Il "nuovo" governo Renzi
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Re: Il "nuovo" governo Renzi
DA Repubblica .it
Renzi ispira meno fiducia e perde 15 punti in tre mesi. Il Pd resta al 41 %
L'Atlante politico. Il consenso per il capo del governo e per l'esecutivo rimane alto e tocca il 60 e il 54 %. Ma il calo per entrambi è sensibile. Il Pd di Renzi non è più in grado di attrarre tutti i settori elettorali, è diventato soggetto di centrosinistra, più di centro che di sinistra. Gli orientamenti di voto ricalcano l'esito delle Europee. Tra le differenze, la ripresa di Forza Italia che risale sopra il 18 %.
Credo che il risveglio degli italiani sarà lento, ma continuo, e la parabola Renzi rischia un crollo.
Spero che ci si accorga
- del grosso errore di aver rimesso in pista Berlusconi,
- di credere di poter far partire la crescita senza un forte intervento pubblico, una patrimoniale sostanziosa, una seria lotta all'evasione e al lavoro nero
- che non è possibile fare delle riforme con un governo che si regge sul patto del Nazzareno
- che la ripresa è possibile se si migliorano le condizioni del ceto medio-basso e non bloccando gli stipendi di tutta la PA specialmente delle categorie meno pagate in Europa
- che non c'è possibilità di migliorarsi se manca una classe politica onesta .
Renzi ispira meno fiducia e perde 15 punti in tre mesi. Il Pd resta al 41 %
L'Atlante politico. Il consenso per il capo del governo e per l'esecutivo rimane alto e tocca il 60 e il 54 %. Ma il calo per entrambi è sensibile. Il Pd di Renzi non è più in grado di attrarre tutti i settori elettorali, è diventato soggetto di centrosinistra, più di centro che di sinistra. Gli orientamenti di voto ricalcano l'esito delle Europee. Tra le differenze, la ripresa di Forza Italia che risale sopra il 18 %.
Credo che il risveglio degli italiani sarà lento, ma continuo, e la parabola Renzi rischia un crollo.
Spero che ci si accorga
- del grosso errore di aver rimesso in pista Berlusconi,
- di credere di poter far partire la crescita senza un forte intervento pubblico, una patrimoniale sostanziosa, una seria lotta all'evasione e al lavoro nero
- che non è possibile fare delle riforme con un governo che si regge sul patto del Nazzareno
- che la ripresa è possibile se si migliorano le condizioni del ceto medio-basso e non bloccando gli stipendi di tutta la PA specialmente delle categorie meno pagate in Europa
- che non c'è possibilità di migliorarsi se manca una classe politica onesta .
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Re: Il "nuovo" governo Renzi
iospero ha scritto:DA Repubblica .it
Renzi ispira meno fiducia e perde 15 punti in tre mesi. Il Pd resta al 41 %
L'Atlante politico. Il consenso per il capo del governo e per l'esecutivo rimane alto e tocca il 60 e il 54 %. Ma il calo per entrambi è sensibile. Il Pd di Renzi non è più in grado di attrarre tutti i settori elettorali, è diventato soggetto di centrosinistra, più di centro che di sinistra. Gli orientamenti di voto ricalcano l'esito delle Europee. Tra le differenze, la ripresa di Forza Italia che risale sopra il 18 %.
Credo che il risveglio degli italiani sarà lento, ma continuo, e la parabola Renzi rischia un crollo.
Spero che ci si accorga
- del grosso errore di aver rimesso in pista Berlusconi,
- di credere di poter far partire la crescita senza un forte intervento pubblico, una patrimoniale sostanziosa, una seria lotta all'evasione e al lavoro nero
- che non è possibile fare delle riforme con un governo che si regge sul patto del Nazzareno
- che la ripresa è possibile se si migliorano le condizioni del ceto medio-basso e non bloccando gli stipendi di tutta la PA specialmente delle categorie meno pagate in Europa
- che non c'è possibilità di migliorarsi se manca una classe politica onesta .
Due giorni fa, Massimo Cacciari ad Otto e mezzo ha precisato che occorre la sostituzione non solo della classe politica, ma anche della classe dirigente in generale.
Sarebbe opportuno perché la classe politica attuale è marcia, ad eccezione di una minoranza di panda in via di estinzione ma che non conta assolutamente nulla e non fa nulla per cambiare.
Ma ciò che sorprende è che il filosofo veneziano spesso interpellato dai media è che fa un discorso a metà.
Non è possibile che Cacciari non se ne sia accorto che le nuove generazioni politiche non valgono assolutamente niente. Oltre al fatto che sono fedeli alla tradizione come dimostra il caso del Pd Emilia.
L’altro giorno, più di un commento su IFQ ad un articolo inerente ai problemi emiliani, sosteneva che in fondo non hanno dilapidato molto Richetti e Bonaccini. 5.500 euro il primo, 4.000 il secondo.
Dipende dai punti di vista. In senso assoluto è certamente vero, è una cifra irrisoria rispetto a quella dei loro colleghi tricolori. Ma c’è un aspetto, a mio avviso che è molto più grave.
Chiedere il rimborso del biglietto di 50 centesimi per l’uso della toilette mi sembra grave. E’ da super pidocchi stagionati.
Con gli stipendi da nababbi che si ritrovano hanno proprio la necessità di recuperare 50 centesimi?
D’accordo che Paperon de Paperoni ha sempre sostenuto che è diventato ricco anche in questo modo, ma un minimo di decenza non guasterebbe.
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Re: Il "nuovo" governo Renzi
La nuova generazione politica vale meno di ZERO ed è più disonesta delle precedenti...
Si deve creare ex novo una nuova classe dirigenziale e politica e nel frattempo tenere in piedi i pochi vecchi capaci e onesti... altro che rottamazione...
Si deve creare ex novo una nuova classe dirigenziale e politica e nel frattempo tenere in piedi i pochi vecchi capaci e onesti... altro che rottamazione...
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Re: Il "nuovo" governo Renzi
Partito Smemocratico
(Marco Travaglio).
12/09/2014 di triskel182
richetti-bonaccini
Le inchieste sul nuovo ad dell’Eni Claudio Descalzi (indagato a Milano per corruzione internazionale) e sui candidati renziani a governatori dell’Emilia Romagna Matteo Richetti e Stefano Bonaccini (indagati a Bologna per peculato) la dicono lunga sulla portata rivoluzionaria del renzismo. Descalzi, nominato da Renzi al posto di Scaroni, era il braccio destro di Scaroni. Infatti è inquisito con Scaroni per la megamazzetta nigeriana. Alla presidenza dell’Eni Renzi, in perfetta coerenza, ha piazzato Emma Marcegaglia, azionista e dirigente del gruppo di famiglia che pagò tangenti all’Eni per un appalto Enipower. Se questo è il rinnovamento, tanto valeva tenersi Scaroni. Idem come sopra sul versante politico. Chi sono i “renziani”? Ex comunisti o diessini, ex democristiani o margheriti che negli ultimi due anni, fiutata l’aria che tirava, si sono paracadutati sul carro del vincitore un attimo prima o un attimo dopo che vincesse. Nulla di male, intendiamoci: una classe dirigente non s’inventa tra un tweet e un selfie. Ma questa non è rottamazione, e nemmeno rivoluzione: è riciclaggio.
E l’idea che i 39 anni di Renzi immunizzino tutti i suoi dai guai giudiziari è una pia illusione. I guai giudiziari dei politici non dipendono dalle idee politiche dei pm, ma dai comportamenti dei politici. E nessuno può meravigliarsi se anche i renziani cominciano a cadere nella rete delle Procure: se tutti – diconsi tutti – i consigli regionali d’Italia sono sotto inchiesta perché si facevano rimborsare spese private con soldi pubblici, era abbastanza prevedibile che i renziani che vi bivaccano da anni finissero nei pasticci. “Cambiare verso” non significa essere immuni da collaboratori indagati: significa reagire alle indagini in maniera diversa rispetto al passato. E qui casca l’asino, anzi Matteo con tutto il cucuzzaro. Il premier, sull’indagine bolognese, non ha voluto fare commenti. Il che è già qualcosa, visto che quando Errani fu condannato in appello per aver fatto carte false nel tentativo di coprire lo scandalo dei finanziamenti regionali alla coop del fratello che non ne aveva i titoli, lo ricevette in pompa magna a Palazzo Chigi, manco fosse un eroe nazionale. Sul caso rimborsi invece Renzi ha solo precisato di non aver chiesto a Richetti di ritirarsi né a Bonaccini di resistere (invece avrebbe fatto bene a metterli da parte entrambi). Se passa il principio che chi è indagato si ritira in attesa del processo, che ci fanno nel governo Renzi gli inquisiti Barracciu, Del Basso De Caro, De Filippo e l’imputato Bubbico? E che ci fa nella segreteria renziana l’indagato Faraone? La Boschi, poveretta, s’è affannata a richiamare la presunzione d’innocenza fino a condanna definitiva, come se questa vietasse le dimissioni di chi è raggiunto da gravi sospetti (automatiche e doverose in tutte le democrazie, fuorché in Italia). Su Europa, organo clandestino del Pd, si leggono commenti che paiono tratti pari pari dal Giornale o dal Foglio: “Politici e amministratori sono esposti alla discrezionalità spinta dei magistrati” in guerra “contro il governo in difesa degli stipendi e delle ferie”. Quindi giustizia a orologeria per vendicare la casta togata contro le riforme: ora Berlusconi chiederà le royalty. Europa (ma non solo) aggiunge che è “pazzesco” indagare Bonaccini per soli “4 mila euro in 19 mesi”: quindi se, puta caso, quei soldi Bonaccini li avesse davvero rubati, non sarebbe comunque reato per la modica quantità della refurtiva. Ergo, se uno scippatore frega la pensione a cinque-sei vecchietti, che fanno? Lo candidano a governatore? Sicuri che le mutande verdi di Cota a spese della Regione Piemonte costassero più di 4 mila euro? Si dirà: ma questa è la finta sinistra, poi c’è quella vera di Sel. Infatti l’assessore vendoliano alla Cultura, Massimo Mezzetti, dichiara spiritoso: “Facciamo così, per risparmiare tempo chiediamo alla Procura di Bologna chi vuole alla presidenza della Regione”. Mezzetti s’è scordato che in Italia accade così da anni, tant’è che indagato è diventato sinonimo di candidato. Ai tempi di B. la selezione delle classi dirigenti avveniva sul registro degli inquisiti. Oggi, invece, pure.
Da Il Fatto Quotidiano del 12/09/2014.
(Marco Travaglio).
12/09/2014 di triskel182
richetti-bonaccini
Le inchieste sul nuovo ad dell’Eni Claudio Descalzi (indagato a Milano per corruzione internazionale) e sui candidati renziani a governatori dell’Emilia Romagna Matteo Richetti e Stefano Bonaccini (indagati a Bologna per peculato) la dicono lunga sulla portata rivoluzionaria del renzismo. Descalzi, nominato da Renzi al posto di Scaroni, era il braccio destro di Scaroni. Infatti è inquisito con Scaroni per la megamazzetta nigeriana. Alla presidenza dell’Eni Renzi, in perfetta coerenza, ha piazzato Emma Marcegaglia, azionista e dirigente del gruppo di famiglia che pagò tangenti all’Eni per un appalto Enipower. Se questo è il rinnovamento, tanto valeva tenersi Scaroni. Idem come sopra sul versante politico. Chi sono i “renziani”? Ex comunisti o diessini, ex democristiani o margheriti che negli ultimi due anni, fiutata l’aria che tirava, si sono paracadutati sul carro del vincitore un attimo prima o un attimo dopo che vincesse. Nulla di male, intendiamoci: una classe dirigente non s’inventa tra un tweet e un selfie. Ma questa non è rottamazione, e nemmeno rivoluzione: è riciclaggio.
E l’idea che i 39 anni di Renzi immunizzino tutti i suoi dai guai giudiziari è una pia illusione. I guai giudiziari dei politici non dipendono dalle idee politiche dei pm, ma dai comportamenti dei politici. E nessuno può meravigliarsi se anche i renziani cominciano a cadere nella rete delle Procure: se tutti – diconsi tutti – i consigli regionali d’Italia sono sotto inchiesta perché si facevano rimborsare spese private con soldi pubblici, era abbastanza prevedibile che i renziani che vi bivaccano da anni finissero nei pasticci. “Cambiare verso” non significa essere immuni da collaboratori indagati: significa reagire alle indagini in maniera diversa rispetto al passato. E qui casca l’asino, anzi Matteo con tutto il cucuzzaro. Il premier, sull’indagine bolognese, non ha voluto fare commenti. Il che è già qualcosa, visto che quando Errani fu condannato in appello per aver fatto carte false nel tentativo di coprire lo scandalo dei finanziamenti regionali alla coop del fratello che non ne aveva i titoli, lo ricevette in pompa magna a Palazzo Chigi, manco fosse un eroe nazionale. Sul caso rimborsi invece Renzi ha solo precisato di non aver chiesto a Richetti di ritirarsi né a Bonaccini di resistere (invece avrebbe fatto bene a metterli da parte entrambi). Se passa il principio che chi è indagato si ritira in attesa del processo, che ci fanno nel governo Renzi gli inquisiti Barracciu, Del Basso De Caro, De Filippo e l’imputato Bubbico? E che ci fa nella segreteria renziana l’indagato Faraone? La Boschi, poveretta, s’è affannata a richiamare la presunzione d’innocenza fino a condanna definitiva, come se questa vietasse le dimissioni di chi è raggiunto da gravi sospetti (automatiche e doverose in tutte le democrazie, fuorché in Italia). Su Europa, organo clandestino del Pd, si leggono commenti che paiono tratti pari pari dal Giornale o dal Foglio: “Politici e amministratori sono esposti alla discrezionalità spinta dei magistrati” in guerra “contro il governo in difesa degli stipendi e delle ferie”. Quindi giustizia a orologeria per vendicare la casta togata contro le riforme: ora Berlusconi chiederà le royalty. Europa (ma non solo) aggiunge che è “pazzesco” indagare Bonaccini per soli “4 mila euro in 19 mesi”: quindi se, puta caso, quei soldi Bonaccini li avesse davvero rubati, non sarebbe comunque reato per la modica quantità della refurtiva. Ergo, se uno scippatore frega la pensione a cinque-sei vecchietti, che fanno? Lo candidano a governatore? Sicuri che le mutande verdi di Cota a spese della Regione Piemonte costassero più di 4 mila euro? Si dirà: ma questa è la finta sinistra, poi c’è quella vera di Sel. Infatti l’assessore vendoliano alla Cultura, Massimo Mezzetti, dichiara spiritoso: “Facciamo così, per risparmiare tempo chiediamo alla Procura di Bologna chi vuole alla presidenza della Regione”. Mezzetti s’è scordato che in Italia accade così da anni, tant’è che indagato è diventato sinonimo di candidato. Ai tempi di B. la selezione delle classi dirigenti avveniva sul registro degli inquisiti. Oggi, invece, pure.
Da Il Fatto Quotidiano del 12/09/2014.
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Re: Il "nuovo" governo Renzi
Chiappate, ...chiappate....
RETROSCENA
Blocco degli stipendi alle forze dell'ordine
I soldi c'erano, ma li ha bloccati Padoan
Continuano le trattative tra sindacati e Governo per scongiurare lo sciopero del 23 settembre. E si scopre che i fondi per garantire gli aumenti salariali fino a dicembre erano già stati trovati con l'ok di Difesa e Interno. A far saltare tutto è stato il ministero dell'Economia
DI MARZIO BRUSINI
12 settembre 2014
Blocco degli stipendi alle forze dell'ordine
I soldi c'erano, ma li ha bloccati Padoan
Secondo il Ministro della Pubblica Amministrazione non ci sarebbero le risorse per sbloccare il tetto salariale del comparto sicurezza. Ma sembrerebbe vero il contrario. La notizia rimbalza da Roma dove i sindacati della Polizia di Stato e il Cocer Interforze (Esercito, Marina, Aeronautica, Guardia di Finanza e Carabinieri) rimangono in attesa di un cenno da parte del Consiglio dei Ministri per scongiurare il rischio di uno sciopero generale indetto per il 23 settembre.
Dal muro di silenzio che governo e sindacati hanno innalzato sulla trattativa trapela però che nello scorso marzo le amministrazioni del comparto sicurezza - per la precisione il Comando Generale dei Carabinieri e dell'Esercito, il Dipartimento della Pubblica Sicurezza e quello della Guardia di Finanza - avevano previsto lo stanziamento di circa 400 milioni di euro prelevati direttamente dai loro budget, nel cosiddetto “autofinanziamento”, a cui si sarebbero potuti aggiungere altri 250 milioni circa di quanto rimasto alla voce Fondo per la Riforma Ordinamentale che dal 2004 prevede accantonamenti annuali. In tutto 650 milioni di euro.
Ben distanti dal miliardo e 400 milioni previsto per sbloccare tutto il tetto stipendi ma più che sufficienti a coprire settembre, ottobre, novembre e dicembre 2014.
Tutto a posto in teoria. Anche i Ministri degli Interni e della Difesa, Angelino Alfano e Roberta Pinotti, sarebbero stati d'accordo, Non è però di questo avviso il Ministro dell'Economia, che ha bloccato lo stanziamento perché lo avrebbe vincolato a procedere anche per il 2015 agli adeguamenti salariali in evidente contrasto con il Documento Economia e Finanza varato nell'aprile scorso che riconferma lo stop agli adeguamenti salariali. E per i dipendenti dello Stato rimane tutto come prima, con il loro “tetto” introdotto nel 2010 e prorogato di anno in anno.
Un limite che nei fatti si traduce nel blocco degli scatti legati agli avanzamenti di grado e alle promozioni portando a situazioni paradossali: può succedere, ad esempio, che se un vicequestore viene promosso a questore, guadagni quanto i suoi vice.
E' su questo che si gioca la partita al tavolo di contrattazione tra sindacati e governo. Con soldi che virtualmente ci sono ma che il ministro Marianna Madia preferisce negare e sacrificare, almeno stando all'opinione dei sindacati, alla spending review da 20 miliardi annunciata dal Governo.
Si rimane in attesa di segnali concreti da parte del Consiglio dei Ministri per procedere almeno agli aggiornamenti per gli stipendi medio-bassi (quelli da 1.200 e 1.400 euro mensili) e strappare qualche garanzia per gli altri. Qualche spiraglio si è visto questa mattina al tavolo della trattativa. Ma le posizioni rimangono ancora lontane.
http://espresso.repubblica.it/attualita ... =HEF_RULLO
RETROSCENA
Blocco degli stipendi alle forze dell'ordine
I soldi c'erano, ma li ha bloccati Padoan
Continuano le trattative tra sindacati e Governo per scongiurare lo sciopero del 23 settembre. E si scopre che i fondi per garantire gli aumenti salariali fino a dicembre erano già stati trovati con l'ok di Difesa e Interno. A far saltare tutto è stato il ministero dell'Economia
DI MARZIO BRUSINI
12 settembre 2014
Blocco degli stipendi alle forze dell'ordine
I soldi c'erano, ma li ha bloccati Padoan
Secondo il Ministro della Pubblica Amministrazione non ci sarebbero le risorse per sbloccare il tetto salariale del comparto sicurezza. Ma sembrerebbe vero il contrario. La notizia rimbalza da Roma dove i sindacati della Polizia di Stato e il Cocer Interforze (Esercito, Marina, Aeronautica, Guardia di Finanza e Carabinieri) rimangono in attesa di un cenno da parte del Consiglio dei Ministri per scongiurare il rischio di uno sciopero generale indetto per il 23 settembre.
Dal muro di silenzio che governo e sindacati hanno innalzato sulla trattativa trapela però che nello scorso marzo le amministrazioni del comparto sicurezza - per la precisione il Comando Generale dei Carabinieri e dell'Esercito, il Dipartimento della Pubblica Sicurezza e quello della Guardia di Finanza - avevano previsto lo stanziamento di circa 400 milioni di euro prelevati direttamente dai loro budget, nel cosiddetto “autofinanziamento”, a cui si sarebbero potuti aggiungere altri 250 milioni circa di quanto rimasto alla voce Fondo per la Riforma Ordinamentale che dal 2004 prevede accantonamenti annuali. In tutto 650 milioni di euro.
Ben distanti dal miliardo e 400 milioni previsto per sbloccare tutto il tetto stipendi ma più che sufficienti a coprire settembre, ottobre, novembre e dicembre 2014.
Tutto a posto in teoria. Anche i Ministri degli Interni e della Difesa, Angelino Alfano e Roberta Pinotti, sarebbero stati d'accordo, Non è però di questo avviso il Ministro dell'Economia, che ha bloccato lo stanziamento perché lo avrebbe vincolato a procedere anche per il 2015 agli adeguamenti salariali in evidente contrasto con il Documento Economia e Finanza varato nell'aprile scorso che riconferma lo stop agli adeguamenti salariali. E per i dipendenti dello Stato rimane tutto come prima, con il loro “tetto” introdotto nel 2010 e prorogato di anno in anno.
Un limite che nei fatti si traduce nel blocco degli scatti legati agli avanzamenti di grado e alle promozioni portando a situazioni paradossali: può succedere, ad esempio, che se un vicequestore viene promosso a questore, guadagni quanto i suoi vice.
E' su questo che si gioca la partita al tavolo di contrattazione tra sindacati e governo. Con soldi che virtualmente ci sono ma che il ministro Marianna Madia preferisce negare e sacrificare, almeno stando all'opinione dei sindacati, alla spending review da 20 miliardi annunciata dal Governo.
Si rimane in attesa di segnali concreti da parte del Consiglio dei Ministri per procedere almeno agli aggiornamenti per gli stipendi medio-bassi (quelli da 1.200 e 1.400 euro mensili) e strappare qualche garanzia per gli altri. Qualche spiraglio si è visto questa mattina al tavolo della trattativa. Ma le posizioni rimangono ancora lontane.
http://espresso.repubblica.it/attualita ... =HEF_RULLO
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Re: Il "nuovo" governo Renzi
Certo che chiamarlo "pagliccio" ufficialmente non ci aveva ancora provato nessuno.
Per la copertina del L'Economist aveva messo in scena lo sberleffo del gelato. Cosa ci dobbiamo aspettare per Saviano????
L'ANTITALIANO
L'attacco di Saviano a Matteo Renzi
"E' sempre commedia all'italiana"
"Si sperava che il pagliaccio e l’abile battutista con responsabilità di governo avessero lasciato il terreno a una generazione di persone serie. Invece questo sogno, rischia di essersi già infranto". Il durissimo intervento contro il governo dello scrittore
DI ROBERTO SAVIANO
10 settembre 2014
«Il momento è gravissimo e la necessità di serietà è illimitata: il primo ministro e gli altri componenti del Consiglio dei ministri dovrebbero rendersi conto che non è possibile sempre e comunque strizzare l’occhio alla più stantia rappresentazione della cialtroneria nazionale».
Roberto Saviano nella sua rubrica L'Antitaliano, sul numero dell'Espresso in edicola da venerdì 12, critica duramente Matteo Renzi e il suo stile di governo. La situazione del paese è gravissima, scrive Saviano, e «si pensava che con l’uscita di scena di Silvio Berlusconi, quell’eterno rinvio ai tipici personaggi della commedia all’italiana fosse esaurito. Si sperava che il pagliaccio e l’abile battutista con responsabilità di governo avessero lasciato il terreno a una generazione di persone serie, in grado di cogliere la gravità delle situazioni e dunque capace di lavorare con discrezione a soluzioni anche dolorose, ma di largo respiro». E invece questa speranza, questo sogno, rischia di essersi già infranto.
Secondo lo scrittore, sarebbe necessaria per esempio un'azione per riportare in Italia i cervelli in fuga all'estero, per “recuperare” una generazione che ha investito sulla formazione e ora si trova senza lavoro o “in esilio”. Ci vuole un investimento forte sul capitale umano. E invece dobbiamo rassegnarci all'idea che ogni Governo si senta in obbligo di annunciare una “rivoluzione” nel mondo della scuola».
Annunci di rivoluzioni che servono solo a mascherare nuovi tagli. Ci vorrebbe serietà, capacità di dire la verità al paese e di guardare al futuro. «Ci si aspetterebbe umiltà, silenzio, riservatezza: esistere solo quando si è al lavoro, rifuggendo ogni futilità».
Ogni governo si sente in dovere di annunciare una “rivoluzione” nel mondo dell’istruzione. Un diversivo che serve solo a mascherare nuovi tagli. E il capitale umano del nostro paese diventa sempre più povero
E conclude: «se il giorno in cui si è ufficializzata la deflazione che ha portato l’economia italiana al 1959 il nostro Premier ha teatralmente mangiato il gelato, forse a breve sarà costretto a presentarsi al Paese in ginocchio e con la testa bassa, in un vuoto di parole, finalmente rappresentativo del disastro».
La rubrica integrale di Roberto Saviano su l'Espresso in edicola venerdì e su E+
© Riproduzione riservata 10 settembre 2014
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Per la copertina del L'Economist aveva messo in scena lo sberleffo del gelato. Cosa ci dobbiamo aspettare per Saviano????
L'ANTITALIANO
L'attacco di Saviano a Matteo Renzi
"E' sempre commedia all'italiana"
"Si sperava che il pagliaccio e l’abile battutista con responsabilità di governo avessero lasciato il terreno a una generazione di persone serie. Invece questo sogno, rischia di essersi già infranto". Il durissimo intervento contro il governo dello scrittore
DI ROBERTO SAVIANO
10 settembre 2014
«Il momento è gravissimo e la necessità di serietà è illimitata: il primo ministro e gli altri componenti del Consiglio dei ministri dovrebbero rendersi conto che non è possibile sempre e comunque strizzare l’occhio alla più stantia rappresentazione della cialtroneria nazionale».
Roberto Saviano nella sua rubrica L'Antitaliano, sul numero dell'Espresso in edicola da venerdì 12, critica duramente Matteo Renzi e il suo stile di governo. La situazione del paese è gravissima, scrive Saviano, e «si pensava che con l’uscita di scena di Silvio Berlusconi, quell’eterno rinvio ai tipici personaggi della commedia all’italiana fosse esaurito. Si sperava che il pagliaccio e l’abile battutista con responsabilità di governo avessero lasciato il terreno a una generazione di persone serie, in grado di cogliere la gravità delle situazioni e dunque capace di lavorare con discrezione a soluzioni anche dolorose, ma di largo respiro». E invece questa speranza, questo sogno, rischia di essersi già infranto.
Secondo lo scrittore, sarebbe necessaria per esempio un'azione per riportare in Italia i cervelli in fuga all'estero, per “recuperare” una generazione che ha investito sulla formazione e ora si trova senza lavoro o “in esilio”. Ci vuole un investimento forte sul capitale umano. E invece dobbiamo rassegnarci all'idea che ogni Governo si senta in obbligo di annunciare una “rivoluzione” nel mondo della scuola».
Annunci di rivoluzioni che servono solo a mascherare nuovi tagli. Ci vorrebbe serietà, capacità di dire la verità al paese e di guardare al futuro. «Ci si aspetterebbe umiltà, silenzio, riservatezza: esistere solo quando si è al lavoro, rifuggendo ogni futilità».
Ogni governo si sente in dovere di annunciare una “rivoluzione” nel mondo dell’istruzione. Un diversivo che serve solo a mascherare nuovi tagli. E il capitale umano del nostro paese diventa sempre più povero
E conclude: «se il giorno in cui si è ufficializzata la deflazione che ha portato l’economia italiana al 1959 il nostro Premier ha teatralmente mangiato il gelato, forse a breve sarà costretto a presentarsi al Paese in ginocchio e con la testa bassa, in un vuoto di parole, finalmente rappresentativo del disastro».
La rubrica integrale di Roberto Saviano su l'Espresso in edicola venerdì e su E+
© Riproduzione riservata 10 settembre 2014
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Re: Il "nuovo" governo Renzi
il Fatto 12.9.14
Pd, “nomi inadeguati” e torna la voglia dei 101
Lontani i tempi di Onida, Zagrebelsky e Bachelet
Nel partito democratico un coro di delusi dalle scelte
“Questi profili sono troppo bassi”
“Non si tratta di correnti organizzate, ma di nomi poco digeribili da tutti. E poi stiamo perdendo tantissimo tempo”
“Come fa il renzismo a portare avanti strategie del genere? Come può indicare certi personaggi predicando il rinnovamento?”
“Renzi rischia di avere la sindrome di Caligola: posso nominare senatore il mio cavallo”
di Wanda Marra
Sono profili troppo politici, troppo poco di garanzia, per quelli che dovrebbero essere organi superiori come il Consiglio superiore della magistratura e la Consulta. Come fa il renzismo a portare avanti delle scelte del genere? Come fa a proporre Catricalà, proclamando la lotta alla burocrazia e Legnini, predicando il rinnovamento?”. Parlava così Walter Tocci, senatore dissidente Dem nella riunione dei gruppi del Pd l’altroieri. Non a caso Roberto Speranza profetizzava franchi tiratori. I fatti sono che tra ieri e l’altroieri poco s’è fatto. Eletti solo per il Csm lo stesso Giovanni Legnini, frutto di un accordo di ferro tra renziani e bersaniani e Giuseppe Fanfani l’altroieri, solo Antonio Leone, il candidato di Ncd ieri. In effetti il malumore per il tipo di profili prescelti serpeggia tra le fila dei democratici. Persino “per una fase politica caratterizzata da scelte del genere, dove più che le garanzie tecniche contano gli accordi politici, data la frammentazione del quadro”, per dirla con un senatore, le figure indicate sono dure da mandare giù. E hanno poco a che fare con la competenza. Legnini fino all’altroieri faceva il sottosegretario all’Economia. Violante, proposto per la Consulta, ha una lunga carriera tutta politica, poco nella giurisprudenza. Tra i molteplici incarichi di Antonio Catricalà si ricorda soprattutto quello di presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Poi ci sono i casi eclatanti. Come quello di Teresa Bene. La candidata del Pd voluta dal ministro Andrea Orlando non avrebbe i requisiti: professore associato di diritto processuale a Napoli, è iscritta all’albo forense, ma pare non abbia mai esercitato. E questo la metterebbe fuori gioco. In ambienti renziani a questo punto si pensa già alla sostituzione. Ma è tutta la rosa che traballa. A partire, appunto da Catricalà e Violante: ieri, per evitare il rischio concreto di bruciarli, non si è votato anche nel pomeriggio dopo lo stallo della mattina. Davvero arrivano a lunedì? E le altre figure per il Csm sono tutt’altro che brillanti: l’ex ministro della Salute di Scelta Civica, Renato Balduzzi, i due super berlusconiani come Elisabetta Casellati e Luigi Vitali, relatore della ex Cirielli: processo in corso per abuso d’ufficio a Francavilla Fontana (ma il pm ha chiesto l’archiviazione). Basta scorrere le liste degli antichi membri laici del Csm per vedere la differenza. Al di là dell’appartenenza e delle convinzioni politiche, la statura era decisamente più alta. Tra i membri laici più stimati, Virginio Rognoni (che fu prima ministro dell’Interno, ma anche della Giustizia), molto stimato, Vittorio Bachelet, che fu ucciso dalle Br. Alla Consulta, poi, si sono succedute figure come Guido Neppi Modena, Valerio Onida, Giuliano Vassalli, Gustavo Zagrebelsky. Tra i membri attuali ci sono Cassese e Tesauro. Costituzionalisti, giuristi riconosciuti.
PERSINO in tempi come questi, quando tutto sembra poter passare, i nomi sembrano in bilico. Per Violante, Renzi ha ricevuto richieste da molti, anche da Giorgio Napolitano, ma alla fine potrebbe mollarlo. Lo stesso Colle pare non sia proprio entusiasta di come stanno andando le cose: aveva spinto per una soluzione rapida. Ecco ancora le parole di Tocci al gruppo dell’altro giorno: “Renzi ha fatto un governo con la metà dei ministri rigorosamente donna, ha insistito per la Mogherini a Mrs Pesc. E su nove nomi di donna tra quelli proposti per Csm e Consulta ce n’è una sola”. Il malumore è diffuso, il voto segreto, da questo punto di vista, è uno sfogo perfetto. Il paragone con i 101 che affossarono Romano Prodi torna nelle chiacchiere a Montecitorio. Ieri del Pd erano assenti al voto una trentina tra deputati e senatori, in ben 130 per Forza Italia: i voti per Violante sono stati 468, ne servivano 570. Fronde incrociate che evidentemente alla fine raggiungono il risultato comune.
Denuncia Pippo Civati: “Non si tratta di correnti organizzate, ma di nomi effettivamente poco digeribili da tutti. E poi, stiamo perdendo tantissimo tempo”. Se c’è chi guarda alla “base” renziana, in molti indicano viceversa l’area più centrista, quella più cattolica, che uno come Violante non lo può accettare per definizione. Ma più che caos organizzato, è caos. “Chi si vanta di essere bravo quando le cose vanno bene, chi si arroga il merito di aver portato il partito al 40,8%, poi quando le cose vanno male vuol dire che la colpa è sua”, dice un vecchio lupo da Transatlantico (democratico anche lui). Lorenzo Guerini, vice segretario Pd, si affanna al telefono. Gli chiedono dell’Emilia. “Le primarie non sono sconvocate” e degli sviluppi della votazione in corso sugli organi di garanzia: “Non è stata sconvocata”, scherza. E non risponde. Guai in vista. Un renziano critico commenta così la situazione: “Renzi rischia di avere la sindrome di Caligola: posso nominare senatore il mio cavallo”.
La Stampa 12.9.14
Fumata nera per la Consulta. Vacilla l’asse del Nazareno
Franchi tiratori in azione: non passano Catricalà e Violante
Berlusconi: che figuraccia. Lunedì nuovo voto a scrutinio segreto
di Ugo Magri
«Abbiamo fatto una bella figura di m...», si sfoga amaro Berlusconi con tutti quanti gli vengono a tiro. Il suo candidato per la Consulta, Antonio Catricalà, è stato spazzato via dal voto di ieri. E pure quello di Renzi, cioè l’ex presidente della Camera Luciano Violante, non ha fatto una gran riuscita. Con una differenza, però: lunedì prossimo, quando il Parlamento in seduta comune tornerà a riunirsi per il decimo tentativo di colmare le caselle vuote della Corte, il Pd insisterà tenacemente su Violante nella speranza stavolta di fare centro (mancano 103 voti alla soglia dei 3/5 prescritti dalla Costituzione, impresa ardua ma ancora possibile). Forza Italia viceversa sarà obbligata a cambiare cavallo. Berlusconi ha preso atto, con disappunto, che Catricalà non ce la potrà fare: ha raccolto 368 voti invece dei 570 richiesti. Largo dunque a Donato Bruno, il campione dei «peones» in rivolta, che nessuno ha candidato eppure sul suo nome si sono sommati spontaneamente 120 suffragi. Un’assemblea dei gruppi parlamentari forzisti si terrà lunedì mattina per adottarlo ufficialmente. A quel punto, si scommette, la fronda «azzurra» sarà placata. E a fronte del sacrificio umano compiuto in suo onore (Catricalà) forse rispetterà le intese intercorse col Pd, che prevedono un via libera a Violante...
Nell’altra partita di nomine, quelle per i membri «laici» del Csm, si registra un faticoso passettino avanti: dopo Giovanni Legnini e Giuseppe Fanfani, promossi dal Parlamento mercoledì, ha superato l’asticella anche Antonio Leone. Si sussurra che ce l’abbia fatta grazie a un’intesa sotterranea tra il suo partito (Ncd) e i rivoltosi di Forza Italia. Questi ultimi hanno virato su Leone e a loro volta gli alfaniani, per sdebitarsi, hanno mollato platealmente Catricalà unendosi ai sostenitori di Bruno. Così va il mondo. Tra color che son sospesi rimangono altri 5 candidati per l’organo di autogoverno della magistratura. Quattro sono abbastanza vicini al quorum (Casellati, Bene, Vitali e Balduzzi), uno arranca parecchio distanziato (Colaianni). Pure a loro verrà concessa una nuova chance lunedì. Per non perdere altro tempo, la conferenza dei capigruppo ha anticipato di un giorno il rientro dal fine settimana. Dopo i tagli all’indennità, quella al meritato riposo è la più grave minaccia che pende sui nostri eroi. D’altra parte, osserva il presidente del Senato Grasso, «Consulta e Csm non possono attendere che i gruppi trovino l’accordo».
Ma l’importanza degli eventi di ieri supera di gran lunga questi risvolti. La vera novità è che un certo verticismo, connaturato ai patti del Nazareno, ha subito un colpo assai duro. Per la prima volta si è toccato con mano che le decisioni concordate lungo l’asse Verdini-Lotti (terminali rispettivamente di Berlusconi e di Renzi) non hanno la forza né l’autorevolezza per imporsi contro una base parlamentare in crisi di identità, il fantomatico Ptm (partito trasversale del maldipancia). Se l’elezione dei giudici costituzionali fosse davvero, come in molti sostengono, la prova generale della prossima corsa al Colle, cioè l’esperimento in vitro di quanto potrebbe reggere un’intesa a due tra Matteo e Silvio, beh, l’esito di ieri non è certo un trionfo. Nelle file Pd sono spuntate frotte di franchi tiratori. Ma il vero anello debole si è dimostrata Forza Italia, dove l’insofferenza per tutto quanto viene calato dall’alto supera i livelli di guardia. Finché si procede a voto palese, la disciplina regge; ma quando nessuno li vede, i deputati berlusconiani si rivoltano contro chi li tratta come un «parco buoi». Dicono che Berlusconi l’abbia capito, e stia ragionando su qualche aggiustamento di rotta.
Repubblica 12.9.14
La fronda Pd-Fi ferma Violante e Catricalà
di L. Mi.
ROMA . Né Violante, né Catricalà, né 5 degli 8 componenti del Csm. Solo uno, Antonio Leone. Alla Camera è una Caporetto. Vince il partito del trolley. Se ne vanno tutti a casa, per i futuri giudici della Consulta e per i laici del Csm se ne riparla lunedì. Ma “radio Transatlantico” già parla di mercoledì. L’ha chiesto Romani contro Brunetta. S’infuriano i presidenti di Camera e Senato, Boldrini e Grasso. «Il voto è un’urgenza assoluta» dicono. E Grasso, da Oslo, tuona: «Non è possibile che per le nomine ogni volta il Paese si debba bloccare in attesa che i gruppi trovino l’accordo prima al loro interno e poi tra di loro. Consulta e Csm devono funzionare subito, l’Italia ha troppe urgenze da affrontare e non si può perdere altro tempo».
Ma Fi fa saltare il tavolo. Non arrivano al quorum di 570 voti né Violante (468 voti, 39 in più di mercoledì), né Catricalà (da 64 a 368). In compenso Donato Bruno ne piglia 120. Raccontano di un Berlusconi infuriato perché i suoi 104 parlamentari non ubbidiscono su Catricalà, ma molte voci dall’interno parlano di uno studiato lavoro ai fianchi per far saltare Violante, mai digerito appieno dall’ex premier. «Gli mancano 200 voti, ed è tutta colpa del Pd» dicono i forzisti. Che già fanno altre ipotesi, come il costituzionalista Barbera. E accreditano la tesi che a non volere Violante sarebbe proprio Renzi, il quale starebbe assistendo in silenzio al progressivo logoramento dell’ex presidente della Camera. Dove più d’uno dà sia Catricalà che Violante sul punto di dare forfait. A quel punto per Fi entrerebbe in pista Bruno o un outsider come l’ex Csm Zanon che se la vedrebbe con Barbera. Nel Pd i vertici fanno quadrato su Violante, dicono che «stratiene e guadagna voti». Un fatto è certo, Catricalà invece è divisivo. Basti pensare che un politico attento come il vice ministro della Giustizia Enrico Costa, di prima mattina dice: «Io Catricalà non lo voterò mai».
Non è meno complicato il nodo del Csm, dove finora sono stati eletti i Pd Legnini e Fanfani e l’Ncd Leone.
Col quorum a 489 si fermano i forzisti Castellati (473) e Vitali (451), Balduzzi di Sc (462), Zaccaria di M5S (127), la Bene (480). Proprio su di lei si gioca una possibile novità. La voce che non abbia i titoli per entrare non è vera, perché è sì un professore associato e non ordinario, ma ha 15 anni di avvocatura alle spalle. Il problema è che nel Pd comincia a serpeggiare il dubbio che le toghe possano non votare Legnini, per cui circola il nome della deputata dem Anna Rossomando. Quanto ai togati del Csm le condizioni sono nette: «Chiederemo ai laici precise garanzie sulla difesa dei magistrati dagli attacchi della politica, sulla gestione collegiale e non concentrata, com’è avviene adesso, nelle mani del comitato di presidenza, sulla comunicazione all’esterno che non può essere appannaggio del solo vice presidente com’è stato con Vietti». Un clima che non lascia presagire nulla di buono. I togati sono 16, i laici 8, più i due giudici della Cassazione. Le toghe hanno la golden share sul vice di Napolitano.
Il Sole 12.9.14
Il ritorno dei veti incrociati sulla Consulta e il patto Renzi-Berlusconi
di Stefano Folli
Dopo il nuovo rinvio si avvicina l'ora decisiva per capire se l'accordo esiste e quanto tiene
Luciano Violante e Antonio Catricalà sono due figure in grado di ricoprire degnamente l'incarico di giudice della Consulta. Il fatto che siano al centro di polemiche non sorprende: è quello che accade di solito quando a eleggere i giudici è il Parlamento. Semmai, dopo l'ennesima votazione a vuoto a circa tre mesi dalla prima, il punto è un altro: quanto vale - viene da domandarsi - la famosa intesa fra Renzi e Berlusconi?
Non c'è dubbio che il governo si sia retto finora, specie per quanto riguarda le riforme istituzionali e la legge elettorale, su una sorta di grande coalizione sottintesa e non dichiarata: un patto a due che circoscrive e annacqua la maggioranza più ristretta Pd-Ncd da cui deriva la fiducia a Renzi. Secondo una certa "vulgata", sostenuta in particolare dai Cinque Stelle, l'accordo sarebbe ferreo, quasi una camicia di forza imposta alla legislatura. Se è così, sarebbe necessario avere qualche prova più convincente.
È strano, ad esempio, che l'intesa Palazzo Chigi-Palazzo Grazioli non riesca nemmeno a produrre due giudici della Consulta. Quando peraltro entrambi i candidati, Violante e Catricalà, rappresentano la linea del confronto politico aperto, privo di pregiudizi; e in una certa misura interpretano meglio di altri il clima parlamentare figlio della semi-maggioranza allargata di cui parliamo. In apparenza altri candidati sarebbero più «divisivi» e identitari, meno adatti a raccogliere il largo consenso necessario nelle Camere riunite.
Tuttavia lo stile e il profilo dei due non è bastato. È servito solo ad attirare gli attacchi dell'opposizione "grillina" e a richiamare dal letargo i franchi tiratori, di cui non si sentiva parlare dalle giornate che nella primavera del 2013 affossarono i candidati alla Quirinale - Prodi fra tutti - e aprirono la strada alla conferma di Napolitano. Il voto segreto ha permesso il gioco dei veti incrociati. In luogo del consenso trasversale che ci si aspettava, i due - Catricalà più di Violante - sono stati attirati nelle sabbie mobili e sono mancati loro parecchi voti rispetto a quelli previsti sulla carta. Soprattutto Catricalà è stato votato troppo poco dal partito di Berlusconi, considerando che il nome antagonista, Donato Bruno, ha raccolto 120 suffragi. Al tempo stesso anche un certo numero di membri del Consiglio Superiore della Magistratura ha fallito l'elezione, anche in questo caso per la mancata convergenza sinistra-destra.
Ci sono due spiegazioni per l'"impasse". La prima è che i gruppi parlamentari siano sempre meno propensi a seguire le indicazioni dall'alto. In tal caso il percorso di Renzi rischia di farsi impervio, visto che il premier ha sottolineato proprio ieri l'urgenza della riforma elettorale anche rispetto al riordino della pubblica amministrazione. E senza disciplina parlamentare tutto diventa più difficile.
La seconda ipotesi è che qualcuno nei palazzi che contano non voglia realmente sostenere i due candidati in campo. In tal caso i franchi tiratori non sarebbero figli del disordine, bensì comprimari di uno psicodramma che si avvale di una regìa. Lo verificheremo presto. Se Renzi e Berlusconi vogliono davvero vedere alla Consulta Violante e Catricalà, hanno il week-end per definire una strategia coesa e vincente. Altrimenti dovranno individuare due figure più gradite, ma il problema di far loro ottenere i voti rimarrà tale e quale.
Corriere 12.9.14
Dietro il nulla di fatto la profonda sofferenza dei partiti maggiori
di Massimo Franco
Il nulla di fatto del Parlamento sull’elezione di due giudici della Corte costituzionale e cinque del Csm è un brutto segnale per la funzionalità di questi due organi. Ma soprattutto è l’ennesimo altolà a palazzo Chigi. Il rinvio della votazione, che sarà la decima, a lunedì, fotografa due Camere incapaci di trovare un qualsiasi accordo. E non tanto perché Matteo Renzi e Silvio Berlusconi non siano d’accordo. Il problema è che i loro candidati non riescono a raggiungere i due terzi dei voti. È come se il «patto del Nazareno» del gennaio scorso, ben oliato su alcune riforme istituzionali, si fosse inceppato di colpo. Ma lo scontro che si intravede non sembra riguardare i due schieramenti di cui sono leader.
Si sta consumando invece all’interno del Pd e di Fi: è lì che le leadership del premier e dell’ex premier debbono fare i conti con una fronda consistente e, finora, irriducibile. Segno di due partiti in forte sofferenza. Quello del presidente del Consiglio, per la coda avvelenata delle vicende dell’Emilia-Romagna, dove le inchieste non hanno rivelato tanto un Pd corrotto, quanto diviso da diatribe feroci. E FI, lacerata dall’indebolimento di Berlusconi e insofferente per il patto tra Renzi e Denis Verdini, che si scarica appena possibile sulle votazioni parlamentari. Il risultato è un limbo decisionale dal quale una maggioranza istituzionale teoricamente «degasperiana» non riesce a uscire; e che preoccupa il Quirinale.
Non basta che i presidenti di Senato e Camera, Pietro Grasso e Laura Boldrini, scrivano allarmati e irritati una nota sull’«urgenza assoluta» di arrivare alle nomine. Nel segreto dell’urna affiorano tutti i non detti di queste ultime settimane, e si scaricano tensioni che non trovano altri sbocchi. Da questo punto di vista, la vicenda dei giudici della Consulta e dei membri del Csm sta diventando la metafora di una fase politica dominata dalla confusione e dai rinvii. Ieri si parlava di affrontare quanto prima la riforma della Pubblica amministrazione, per poi passare alla legge elettorale.
Ma nello spazio di poche ore, la priorità è stata misteriosamente rovesciata. E la questione dei tagli alla spesa pubblica sta diventando una sorta di commedia, con palazzo Chigi che chiede ai ministri il «fai da te»; e reazioni dei destinatari che sono guanti di sfida al governo. Di fronte all’annuncio di una riduzione di quelle per la sanità, il presidente della Conferenza delle Regioni, Sergio Chiamparino, che pure è del Pd e renziano, evoca «un patto d’onore siglato ad agosto»; e avverte Renzi che «se si rompe viene meno il rapporto di fiducia e di collaborazione». Se a tutto questo si aggiungono le analisi crude sulla situazione economica arrivate dal governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, e l’invito della Bce all’Italia a consolidare i suoi conti, l’orizzonte diventa imperscrutabile.
Le opposizioni già parlano di quella manovra correttiva bis sempre negata da palazzo Chigi. Se anche non ci si arriverà, è tuttavia evidente un commissariamento di fatto da parte delle istituzioni finanziarie europee, col quale Renzi deve fare i conti. Tra l’altro, la stessa retorica sul successo ottenuto nella Commissione Ue con la nomina di Federica Mogherini a «ministro degli esteri», sta lasciando spazio ad un’analisi più fredda; e meno entusiasmante per il governo, perché sta emergendo il primato dei «rigoristi» nordeuropei contro i teorici della «flessibilità» italiani e francesi. Insomma, quando martedì Renzi si presenterà in Parlamento, avrà sullo sfondo una mole di problemi che forse non poteva prevedere, ma che ora lo accerchiano. La pressione affinché le Camere non esprimano un voto finale è comprensibile: il governo potrebbe riemergere indebolito anche numericamente.
il Fatto 12.9.14
Csm
I togati: “Legnini vicepresidente? Presenti il curriculum e vedremo”
di Antonella Mascali
Nessuno vuole esporsi in prima persona perché ancora non è avvenuto l’insediamento del nuovo Consiglio, ma tra gli eletti a luglio come membri togati di Palazzo dei Marescialli registriamo il disagio per quanto sta accadendo in Parlamento, per le scelte sui nomi dei membri laici. Troppo politici e pure “incompetenti” in materia di giustizia, dicono alcuni che sentiamo dietro garanzia di anonimato. C’è chi sostiene addirittura che si tradisce “lo spirito della Costituzione”.
C’È CHI ci riferisce che alcuni togati hanno intenzione di introdurre una novità per provare a evitare un vicepresidente paracadutato dai banchi del governo: vogliono chiedere curricula e programmi da illustrare in plenum. Uno dei neo consiglieri con i quali abbiamo parlato non manda proprio giù quanto sta avvenendo in Parlamento. È convinto che “non è costituzionale eleggere esponenti direttamente in politica, perché la nostra Carta parla di professori e avvocati che devono dare un contributo tecnico. Invece, è stato eletto un sottosegretario di governo e con un passato lontano e recente tutto politico (Giovanni Legnini, sottosegretario all’Economia, del Partito democratico, bersaniano, ndr) un sindaco (Giuseppe Fanfani, primo cittadino di Arezzo del Pd, renziano, ndr) e un altro esponente di partito (Antonio Leone di Ncd, ndr). E anche gli altri candidati che dovrebbero essere eletti, tranne qualche eccezione, sono tutti esponenti politici. Non ne faccio una questione di questo o quel partito – prosegue il consigliere –, ma temo un tentativo di controllo politico del Consiglio. A ogni modo – conclude – ho sentito altri colleghi togati e vogliamo chiedere a chi vuole fare il vicepresidente del Csm di presentare curriculum e programma. Non vogliamo accordi sottobanco”.
ANCHE un altro consigliere assicura che “nessuno può impormi qualcuno, ma non ho pregiudizi. Al di là dei nomi, mi interessa conoscere il punto di vista sugli affari di giustizia”. Quanto alla riforma del governo, il consigliere sembra credere che ci sia spazio per ottenere dei risultati ma a patto che “dia una iniezione di fiducia ai magistrati, che non sia una riforma della Giustizia che li cacci in un angolo. Contemporaneamente, però, la magistratura deve cavalcare il cambiamento, farsi interprete di quanto non ha funzionato e modificarlo anche dall’interno”.
Sempre con riferimento all’elezione dei membri laici del Csm, un altro neo consigliere togato pensa che “per la prima volta nella rosa dei nomi manchino, al di là delle opinioni condivisibili o meno, al di là dello schieramento, personalità autorevoli in materia di Giustizia, competenti. Non sappiamo nulla di cosa pensino dei temi che ci riguardano”. Quanto alla riforma della Giustizia “condivido le critiche dell’Anm”. E quel ‘brr che paura, abbiamo i magistrati contro’ pronunciato dal premier Matteo Renzi in tv, alla trasmissione di Bruno Vespa? “Sono rimasto basito”.
Pd, “nomi inadeguati” e torna la voglia dei 101
Lontani i tempi di Onida, Zagrebelsky e Bachelet
Nel partito democratico un coro di delusi dalle scelte
“Questi profili sono troppo bassi”
“Non si tratta di correnti organizzate, ma di nomi poco digeribili da tutti. E poi stiamo perdendo tantissimo tempo”
“Come fa il renzismo a portare avanti strategie del genere? Come può indicare certi personaggi predicando il rinnovamento?”
“Renzi rischia di avere la sindrome di Caligola: posso nominare senatore il mio cavallo”
di Wanda Marra
Sono profili troppo politici, troppo poco di garanzia, per quelli che dovrebbero essere organi superiori come il Consiglio superiore della magistratura e la Consulta. Come fa il renzismo a portare avanti delle scelte del genere? Come fa a proporre Catricalà, proclamando la lotta alla burocrazia e Legnini, predicando il rinnovamento?”. Parlava così Walter Tocci, senatore dissidente Dem nella riunione dei gruppi del Pd l’altroieri. Non a caso Roberto Speranza profetizzava franchi tiratori. I fatti sono che tra ieri e l’altroieri poco s’è fatto. Eletti solo per il Csm lo stesso Giovanni Legnini, frutto di un accordo di ferro tra renziani e bersaniani e Giuseppe Fanfani l’altroieri, solo Antonio Leone, il candidato di Ncd ieri. In effetti il malumore per il tipo di profili prescelti serpeggia tra le fila dei democratici. Persino “per una fase politica caratterizzata da scelte del genere, dove più che le garanzie tecniche contano gli accordi politici, data la frammentazione del quadro”, per dirla con un senatore, le figure indicate sono dure da mandare giù. E hanno poco a che fare con la competenza. Legnini fino all’altroieri faceva il sottosegretario all’Economia. Violante, proposto per la Consulta, ha una lunga carriera tutta politica, poco nella giurisprudenza. Tra i molteplici incarichi di Antonio Catricalà si ricorda soprattutto quello di presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Poi ci sono i casi eclatanti. Come quello di Teresa Bene. La candidata del Pd voluta dal ministro Andrea Orlando non avrebbe i requisiti: professore associato di diritto processuale a Napoli, è iscritta all’albo forense, ma pare non abbia mai esercitato. E questo la metterebbe fuori gioco. In ambienti renziani a questo punto si pensa già alla sostituzione. Ma è tutta la rosa che traballa. A partire, appunto da Catricalà e Violante: ieri, per evitare il rischio concreto di bruciarli, non si è votato anche nel pomeriggio dopo lo stallo della mattina. Davvero arrivano a lunedì? E le altre figure per il Csm sono tutt’altro che brillanti: l’ex ministro della Salute di Scelta Civica, Renato Balduzzi, i due super berlusconiani come Elisabetta Casellati e Luigi Vitali, relatore della ex Cirielli: processo in corso per abuso d’ufficio a Francavilla Fontana (ma il pm ha chiesto l’archiviazione). Basta scorrere le liste degli antichi membri laici del Csm per vedere la differenza. Al di là dell’appartenenza e delle convinzioni politiche, la statura era decisamente più alta. Tra i membri laici più stimati, Virginio Rognoni (che fu prima ministro dell’Interno, ma anche della Giustizia), molto stimato, Vittorio Bachelet, che fu ucciso dalle Br. Alla Consulta, poi, si sono succedute figure come Guido Neppi Modena, Valerio Onida, Giuliano Vassalli, Gustavo Zagrebelsky. Tra i membri attuali ci sono Cassese e Tesauro. Costituzionalisti, giuristi riconosciuti.
PERSINO in tempi come questi, quando tutto sembra poter passare, i nomi sembrano in bilico. Per Violante, Renzi ha ricevuto richieste da molti, anche da Giorgio Napolitano, ma alla fine potrebbe mollarlo. Lo stesso Colle pare non sia proprio entusiasta di come stanno andando le cose: aveva spinto per una soluzione rapida. Ecco ancora le parole di Tocci al gruppo dell’altro giorno: “Renzi ha fatto un governo con la metà dei ministri rigorosamente donna, ha insistito per la Mogherini a Mrs Pesc. E su nove nomi di donna tra quelli proposti per Csm e Consulta ce n’è una sola”. Il malumore è diffuso, il voto segreto, da questo punto di vista, è uno sfogo perfetto. Il paragone con i 101 che affossarono Romano Prodi torna nelle chiacchiere a Montecitorio. Ieri del Pd erano assenti al voto una trentina tra deputati e senatori, in ben 130 per Forza Italia: i voti per Violante sono stati 468, ne servivano 570. Fronde incrociate che evidentemente alla fine raggiungono il risultato comune.
Denuncia Pippo Civati: “Non si tratta di correnti organizzate, ma di nomi effettivamente poco digeribili da tutti. E poi, stiamo perdendo tantissimo tempo”. Se c’è chi guarda alla “base” renziana, in molti indicano viceversa l’area più centrista, quella più cattolica, che uno come Violante non lo può accettare per definizione. Ma più che caos organizzato, è caos. “Chi si vanta di essere bravo quando le cose vanno bene, chi si arroga il merito di aver portato il partito al 40,8%, poi quando le cose vanno male vuol dire che la colpa è sua”, dice un vecchio lupo da Transatlantico (democratico anche lui). Lorenzo Guerini, vice segretario Pd, si affanna al telefono. Gli chiedono dell’Emilia. “Le primarie non sono sconvocate” e degli sviluppi della votazione in corso sugli organi di garanzia: “Non è stata sconvocata”, scherza. E non risponde. Guai in vista. Un renziano critico commenta così la situazione: “Renzi rischia di avere la sindrome di Caligola: posso nominare senatore il mio cavallo”.
La Stampa 12.9.14
Fumata nera per la Consulta. Vacilla l’asse del Nazareno
Franchi tiratori in azione: non passano Catricalà e Violante
Berlusconi: che figuraccia. Lunedì nuovo voto a scrutinio segreto
di Ugo Magri
«Abbiamo fatto una bella figura di m...», si sfoga amaro Berlusconi con tutti quanti gli vengono a tiro. Il suo candidato per la Consulta, Antonio Catricalà, è stato spazzato via dal voto di ieri. E pure quello di Renzi, cioè l’ex presidente della Camera Luciano Violante, non ha fatto una gran riuscita. Con una differenza, però: lunedì prossimo, quando il Parlamento in seduta comune tornerà a riunirsi per il decimo tentativo di colmare le caselle vuote della Corte, il Pd insisterà tenacemente su Violante nella speranza stavolta di fare centro (mancano 103 voti alla soglia dei 3/5 prescritti dalla Costituzione, impresa ardua ma ancora possibile). Forza Italia viceversa sarà obbligata a cambiare cavallo. Berlusconi ha preso atto, con disappunto, che Catricalà non ce la potrà fare: ha raccolto 368 voti invece dei 570 richiesti. Largo dunque a Donato Bruno, il campione dei «peones» in rivolta, che nessuno ha candidato eppure sul suo nome si sono sommati spontaneamente 120 suffragi. Un’assemblea dei gruppi parlamentari forzisti si terrà lunedì mattina per adottarlo ufficialmente. A quel punto, si scommette, la fronda «azzurra» sarà placata. E a fronte del sacrificio umano compiuto in suo onore (Catricalà) forse rispetterà le intese intercorse col Pd, che prevedono un via libera a Violante...
Nell’altra partita di nomine, quelle per i membri «laici» del Csm, si registra un faticoso passettino avanti: dopo Giovanni Legnini e Giuseppe Fanfani, promossi dal Parlamento mercoledì, ha superato l’asticella anche Antonio Leone. Si sussurra che ce l’abbia fatta grazie a un’intesa sotterranea tra il suo partito (Ncd) e i rivoltosi di Forza Italia. Questi ultimi hanno virato su Leone e a loro volta gli alfaniani, per sdebitarsi, hanno mollato platealmente Catricalà unendosi ai sostenitori di Bruno. Così va il mondo. Tra color che son sospesi rimangono altri 5 candidati per l’organo di autogoverno della magistratura. Quattro sono abbastanza vicini al quorum (Casellati, Bene, Vitali e Balduzzi), uno arranca parecchio distanziato (Colaianni). Pure a loro verrà concessa una nuova chance lunedì. Per non perdere altro tempo, la conferenza dei capigruppo ha anticipato di un giorno il rientro dal fine settimana. Dopo i tagli all’indennità, quella al meritato riposo è la più grave minaccia che pende sui nostri eroi. D’altra parte, osserva il presidente del Senato Grasso, «Consulta e Csm non possono attendere che i gruppi trovino l’accordo».
Ma l’importanza degli eventi di ieri supera di gran lunga questi risvolti. La vera novità è che un certo verticismo, connaturato ai patti del Nazareno, ha subito un colpo assai duro. Per la prima volta si è toccato con mano che le decisioni concordate lungo l’asse Verdini-Lotti (terminali rispettivamente di Berlusconi e di Renzi) non hanno la forza né l’autorevolezza per imporsi contro una base parlamentare in crisi di identità, il fantomatico Ptm (partito trasversale del maldipancia). Se l’elezione dei giudici costituzionali fosse davvero, come in molti sostengono, la prova generale della prossima corsa al Colle, cioè l’esperimento in vitro di quanto potrebbe reggere un’intesa a due tra Matteo e Silvio, beh, l’esito di ieri non è certo un trionfo. Nelle file Pd sono spuntate frotte di franchi tiratori. Ma il vero anello debole si è dimostrata Forza Italia, dove l’insofferenza per tutto quanto viene calato dall’alto supera i livelli di guardia. Finché si procede a voto palese, la disciplina regge; ma quando nessuno li vede, i deputati berlusconiani si rivoltano contro chi li tratta come un «parco buoi». Dicono che Berlusconi l’abbia capito, e stia ragionando su qualche aggiustamento di rotta.
Repubblica 12.9.14
La fronda Pd-Fi ferma Violante e Catricalà
di L. Mi.
ROMA . Né Violante, né Catricalà, né 5 degli 8 componenti del Csm. Solo uno, Antonio Leone. Alla Camera è una Caporetto. Vince il partito del trolley. Se ne vanno tutti a casa, per i futuri giudici della Consulta e per i laici del Csm se ne riparla lunedì. Ma “radio Transatlantico” già parla di mercoledì. L’ha chiesto Romani contro Brunetta. S’infuriano i presidenti di Camera e Senato, Boldrini e Grasso. «Il voto è un’urgenza assoluta» dicono. E Grasso, da Oslo, tuona: «Non è possibile che per le nomine ogni volta il Paese si debba bloccare in attesa che i gruppi trovino l’accordo prima al loro interno e poi tra di loro. Consulta e Csm devono funzionare subito, l’Italia ha troppe urgenze da affrontare e non si può perdere altro tempo».
Ma Fi fa saltare il tavolo. Non arrivano al quorum di 570 voti né Violante (468 voti, 39 in più di mercoledì), né Catricalà (da 64 a 368). In compenso Donato Bruno ne piglia 120. Raccontano di un Berlusconi infuriato perché i suoi 104 parlamentari non ubbidiscono su Catricalà, ma molte voci dall’interno parlano di uno studiato lavoro ai fianchi per far saltare Violante, mai digerito appieno dall’ex premier. «Gli mancano 200 voti, ed è tutta colpa del Pd» dicono i forzisti. Che già fanno altre ipotesi, come il costituzionalista Barbera. E accreditano la tesi che a non volere Violante sarebbe proprio Renzi, il quale starebbe assistendo in silenzio al progressivo logoramento dell’ex presidente della Camera. Dove più d’uno dà sia Catricalà che Violante sul punto di dare forfait. A quel punto per Fi entrerebbe in pista Bruno o un outsider come l’ex Csm Zanon che se la vedrebbe con Barbera. Nel Pd i vertici fanno quadrato su Violante, dicono che «stratiene e guadagna voti». Un fatto è certo, Catricalà invece è divisivo. Basti pensare che un politico attento come il vice ministro della Giustizia Enrico Costa, di prima mattina dice: «Io Catricalà non lo voterò mai».
Non è meno complicato il nodo del Csm, dove finora sono stati eletti i Pd Legnini e Fanfani e l’Ncd Leone.
Col quorum a 489 si fermano i forzisti Castellati (473) e Vitali (451), Balduzzi di Sc (462), Zaccaria di M5S (127), la Bene (480). Proprio su di lei si gioca una possibile novità. La voce che non abbia i titoli per entrare non è vera, perché è sì un professore associato e non ordinario, ma ha 15 anni di avvocatura alle spalle. Il problema è che nel Pd comincia a serpeggiare il dubbio che le toghe possano non votare Legnini, per cui circola il nome della deputata dem Anna Rossomando. Quanto ai togati del Csm le condizioni sono nette: «Chiederemo ai laici precise garanzie sulla difesa dei magistrati dagli attacchi della politica, sulla gestione collegiale e non concentrata, com’è avviene adesso, nelle mani del comitato di presidenza, sulla comunicazione all’esterno che non può essere appannaggio del solo vice presidente com’è stato con Vietti». Un clima che non lascia presagire nulla di buono. I togati sono 16, i laici 8, più i due giudici della Cassazione. Le toghe hanno la golden share sul vice di Napolitano.
Il Sole 12.9.14
Il ritorno dei veti incrociati sulla Consulta e il patto Renzi-Berlusconi
di Stefano Folli
Dopo il nuovo rinvio si avvicina l'ora decisiva per capire se l'accordo esiste e quanto tiene
Luciano Violante e Antonio Catricalà sono due figure in grado di ricoprire degnamente l'incarico di giudice della Consulta. Il fatto che siano al centro di polemiche non sorprende: è quello che accade di solito quando a eleggere i giudici è il Parlamento. Semmai, dopo l'ennesima votazione a vuoto a circa tre mesi dalla prima, il punto è un altro: quanto vale - viene da domandarsi - la famosa intesa fra Renzi e Berlusconi?
Non c'è dubbio che il governo si sia retto finora, specie per quanto riguarda le riforme istituzionali e la legge elettorale, su una sorta di grande coalizione sottintesa e non dichiarata: un patto a due che circoscrive e annacqua la maggioranza più ristretta Pd-Ncd da cui deriva la fiducia a Renzi. Secondo una certa "vulgata", sostenuta in particolare dai Cinque Stelle, l'accordo sarebbe ferreo, quasi una camicia di forza imposta alla legislatura. Se è così, sarebbe necessario avere qualche prova più convincente.
È strano, ad esempio, che l'intesa Palazzo Chigi-Palazzo Grazioli non riesca nemmeno a produrre due giudici della Consulta. Quando peraltro entrambi i candidati, Violante e Catricalà, rappresentano la linea del confronto politico aperto, privo di pregiudizi; e in una certa misura interpretano meglio di altri il clima parlamentare figlio della semi-maggioranza allargata di cui parliamo. In apparenza altri candidati sarebbero più «divisivi» e identitari, meno adatti a raccogliere il largo consenso necessario nelle Camere riunite.
Tuttavia lo stile e il profilo dei due non è bastato. È servito solo ad attirare gli attacchi dell'opposizione "grillina" e a richiamare dal letargo i franchi tiratori, di cui non si sentiva parlare dalle giornate che nella primavera del 2013 affossarono i candidati alla Quirinale - Prodi fra tutti - e aprirono la strada alla conferma di Napolitano. Il voto segreto ha permesso il gioco dei veti incrociati. In luogo del consenso trasversale che ci si aspettava, i due - Catricalà più di Violante - sono stati attirati nelle sabbie mobili e sono mancati loro parecchi voti rispetto a quelli previsti sulla carta. Soprattutto Catricalà è stato votato troppo poco dal partito di Berlusconi, considerando che il nome antagonista, Donato Bruno, ha raccolto 120 suffragi. Al tempo stesso anche un certo numero di membri del Consiglio Superiore della Magistratura ha fallito l'elezione, anche in questo caso per la mancata convergenza sinistra-destra.
Ci sono due spiegazioni per l'"impasse". La prima è che i gruppi parlamentari siano sempre meno propensi a seguire le indicazioni dall'alto. In tal caso il percorso di Renzi rischia di farsi impervio, visto che il premier ha sottolineato proprio ieri l'urgenza della riforma elettorale anche rispetto al riordino della pubblica amministrazione. E senza disciplina parlamentare tutto diventa più difficile.
La seconda ipotesi è che qualcuno nei palazzi che contano non voglia realmente sostenere i due candidati in campo. In tal caso i franchi tiratori non sarebbero figli del disordine, bensì comprimari di uno psicodramma che si avvale di una regìa. Lo verificheremo presto. Se Renzi e Berlusconi vogliono davvero vedere alla Consulta Violante e Catricalà, hanno il week-end per definire una strategia coesa e vincente. Altrimenti dovranno individuare due figure più gradite, ma il problema di far loro ottenere i voti rimarrà tale e quale.
Corriere 12.9.14
Dietro il nulla di fatto la profonda sofferenza dei partiti maggiori
di Massimo Franco
Il nulla di fatto del Parlamento sull’elezione di due giudici della Corte costituzionale e cinque del Csm è un brutto segnale per la funzionalità di questi due organi. Ma soprattutto è l’ennesimo altolà a palazzo Chigi. Il rinvio della votazione, che sarà la decima, a lunedì, fotografa due Camere incapaci di trovare un qualsiasi accordo. E non tanto perché Matteo Renzi e Silvio Berlusconi non siano d’accordo. Il problema è che i loro candidati non riescono a raggiungere i due terzi dei voti. È come se il «patto del Nazareno» del gennaio scorso, ben oliato su alcune riforme istituzionali, si fosse inceppato di colpo. Ma lo scontro che si intravede non sembra riguardare i due schieramenti di cui sono leader.
Si sta consumando invece all’interno del Pd e di Fi: è lì che le leadership del premier e dell’ex premier debbono fare i conti con una fronda consistente e, finora, irriducibile. Segno di due partiti in forte sofferenza. Quello del presidente del Consiglio, per la coda avvelenata delle vicende dell’Emilia-Romagna, dove le inchieste non hanno rivelato tanto un Pd corrotto, quanto diviso da diatribe feroci. E FI, lacerata dall’indebolimento di Berlusconi e insofferente per il patto tra Renzi e Denis Verdini, che si scarica appena possibile sulle votazioni parlamentari. Il risultato è un limbo decisionale dal quale una maggioranza istituzionale teoricamente «degasperiana» non riesce a uscire; e che preoccupa il Quirinale.
Non basta che i presidenti di Senato e Camera, Pietro Grasso e Laura Boldrini, scrivano allarmati e irritati una nota sull’«urgenza assoluta» di arrivare alle nomine. Nel segreto dell’urna affiorano tutti i non detti di queste ultime settimane, e si scaricano tensioni che non trovano altri sbocchi. Da questo punto di vista, la vicenda dei giudici della Consulta e dei membri del Csm sta diventando la metafora di una fase politica dominata dalla confusione e dai rinvii. Ieri si parlava di affrontare quanto prima la riforma della Pubblica amministrazione, per poi passare alla legge elettorale.
Ma nello spazio di poche ore, la priorità è stata misteriosamente rovesciata. E la questione dei tagli alla spesa pubblica sta diventando una sorta di commedia, con palazzo Chigi che chiede ai ministri il «fai da te»; e reazioni dei destinatari che sono guanti di sfida al governo. Di fronte all’annuncio di una riduzione di quelle per la sanità, il presidente della Conferenza delle Regioni, Sergio Chiamparino, che pure è del Pd e renziano, evoca «un patto d’onore siglato ad agosto»; e avverte Renzi che «se si rompe viene meno il rapporto di fiducia e di collaborazione». Se a tutto questo si aggiungono le analisi crude sulla situazione economica arrivate dal governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, e l’invito della Bce all’Italia a consolidare i suoi conti, l’orizzonte diventa imperscrutabile.
Le opposizioni già parlano di quella manovra correttiva bis sempre negata da palazzo Chigi. Se anche non ci si arriverà, è tuttavia evidente un commissariamento di fatto da parte delle istituzioni finanziarie europee, col quale Renzi deve fare i conti. Tra l’altro, la stessa retorica sul successo ottenuto nella Commissione Ue con la nomina di Federica Mogherini a «ministro degli esteri», sta lasciando spazio ad un’analisi più fredda; e meno entusiasmante per il governo, perché sta emergendo il primato dei «rigoristi» nordeuropei contro i teorici della «flessibilità» italiani e francesi. Insomma, quando martedì Renzi si presenterà in Parlamento, avrà sullo sfondo una mole di problemi che forse non poteva prevedere, ma che ora lo accerchiano. La pressione affinché le Camere non esprimano un voto finale è comprensibile: il governo potrebbe riemergere indebolito anche numericamente.
il Fatto 12.9.14
Csm
I togati: “Legnini vicepresidente? Presenti il curriculum e vedremo”
di Antonella Mascali
Nessuno vuole esporsi in prima persona perché ancora non è avvenuto l’insediamento del nuovo Consiglio, ma tra gli eletti a luglio come membri togati di Palazzo dei Marescialli registriamo il disagio per quanto sta accadendo in Parlamento, per le scelte sui nomi dei membri laici. Troppo politici e pure “incompetenti” in materia di giustizia, dicono alcuni che sentiamo dietro garanzia di anonimato. C’è chi sostiene addirittura che si tradisce “lo spirito della Costituzione”.
C’È CHI ci riferisce che alcuni togati hanno intenzione di introdurre una novità per provare a evitare un vicepresidente paracadutato dai banchi del governo: vogliono chiedere curricula e programmi da illustrare in plenum. Uno dei neo consiglieri con i quali abbiamo parlato non manda proprio giù quanto sta avvenendo in Parlamento. È convinto che “non è costituzionale eleggere esponenti direttamente in politica, perché la nostra Carta parla di professori e avvocati che devono dare un contributo tecnico. Invece, è stato eletto un sottosegretario di governo e con un passato lontano e recente tutto politico (Giovanni Legnini, sottosegretario all’Economia, del Partito democratico, bersaniano, ndr) un sindaco (Giuseppe Fanfani, primo cittadino di Arezzo del Pd, renziano, ndr) e un altro esponente di partito (Antonio Leone di Ncd, ndr). E anche gli altri candidati che dovrebbero essere eletti, tranne qualche eccezione, sono tutti esponenti politici. Non ne faccio una questione di questo o quel partito – prosegue il consigliere –, ma temo un tentativo di controllo politico del Consiglio. A ogni modo – conclude – ho sentito altri colleghi togati e vogliamo chiedere a chi vuole fare il vicepresidente del Csm di presentare curriculum e programma. Non vogliamo accordi sottobanco”.
ANCHE un altro consigliere assicura che “nessuno può impormi qualcuno, ma non ho pregiudizi. Al di là dei nomi, mi interessa conoscere il punto di vista sugli affari di giustizia”. Quanto alla riforma del governo, il consigliere sembra credere che ci sia spazio per ottenere dei risultati ma a patto che “dia una iniezione di fiducia ai magistrati, che non sia una riforma della Giustizia che li cacci in un angolo. Contemporaneamente, però, la magistratura deve cavalcare il cambiamento, farsi interprete di quanto non ha funzionato e modificarlo anche dall’interno”.
Sempre con riferimento all’elezione dei membri laici del Csm, un altro neo consigliere togato pensa che “per la prima volta nella rosa dei nomi manchino, al di là delle opinioni condivisibili o meno, al di là dello schieramento, personalità autorevoli in materia di Giustizia, competenti. Non sappiamo nulla di cosa pensino dei temi che ci riguardano”. Quanto alla riforma della Giustizia “condivido le critiche dell’Anm”. E quel ‘brr che paura, abbiamo i magistrati contro’ pronunciato dal premier Matteo Renzi in tv, alla trasmissione di Bruno Vespa? “Sono rimasto basito”.
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Re: Il "nuovo" governo Renzi
Renzi contro tutti - 1
La Stampa 12.9.14
Si apre con la rivolta dei governatori
il difficile autunno del governo Renzi
di Marcello Sorgi
La rivolta dei governatori capeggiata da Sergio Chiamparino, politicamente da sempre tra i più vicini a Renzi sul piano nazionale, segna il fischio di inizio di una partita assai complicata per il governo: i venti miliardi di tagli alla spesa pubblica che servono per riequilibrare i conti e varare la legge di stabilità che dovrebbe consentire all’Italia di restare entro gli stretti limiti imposti dalle autorità europee. Mentre con Chiamparino, che rivendica l’accordo fatto a giugno con il governo per il 2015 e il 2016, che verrebbe rimesso in discussione, si schieravano uno dopo l’altro i governatori della Lombardia Maroni, del Veneto Zaia, della Campania Caldoro e della Puglia Vendola, è stato il bollettino della Bce presieduta da Draghi a ricordare al governo che se non interverrà presto con una manovra correttiva, l’Italia rischia di discostarsi dalle previsioni che le imponevano di mantenere il rapporto tra deficit e pil al 2,6 per cento, e di avvicinarsi pericolosamente all’insuperabile 3 per cento.
Se ne ricava che l’autunno delle leggi di bilancio, solitamente la stagione più difficile in Parlamento, rischia di appesantirsi ulteriormente, in un periodo, tra l’altro, in cui Renzi punta a far approvare dalle Camere le riforme più urgenti, in base alle quali conta di poter ottenere una maggiore flessibilità a Bruxelles. A parte la legge di stabilità, l’agenda di Renzi prevede che deputati e senatori riprendano a lavorare sulla legge elettorale, sulla riforma della Pubblica amministrazione e sul Jobs Act, la riforma più attesa dalla Ue. Approvarle tutte entro fine anno sarebbe indispensabile, ma è praticamente impossibile, anche con la miglior buona volontà dei parlamentari e nell’improbabile assenza di divisioni politiche come quelle che già si stanno manifestando.
Renzi ha reagito alle proteste dei governatori negando di voler procedere a tagli della Sanità e spiegando che si vuol soltanto ottenere una maggiore efficienza della spesa sanitaria, che sfiora i cento miliardi l’anno, e potrebbe validamente contribuire alla manovra che la legge di stabilità dovrà necessariamente contenere. Ai tagli sanitari, entro stasera, dato che Renzi ha fretta e ha dato un termine ultimativo ai membri del governo, dovrebbero aggiungersi tagli del 3 per cento ai bilanci dei ministeri. Si prepara un week-end molto caldo, e non certo per il ritorno d’estate previsto dal meteo.
Repubblica 12.9.14
“I livelli di assistenza sono a rischio saranno toccati i diritti dei cittadini”
di Mauro Favale
ROMA . «La minaccia di tagli alla sanità non c’entra nulla con la lotta agli sprechi, sarebbe una sciagura. Forse il governo deve fare cassa per coprire buchi di bilancio. Facendo così, però, colpisce il diritto alla salute». Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio, governa da un anno e mezzo un ente con la sanità in rosso: se va bene, chiuderà il 2014 con un disavanzo di 200 milioni. E almeno per altri 2 anni il Lazio resterà commissariato.
Cosa succede se vi impongono altri risparmi? Chiuderanno gli ospedali?
«In teoria sì. Di sicuro non saremmo in grado di garantire i livelli essenziali di assistenza».
I 3 miliardi di tagli ipotizzati quanto inciderebbero sul Lazio?
«Noi pesiamo poco meno del 10% sul Fondo nazionale della sanità: sarebbero all’incirca 300 milioni in meno».
E quanto ricevete dallo Stato?
«Quest’anno, poco più di 10 miliardi».
Possibile che su una cifra così non sia possibile tagliare?
«Se ci fossero davvero 300 milioni di tagli torneremmo indietro di 4 anni. Un gioco dell’oca, visto che da 8 anni questa Regione è commissariata e all’inizio la “montagna da scalare” del disavanzo era pari a 1 miliardo e 900 milioni. Oggi siamo scesi a 200 milioni».
Ma qualche spreco da eliminare ci sarà pure.
«Certo. È questa la missione che governo e Regioni si sono dati con l’accordo di luglio».
Cosa prevedeva?
«Adozione dei costi standard per le prestazioni sanitarie, accelerazione sulla semplificazione, riorganizzazione della rete delle cure, applicazione dell’agenda digitale».
Voi a che punto siete?
«Siamo sulla strada giusta, lo dicono anche i piani operativi approvati dal ministero: tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016 puntiamo a eliminare del tutto il disavanzo ».
Tagliando?
«Trasformando e innovando, riorganizzando le reti di cura, investendo sulla sanità territoriale, costruendo alternative agli ospedali, sfruttando al massimo la centrale unica degli acquisti. Grazie a questo strumento abbiamo risparmiato 200 milioni».
Toccherete il personale?
«In questi anni, col blocco del turn over, su circa 50.000 dipendenti del settore sanitario ne sono andati in pensione 7.500. Sa quanti ne abbiamo sostituiti? Poco più di 700. La cura dimagrante è stata molto forte e il sistema è già “stressato”».
Se il governo vi chiede di intervenire sulle spese come farete?
«Nell’accordo si parlava di sprechi ed efficieza. Se si taglia il Fondo per la sanità non c’entra nulla, si colpiscono i cittadini ».
Cosa è successo da luglio a oggi?
«Vorrei saperlo anche io. Rompere in maniera unilaterale quel patto sarebbe gravissimo».
Corriere 12.9.14
Lavoro, tagli alla spesa e partito. L’autunno in salita di Renzi
Pronta la squadra di economisti per Palazzo Chigi
di Marco Galluzzo
ROMA — Il primo a dire che non ci sono buone notizie, che il Pil ballerà ancora attorno allo zero per alcuni mesi, che addirittura gli effetti dei tagli in arrivo potrebbero essere depressivi per l’economia è lui stesso, Matteo Renzi, che oggi riceverà dai suoi ministri le ipotesi di risparmio dicastero per dicastero, secondo la soglia del 3% del budget fissata nell’ultima riunione del governo.
Ieri è stato l’ultimo bollettino della Banca centrale europea ad aggiungere un pizzico di pessimismo, avanzando il dubbio sulla capacità dell’Italia di rispettare l’impegno a mantenere entro il 2,6% il rapporto fra deficit e Pil. Renzi ha più volte rassicurato Draghi sul raggiungimento dell’obiettivo del 3%, ma se l’economia non si riprende, come del resto ha rimarcato ieri anche il governatore della Banca d’Italia, se gli investimenti e la domanda aggregata continuano ad essere in tutta Europa «al di sotto delle precedenti esperienze», come dice Visco, allora il rischio che il governo non riesca a centrare gli obiettivi che si è prefissato diventano più reali.
Ai piani alti del governo le difficoltà del momento vengono classificate in quest’ordine, in modo ufficioso: «La cosa più importante è sicuramente il Jobs act, la riforma del lavoro, che al momento appare bloccata in Parlamento. È la patente di guida di Renzi, se riuscirà ad imporla al suo partito, a trovare una sintesi sulla delega che è in discussione, allora dimostrerà ai mercati e a Bruxelles che fa sul serio e che può guidare bene questo Paese».
Ieri sulla riforma Renzi ha fatto il punto fra gli altri con il ministro Giuliano Poletti e Filippo Taddei, responsabile economico del Pd, ma il problema non è solo il merito ma anche il timing: una buona delega sulla riforma del lavoro approvata dal Parlamento prima della legge di Stabilità permetterebbe a Palazzo Chigi di gestire i conti pubblici con meno ansia; sia a Bruxelles che a Francoforte infatti la prima richiesta che è sempre stata fatta a questo governo è di riformare il mercato del lavoro, in cambio potrebbe arrivare quel minimo di flessibilità fiscale che finora le autorità europee ci hanno sempre negato.
Oltre al nodo delle tutele crescenti, di un contratto secondo il modello tedesco che non piace ad una fetta del Pd, Renzi nei prossimi giorni dovrà trovare una sintesi anche sui tagli. Nel governo ammettono che il lavoro di Cottarelli non è stato digerito da tutti, che le riunioni di questi giorni fra il capo del governo e titolari dei diversi ministeri servono proprio a creare una condivisione. E forse, aggiunge una fonte con una punta di malizia, anche a ripetere uno spartito che non è proprio innovativo: «Vedrete che alla fine i tagli maggiori arriveranno dai ministeri, dunque dall’amministrazione centrale e non da quelle periferiche, è più facile».
C’è poi un problema che riguarda qualsiasi provvedimento e ogni materia: l’attuazione. La riforma della Madia, si discute già a Palazzo Chigi, avrà bisogno di essere migliorata e resa più incisiva, ma soprattutto «attuata»; al momento è una delega, contro cui la Pa, è questo un timore diffuso, potrà fare la resistenza che altre volte è stata esercitata contro provvedimenti non graditi.
Insomma di grane, pensieri e difficoltà il presidente del Consiglio non è sprovvisto e forse anche per questo ieri stava lavorando a chiudere quella che può essere considerata come una mini riforma di Palazzo Chigi in stile Downing Street, una maggiore strutturazione della squadra e dei consulenti economici che lavorano per l’esecutivo, un rafforzamento che potrebbe essere annunciato già oggi e che include nomi di economisti, professori, analisti e fra gli altri forse il sostituto di Carlo Cottarelli.
Sul caso Emilia-Romagna finora Renzi non è intervenuto, ma la posizione del partito è chiara: i candidati li scelgono i cittadini e non i giudici; e anche se non si crede alla giustizia ad orologeria, nemmeno — atteggiamento tenuto anche in altre occasioni — si ritiene di non dover attendere la sentenza. In sintesi, si capisce a Palazzo Chigi, la cosa migliore che può fare il Pd è continuare nella scelta delle primarie. Al termine di un incontro con la senatrice Anna Finocchiaro, ieri Renzi ha fatto sapere che non c’è alcuna decelerazione sulla riforma elettorale, sarà discussa in Senato prima di quella che riguarda la Pa. Di pomeriggio c’era stato qualche fraintendimento nella comunicazione: da fonti del partito arrivava un’inversione dell’ordine, poi è stato lo stesso Renzi a chiarire. Prima la legge elettorale.
Corriere 12.9.14
Promesse finite, il tempo scade: ora Renzi è alla Prova Verità
di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi
Matteo Renzi ha avuto una buona intuizione convocando un Consiglio europeo dedicato alla crescita nella prima settimana di ottobre, alla vigilia della presentazione delle leggi di Stabilità da parte dei Paesi della Ue. In questo modo quelle leggi verranno valutate dalla Commissione europea — che deve esprimere un giudizio su ciascuna di esse — alla luce delle indicazioni che emergeranno in quella riunione. Il bollettino mensile della Banca centrale europea (Bce), diffuso ieri, sottolinea che in Italia la mancata crescita potrebbe essere, quest’anno, peggiore del previsto.
Abbiamo più volte suggerito — non solo noi in realtà, ad esempio anche Guido Tabellini su Il Sole 24Ore — che per far riprendere lo sviluppo nei Paesi dell’euro sarebbe necessario un taglio delle imposte coordinato fra tutte le nazioni e finanziato tramite acquisti di titoli di Stato da parte della Bce. Programmi di investimenti pubblici — come i 300 miliardi di spese in infrastrutture proposti dal nuovo presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker — possono aiutare nel medio periodo ma, dati i tempi necessari per avviare questi progetti, servono a poco nell’immediato. Per far ripartire in tempi brevi la domanda c’è un solo modo: ridurre permanentemente la pressione fiscale.
È però difficile che nel Consiglio di ottobre si trovi un accordo per una politica coordinata di riduzione delle imposte. La Bce, dal canto suo, nelle scorse settimane ha fatto tutto ciò che poteva senza violare il suo statuto e senza perdere la fiducia dei Paesi del Nord. Il risultato di quelle misure è stato un significativo deprezzamento dell’euro sul dollaro (da oltre 1,39 in primavera a meno di 1,29 oggi) che aiuterà le esportazioni. È difficile aspettarsi di più dalla politica monetaria. Ora tocca ai governi agire. Con il medesimo senso di urgenza che ha guidato le decisioni della Bce. Ma se non si troverà un accordo per un’azione coordinata, ciascun Paese dovrà agire da solo.
Che cosa può fare il governo italiano per farci uscire da una recessione che sembra non finire mai? Il presidente del Consiglio ha spiegato che le riforme vanno fatte bene, senza fretta. Ha detto che saranno necessari mille giorni per rilanciare l’Italia. Ha ragione, ma solo in parte. È vero che alcune riforme, come quella del sistema fiscale, della giustizia e della pubblica amministrazione, richiedono tempo. Ma su altre scelte che il governo è chiamato a fare, Renzi non ha né mille, né cento giorni: ha tre settimane, da oggi al Consiglio di ottobre. Non ci si può illudere che senza interventi concreti miracolosamente si riavvii la crescita.
Al Consiglio europeo — a maggior ragione avendolo convocato lui — Renzi deve arrivare avendo fatto tre cose. Primo, una riduzione aggressiva delle imposte: da un lato aumentando e rendendo permanenti gli 80 euro di maggio, ed estendendo la platea di cittadini che ne beneficiano; dall’altro, riducendo le tasse sul lavoro. Un complessivo taglio della pressione fiscale pari a circa 30 miliardi. Secondo, tagli di spesa per la medesima cifra, alcuni da attuare contestualmente alla riduzione delle tasse (10 miliardi), il resto nei 2-3 anni a seguire. Nell’arco di un triennio la riduzione del carico fiscale sarà così interamente finanziataRidurre da subito le spese di 10 miliardi non è impossibile: si può iniziare dalle proposte del commissario Carlo Cottarelli. È un piano che porterebbe il nostro deficit oltre la soglia del 3% per un triennio. Non saremmo soli. Francia e Spagna sono già oltre quel limite: sopra il 4 la Francia, 5 la Spagna.
Ma se facessimo solo questo, sfondando il limite del 3% senza fare altro, non solo saremmo soggetti alle sanzioni di Bruxelles, rischieremmo di allarmare i mercati e far ripartire lo spread. È necessario un terzo passo che dimostri come la flessibilità che chiediamo non è un modo, l’ennesimo, per evitare di fare riforme da troppo tempo già rinviate.
Il capitolo da affrontare è il mercato del lavoro, perché è una delle riforme più importanti, ma anche perché è sostanzialmente pronta e serve solo la volontà politica di andare avanti. Il via libera del Parlamento alla legge-delega sul lavoro (verrà votata in commissione al Senato la settimana prossima) deve però accompagnarsi, entro l’inizio di ottobre, al varo di alcuni decreti che, disegnando le nuove norme, in primis quelle che introdurranno il «contratto unico a tutele crescenti», spieghino in che modo il governo intenda attuare la delega.
Una simile strategia — riforme accompagnate da un temporaneo periodo di maggior flessibilità — ha un precedente illustre. Nel 2003, quando era la Germania «il malato d’Europa», il cancelliere tedesco Gerhard Schröder introdusse importanti riforme nel mercato del lavoro (le celebri norme Hartz) e allo stesso tempo chiese di poter superare per qualche anno il limite del 3% nel rapporto deficit-Pil. Fu l’inizio della riscossa tedesca.
Il presidente del Consiglio e il governo devono avere ben chiaro che a preoccupare cittadini, imprese e investitori è oggi soprattutto la mancata crescita, che è il motivo per cui il nostro rapporto debito-Pil continua a salire. Gli operatori internazionali detengono circa un terzo del nostro debito pubblico. Per continuare a farlo si aspettano un segnale forte sullo sviluppo. E loro, come il Paese, se lo aspettano subito.
La Stampa 12.9.14
Si apre con la rivolta dei governatori
il difficile autunno del governo Renzi
di Marcello Sorgi
La rivolta dei governatori capeggiata da Sergio Chiamparino, politicamente da sempre tra i più vicini a Renzi sul piano nazionale, segna il fischio di inizio di una partita assai complicata per il governo: i venti miliardi di tagli alla spesa pubblica che servono per riequilibrare i conti e varare la legge di stabilità che dovrebbe consentire all’Italia di restare entro gli stretti limiti imposti dalle autorità europee. Mentre con Chiamparino, che rivendica l’accordo fatto a giugno con il governo per il 2015 e il 2016, che verrebbe rimesso in discussione, si schieravano uno dopo l’altro i governatori della Lombardia Maroni, del Veneto Zaia, della Campania Caldoro e della Puglia Vendola, è stato il bollettino della Bce presieduta da Draghi a ricordare al governo che se non interverrà presto con una manovra correttiva, l’Italia rischia di discostarsi dalle previsioni che le imponevano di mantenere il rapporto tra deficit e pil al 2,6 per cento, e di avvicinarsi pericolosamente all’insuperabile 3 per cento.
Se ne ricava che l’autunno delle leggi di bilancio, solitamente la stagione più difficile in Parlamento, rischia di appesantirsi ulteriormente, in un periodo, tra l’altro, in cui Renzi punta a far approvare dalle Camere le riforme più urgenti, in base alle quali conta di poter ottenere una maggiore flessibilità a Bruxelles. A parte la legge di stabilità, l’agenda di Renzi prevede che deputati e senatori riprendano a lavorare sulla legge elettorale, sulla riforma della Pubblica amministrazione e sul Jobs Act, la riforma più attesa dalla Ue. Approvarle tutte entro fine anno sarebbe indispensabile, ma è praticamente impossibile, anche con la miglior buona volontà dei parlamentari e nell’improbabile assenza di divisioni politiche come quelle che già si stanno manifestando.
Renzi ha reagito alle proteste dei governatori negando di voler procedere a tagli della Sanità e spiegando che si vuol soltanto ottenere una maggiore efficienza della spesa sanitaria, che sfiora i cento miliardi l’anno, e potrebbe validamente contribuire alla manovra che la legge di stabilità dovrà necessariamente contenere. Ai tagli sanitari, entro stasera, dato che Renzi ha fretta e ha dato un termine ultimativo ai membri del governo, dovrebbero aggiungersi tagli del 3 per cento ai bilanci dei ministeri. Si prepara un week-end molto caldo, e non certo per il ritorno d’estate previsto dal meteo.
Repubblica 12.9.14
“I livelli di assistenza sono a rischio saranno toccati i diritti dei cittadini”
di Mauro Favale
ROMA . «La minaccia di tagli alla sanità non c’entra nulla con la lotta agli sprechi, sarebbe una sciagura. Forse il governo deve fare cassa per coprire buchi di bilancio. Facendo così, però, colpisce il diritto alla salute». Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio, governa da un anno e mezzo un ente con la sanità in rosso: se va bene, chiuderà il 2014 con un disavanzo di 200 milioni. E almeno per altri 2 anni il Lazio resterà commissariato.
Cosa succede se vi impongono altri risparmi? Chiuderanno gli ospedali?
«In teoria sì. Di sicuro non saremmo in grado di garantire i livelli essenziali di assistenza».
I 3 miliardi di tagli ipotizzati quanto inciderebbero sul Lazio?
«Noi pesiamo poco meno del 10% sul Fondo nazionale della sanità: sarebbero all’incirca 300 milioni in meno».
E quanto ricevete dallo Stato?
«Quest’anno, poco più di 10 miliardi».
Possibile che su una cifra così non sia possibile tagliare?
«Se ci fossero davvero 300 milioni di tagli torneremmo indietro di 4 anni. Un gioco dell’oca, visto che da 8 anni questa Regione è commissariata e all’inizio la “montagna da scalare” del disavanzo era pari a 1 miliardo e 900 milioni. Oggi siamo scesi a 200 milioni».
Ma qualche spreco da eliminare ci sarà pure.
«Certo. È questa la missione che governo e Regioni si sono dati con l’accordo di luglio».
Cosa prevedeva?
«Adozione dei costi standard per le prestazioni sanitarie, accelerazione sulla semplificazione, riorganizzazione della rete delle cure, applicazione dell’agenda digitale».
Voi a che punto siete?
«Siamo sulla strada giusta, lo dicono anche i piani operativi approvati dal ministero: tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016 puntiamo a eliminare del tutto il disavanzo ».
Tagliando?
«Trasformando e innovando, riorganizzando le reti di cura, investendo sulla sanità territoriale, costruendo alternative agli ospedali, sfruttando al massimo la centrale unica degli acquisti. Grazie a questo strumento abbiamo risparmiato 200 milioni».
Toccherete il personale?
«In questi anni, col blocco del turn over, su circa 50.000 dipendenti del settore sanitario ne sono andati in pensione 7.500. Sa quanti ne abbiamo sostituiti? Poco più di 700. La cura dimagrante è stata molto forte e il sistema è già “stressato”».
Se il governo vi chiede di intervenire sulle spese come farete?
«Nell’accordo si parlava di sprechi ed efficieza. Se si taglia il Fondo per la sanità non c’entra nulla, si colpiscono i cittadini ».
Cosa è successo da luglio a oggi?
«Vorrei saperlo anche io. Rompere in maniera unilaterale quel patto sarebbe gravissimo».
Corriere 12.9.14
Lavoro, tagli alla spesa e partito. L’autunno in salita di Renzi
Pronta la squadra di economisti per Palazzo Chigi
di Marco Galluzzo
ROMA — Il primo a dire che non ci sono buone notizie, che il Pil ballerà ancora attorno allo zero per alcuni mesi, che addirittura gli effetti dei tagli in arrivo potrebbero essere depressivi per l’economia è lui stesso, Matteo Renzi, che oggi riceverà dai suoi ministri le ipotesi di risparmio dicastero per dicastero, secondo la soglia del 3% del budget fissata nell’ultima riunione del governo.
Ieri è stato l’ultimo bollettino della Banca centrale europea ad aggiungere un pizzico di pessimismo, avanzando il dubbio sulla capacità dell’Italia di rispettare l’impegno a mantenere entro il 2,6% il rapporto fra deficit e Pil. Renzi ha più volte rassicurato Draghi sul raggiungimento dell’obiettivo del 3%, ma se l’economia non si riprende, come del resto ha rimarcato ieri anche il governatore della Banca d’Italia, se gli investimenti e la domanda aggregata continuano ad essere in tutta Europa «al di sotto delle precedenti esperienze», come dice Visco, allora il rischio che il governo non riesca a centrare gli obiettivi che si è prefissato diventano più reali.
Ai piani alti del governo le difficoltà del momento vengono classificate in quest’ordine, in modo ufficioso: «La cosa più importante è sicuramente il Jobs act, la riforma del lavoro, che al momento appare bloccata in Parlamento. È la patente di guida di Renzi, se riuscirà ad imporla al suo partito, a trovare una sintesi sulla delega che è in discussione, allora dimostrerà ai mercati e a Bruxelles che fa sul serio e che può guidare bene questo Paese».
Ieri sulla riforma Renzi ha fatto il punto fra gli altri con il ministro Giuliano Poletti e Filippo Taddei, responsabile economico del Pd, ma il problema non è solo il merito ma anche il timing: una buona delega sulla riforma del lavoro approvata dal Parlamento prima della legge di Stabilità permetterebbe a Palazzo Chigi di gestire i conti pubblici con meno ansia; sia a Bruxelles che a Francoforte infatti la prima richiesta che è sempre stata fatta a questo governo è di riformare il mercato del lavoro, in cambio potrebbe arrivare quel minimo di flessibilità fiscale che finora le autorità europee ci hanno sempre negato.
Oltre al nodo delle tutele crescenti, di un contratto secondo il modello tedesco che non piace ad una fetta del Pd, Renzi nei prossimi giorni dovrà trovare una sintesi anche sui tagli. Nel governo ammettono che il lavoro di Cottarelli non è stato digerito da tutti, che le riunioni di questi giorni fra il capo del governo e titolari dei diversi ministeri servono proprio a creare una condivisione. E forse, aggiunge una fonte con una punta di malizia, anche a ripetere uno spartito che non è proprio innovativo: «Vedrete che alla fine i tagli maggiori arriveranno dai ministeri, dunque dall’amministrazione centrale e non da quelle periferiche, è più facile».
C’è poi un problema che riguarda qualsiasi provvedimento e ogni materia: l’attuazione. La riforma della Madia, si discute già a Palazzo Chigi, avrà bisogno di essere migliorata e resa più incisiva, ma soprattutto «attuata»; al momento è una delega, contro cui la Pa, è questo un timore diffuso, potrà fare la resistenza che altre volte è stata esercitata contro provvedimenti non graditi.
Insomma di grane, pensieri e difficoltà il presidente del Consiglio non è sprovvisto e forse anche per questo ieri stava lavorando a chiudere quella che può essere considerata come una mini riforma di Palazzo Chigi in stile Downing Street, una maggiore strutturazione della squadra e dei consulenti economici che lavorano per l’esecutivo, un rafforzamento che potrebbe essere annunciato già oggi e che include nomi di economisti, professori, analisti e fra gli altri forse il sostituto di Carlo Cottarelli.
Sul caso Emilia-Romagna finora Renzi non è intervenuto, ma la posizione del partito è chiara: i candidati li scelgono i cittadini e non i giudici; e anche se non si crede alla giustizia ad orologeria, nemmeno — atteggiamento tenuto anche in altre occasioni — si ritiene di non dover attendere la sentenza. In sintesi, si capisce a Palazzo Chigi, la cosa migliore che può fare il Pd è continuare nella scelta delle primarie. Al termine di un incontro con la senatrice Anna Finocchiaro, ieri Renzi ha fatto sapere che non c’è alcuna decelerazione sulla riforma elettorale, sarà discussa in Senato prima di quella che riguarda la Pa. Di pomeriggio c’era stato qualche fraintendimento nella comunicazione: da fonti del partito arrivava un’inversione dell’ordine, poi è stato lo stesso Renzi a chiarire. Prima la legge elettorale.
Corriere 12.9.14
Promesse finite, il tempo scade: ora Renzi è alla Prova Verità
di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi
Matteo Renzi ha avuto una buona intuizione convocando un Consiglio europeo dedicato alla crescita nella prima settimana di ottobre, alla vigilia della presentazione delle leggi di Stabilità da parte dei Paesi della Ue. In questo modo quelle leggi verranno valutate dalla Commissione europea — che deve esprimere un giudizio su ciascuna di esse — alla luce delle indicazioni che emergeranno in quella riunione. Il bollettino mensile della Banca centrale europea (Bce), diffuso ieri, sottolinea che in Italia la mancata crescita potrebbe essere, quest’anno, peggiore del previsto.
Abbiamo più volte suggerito — non solo noi in realtà, ad esempio anche Guido Tabellini su Il Sole 24Ore — che per far riprendere lo sviluppo nei Paesi dell’euro sarebbe necessario un taglio delle imposte coordinato fra tutte le nazioni e finanziato tramite acquisti di titoli di Stato da parte della Bce. Programmi di investimenti pubblici — come i 300 miliardi di spese in infrastrutture proposti dal nuovo presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker — possono aiutare nel medio periodo ma, dati i tempi necessari per avviare questi progetti, servono a poco nell’immediato. Per far ripartire in tempi brevi la domanda c’è un solo modo: ridurre permanentemente la pressione fiscale.
È però difficile che nel Consiglio di ottobre si trovi un accordo per una politica coordinata di riduzione delle imposte. La Bce, dal canto suo, nelle scorse settimane ha fatto tutto ciò che poteva senza violare il suo statuto e senza perdere la fiducia dei Paesi del Nord. Il risultato di quelle misure è stato un significativo deprezzamento dell’euro sul dollaro (da oltre 1,39 in primavera a meno di 1,29 oggi) che aiuterà le esportazioni. È difficile aspettarsi di più dalla politica monetaria. Ora tocca ai governi agire. Con il medesimo senso di urgenza che ha guidato le decisioni della Bce. Ma se non si troverà un accordo per un’azione coordinata, ciascun Paese dovrà agire da solo.
Che cosa può fare il governo italiano per farci uscire da una recessione che sembra non finire mai? Il presidente del Consiglio ha spiegato che le riforme vanno fatte bene, senza fretta. Ha detto che saranno necessari mille giorni per rilanciare l’Italia. Ha ragione, ma solo in parte. È vero che alcune riforme, come quella del sistema fiscale, della giustizia e della pubblica amministrazione, richiedono tempo. Ma su altre scelte che il governo è chiamato a fare, Renzi non ha né mille, né cento giorni: ha tre settimane, da oggi al Consiglio di ottobre. Non ci si può illudere che senza interventi concreti miracolosamente si riavvii la crescita.
Al Consiglio europeo — a maggior ragione avendolo convocato lui — Renzi deve arrivare avendo fatto tre cose. Primo, una riduzione aggressiva delle imposte: da un lato aumentando e rendendo permanenti gli 80 euro di maggio, ed estendendo la platea di cittadini che ne beneficiano; dall’altro, riducendo le tasse sul lavoro. Un complessivo taglio della pressione fiscale pari a circa 30 miliardi. Secondo, tagli di spesa per la medesima cifra, alcuni da attuare contestualmente alla riduzione delle tasse (10 miliardi), il resto nei 2-3 anni a seguire. Nell’arco di un triennio la riduzione del carico fiscale sarà così interamente finanziataRidurre da subito le spese di 10 miliardi non è impossibile: si può iniziare dalle proposte del commissario Carlo Cottarelli. È un piano che porterebbe il nostro deficit oltre la soglia del 3% per un triennio. Non saremmo soli. Francia e Spagna sono già oltre quel limite: sopra il 4 la Francia, 5 la Spagna.
Ma se facessimo solo questo, sfondando il limite del 3% senza fare altro, non solo saremmo soggetti alle sanzioni di Bruxelles, rischieremmo di allarmare i mercati e far ripartire lo spread. È necessario un terzo passo che dimostri come la flessibilità che chiediamo non è un modo, l’ennesimo, per evitare di fare riforme da troppo tempo già rinviate.
Il capitolo da affrontare è il mercato del lavoro, perché è una delle riforme più importanti, ma anche perché è sostanzialmente pronta e serve solo la volontà politica di andare avanti. Il via libera del Parlamento alla legge-delega sul lavoro (verrà votata in commissione al Senato la settimana prossima) deve però accompagnarsi, entro l’inizio di ottobre, al varo di alcuni decreti che, disegnando le nuove norme, in primis quelle che introdurranno il «contratto unico a tutele crescenti», spieghino in che modo il governo intenda attuare la delega.
Una simile strategia — riforme accompagnate da un temporaneo periodo di maggior flessibilità — ha un precedente illustre. Nel 2003, quando era la Germania «il malato d’Europa», il cancelliere tedesco Gerhard Schröder introdusse importanti riforme nel mercato del lavoro (le celebri norme Hartz) e allo stesso tempo chiese di poter superare per qualche anno il limite del 3% nel rapporto deficit-Pil. Fu l’inizio della riscossa tedesca.
Il presidente del Consiglio e il governo devono avere ben chiaro che a preoccupare cittadini, imprese e investitori è oggi soprattutto la mancata crescita, che è il motivo per cui il nostro rapporto debito-Pil continua a salire. Gli operatori internazionali detengono circa un terzo del nostro debito pubblico. Per continuare a farlo si aspettano un segnale forte sullo sviluppo. E loro, come il Paese, se lo aspettano subito.
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Re: Il "nuovo" governo Renzi
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Re: Il "nuovo" governo Renzi
12 SET 2014 15:31
‘ANVEDI COME BALLA MATTEUCCIO – DRAGHI GLI PROPOSE DI FAR FARE LE RIFORME ALLA TROIKA E RENZIE DISSE CHE MAI E POI MAI SI SAREBBE FATTO COMMISSARIARE – ADESSO HA PAURA CHE DRAGHI PRENDA IL SUO POSTO
A Città della Pieve Draghi gli fece presente che non sarebbe la prima volta che un paese si fa aiutare dalla Troika per le riforme. Anche dopo i rimbrotti di ieri della Bce, Renzi si è convinto che l’establishment lo sostituirebbe volentieri proprio con Draghi. Preoccupato anche per il solido rapporto Draghi-Napolitano…
1. DAGONEWS
“Se non ce la fai a fare le riforme, puoi sempre farle fare alla Troika. Non sarebbe la prima volta. In Grecia ha funzionato…”. Mario Draghi gliela avrebbe prospettata così, come un’ipotesi tra le tante, quel 12 agosto in cui si sono incontrati a Città della Pieve. Ma Renzie l’ha presa malissimo.
Per lui solo parlare di “Troika” significa fine del suo governo, commissariamento umiliante, politica espropriata e via tragicizzando. Così ha respinto al mittente il gentile (e autorevole) consiglio, impegnandosi a fare le riforme in prima persona.
Adesso deve mettere mano alla riforma del lavoro il prima possibile e tenere d’occhio lo spread con la Spagna, paese che la Bce ci porta a modello. Non ha molto tempo a disposizione e ha pochi spazi per le distrazioni (tipo l’’Italicum), con il retropensiero minaccioso di una Troika “già a Vipiteno”, come direbbe Giulio Tremonti.
2. “ORA RENZI HA PAURA DI SUPER MARIO”
Elisa Calessi per "Libero Quotidiano"
La convinzione è maturata durante l’estate. Tra le pieghe di avvenimenti e conversazioni. Matteo Renzi è persuaso che l’establishment del Paese, i famosi salotti buoni, i grandi gruppi industriali ed editoriali, scommettano in una sua sconfitta per poi proporre come salvatore della patria, l’unico uomo che avrebbe la totale fiducia dell’Unione Europa, dei mercati finanziari e financo del Quirinale, Mario Draghi.
La sostituzione, il premier lo sa, non sarebbe facile. Renzi, al momento, può contare su un sostegno elettorale fortissimo, misurato in quel 40,3% delle Europee, e in sondaggi lusinghieri. Ma se gli indicatori economici dovessero rimanere negativi, se la disoccupazione dovesse restare ai livelli attuali, se il debito continuasse a crescere, se la ripresa non dovesse arrivare, insomma se tutti i tentativi di riforma messi in campo dall’esecutivo non portassero a un miglioramento, è convinto che c’è chi sarebbe pronto a calare la carta Draghi.
Per questo la fotografia immortalata ieri dal bollettino della Bce, vista da Palazzo Chigi, non è un caso. Per questo negli ultimi mesi non si rintracciano dichiarazioni entusiaste di Renzi nei confronti del numero della Bce, nonostante i provvedimenti messi in campo dalla Banca centrale europea. E, bisogna dire, viceversa. Quella di Draghi è diventata, nel cerchio stretto del Rottamatore, una piccola, grande ossessione. «Vogliono farmi fuori e mettere al mio posto Mario Draghi», ha confessato a un amico.
Renzi non è tipo da darla vinta o da scoraggiarsi. E, come ha detto a Porta a Porta qualche giorno fa, non manca di autostima. Quindi è pronto a vender cara la pelle. E a combattere fino all’ultima goccia di sangue per non darla vinta agli ormai noti «gufi» e alle variazioni sul tema: i «professionisti delle tartine», i «tecnici della Prima Repubblica», «quelli che si lamentano».
Si è persuaso, però, che ci sia chi lavora per questa soluzione. Nel caso, ovviamente, che il governo fallisca nei suoi obiettivi, che la situazione economica peggiori, che la luna di miele con il Paese, per ora ancora in corso, finisca. Servono condizioni che, per ora, non ci sono. Ma il tempo in politica è un fattore decisivo. E può ribaltare tutto. Renzi crede che la classe dirigente del Paese non lo abbia digerito e aspetti la prima scivolata per farlo fuori. «Certo con me non sarà facile come con Mario Monti o con Enrico Letta».
Renzi ha dalla sua il consenso. Che non è un’arma da poco. Ma le pressioni dell’establishment si fanno sentire. Un’ostilità che il premier si spiega con le azioni che il suo esecutivo ha messo in campo. Contro le alte burocrazie, i manager, i magistrati. «Me la vogliono far pagare». E Draghi, è il ragionamento, è il jolly. L’uomo ha il sostegno dei poteri che contano, che potrebbe essere speso come quello che aggiusta i danni fatti dal “ragazzotto”. A impensierire Palazzo Chigi si aggiunge il fatto che il numero uno della Bce ha un ottimo rapporto con Giorgio Napolitano. Insomma i moventi, se si dovessero creare le condizioni, ci sono tutti.
‘ANVEDI COME BALLA MATTEUCCIO – DRAGHI GLI PROPOSE DI FAR FARE LE RIFORME ALLA TROIKA E RENZIE DISSE CHE MAI E POI MAI SI SAREBBE FATTO COMMISSARIARE – ADESSO HA PAURA CHE DRAGHI PRENDA IL SUO POSTO
A Città della Pieve Draghi gli fece presente che non sarebbe la prima volta che un paese si fa aiutare dalla Troika per le riforme. Anche dopo i rimbrotti di ieri della Bce, Renzi si è convinto che l’establishment lo sostituirebbe volentieri proprio con Draghi. Preoccupato anche per il solido rapporto Draghi-Napolitano…
1. DAGONEWS
“Se non ce la fai a fare le riforme, puoi sempre farle fare alla Troika. Non sarebbe la prima volta. In Grecia ha funzionato…”. Mario Draghi gliela avrebbe prospettata così, come un’ipotesi tra le tante, quel 12 agosto in cui si sono incontrati a Città della Pieve. Ma Renzie l’ha presa malissimo.
Per lui solo parlare di “Troika” significa fine del suo governo, commissariamento umiliante, politica espropriata e via tragicizzando. Così ha respinto al mittente il gentile (e autorevole) consiglio, impegnandosi a fare le riforme in prima persona.
Adesso deve mettere mano alla riforma del lavoro il prima possibile e tenere d’occhio lo spread con la Spagna, paese che la Bce ci porta a modello. Non ha molto tempo a disposizione e ha pochi spazi per le distrazioni (tipo l’’Italicum), con il retropensiero minaccioso di una Troika “già a Vipiteno”, come direbbe Giulio Tremonti.
2. “ORA RENZI HA PAURA DI SUPER MARIO”
Elisa Calessi per "Libero Quotidiano"
La convinzione è maturata durante l’estate. Tra le pieghe di avvenimenti e conversazioni. Matteo Renzi è persuaso che l’establishment del Paese, i famosi salotti buoni, i grandi gruppi industriali ed editoriali, scommettano in una sua sconfitta per poi proporre come salvatore della patria, l’unico uomo che avrebbe la totale fiducia dell’Unione Europa, dei mercati finanziari e financo del Quirinale, Mario Draghi.
La sostituzione, il premier lo sa, non sarebbe facile. Renzi, al momento, può contare su un sostegno elettorale fortissimo, misurato in quel 40,3% delle Europee, e in sondaggi lusinghieri. Ma se gli indicatori economici dovessero rimanere negativi, se la disoccupazione dovesse restare ai livelli attuali, se il debito continuasse a crescere, se la ripresa non dovesse arrivare, insomma se tutti i tentativi di riforma messi in campo dall’esecutivo non portassero a un miglioramento, è convinto che c’è chi sarebbe pronto a calare la carta Draghi.
Per questo la fotografia immortalata ieri dal bollettino della Bce, vista da Palazzo Chigi, non è un caso. Per questo negli ultimi mesi non si rintracciano dichiarazioni entusiaste di Renzi nei confronti del numero della Bce, nonostante i provvedimenti messi in campo dalla Banca centrale europea. E, bisogna dire, viceversa. Quella di Draghi è diventata, nel cerchio stretto del Rottamatore, una piccola, grande ossessione. «Vogliono farmi fuori e mettere al mio posto Mario Draghi», ha confessato a un amico.
Renzi non è tipo da darla vinta o da scoraggiarsi. E, come ha detto a Porta a Porta qualche giorno fa, non manca di autostima. Quindi è pronto a vender cara la pelle. E a combattere fino all’ultima goccia di sangue per non darla vinta agli ormai noti «gufi» e alle variazioni sul tema: i «professionisti delle tartine», i «tecnici della Prima Repubblica», «quelli che si lamentano».
Si è persuaso, però, che ci sia chi lavora per questa soluzione. Nel caso, ovviamente, che il governo fallisca nei suoi obiettivi, che la situazione economica peggiori, che la luna di miele con il Paese, per ora ancora in corso, finisca. Servono condizioni che, per ora, non ci sono. Ma il tempo in politica è un fattore decisivo. E può ribaltare tutto. Renzi crede che la classe dirigente del Paese non lo abbia digerito e aspetti la prima scivolata per farlo fuori. «Certo con me non sarà facile come con Mario Monti o con Enrico Letta».
Renzi ha dalla sua il consenso. Che non è un’arma da poco. Ma le pressioni dell’establishment si fanno sentire. Un’ostilità che il premier si spiega con le azioni che il suo esecutivo ha messo in campo. Contro le alte burocrazie, i manager, i magistrati. «Me la vogliono far pagare». E Draghi, è il ragionamento, è il jolly. L’uomo ha il sostegno dei poteri che contano, che potrebbe essere speso come quello che aggiusta i danni fatti dal “ragazzotto”. A impensierire Palazzo Chigi si aggiunge il fatto che il numero uno della Bce ha un ottimo rapporto con Giorgio Napolitano. Insomma i moventi, se si dovessero creare le condizioni, ci sono tutti.
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