da Paese a Paese. Questo problema colpisce in modo particolare Spagna e Irlanda. Meno chiaro è l’eventuale impatto sul Pil della riduzione del livello di indebitamento delle famiglie.
“Gli obiettivi per il sistema bancario nel suo complesso sono stati fissati dalla Bce e concernono il ritorno a più sostenibili rapporti tra capitale ed esposizioni e tra prestiti e depositi”.
Il rapporto prestiti-depositi rimane tuttora ben al di sopra del 120% in Italia,Spagna,PortogalloeIrlanda, Paesi nei quali il sistema bancario permane fragile ed esposto alle scosse del mercato e all’andamento della crisi economica nel suo complesso.
Lavoro e burocrazia mali italici
“Indicare con chiarezza un percorso per la riforma strutturale è molto difficile. Va misurata la situazione strutturale dell’economia ed è necessario individuare ciò che va cambiato e in quale misura va cambiato”. (…)
“In linea generale ci sono tre modi per valutare lo stato di salute dell’economia da una prospettiva strutturale. Il primo consiste nel prendere in esame gli indicatori quali la disoccupazione di lungo periodo e le rigidità del sistema. Il secondo consiste nel valutare gli indicatori quantitativi quali quelli forniti dal Fraser Institute, dalla Banca Mondiale e dall’Ocse. Il terzo consiste nel tentare di misurare la percezione dei cittadini rispetto all’andamento dell’economia, cosa che ha fatto il World Economic Forum.
Il problema è che da questi indicatori non emerge necessariamente un quadro omogeneo.
Uno dei modi per sintetizzare i dati consiste nel creare una media ponderata dei vari indicatori. (…)
Osservando i dati vediamo che l’Olanda è il Paese nelle migliori condizioni di salute da un punto di vista strutturale, seguita a breve distanza da Finlandia e Irlanda. In fondo alla classifica troviamo Portogallo, Italia e Grecia.
Esaminando in particolare il caso dell’Italia emerge che le riforme del 2012 rappresentano un progresso, ma che c’è ancora molto da fare.
“Tuttavia va considerato che per migliorare la situazione strutturale dell’economia,l’Italia non può limitarsi ad approvare nuove leggi, ma deve profondamente modificare la burocrazia e la giustizia. Questa realtà si evince dal rapporto tra misure quantitative (leggi a tutela del lavoro e normativa a disciplina del mercato) e percezione sullo stato di salute dell’economia. L’Italia non sarebbe in termini quantitativi molto lontana dalla media dei Paesi dell’Eurozona, ma la percezione per quanto concerne il commercio e il mercato del lavoro è molto lontana da un livello accettabile. Da questo si deduce che il problema riguarda più l’interpretazione delle leggi da parte della complessa burocrazia pubblica e del sistema giudiziario che le leggi in quanto tali”. (…)
La riforma e le Costituzioni troppo “socialiste”
C’è infine la questione della riforma del sistema politico.
“Come già detto, con l’evolversi della crisi si è sempre più compreso che il problema non era solo economico, ma anche politico, in modo particolare in alcune aree dell’Eurozona”.
“Gli ordinamenti costituzionali dei Paesi periferici dell’Eurozona sono stati approvati all’indomani della caduta di regimi dittatoriali e condizionati da questa esperienza. Le costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista a testimonianza della forza politica della sinistra in quel periodo della storia. Questi sistemi politici evidenziano in genere le seguenti caratteristiche:esecutivideboli,debolezza del governo centrale rispetto alle autonomie regionali, tutela costituzionale dei diritti del lavoro, sistemi di costruzione del consenso tali da alimentare il clientelismo.
Questi Paesi non sono riusciti – se non in parte – a realizzare riforme economiche incisive a causa dei limiti costituzionali (Portogallo), del prevalere delle autonomie locali (Spagna) e dell’emergere di partiti populisti (Italia e Grecia)”.
Il problema preoccupa tanto i Paesi periferici quanto l’Unione europea nel suo complesso. Si cominciano a intravedere alcuni cambiamenti.
La Spagna ad esempio si è mossa approvando misure idonee a introdurre un maggiore controllo finanziario sui centri di spesa periferici.
Ma, al di fuori della Spagna, si è fatto poco o nulla.
Il banco di prova sarà il comportamento nell’anno prossimo dell’Italia e del suo nuovo governo che si è detto deciso a riformare il sistema politico.
Traduzione curata da Carlo Antonio Biscotto
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Re: LA DEMOCRAZIA AUTORITARIA
Riforme, Zagrebelsky: “La finanza comanda i governi, compreso il nostro”
Il presidente emerito della Corte costituzionale: "Sarebbe auspicabile un intervento formale di Napolitano" che ricordi come "i principi fondamentali (della Costituzione, ndr) non si possono cancellare o calpestare". E sull'Italicum: "Mi sorprende la spudoratezza con cui i partiti trattano la legge elettorale come fosse cosa loro. Sembra che reputino gli elettori materia inerte nelle loro mani"
di Marco Travaglio | 23 agosto 2014Commenti (594)
Sono trascorse due settimane dall’approvazione in prima lettura, a Palazzo Madama, della riforma del Senato. Ma, prima di commentarla, il professor Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, si è preso il suo tempo. Ciò che ne pensa è noto. A marzo ha firmato l’appello di Libertà e Giustizia, di cui è presidente, contro la “svolta autoritaria” segnata dal Patto del Nazareno per il combinato disposto della riforma costituzionale e di quella elettorale (il cosiddetto Italicum), beccandosi del “gufo”, del “professorone” e del “solone”. In aprile ha guidato la manifestazione di L&G a Modena “Per un’Italia libera e onesta”. A maggio ha inviato un lungo testo con una serie di proposte alternative – pubblicato dal Fatto Quotidiano – alla ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, che l’aveva invitato a un convegno di costituzionalisti a cui non aveva potuto partecipare: la ministra s’era impegnata a diffonderlo, ma poi non se n’è più saputo nulla. Ai primi di agosto, nel pieno delle votazioni al Senato, ha scritto un editoriale su Repubblica intitolato “La Costituzione e il governo stile executive”, in cui ha cercato di spiegare il senso di ciò che sta accadendo. Ora accetta di riparlarne con Il Fatto. A partire dal memorandum 2013 di JP Morgan che, come abbiamo scritto l’altro giorno, presenta straordinarie somiglianze con l’agenda Renzi.
Professor Zagrebelsky, che cosa l’ha colpita di più di quel documento profetico?
Prim’ancora del contenuto, del quale un po’ si è discusso, mi impressiona il fatto stesso che quel documento sia stato scritto. E che la sua esistenza non abbia suscitato reazioni. Non fa scandalo che un colosso della finanza mondiale parli di politica, istituzioni e Costituzioni come se queste dovessero rendere conto agli interessi dell’economia: rendere conto, non solo ‘tener conto’.
E’ un’intimazione neppure tanto velata ai paesi del Sud, anzi della “periferia” dell’Europa, di liberarsi delle loro Costituzioni nate “dopo i fascismi” e dunque inquinate da una dose eccessiva di “socialismo”.
Abbiamo già sentito questa storia, ripetuta anche da noi. I fascismi tentarono per via autoritaria di affermare il primato della politica sull’economia. ‘Tutto nello e per lo Stato’, dopo che lo Stato dell’Ottocento aveva visto i governi al servizio dell’economia capitalista. Le Costituzioni che si sono dati i popoli che hanno conosciuto il fascismo, le Costituzioni democratiche del dopoguerra, hanno cercato un equilibrio tra autonomia dell’economia e compiti della politica, aggiungendo l’elemento che i totalitarismi avevano disprezzato e deriso: la libertà della cultura, senza la quale economia e politica diventano oppressione e disgregazione. Questo è un punto importante. Una società equilibrata non vive solo di politica ed economia, ma anche di idee, ideali, progetti e speranze comuni. L’economia, da sola, tende all’accumulazione della ricchezza e produce una frattura fra ricchi e poveri. La politica, da sola, tende all’accumulazione del potere e crea una divisione fra potenti e impotenti. Economia e politica alleate moltiplicano gli effetti dell’una e dell’altra. La cultura libera invece può essere fattore aggregante, solidarizzante. L’elemento essenziale per la vita sociale è che ci sia equilibrio fra questi tre elementi. Le Costituzioni del dopoguerra, ma anche le grandi dichiarazioni dei diritti umani (Onu nel 1948, Convenzione europea nel 1950) hanno perseguito questo equilibrio. Il socialismo è un’altra cosa.
Eppure la nostra Costituzione non è mai stata così impopolare non solo presso JP Morgan e i poteri finanziari internazionali, ma anche presso la nostra classe politica, che infatti ne sta stravolgendo un buon terzo.
Non è un fenomeno solo italiano. Quello che accade in Italia è solo un capitolo di una vicenda mondiale. La crisi economico-finanziaria che viviamo ha portato allo scoperto la sudditanza della politica agli interessi finanziari. Una sudditanza che ormai sembra diventata un destino, perché prodotta da un ricatto al quale nessuno, pare, riesce a immaginare alternative: il ricatto del ‘fallimento dello Stato’, un concetto fino a qualche decennio fa addirittura impensabile e oggi considerato come un’ovvietà. Lo Stato si è trasformato in un’azienda commerciale che, in caso di difficoltà, prima del fallimento, può essere ‘commissariato’. I politici che rivendicano a gran voce il proprio ‘primato’ e difendono la ‘sovranità nazionale’, in realtà vogliono fare loro quello che farebbero i commissari ad acta, nominati dalla grande finanza.
Non è poi una grande novità.
La ‘finanziarizzazione’ su scala mondiale dell’economia è una novità. Che la sua dominanza sulla politica sia proclamata e pretesa con tanta chiarezza, anche questo mi pare una novità: il fatto, cioè, che una simile rivelazione avvenga senza scosse, reazioni, inquietudini. Sotto i nostri occhi velati avvengono cambiamenti profondissimi: eppure i segnali non sono mancati.
Per esempio?
Ricordo quando il premier Mario Monti spiegò (e poi corresse la formula) che ‘i governi devono educare i Parlamenti’. E i ‘governi tecnici’, e anche quelli ‘politici’ con la loro densità di banchieri e uomini di finanza nei posti-chiave, che cosa ci dicono? Quando si sente dire ‘tecnico’, bisognerebbe domandare: ‘tecnico’ di che cosa? Di idraulica, di fisica quantistica, di ingegneria elettronica? Non esiste la tecnica in sé, è sempre applicata a qualcosa. Questi governi rappresentano il mondo finanziario, con il compito di farlo funzionare indipendentemente da tutto il resto.
Se è per questo, alla vigilia delle elezioni del febbraio 2013, il presidente della Bce Mario Draghi dichiarò che non era preoccupato dall’eventuale vittoria di forze anti-finanziarie come i 5Stelle o la sinistra radicale perché “l’Italia ha il pilota automatico”.
Un altro elemento di riflessione. Questi nostri anni sono segnati da tanti puntini sparsi qua e là. Se li unissimo, vedremmo con una certa inquietudine delinearsi la figura d’insieme.
Quali puntini?
Alcuni li abbiamo detti. Nell’insieme, direi la paralisi politica che si cela dietro l’attivismo delle riforme: cioè l’arroccamento, il congelamento di un sistema di potere. Le elezioni che non cambiano nulla, e servono eventualmente solo a promuovere avvicendamenti di persone; e, quando persone da avvicendare non se ne vedono, c’è la conferma delle precedenti, come è accaduto con la rielezione del presidente della Repubblica; le ‘larghe intese’, che sono la formula dell’immobilismo; le riforme istituzionali, come quella del Senato, che hanno come finalità l’‘efficientizzazione’ (mi scuso, ma la parola non è mia) del sistema, ma non certo la sua democratizzazione; la limitazione delle occasioni elettorali; il nuovo sistema elettorale, se confermerà la decisione annunciata a favore della ‘elezione dei nominati’ dai vertici dei partiti; il silenzio totale sulla democrazia interna ai partiti. Si vedrà poi che cosa accadrà circa le misure contro la corruzione e la riforma della giustizia.
Unendo questi puntini che figura viene fuori?
E’ un bell’esercizio per i nostri lettori…
Intanto lo faccia lei per aiutarci.
L’ho già detto: il disegno è la sostituzione della politica con la tecnica dell’economia finanziarizzata. Un cambiamento epocale, che dovrebbe sollecitare un dibattito sui principi fondamentali della democrazia e una presa di posizione da parte di ciascuno, soprattutto di chi sarebbe preposto istituzionalmente a farlo. Invece niente. E badi che non sto evocando congiure o dietrologie. Sto semplicemente osservando vicende che accadono sotto i nostri occhi, magari mascherate dietro argomenti anche seri ed esigenze anche giuste – i costi della politica, la necessità di snellire, semplificare, sveltire – che però ci fanno perdere il senso generale delle cose. Non vedo persone che occupano posti di responsabilità che si pongano la domanda fondamentale: che senso ha ciò che stiamo facendo? E diano una risposta a sua volta sensata.
Io trovo preoccupante anche il fatto che quel documento di JP Morgan, oltre a esistere e a dire ciò che dice, sia diventato paro paro l’agenda di Renzi e dei suoi compagni di avventura, da Napolitano a Berlusconi.
Si tratta ben più di trasformazioni generali che piegano le volontà dei singoli, volenti o nolenti, consapevoli o inconsapevoli, che di buone o cattive intenzioni. C’è una metamorfosi di sistema, nella quale si collocano tante specifiche vicende, ciascuna dotata anche di ragioni sue proprie.
Iniziamo dal nuovo Senato.
Quando Camera e Senato sono organi pressoché identici, come i nostri padri costituenti non vollero che fossero ma come finirono poi per diventare, è naturale domandarsi che senso abbia averli entrambi. Aggiungiamo un po’ di populismo – i costi della politica – per venire incontro all’antiparlamentarismo che è una caratteristica storica dell’opinione pubblica in Italia, e il gioco è fatto. Gli abolizionisti del Senato – molti di loro almeno – abolirebbero volentieri anche la Camera dei deputati. Tutto il potere al governo: lì ci sono i ‘tecnici’ che sanno quello che fanno. Lasciamo fare a loro. Vogliamo citare Michel Foucault?
Ma sì, citiamolo.
Foucault parlava di ‘governa-mentalità’. Che non è la governabilità decisionista di craxiana memoria. E’ molto di più: è appunto una mentalità governatoriale. Il centro della vita politica non deve stare nella rappresentatività delle istituzioni, ma nell’agire degli esecutivi. Una visione molto aderente a ciò che sta accadendo: l’accento posto sul governo spiega l’insofferenza dei nostri politici, ma anche di molti cittadini nei confronti della legge, della legalità. Foucault parlò anche di “governo pastorale”. Il pastore provvede al bene del gregge caso per caso, di emergenza in emergenza: quando c’è un pericolo, quando una pecora scappa, quando il branco si squaglia. Il governo ‘governamentale’ è anche ‘provvedimentale’. Si fa le sue regole di volta in volta, a seconda delle necessità: le necessità sue e degli interessi per conto dei quali opera. Il principio di legalità anche costituzionale è contestato e depresso, non tanto in linea di principio, ma soprattutto nei fatti.
Non vorrei che lei facesse i vari Renzi, Berlusconi & C. troppo colti: questi semplicemente non vogliono controlli indipendenti, né tantomeno un Parlamento forte che gli faccia le pulci.
Può essere. Ma a me pare interessante domandarsi qual è il significato di tutto ciò. Perché è dalla consapevolezza che nascono la azioni e le reazioni dotate di senso. Poi, certo, c’è anche il fattore umano, la qualità delle persone. Quando ero giovane e insegnavo all’Università di Sassari, d’estate andavo a fare il bagno sulla spiaggia di Stintino, detta ‘La Pelosa’ per i suoi gigli selvatici. Ogni tanto ci trovavo Enrico Berlinguer con la sua famiglia. Lo ricordo quasi rattrappito nei suoi costumini lunghi e neri di lana grezza, sotto l’ombrellone, intento a leggere tabulati pieni di cifre: studiava i problemi dell’economia, i cosiddetti dossier. E non aggiungo altro…
Oltre al Senato, stanno pure riformando il Titolo V della Costituzione, quello che regola le autonomie locali.
Nella versione originaria del 1948, il Titolo V funzionava così così. Poi, grazie a decenni d’interventi e di decisioni della Corte costituzionale, si trovarono aggiustamenti. Ma nel 2000, per inseguire la Lega Nord sul terreno del federalismo, si decise di riformarlo. E, quando il centrodestra si defilò in extremis, il centrosinistra allora al governo decise di procedere comunque a maggioranza, con questa motivazione: dimostriamo che la Costituzione è riformabile con le procedure che essa stessa prevede, altrimenti rafforziamo l’idea della destra di un’Assemblea costituente. Col senno di poi, oggi che il Parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale sta cambiando a tappe forzate decine di articoli della Costituzione, viene da dire: magari si facesse un’Assemblea costituente, eletta – come tutte le Costituenti – col sistema proporzionale! Quello che 14 anni fa era una prospettiva allarmante, oggi sarebbe una garanzia di democrazia. Per dire come cambia in pochi anni la percezione delle cose…
Giusto dunque riformare un’altra volta il Titolo V?
La riforma della riforma ha le sue buone ragioni. Innanzitutto, la cattiva prova della riforma di 14 anni fa, che ha alimentato un contenzioso abnorme di fronte alla Corte costituzionale. Oggi si vuole ‘ricentralizzare’, dopo aver voluto, allora, decentralizzare. Schizofrenia impulsiva, francamente poco costituzionale. Colpisce il silenzio generale che avvolge questo radicale cambio di marcia: che fine han fatto tutti i tifosi del federalismo, che nell’ultimo ventennio era diventato una parola magica, una panacea per tutti i mali tanto a sinistra e al centro quanto a destra? Mi pare che neppure la Lega stia protestando contro questo ri-accentramento. Ecco, questo è un altro di quei punti che ci aiutano a tracciare il disegno generale che cancella altri spazi di democrazia. Un buon federalismo, che non moltiplichi le poltrone e i centri di spesa, ma che promuova energie dal basso, sarebbe un ottimo sistema di mobilitazione di forze sociali per uscire dalla crisi con più partecipazione, più democrazia. In fondo, la storia ci insegna che è così che si supera il crollo dei grandi sistemi di potere. Quando venne giù l’impero di Alessandro Magno, l’Ellenismo fu tutto un pullulare d’energie diffuse. Quando si sbriciolò il Sacro Romano Impero, la civiltà la trasmisero i comuni e i conventi, ancora una volta con una spinta dal basso. Ora invece si pensa di verticalizzare e accentrare. Sarà buona cosa? E, se sì, per chi?
Poi c’è la legge elettorale, l’Italicum, che riproduce le liste bloccate e il mega-premio di maggioranza del Porcellum incostituzionale, e aggiunge altissime soglie di sbarramento per tener fuori dalla Camera i partiti medio-piccoli. Così, in due mosse, un pugno di capi-partito possono piazzare i loro servitori nel Senato non più elettivo e nella Camera dei nominati.
Il capitolo della legge elettorale è davvero fondamentale. Lì si gioca il grosso della partita. Di tutte le leggi, la legge elettorale è quella che più appartiene ai cittadini e meno ai loro rappresentanti. Mi sorprende la leggerezza, direi addirittura la spudoratezza, con cui i partiti trattano questa materia, come se fosse cosa loro. Invece non lo è. Tutto dipende dai loro calcoli d’interesse. Ma la legge elettorale non appartiene a loro, ma a noi: perché ciò che ciascuno di noi è, come soggetto politico, dipende in gran parte dalla legge elettorale. Il modo in cui se ne discute fa pensare che essi considerino gli elettori materia inerte nelle loro mani.
Altro puntino: la riforma della Giustizia. Che il memorandum JP Morgan equipara alla burocrazia, auspicandone la sudditanza alle esigenze dell’economia.
Anche qui, i problemi sono molti e noti: lunghezza dei processi, tre gradi di giudizio, sacrosante garanzie che si trasformano in pretesti per impedire che si giunga mai alla fine, abuso della prescrizione in materia penale, correntismo della magistratura nel Csm, ecc. Vedremo se il governo li risolverà con soluzioni più democratiche e aperte, nel senso di confermare le garanzie d’indipendenza dei giudizi, di promuovere l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, di agevolare l’accesso alla giustizia da parte dei più deboli (i tribunali dovrebbero servire soprattutto a questo). Il punto è ancora questo: vedremo se non si risolverà in una riforma non per la giustizia, ma contro la giustizia e a favore di privilegi oligarchici.
Anche in materia giudiziaria si va verso una verticalizzazione del potere in poche mani: pensiamo alla lettera inviata dal capo dello Stato (e del Csm) a Palazzo dei Marescialli per chiudere il caso Bruti Liberati-Robledo e affermare il potere assoluto dei capi delle Procure sui singoli pm.
Su questo punto c’è un dibattito. A me pare abbia detto cose interessanti e sagge il nuovo procuratore di Torino, Armando Spataro, nel suo discorso di insediamento, quando ha affermato con forza il ruolo del procuratore della Repubblica come coordinatore di un ufficio plurale, nel rispetto dell’autonomia funzionale dei singoli magistrati.
Vedo che, anche su questo punto, lei condivide l’appello lanciato dal Fatto Quotidiano contro la svolta autoritaria. Perché non l’ha firmato?
Non per questioni di merito, ma di metodo. Un po’ perché mi ha stancato l’accusa di firmaiolo. Ma soprattutto perché credo più produttivo cercare di seminare dubbi, ragionamenti e osservazioni critiche fra quei tanti parlamentari di tutti gli schieramenti che hanno votato obtorto collo la riforma del Senato. La logica degli appelli e dei manifesti crea una contrapposizione che aiuta il radicalismo ottuso di chi poi dice: facciamo le riforme costi quel che costi, anche per dimostrare che chi non ci sta non conta niente. E così si elimina ogni spazio di discussione e di confronto.
Ma questa contrapposizione è nata ben prima del nostro appello: lei s’è preso del gufo, del solone e del professorone fin da marzo, quando firmò con Rodotà e altri giuristi il manifesto sulla svolta autoritaria.
Lo so bene, ma in Parlamento non ci sono soltanto i ministri e i loro fedelissimi. Quelli che non hanno avuto il coraggio di prendere le distanze hanno subìto il clima di contrapposizione ‘o di qua o di là’ che si è venuto a creare. Ma non ritengono affatto chiusa la partita e dicono: stiamo facendo cose che siamo costretti a fare. Ma l’iter della riforma è appena iniziato, la gran parte è ancora da percorrere e molto può ancora succedere. In questa fase, credo più utili le critiche e le proposte alternative.
Quando lei ha inviato le sue alla Boschi, questa anziché renderle note e discuterle nel merito le ha imboscate in un cassetto.
Può darsi che non meritassero attenzione. In ogni caso, ormai ero già stato iscritto d’ufficio al partito dei gufi che vogliono l’immobilismo e che dovevano essere sbaragliati per evitare la sconfitta del governo.
Lei sembra dimenticare che, su Senato e Italicum, Renzi e Berlusconi hanno siglato un patto d’acciaio e segreto al Nazareno il 18 gennaio, e di lì non si spostano.
Sì, ma è un accordo di vertice. Nel ventre dei partiti ci sono tanti mal di pancia.
In ogni caso il nostro appello serve anche a mobilitare i cittadini in vista del referendum confermativo.
Questa è una storia che si aprirà successivamente, se sarà necessario. Quel che è certo è che, con questi numeri in Parlamento, la riforma non otterrà i due terzi. Dunque il referendum confermativo sarà possibile come diritto dei cittadini previsto dalla Costituzione, non come ‘chiamata a raccolta’ plebiscitaria promossa dalle forze governative. Che sarebbe un abuso, come già avvenne al tempo della riforma del Titolo V su iniziativa, quella volta, del centrosinistra. Il governo e la maggioranza che promuovono il referendum sulle proprie riforme è il mondo alla rovescia.
Visto quel che è accaduto al Senato, mi sa che lei si illude.
Sa, io sono un vecchio gufo che appartiene all’altro secolo, anzi all’altro millennio, al tempo delle Costituzioni democratiche del Meridione, anzi della ‘periferia’ d’Europa… E rimango legato a principi fondamentali che rappresentano conquiste del costituzionalismo. Per questo mi auguro che chi svolge la funzione di garante supremo della Costituzione sia fermo nel difenderli.
Spera in un intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano?
Anche in vista di un rasserenamento e di un temperamento delle tensioni, dopo gli allarmi che abbiamo e avete lanciato e dopo gli scontri durissimi avvenuti in Senato, chiedo se non sarebbe auspicabile una presa di posizione formale che dica più o meno così: ‘La Costituzione non è un testo sacro: può essere sottoposta a modifiche, tant’è che essa stessa ne prevede le forme attraverso l’articolo 138. Ma, in quanto garante di questa Costituzione – quella del 1948 – ricordo che esistono dei limiti a ciò che si può fare e che determinano ciò che non si può fare: princìpi fondamentali che non possono essere cancellati o calpestati’.
Quali?
La rappresentanza democratica, la centralità del Parlamento, l’autonomia della funzione politica, la legalità intesa come legge uguale per tutti, l’indipendenza della magistratura e così via: i fondamenti del costituzionalismo. Non ultimo, il rispetto della cultura.
Renzi & C. hanno già annunciato che tireranno diritto, “piaccia o non piaccia”.
Sì. E in effetti l’espressione ‘piaccia o non piaccia’ fa sorridere, se non piangere. La democrazia, a differenza dell’autocrazia, richiede a chi è chiamato a prendere decisioni di ‘andar persuadendo’. Bella espressione: così dice Pericle in un memorabile dialogo con Alcibiade, raccontato da Senofonte. Prima si discute, e solo alla fine della discussione la decisione viene presa in base ai voti. ‘Il piaccia o non piaccia’ posto all’inizio – ripeto – non è democrazia, ma autocrazia.
Sta di fatto che nessuno sembra scandalizzarsi neppure per la promozione di un pregiudicato, interdetto dai pubblici uffici e affidato ai servizi sociali, a padre costituente.
Questo, come il conflitto d’interessi, è uno di quei problemi enormi che nessuno osa più sollevare. Purtroppo sono argomenti che si logorano ripetendoli.
Resta l’anomalia di una riforma costituzionale fatta in fretta e furia alla vigilia di Ferragosto, con forzature regolamentari e tempi contingentati dallo stesso presidente del Senato.
Guardi, questa storia è tutta un’anomalia. Il fatto che l’iniziativa di riformare la Costituzione non parta dal Parlamento, ma dal governo. Il fatto che il governo ponga una sorta di questione di fiducia, anzi, per dir così, di mega-fiducia perché accompagnata dalla minaccia non delle dimissioni per dar luogo a un altro governo, ma addirittura dello scioglimento delle Camere per fare piazza pulita e tornare a votare. Il fatto che una componente del Senato abbia scelto (dovuto scegliere, secondo il proprio punto di vista) la via estrema dell’ostruzionismo e a questo si siano opposte ‘tagliole’ e ‘canguri’. Tutta un’anomalia che è l’esatto contrario di un clima costituente. C’è il fatto, poi, che il ddl contenga una norma che impone alle Camere di votare (spero non anche di approvare!) i disegni di legge del governo entro e non oltre 60 giorni. Ecco, questi sono altri punti da congiungere, tutti elementi della ‘governa-mentalità’ di cui dicevamo.
Senza contare il presidente della Repubblica, che sollecita continuamente riforme-lampo perché pare che voglia dimettersi al più presto.
Ma sa, nella Costituzione c’è un solo organo a durata variabile: il governo. Tutti gli altri hanno una durata fissa, e quella del capo dello Stato è di sette anni. Ecco un altro punto. Il presidente Napolitano, al momento della rielezione, ha aderito alla supplica di chi si trovava nell’impasse e ogni altro nome plausibile, da Romano Prodi a Stefano Rodotà, era stato ‘bruciato’ (non sappiamo ancora da chi e perché). Tuttavia, egli stesso dichiarò allora che la sua permanenza al Quirinale sarebbe stata ‘a tempo’. La prima volta nella storia repubblicana. Questo fatto, avvicinandosi il momento delle più volte annunciate dimissioni, sta creando il pericolo di un ingorgo istituzionale, di una contrazione anomala dei tempi e di una generale instabilità.
In un quadro, però, di immutabilità del sistema di potere.
Beh, questo è il modo tutto italiano di uscire dalle crisi di sistema. Lo stesso che è alla base dell’attuale governo: il massimo dell’innovazione di facciata per non cambiare nulla nella sostanza, o ossificare quello che già c’era.
da Il Fatto Quotidiano del 22 agosto 2014
Il presidente emerito della Corte costituzionale: "Sarebbe auspicabile un intervento formale di Napolitano" che ricordi come "i principi fondamentali (della Costituzione, ndr) non si possono cancellare o calpestare". E sull'Italicum: "Mi sorprende la spudoratezza con cui i partiti trattano la legge elettorale come fosse cosa loro. Sembra che reputino gli elettori materia inerte nelle loro mani"
di Marco Travaglio | 23 agosto 2014Commenti (594)
Sono trascorse due settimane dall’approvazione in prima lettura, a Palazzo Madama, della riforma del Senato. Ma, prima di commentarla, il professor Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, si è preso il suo tempo. Ciò che ne pensa è noto. A marzo ha firmato l’appello di Libertà e Giustizia, di cui è presidente, contro la “svolta autoritaria” segnata dal Patto del Nazareno per il combinato disposto della riforma costituzionale e di quella elettorale (il cosiddetto Italicum), beccandosi del “gufo”, del “professorone” e del “solone”. In aprile ha guidato la manifestazione di L&G a Modena “Per un’Italia libera e onesta”. A maggio ha inviato un lungo testo con una serie di proposte alternative – pubblicato dal Fatto Quotidiano – alla ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, che l’aveva invitato a un convegno di costituzionalisti a cui non aveva potuto partecipare: la ministra s’era impegnata a diffonderlo, ma poi non se n’è più saputo nulla. Ai primi di agosto, nel pieno delle votazioni al Senato, ha scritto un editoriale su Repubblica intitolato “La Costituzione e il governo stile executive”, in cui ha cercato di spiegare il senso di ciò che sta accadendo. Ora accetta di riparlarne con Il Fatto. A partire dal memorandum 2013 di JP Morgan che, come abbiamo scritto l’altro giorno, presenta straordinarie somiglianze con l’agenda Renzi.
Professor Zagrebelsky, che cosa l’ha colpita di più di quel documento profetico?
Prim’ancora del contenuto, del quale un po’ si è discusso, mi impressiona il fatto stesso che quel documento sia stato scritto. E che la sua esistenza non abbia suscitato reazioni. Non fa scandalo che un colosso della finanza mondiale parli di politica, istituzioni e Costituzioni come se queste dovessero rendere conto agli interessi dell’economia: rendere conto, non solo ‘tener conto’.
E’ un’intimazione neppure tanto velata ai paesi del Sud, anzi della “periferia” dell’Europa, di liberarsi delle loro Costituzioni nate “dopo i fascismi” e dunque inquinate da una dose eccessiva di “socialismo”.
Abbiamo già sentito questa storia, ripetuta anche da noi. I fascismi tentarono per via autoritaria di affermare il primato della politica sull’economia. ‘Tutto nello e per lo Stato’, dopo che lo Stato dell’Ottocento aveva visto i governi al servizio dell’economia capitalista. Le Costituzioni che si sono dati i popoli che hanno conosciuto il fascismo, le Costituzioni democratiche del dopoguerra, hanno cercato un equilibrio tra autonomia dell’economia e compiti della politica, aggiungendo l’elemento che i totalitarismi avevano disprezzato e deriso: la libertà della cultura, senza la quale economia e politica diventano oppressione e disgregazione. Questo è un punto importante. Una società equilibrata non vive solo di politica ed economia, ma anche di idee, ideali, progetti e speranze comuni. L’economia, da sola, tende all’accumulazione della ricchezza e produce una frattura fra ricchi e poveri. La politica, da sola, tende all’accumulazione del potere e crea una divisione fra potenti e impotenti. Economia e politica alleate moltiplicano gli effetti dell’una e dell’altra. La cultura libera invece può essere fattore aggregante, solidarizzante. L’elemento essenziale per la vita sociale è che ci sia equilibrio fra questi tre elementi. Le Costituzioni del dopoguerra, ma anche le grandi dichiarazioni dei diritti umani (Onu nel 1948, Convenzione europea nel 1950) hanno perseguito questo equilibrio. Il socialismo è un’altra cosa.
Eppure la nostra Costituzione non è mai stata così impopolare non solo presso JP Morgan e i poteri finanziari internazionali, ma anche presso la nostra classe politica, che infatti ne sta stravolgendo un buon terzo.
Non è un fenomeno solo italiano. Quello che accade in Italia è solo un capitolo di una vicenda mondiale. La crisi economico-finanziaria che viviamo ha portato allo scoperto la sudditanza della politica agli interessi finanziari. Una sudditanza che ormai sembra diventata un destino, perché prodotta da un ricatto al quale nessuno, pare, riesce a immaginare alternative: il ricatto del ‘fallimento dello Stato’, un concetto fino a qualche decennio fa addirittura impensabile e oggi considerato come un’ovvietà. Lo Stato si è trasformato in un’azienda commerciale che, in caso di difficoltà, prima del fallimento, può essere ‘commissariato’. I politici che rivendicano a gran voce il proprio ‘primato’ e difendono la ‘sovranità nazionale’, in realtà vogliono fare loro quello che farebbero i commissari ad acta, nominati dalla grande finanza.
Non è poi una grande novità.
La ‘finanziarizzazione’ su scala mondiale dell’economia è una novità. Che la sua dominanza sulla politica sia proclamata e pretesa con tanta chiarezza, anche questo mi pare una novità: il fatto, cioè, che una simile rivelazione avvenga senza scosse, reazioni, inquietudini. Sotto i nostri occhi velati avvengono cambiamenti profondissimi: eppure i segnali non sono mancati.
Per esempio?
Ricordo quando il premier Mario Monti spiegò (e poi corresse la formula) che ‘i governi devono educare i Parlamenti’. E i ‘governi tecnici’, e anche quelli ‘politici’ con la loro densità di banchieri e uomini di finanza nei posti-chiave, che cosa ci dicono? Quando si sente dire ‘tecnico’, bisognerebbe domandare: ‘tecnico’ di che cosa? Di idraulica, di fisica quantistica, di ingegneria elettronica? Non esiste la tecnica in sé, è sempre applicata a qualcosa. Questi governi rappresentano il mondo finanziario, con il compito di farlo funzionare indipendentemente da tutto il resto.
Se è per questo, alla vigilia delle elezioni del febbraio 2013, il presidente della Bce Mario Draghi dichiarò che non era preoccupato dall’eventuale vittoria di forze anti-finanziarie come i 5Stelle o la sinistra radicale perché “l’Italia ha il pilota automatico”.
Un altro elemento di riflessione. Questi nostri anni sono segnati da tanti puntini sparsi qua e là. Se li unissimo, vedremmo con una certa inquietudine delinearsi la figura d’insieme.
Quali puntini?
Alcuni li abbiamo detti. Nell’insieme, direi la paralisi politica che si cela dietro l’attivismo delle riforme: cioè l’arroccamento, il congelamento di un sistema di potere. Le elezioni che non cambiano nulla, e servono eventualmente solo a promuovere avvicendamenti di persone; e, quando persone da avvicendare non se ne vedono, c’è la conferma delle precedenti, come è accaduto con la rielezione del presidente della Repubblica; le ‘larghe intese’, che sono la formula dell’immobilismo; le riforme istituzionali, come quella del Senato, che hanno come finalità l’‘efficientizzazione’ (mi scuso, ma la parola non è mia) del sistema, ma non certo la sua democratizzazione; la limitazione delle occasioni elettorali; il nuovo sistema elettorale, se confermerà la decisione annunciata a favore della ‘elezione dei nominati’ dai vertici dei partiti; il silenzio totale sulla democrazia interna ai partiti. Si vedrà poi che cosa accadrà circa le misure contro la corruzione e la riforma della giustizia.
Unendo questi puntini che figura viene fuori?
E’ un bell’esercizio per i nostri lettori…
Intanto lo faccia lei per aiutarci.
L’ho già detto: il disegno è la sostituzione della politica con la tecnica dell’economia finanziarizzata. Un cambiamento epocale, che dovrebbe sollecitare un dibattito sui principi fondamentali della democrazia e una presa di posizione da parte di ciascuno, soprattutto di chi sarebbe preposto istituzionalmente a farlo. Invece niente. E badi che non sto evocando congiure o dietrologie. Sto semplicemente osservando vicende che accadono sotto i nostri occhi, magari mascherate dietro argomenti anche seri ed esigenze anche giuste – i costi della politica, la necessità di snellire, semplificare, sveltire – che però ci fanno perdere il senso generale delle cose. Non vedo persone che occupano posti di responsabilità che si pongano la domanda fondamentale: che senso ha ciò che stiamo facendo? E diano una risposta a sua volta sensata.
Io trovo preoccupante anche il fatto che quel documento di JP Morgan, oltre a esistere e a dire ciò che dice, sia diventato paro paro l’agenda di Renzi e dei suoi compagni di avventura, da Napolitano a Berlusconi.
Si tratta ben più di trasformazioni generali che piegano le volontà dei singoli, volenti o nolenti, consapevoli o inconsapevoli, che di buone o cattive intenzioni. C’è una metamorfosi di sistema, nella quale si collocano tante specifiche vicende, ciascuna dotata anche di ragioni sue proprie.
Iniziamo dal nuovo Senato.
Quando Camera e Senato sono organi pressoché identici, come i nostri padri costituenti non vollero che fossero ma come finirono poi per diventare, è naturale domandarsi che senso abbia averli entrambi. Aggiungiamo un po’ di populismo – i costi della politica – per venire incontro all’antiparlamentarismo che è una caratteristica storica dell’opinione pubblica in Italia, e il gioco è fatto. Gli abolizionisti del Senato – molti di loro almeno – abolirebbero volentieri anche la Camera dei deputati. Tutto il potere al governo: lì ci sono i ‘tecnici’ che sanno quello che fanno. Lasciamo fare a loro. Vogliamo citare Michel Foucault?
Ma sì, citiamolo.
Foucault parlava di ‘governa-mentalità’. Che non è la governabilità decisionista di craxiana memoria. E’ molto di più: è appunto una mentalità governatoriale. Il centro della vita politica non deve stare nella rappresentatività delle istituzioni, ma nell’agire degli esecutivi. Una visione molto aderente a ciò che sta accadendo: l’accento posto sul governo spiega l’insofferenza dei nostri politici, ma anche di molti cittadini nei confronti della legge, della legalità. Foucault parlò anche di “governo pastorale”. Il pastore provvede al bene del gregge caso per caso, di emergenza in emergenza: quando c’è un pericolo, quando una pecora scappa, quando il branco si squaglia. Il governo ‘governamentale’ è anche ‘provvedimentale’. Si fa le sue regole di volta in volta, a seconda delle necessità: le necessità sue e degli interessi per conto dei quali opera. Il principio di legalità anche costituzionale è contestato e depresso, non tanto in linea di principio, ma soprattutto nei fatti.
Non vorrei che lei facesse i vari Renzi, Berlusconi & C. troppo colti: questi semplicemente non vogliono controlli indipendenti, né tantomeno un Parlamento forte che gli faccia le pulci.
Può essere. Ma a me pare interessante domandarsi qual è il significato di tutto ciò. Perché è dalla consapevolezza che nascono la azioni e le reazioni dotate di senso. Poi, certo, c’è anche il fattore umano, la qualità delle persone. Quando ero giovane e insegnavo all’Università di Sassari, d’estate andavo a fare il bagno sulla spiaggia di Stintino, detta ‘La Pelosa’ per i suoi gigli selvatici. Ogni tanto ci trovavo Enrico Berlinguer con la sua famiglia. Lo ricordo quasi rattrappito nei suoi costumini lunghi e neri di lana grezza, sotto l’ombrellone, intento a leggere tabulati pieni di cifre: studiava i problemi dell’economia, i cosiddetti dossier. E non aggiungo altro…
Oltre al Senato, stanno pure riformando il Titolo V della Costituzione, quello che regola le autonomie locali.
Nella versione originaria del 1948, il Titolo V funzionava così così. Poi, grazie a decenni d’interventi e di decisioni della Corte costituzionale, si trovarono aggiustamenti. Ma nel 2000, per inseguire la Lega Nord sul terreno del federalismo, si decise di riformarlo. E, quando il centrodestra si defilò in extremis, il centrosinistra allora al governo decise di procedere comunque a maggioranza, con questa motivazione: dimostriamo che la Costituzione è riformabile con le procedure che essa stessa prevede, altrimenti rafforziamo l’idea della destra di un’Assemblea costituente. Col senno di poi, oggi che il Parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale sta cambiando a tappe forzate decine di articoli della Costituzione, viene da dire: magari si facesse un’Assemblea costituente, eletta – come tutte le Costituenti – col sistema proporzionale! Quello che 14 anni fa era una prospettiva allarmante, oggi sarebbe una garanzia di democrazia. Per dire come cambia in pochi anni la percezione delle cose…
Giusto dunque riformare un’altra volta il Titolo V?
La riforma della riforma ha le sue buone ragioni. Innanzitutto, la cattiva prova della riforma di 14 anni fa, che ha alimentato un contenzioso abnorme di fronte alla Corte costituzionale. Oggi si vuole ‘ricentralizzare’, dopo aver voluto, allora, decentralizzare. Schizofrenia impulsiva, francamente poco costituzionale. Colpisce il silenzio generale che avvolge questo radicale cambio di marcia: che fine han fatto tutti i tifosi del federalismo, che nell’ultimo ventennio era diventato una parola magica, una panacea per tutti i mali tanto a sinistra e al centro quanto a destra? Mi pare che neppure la Lega stia protestando contro questo ri-accentramento. Ecco, questo è un altro di quei punti che ci aiutano a tracciare il disegno generale che cancella altri spazi di democrazia. Un buon federalismo, che non moltiplichi le poltrone e i centri di spesa, ma che promuova energie dal basso, sarebbe un ottimo sistema di mobilitazione di forze sociali per uscire dalla crisi con più partecipazione, più democrazia. In fondo, la storia ci insegna che è così che si supera il crollo dei grandi sistemi di potere. Quando venne giù l’impero di Alessandro Magno, l’Ellenismo fu tutto un pullulare d’energie diffuse. Quando si sbriciolò il Sacro Romano Impero, la civiltà la trasmisero i comuni e i conventi, ancora una volta con una spinta dal basso. Ora invece si pensa di verticalizzare e accentrare. Sarà buona cosa? E, se sì, per chi?
Poi c’è la legge elettorale, l’Italicum, che riproduce le liste bloccate e il mega-premio di maggioranza del Porcellum incostituzionale, e aggiunge altissime soglie di sbarramento per tener fuori dalla Camera i partiti medio-piccoli. Così, in due mosse, un pugno di capi-partito possono piazzare i loro servitori nel Senato non più elettivo e nella Camera dei nominati.
Il capitolo della legge elettorale è davvero fondamentale. Lì si gioca il grosso della partita. Di tutte le leggi, la legge elettorale è quella che più appartiene ai cittadini e meno ai loro rappresentanti. Mi sorprende la leggerezza, direi addirittura la spudoratezza, con cui i partiti trattano questa materia, come se fosse cosa loro. Invece non lo è. Tutto dipende dai loro calcoli d’interesse. Ma la legge elettorale non appartiene a loro, ma a noi: perché ciò che ciascuno di noi è, come soggetto politico, dipende in gran parte dalla legge elettorale. Il modo in cui se ne discute fa pensare che essi considerino gli elettori materia inerte nelle loro mani.
Altro puntino: la riforma della Giustizia. Che il memorandum JP Morgan equipara alla burocrazia, auspicandone la sudditanza alle esigenze dell’economia.
Anche qui, i problemi sono molti e noti: lunghezza dei processi, tre gradi di giudizio, sacrosante garanzie che si trasformano in pretesti per impedire che si giunga mai alla fine, abuso della prescrizione in materia penale, correntismo della magistratura nel Csm, ecc. Vedremo se il governo li risolverà con soluzioni più democratiche e aperte, nel senso di confermare le garanzie d’indipendenza dei giudizi, di promuovere l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, di agevolare l’accesso alla giustizia da parte dei più deboli (i tribunali dovrebbero servire soprattutto a questo). Il punto è ancora questo: vedremo se non si risolverà in una riforma non per la giustizia, ma contro la giustizia e a favore di privilegi oligarchici.
Anche in materia giudiziaria si va verso una verticalizzazione del potere in poche mani: pensiamo alla lettera inviata dal capo dello Stato (e del Csm) a Palazzo dei Marescialli per chiudere il caso Bruti Liberati-Robledo e affermare il potere assoluto dei capi delle Procure sui singoli pm.
Su questo punto c’è un dibattito. A me pare abbia detto cose interessanti e sagge il nuovo procuratore di Torino, Armando Spataro, nel suo discorso di insediamento, quando ha affermato con forza il ruolo del procuratore della Repubblica come coordinatore di un ufficio plurale, nel rispetto dell’autonomia funzionale dei singoli magistrati.
Vedo che, anche su questo punto, lei condivide l’appello lanciato dal Fatto Quotidiano contro la svolta autoritaria. Perché non l’ha firmato?
Non per questioni di merito, ma di metodo. Un po’ perché mi ha stancato l’accusa di firmaiolo. Ma soprattutto perché credo più produttivo cercare di seminare dubbi, ragionamenti e osservazioni critiche fra quei tanti parlamentari di tutti gli schieramenti che hanno votato obtorto collo la riforma del Senato. La logica degli appelli e dei manifesti crea una contrapposizione che aiuta il radicalismo ottuso di chi poi dice: facciamo le riforme costi quel che costi, anche per dimostrare che chi non ci sta non conta niente. E così si elimina ogni spazio di discussione e di confronto.
Ma questa contrapposizione è nata ben prima del nostro appello: lei s’è preso del gufo, del solone e del professorone fin da marzo, quando firmò con Rodotà e altri giuristi il manifesto sulla svolta autoritaria.
Lo so bene, ma in Parlamento non ci sono soltanto i ministri e i loro fedelissimi. Quelli che non hanno avuto il coraggio di prendere le distanze hanno subìto il clima di contrapposizione ‘o di qua o di là’ che si è venuto a creare. Ma non ritengono affatto chiusa la partita e dicono: stiamo facendo cose che siamo costretti a fare. Ma l’iter della riforma è appena iniziato, la gran parte è ancora da percorrere e molto può ancora succedere. In questa fase, credo più utili le critiche e le proposte alternative.
Quando lei ha inviato le sue alla Boschi, questa anziché renderle note e discuterle nel merito le ha imboscate in un cassetto.
Può darsi che non meritassero attenzione. In ogni caso, ormai ero già stato iscritto d’ufficio al partito dei gufi che vogliono l’immobilismo e che dovevano essere sbaragliati per evitare la sconfitta del governo.
Lei sembra dimenticare che, su Senato e Italicum, Renzi e Berlusconi hanno siglato un patto d’acciaio e segreto al Nazareno il 18 gennaio, e di lì non si spostano.
Sì, ma è un accordo di vertice. Nel ventre dei partiti ci sono tanti mal di pancia.
In ogni caso il nostro appello serve anche a mobilitare i cittadini in vista del referendum confermativo.
Questa è una storia che si aprirà successivamente, se sarà necessario. Quel che è certo è che, con questi numeri in Parlamento, la riforma non otterrà i due terzi. Dunque il referendum confermativo sarà possibile come diritto dei cittadini previsto dalla Costituzione, non come ‘chiamata a raccolta’ plebiscitaria promossa dalle forze governative. Che sarebbe un abuso, come già avvenne al tempo della riforma del Titolo V su iniziativa, quella volta, del centrosinistra. Il governo e la maggioranza che promuovono il referendum sulle proprie riforme è il mondo alla rovescia.
Visto quel che è accaduto al Senato, mi sa che lei si illude.
Sa, io sono un vecchio gufo che appartiene all’altro secolo, anzi all’altro millennio, al tempo delle Costituzioni democratiche del Meridione, anzi della ‘periferia’ d’Europa… E rimango legato a principi fondamentali che rappresentano conquiste del costituzionalismo. Per questo mi auguro che chi svolge la funzione di garante supremo della Costituzione sia fermo nel difenderli.
Spera in un intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano?
Anche in vista di un rasserenamento e di un temperamento delle tensioni, dopo gli allarmi che abbiamo e avete lanciato e dopo gli scontri durissimi avvenuti in Senato, chiedo se non sarebbe auspicabile una presa di posizione formale che dica più o meno così: ‘La Costituzione non è un testo sacro: può essere sottoposta a modifiche, tant’è che essa stessa ne prevede le forme attraverso l’articolo 138. Ma, in quanto garante di questa Costituzione – quella del 1948 – ricordo che esistono dei limiti a ciò che si può fare e che determinano ciò che non si può fare: princìpi fondamentali che non possono essere cancellati o calpestati’.
Quali?
La rappresentanza democratica, la centralità del Parlamento, l’autonomia della funzione politica, la legalità intesa come legge uguale per tutti, l’indipendenza della magistratura e così via: i fondamenti del costituzionalismo. Non ultimo, il rispetto della cultura.
Renzi & C. hanno già annunciato che tireranno diritto, “piaccia o non piaccia”.
Sì. E in effetti l’espressione ‘piaccia o non piaccia’ fa sorridere, se non piangere. La democrazia, a differenza dell’autocrazia, richiede a chi è chiamato a prendere decisioni di ‘andar persuadendo’. Bella espressione: così dice Pericle in un memorabile dialogo con Alcibiade, raccontato da Senofonte. Prima si discute, e solo alla fine della discussione la decisione viene presa in base ai voti. ‘Il piaccia o non piaccia’ posto all’inizio – ripeto – non è democrazia, ma autocrazia.
Sta di fatto che nessuno sembra scandalizzarsi neppure per la promozione di un pregiudicato, interdetto dai pubblici uffici e affidato ai servizi sociali, a padre costituente.
Questo, come il conflitto d’interessi, è uno di quei problemi enormi che nessuno osa più sollevare. Purtroppo sono argomenti che si logorano ripetendoli.
Resta l’anomalia di una riforma costituzionale fatta in fretta e furia alla vigilia di Ferragosto, con forzature regolamentari e tempi contingentati dallo stesso presidente del Senato.
Guardi, questa storia è tutta un’anomalia. Il fatto che l’iniziativa di riformare la Costituzione non parta dal Parlamento, ma dal governo. Il fatto che il governo ponga una sorta di questione di fiducia, anzi, per dir così, di mega-fiducia perché accompagnata dalla minaccia non delle dimissioni per dar luogo a un altro governo, ma addirittura dello scioglimento delle Camere per fare piazza pulita e tornare a votare. Il fatto che una componente del Senato abbia scelto (dovuto scegliere, secondo il proprio punto di vista) la via estrema dell’ostruzionismo e a questo si siano opposte ‘tagliole’ e ‘canguri’. Tutta un’anomalia che è l’esatto contrario di un clima costituente. C’è il fatto, poi, che il ddl contenga una norma che impone alle Camere di votare (spero non anche di approvare!) i disegni di legge del governo entro e non oltre 60 giorni. Ecco, questi sono altri punti da congiungere, tutti elementi della ‘governa-mentalità’ di cui dicevamo.
Senza contare il presidente della Repubblica, che sollecita continuamente riforme-lampo perché pare che voglia dimettersi al più presto.
Ma sa, nella Costituzione c’è un solo organo a durata variabile: il governo. Tutti gli altri hanno una durata fissa, e quella del capo dello Stato è di sette anni. Ecco un altro punto. Il presidente Napolitano, al momento della rielezione, ha aderito alla supplica di chi si trovava nell’impasse e ogni altro nome plausibile, da Romano Prodi a Stefano Rodotà, era stato ‘bruciato’ (non sappiamo ancora da chi e perché). Tuttavia, egli stesso dichiarò allora che la sua permanenza al Quirinale sarebbe stata ‘a tempo’. La prima volta nella storia repubblicana. Questo fatto, avvicinandosi il momento delle più volte annunciate dimissioni, sta creando il pericolo di un ingorgo istituzionale, di una contrazione anomala dei tempi e di una generale instabilità.
In un quadro, però, di immutabilità del sistema di potere.
Beh, questo è il modo tutto italiano di uscire dalle crisi di sistema. Lo stesso che è alla base dell’attuale governo: il massimo dell’innovazione di facciata per non cambiare nulla nella sostanza, o ossificare quello che già c’era.
da Il Fatto Quotidiano del 22 agosto 2014
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Re: LA DEMOCRAZIA AUTORITARIA
La vox populi
gogol • 27 minuti fa
E' un piacere ascoltare persone come Zagrebelsky. Purtroppo esiste una vasta platea di semianalfabeti (non in senso letterale) che commentano qui e che lo fanno a solo titolo di insultare questa o quella parte politica dimenticando di essere rappresentati (sic) da una platea di delinquenti e ladri a cui puntualmente rinnovano la fiducia.
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v.viana • 30 minuti fa
Ha scritto: "La democrazia è, per così dire, un regime in prima persona, non per
interposta persona. Se essa è occupata da forze che agiscono come longa manus di poteri esterni, diventa il luogo di scontro e prepotenza di potentati che obbediscono alle loro regole e non rispondono a quelle della democrazia: potentati che sono, tecnicamente, irresponsabili.
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mida98 • 32 minuti fa
Professore !!, Lei ha concluso con l'ormai arcinoto e vituperato pensiero gattopardesco tutto italiano " cambiare tutto per non cambiare nulla!!", ma sempre utile da ricordare a quelli che ascoltano con la bocca aperta ed il cervello narcotizzato, nella speranza che si sveglino, spero non troppo tardi!! GRAZIE !! Se legge i commenti di questi, parlano d'altro non avendo argomenti attinenti, vanno sul personale...
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v.viana • 33 minuti fa
La JB Morgan è una banca d'affari con sede a New York, leader nei servizi finanziari globali. Attualmente ha più di 90 milioni di clienti. Nel suo genealogico figurano quasi un migliaio di antenati (banche di credito ordinario, banche d'affari e holding) confluiti nel corso di oltre due secoli nell'attuale colosso.Nel 2012 la procura di New York denuncia per frode i capi del gruppo JP Morgan, per la truffa dei mutui subprime[.
Le perdite ammontavano a 22,5 miliardi di dollari e portarono alla disoccupazione 7 milioni di persone negli Stati
Uniti d'America innescando la crisi europea
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gogol • 27 minuti fa
E' un piacere ascoltare persone come Zagrebelsky. Purtroppo esiste una vasta platea di semianalfabeti (non in senso letterale) che commentano qui e che lo fanno a solo titolo di insultare questa o quella parte politica dimenticando di essere rappresentati (sic) da una platea di delinquenti e ladri a cui puntualmente rinnovano la fiducia.
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v.viana • 30 minuti fa
Ha scritto: "La democrazia è, per così dire, un regime in prima persona, non per
interposta persona. Se essa è occupata da forze che agiscono come longa manus di poteri esterni, diventa il luogo di scontro e prepotenza di potentati che obbediscono alle loro regole e non rispondono a quelle della democrazia: potentati che sono, tecnicamente, irresponsabili.
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mida98 • 32 minuti fa
Professore !!, Lei ha concluso con l'ormai arcinoto e vituperato pensiero gattopardesco tutto italiano " cambiare tutto per non cambiare nulla!!", ma sempre utile da ricordare a quelli che ascoltano con la bocca aperta ed il cervello narcotizzato, nella speranza che si sveglino, spero non troppo tardi!! GRAZIE !! Se legge i commenti di questi, parlano d'altro non avendo argomenti attinenti, vanno sul personale...
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v.viana • 33 minuti fa
La JB Morgan è una banca d'affari con sede a New York, leader nei servizi finanziari globali. Attualmente ha più di 90 milioni di clienti. Nel suo genealogico figurano quasi un migliaio di antenati (banche di credito ordinario, banche d'affari e holding) confluiti nel corso di oltre due secoli nell'attuale colosso.Nel 2012 la procura di New York denuncia per frode i capi del gruppo JP Morgan, per la truffa dei mutui subprime[.
Le perdite ammontavano a 22,5 miliardi di dollari e portarono alla disoccupazione 7 milioni di persone negli Stati
Uniti d'America innescando la crisi europea
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- Iscritto il: 18/03/2012, 10:43
Re: LA DEMOCRAZIA AUTORITARIA
Sono contrario, come dice Zagrebelsky, all'Assemblea costituente. Purtroppo anche alcuni esponenti autorevoli la invocano, ma va contro la previsione dell'art. 138, che a quel punto non si sa perché l'hanno approvato, visto che può essere derogato quando si vuole.
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