Renzi
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Re: Renzi
Chil Post, lo Stato paga i debiti ma l’azienda di papà Renzi non aveva i requisiti
Politica & Palazzo
L'azienda non comunicò il trasferimento di sede a Genova per non perdere la copertura di Fidi Toscana
di Davide Vecchi | 10 gennaio 2015 COMMENTI
Tiziano Renzi avrebbe dovuto comunicare il trasferimento della sede della sua azienda, la Chil Post, da Firenze a Genova alla finanziaria Fidi Toscana, come prevede lo statuto del fondo di garanzia da cui ha ricevuto i fondi per coprire parte dei debiti contratti. Il cambio di regione avrebbe ovviamente comportato la decadenza del beneficio. Per carità: si sarà sicuramente trattato di una dimenticanza. Il dato emerge dagli atti custoditi in Regione relativi all’azienda di casa Renzi, poi fallita e per cui il padre del premier è indagato per bancarotta fraudolenta dalla procura ligure. E non è l’unico elemento interessante.
RICOSTRUENDO la vicenda emerge che la Chil è una delle pochissime aziende per cui il ministero dell’Economia ha coperto il fondo di garanzia toscano. Creato nel febbraio 2009 per volere dell’allora governatore Claudio Martini e finalizzato ad aiutare le imprese regionali ad affrontare la crisi economica, il fondo “emergenza economia misura liquidità” in cinque anni ha sottoscritto garanzie per un miliardo e 126 milioni di euro a 5.687 aziende toscane. E ne ha dovuto effettivamente elargire solamente 16 milioni di euro. Nulla, rispetto alla cifra complessiva garantita. Di questi 16 milioni lo Stato, attraverso il fondo centrale di garanzia costituito presso il Mef, ha restituito a Fidi Toscana appena un milione di euro, tra cui proprio i 236.803,23 deliberati a giugno 2014. Ed è così che lo Stato guidato da Renzi ha pagato parte del debito della società di casa Renzi.
A spiegare l’iter seguito dalla Chil Post è Simonetta Baldi, dirigente della Regione responsabile del settore politiche orizzontali a sostegno delle imprese, l’ufficio che gestisce il fondo di garanzia e tiene i rapporti con Fidi Toscana, la finanziaria controllata per il 49% dall’ente guidato da Enrico Rossi. Baldi non svela nulla: si limita a confermare le informazioni in nostro possesso. “Il fondo è stato creato nel febbraio 2009 e la Chil è stata tra le prime a rivolgersi a noi appena un mese dopo” ed è stata “anche tra le prime ad andare in sofferenza”, ricorda Baldi. Di “5.687 aziende che sono ricorse a noi non sappiamo quante poi sono fallite ma decisamente poche” anche perché “il fondo ha funzionato molto bene per la quasi totalità delle imprese”. Su un miliardo e 200 milioni garantiti “siamo intervenuti per appena 16 milioni, come sa”. Baldi conferma anche le cifre ricevute dal ministero dell’Economia: “Sì, poco più di un milione di euro”. E spiega che non è affatto scontato che il rimborso avvenga, “anzi”. Funziona così: “Al ministero dell’Economia c’è il fondo centrale che serve come contro-garanzia ma può essere attivato solo a determinate condizioni” e comunque viene rimborsato “con tempi piuttosto lunghi, tra il pagamento che effettuiamo noi per l’azienda e quello che riceviamo dal Mef c’è un gap di anni”. Per la Chil Post “sono arrivati in sei mesi, sì. Ma è stata una delle prime pratiche a essere aperta e ad andare in sofferenza”.
SECONDO il regolamento, inoltre, la Chil Post non avrebbe potuto beneficiare del fondo di garanzia perché nel frattempo ha cambiato sede e proprietà. Baldi, ancora una volta, conferma: “C’è stato un difetto di informazione, i passaggi di proprietà Fidi Toscana li ha saputi successivamente”, dopo il fallimento. Va detto che la società non ha cambiato partita Iva o forma, rimanendo una srl, ma “se ricevessi una domanda da un’impresa di Genova gli dico di no, ovviamente”, garantisce Baldi. Quando la Chil fece domanda era una società toscana, quindi al momento dell’ammissione alla garanzia l’impresa aveva tutte le caratteristiche in regola.
È IL 16 MARZO 2009 quando Tiziano Renzi presenta richiesta e il 13 agosto 2009 l’operazione va in porto a garanzia di un mutuo con il credito cooperativo di Pontassieve da 496.717,65 euro. Dopo poco più di un anno, l’otto ottobre 2010, circa due milioni in beni e servizi – ritenuti dagli inquirenti genovesi la parte sana della Chil Post – sono ceduti alla Eventi 6 di Laura Bovoli, madre dell’ex rottamatore. Passa meno di una settimana e il 14 ottobre Tiziano Renzi trasferisce la società a Genova. Infine il 3 novembre cede l’intera proprietà della Chil Post a Gian Franco Massone, prestanome per il figlio Mariano, entrambi indagati con il padre del premier dalla procura ligure.
A questo punto però l’azienda è ormai priva di beni ed è gravata da un passivo di un milione e 150 mila euro, compresi 496 mila euro di esposizione con il Credito cooperativo di Pontassieve guidato dal fidatissimo amico del premier, Matteo Spanò. I debiti non vengono ripianati e Massone dichiara il fallimento della Chil Post nel 2013. Il mutuo viene ammesso al passivo dal tribunale e così Fidi Toscana onora la sua garanzia. Poi coperta dal Tesoro.
da il Fatto Quotidiano del 9 gennaio 2014
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01 ... i/1330518/
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L'azienda non comunicò il trasferimento di sede a Genova per non perdere la copertura di Fidi Toscana
di Davide Vecchi | 10 gennaio 2015 COMMENTI
Tiziano Renzi avrebbe dovuto comunicare il trasferimento della sede della sua azienda, la Chil Post, da Firenze a Genova alla finanziaria Fidi Toscana, come prevede lo statuto del fondo di garanzia da cui ha ricevuto i fondi per coprire parte dei debiti contratti. Il cambio di regione avrebbe ovviamente comportato la decadenza del beneficio. Per carità: si sarà sicuramente trattato di una dimenticanza. Il dato emerge dagli atti custoditi in Regione relativi all’azienda di casa Renzi, poi fallita e per cui il padre del premier è indagato per bancarotta fraudolenta dalla procura ligure. E non è l’unico elemento interessante.
RICOSTRUENDO la vicenda emerge che la Chil è una delle pochissime aziende per cui il ministero dell’Economia ha coperto il fondo di garanzia toscano. Creato nel febbraio 2009 per volere dell’allora governatore Claudio Martini e finalizzato ad aiutare le imprese regionali ad affrontare la crisi economica, il fondo “emergenza economia misura liquidità” in cinque anni ha sottoscritto garanzie per un miliardo e 126 milioni di euro a 5.687 aziende toscane. E ne ha dovuto effettivamente elargire solamente 16 milioni di euro. Nulla, rispetto alla cifra complessiva garantita. Di questi 16 milioni lo Stato, attraverso il fondo centrale di garanzia costituito presso il Mef, ha restituito a Fidi Toscana appena un milione di euro, tra cui proprio i 236.803,23 deliberati a giugno 2014. Ed è così che lo Stato guidato da Renzi ha pagato parte del debito della società di casa Renzi.
A spiegare l’iter seguito dalla Chil Post è Simonetta Baldi, dirigente della Regione responsabile del settore politiche orizzontali a sostegno delle imprese, l’ufficio che gestisce il fondo di garanzia e tiene i rapporti con Fidi Toscana, la finanziaria controllata per il 49% dall’ente guidato da Enrico Rossi. Baldi non svela nulla: si limita a confermare le informazioni in nostro possesso. “Il fondo è stato creato nel febbraio 2009 e la Chil è stata tra le prime a rivolgersi a noi appena un mese dopo” ed è stata “anche tra le prime ad andare in sofferenza”, ricorda Baldi. Di “5.687 aziende che sono ricorse a noi non sappiamo quante poi sono fallite ma decisamente poche” anche perché “il fondo ha funzionato molto bene per la quasi totalità delle imprese”. Su un miliardo e 200 milioni garantiti “siamo intervenuti per appena 16 milioni, come sa”. Baldi conferma anche le cifre ricevute dal ministero dell’Economia: “Sì, poco più di un milione di euro”. E spiega che non è affatto scontato che il rimborso avvenga, “anzi”. Funziona così: “Al ministero dell’Economia c’è il fondo centrale che serve come contro-garanzia ma può essere attivato solo a determinate condizioni” e comunque viene rimborsato “con tempi piuttosto lunghi, tra il pagamento che effettuiamo noi per l’azienda e quello che riceviamo dal Mef c’è un gap di anni”. Per la Chil Post “sono arrivati in sei mesi, sì. Ma è stata una delle prime pratiche a essere aperta e ad andare in sofferenza”.
SECONDO il regolamento, inoltre, la Chil Post non avrebbe potuto beneficiare del fondo di garanzia perché nel frattempo ha cambiato sede e proprietà. Baldi, ancora una volta, conferma: “C’è stato un difetto di informazione, i passaggi di proprietà Fidi Toscana li ha saputi successivamente”, dopo il fallimento. Va detto che la società non ha cambiato partita Iva o forma, rimanendo una srl, ma “se ricevessi una domanda da un’impresa di Genova gli dico di no, ovviamente”, garantisce Baldi. Quando la Chil fece domanda era una società toscana, quindi al momento dell’ammissione alla garanzia l’impresa aveva tutte le caratteristiche in regola.
È IL 16 MARZO 2009 quando Tiziano Renzi presenta richiesta e il 13 agosto 2009 l’operazione va in porto a garanzia di un mutuo con il credito cooperativo di Pontassieve da 496.717,65 euro. Dopo poco più di un anno, l’otto ottobre 2010, circa due milioni in beni e servizi – ritenuti dagli inquirenti genovesi la parte sana della Chil Post – sono ceduti alla Eventi 6 di Laura Bovoli, madre dell’ex rottamatore. Passa meno di una settimana e il 14 ottobre Tiziano Renzi trasferisce la società a Genova. Infine il 3 novembre cede l’intera proprietà della Chil Post a Gian Franco Massone, prestanome per il figlio Mariano, entrambi indagati con il padre del premier dalla procura ligure.
A questo punto però l’azienda è ormai priva di beni ed è gravata da un passivo di un milione e 150 mila euro, compresi 496 mila euro di esposizione con il Credito cooperativo di Pontassieve guidato dal fidatissimo amico del premier, Matteo Spanò. I debiti non vengono ripianati e Massone dichiara il fallimento della Chil Post nel 2013. Il mutuo viene ammesso al passivo dal tribunale e così Fidi Toscana onora la sua garanzia. Poi coperta dal Tesoro.
da il Fatto Quotidiano del 9 gennaio 2014
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Re: Renzi
La stampa è ridotta ai minimi termini. Il Giornale pubblica la stessa notizia in sette righine striminzite in in quarta pagina. Quel tanto che serve per far sapere ai loro lettori la notizia ma non più di tanto. Bisogna tenere un basso profilo nell'interesse del capo. Se salta ll Pacco del Nazareno, Silviolo è fritto.
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PAPÀ RENZI ORA SON GUAI “FONDI OTTENUTI IN MODO IRREGOLARE”
(Davide Vecchi).
15/01/2015 di triskel182
LA REGIONE TOSCANA CONFERMA: “LA CHIL POST HA OMESSO COMUNICAZIONI PERDENDO DIRITTO AL FINANZIAMENTO”. ROSSI: “PRONTI A DENUNCIARE, A PRESCINDERE DAL NOME”.
La società della famiglia Renzi non avrebbe dovuto usufruire del fondo di garanzia del ministero dell’Economia. Non solo: se avesse rispettato le clausole sottoscritte con Fidi Toscana avrebbe perso il beneficio e sarebbe stata costretta a pagare il doppio dell’agevolazione richiesta. Sarà ora Fidi Toscana, finanziaria controllata dalla Regione, a doversi rivalere del danno subito. Chil Post però è nel frattempo fallita e la banca a cui è stato pagato il mutuo insoluto, il credito cooperativo di Pontassieve, è guidata da un fedelissimo del premier: Matteo Spanò. Così, la vicenda che coinvolge genitori e sorelle del premier, diventa anche politica: Enrico Rossi, governatore della Toscana riconfermato appena due giorni fa, candidato del Pd alle prossime Regionali, interverrà contro la famiglia del premier (e segretario del partito) e contro la banca di un suo storico braccio destro sin dai tempi della provincia di Firenze?
Trucchi per 263mila euro, rischia di sganciare il doppio “Se ci sono gli estremi denunceremo certamente, a prescindere dal nome e cognome”, ha garantito ieri Rossi contattato dal Fatto. “Del resto lo abbiamo già fatto e mi sembra che sinora come ente abbiamo fornito una ricostruzione chiara, completa e trasparente dell’accaduto contribuendo a far emergere i fatti”, ha aggiunto. E in effetti la conferma della mancanza dei requisiti da parte della Chil Post a godere del fondo di garanzia è arrivata ieri in aula dall’assessore al lavoro, Gianfranco Simoncini, rispondendo a un’interrogazione presentata dal capogruppo di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli. La società di casa Renzi “non ha comunicato le variazioni relative all’assetto societario”, ha scandito Simoncini, come invece era obbligata a fare. E ha spiegato: “Nel caso in cui dalle verifiche effettuate (…) risultino non rispettate le finalità previste dal regolamento, l’agevolazione è revocata e l’impresa è tenuta a corrispondere un importo pari a due volte l’agevolazione ricevuta”. E di variazioni da comunicare la Chil Post ne aveva parecchie. La richiesta è stata formulata come società femminile: in quel momento, infatti, titolari risultavano essere Laura Bovoli insieme con Matilde e Benedetta Renzi, rispettivamente madre e sorelle del premier . Ma una settimana dopo aver ricevuto la delibera del mutuo la proprietà torna totalmente a Tiziano Renzi. Le tre donne, nel frattempo, risultano titolari di un’altra società: la Chil Distribuzioni che poi cambierà nome in Eventi 6. Siamo nel luglio 2009. Dopo poco più di un anno la Chil Post cede un intero ramo di servizi del valore di circa 2 milioni di euro alla Eventi 6 per poco più di 3.000 euro. Infine Tiziano Renzi trasferisce la sede della Chil Post da Firenze a Genova, la cede a Gianfranco Massone gravata da quasi 2 milioni di debiti. Massone dichiarerà poi il fallimento. Il padre del premier è indagato dalla procura ligure per bancarotta fraudolenta e secondo i magistrati la cessione di servizi da Chil Post a Eventi 6 sarebbe stata fatta esclusivamente per mettere in salvo dai creditori la parte sana dell’azienda. Tra i debiti lasciati a fallire figura anche il mutuo concesso dal Credito Cooperativo di Pontassieve di 496.717,65 euro. Una cifra sostanziosa, concessa con un mutuo chirografario: senza accensione di ipoteche, quindi, ma solo basato sulle garanzie. Ma coperto invece da Fidi Toscana che il 31 luglio 2014 versa infatti alla banca 263.114,70 euro e viene contro garantito nell’ottobre successivo dal ministero del Tesoro per 236.803,23. Fidi Toscana dunque onora l’impegno preso con Chil Post ma, come confermato dall’assessore Simoncini, la società aveva perso i requisiti. I vertici di Fidi, il presidente Silvano Bettini e il vice direttore Gabriella Gori, non hanno voluto commentare l’accaduto. Il favore per l’azienda ”al femminile” Netto invece il giudizio di Donzelli: “Il padre di Renzi ha ottenuto fondi pubblici attraverso delle irregolarità”. Secondo l’esponente Fdi “il regolamento per avere la garanzia di Fidi Toscana al finanziamento, prevede, tra l’altro, che un’azienda abbia sede in Toscana e che comunichi se vi sono cambi di assetto societario”. Inoltre, aggiunge, “la Chil ottenne una garanzia dell’80%, invece del 60% ordinario, perché beneficiò di alcune misure dato che si trattava di un’azienda al femminile”, in mano alle donne di casa Renzi. E conclude: “C’è chi per molto meno è stato condannato per truffa”. Ora “aspettiamo le decisioni di Fidi e vedremo come si comporta Rossi, ma vigileremo affinché non spunti nessuna manina a nascondere l’accaduto”.
Da Il Fatto Quotidiano del 15/01/2015.
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PAPÀ RENZI ORA SON GUAI “FONDI OTTENUTI IN MODO IRREGOLARE”
(Davide Vecchi).
15/01/2015 di triskel182
LA REGIONE TOSCANA CONFERMA: “LA CHIL POST HA OMESSO COMUNICAZIONI PERDENDO DIRITTO AL FINANZIAMENTO”. ROSSI: “PRONTI A DENUNCIARE, A PRESCINDERE DAL NOME”.
La società della famiglia Renzi non avrebbe dovuto usufruire del fondo di garanzia del ministero dell’Economia. Non solo: se avesse rispettato le clausole sottoscritte con Fidi Toscana avrebbe perso il beneficio e sarebbe stata costretta a pagare il doppio dell’agevolazione richiesta. Sarà ora Fidi Toscana, finanziaria controllata dalla Regione, a doversi rivalere del danno subito. Chil Post però è nel frattempo fallita e la banca a cui è stato pagato il mutuo insoluto, il credito cooperativo di Pontassieve, è guidata da un fedelissimo del premier: Matteo Spanò. Così, la vicenda che coinvolge genitori e sorelle del premier, diventa anche politica: Enrico Rossi, governatore della Toscana riconfermato appena due giorni fa, candidato del Pd alle prossime Regionali, interverrà contro la famiglia del premier (e segretario del partito) e contro la banca di un suo storico braccio destro sin dai tempi della provincia di Firenze?
Trucchi per 263mila euro, rischia di sganciare il doppio “Se ci sono gli estremi denunceremo certamente, a prescindere dal nome e cognome”, ha garantito ieri Rossi contattato dal Fatto. “Del resto lo abbiamo già fatto e mi sembra che sinora come ente abbiamo fornito una ricostruzione chiara, completa e trasparente dell’accaduto contribuendo a far emergere i fatti”, ha aggiunto. E in effetti la conferma della mancanza dei requisiti da parte della Chil Post a godere del fondo di garanzia è arrivata ieri in aula dall’assessore al lavoro, Gianfranco Simoncini, rispondendo a un’interrogazione presentata dal capogruppo di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli. La società di casa Renzi “non ha comunicato le variazioni relative all’assetto societario”, ha scandito Simoncini, come invece era obbligata a fare. E ha spiegato: “Nel caso in cui dalle verifiche effettuate (…) risultino non rispettate le finalità previste dal regolamento, l’agevolazione è revocata e l’impresa è tenuta a corrispondere un importo pari a due volte l’agevolazione ricevuta”. E di variazioni da comunicare la Chil Post ne aveva parecchie. La richiesta è stata formulata come società femminile: in quel momento, infatti, titolari risultavano essere Laura Bovoli insieme con Matilde e Benedetta Renzi, rispettivamente madre e sorelle del premier . Ma una settimana dopo aver ricevuto la delibera del mutuo la proprietà torna totalmente a Tiziano Renzi. Le tre donne, nel frattempo, risultano titolari di un’altra società: la Chil Distribuzioni che poi cambierà nome in Eventi 6. Siamo nel luglio 2009. Dopo poco più di un anno la Chil Post cede un intero ramo di servizi del valore di circa 2 milioni di euro alla Eventi 6 per poco più di 3.000 euro. Infine Tiziano Renzi trasferisce la sede della Chil Post da Firenze a Genova, la cede a Gianfranco Massone gravata da quasi 2 milioni di debiti. Massone dichiarerà poi il fallimento. Il padre del premier è indagato dalla procura ligure per bancarotta fraudolenta e secondo i magistrati la cessione di servizi da Chil Post a Eventi 6 sarebbe stata fatta esclusivamente per mettere in salvo dai creditori la parte sana dell’azienda. Tra i debiti lasciati a fallire figura anche il mutuo concesso dal Credito Cooperativo di Pontassieve di 496.717,65 euro. Una cifra sostanziosa, concessa con un mutuo chirografario: senza accensione di ipoteche, quindi, ma solo basato sulle garanzie. Ma coperto invece da Fidi Toscana che il 31 luglio 2014 versa infatti alla banca 263.114,70 euro e viene contro garantito nell’ottobre successivo dal ministero del Tesoro per 236.803,23. Fidi Toscana dunque onora l’impegno preso con Chil Post ma, come confermato dall’assessore Simoncini, la società aveva perso i requisiti. I vertici di Fidi, il presidente Silvano Bettini e il vice direttore Gabriella Gori, non hanno voluto commentare l’accaduto. Il favore per l’azienda ”al femminile” Netto invece il giudizio di Donzelli: “Il padre di Renzi ha ottenuto fondi pubblici attraverso delle irregolarità”. Secondo l’esponente Fdi “il regolamento per avere la garanzia di Fidi Toscana al finanziamento, prevede, tra l’altro, che un’azienda abbia sede in Toscana e che comunichi se vi sono cambi di assetto societario”. Inoltre, aggiunge, “la Chil ottenne una garanzia dell’80%, invece del 60% ordinario, perché beneficiò di alcune misure dato che si trattava di un’azienda al femminile”, in mano alle donne di casa Renzi. E conclude: “C’è chi per molto meno è stato condannato per truffa”. Ora “aspettiamo le decisioni di Fidi e vedremo come si comporta Rossi, ma vigileremo affinché non spunti nessuna manina a nascondere l’accaduto”.
Da Il Fatto Quotidiano del 15/01/2015.
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Re: Renzi
Solo il Corriere della Sera riporta un articolo sui finanziamenti all’azienda del papà di Renzi. Ma la schiaffa in trentunesima pagina.
La Stampa e La Repubblica la ignorano per evidenti ragioni.
I media Tv tacciono all’unisono.
I media non sono liberi e servono solo per condizionare i cervelli.
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Re: Renzi
Corriere 15.1.15
«L’azienda di Tiziano Renzi? Se necessario agiremo»
Finanziamenti alla società del padre del premier, interviene Rossi: ma no a strumentalizzazioni
di Marco Gasperetti
FIRENZE Una società che cambia proprietari, pur rimanendo in famiglia, chiede un finanziamento con coperture e garanzie offerte dalla finanziaria della Regione Toscana e poi si trasferisce a Genova. E che in poco tempo cambia «genere»: da maschile diventa femminile per poi tornare ancora una volta maschile. Sembrano tutto sommato inezie amministrative e invece questi cambi e trasferimenti repentini, insieme alla divisione dell’azienda in due rami (buono e cattivo), avrebbero un valore monetario non proprio irrilevante (da 60 mila a 263 mila euro) e potrebbero aver violato le regole di Fidi Toscana che garantisce con soldi pubblici le imprese in difficoltà in cerca di finanziamenti. Se poi alla vicenda si aggiungono i nomi di Tiziano Renzi, delle figlie Matilde e Benedetta e della moglie Laura Bovoli, rispettivamente padre, sorelle e madre del premier, e che la Regione Toscana ammette qualche presunta irregolarità sulle procedure, ecco che tutto diventa un nuovo caso. Tanto da far intervenire il presidente della Toscana, Enrico Rossi: «Se ci saranno da prendere provvedimenti li prenderemo senza scadere nella strumentalizzazione politica, che mi sembra piuttosto montata» ha detto il governatore.
Si parla ancora di Chil Post, la società fallita di Tiziano Renzi sulla quale indaga per bancarotta fraudolenta la Procura di Genova. Non c’è un nuovo sviluppo giudiziario, bensì l’apertura di un filone politico-amministrativo, innescato da un’interrogazione del consigliere regionale di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli; questi ha sollevato dubbi sulla concessione di un fido da 437 mila euro garantito alla Chil e solo in parte restituiti; la risposta dell’assessore regionale alle Attività produttive, Gianfranco Simoncini, sembra in parte dare ragione a Donzelli.
«Il passaggio da società maschile a femminile sembra un escamotage per prendere più soldi — sottolinea il consigliere di Fdi —. Le regole di Fidi Toscana prevedono infatti un’erogazione del 60% a copertura di prestiti di aziende maschili e dell’80% per quelle femminili. Tiziano Renzi ha deciso di cedere l’azienda a moglie e figlie che, dopo aver ottenuto i soldi, l’hanno passata ancora al padre e marito. E tutto questo senza informare, come da regolamento, Fidi Toscana». Nella risposta all’interrogazione la Regione, ha ammesso che effettivamente «le informazioni non sono state comunicate» e ha invitato «gli organi di Fidi a compiere ogni verifica». Donzelli ha chiesto di recuperare eventuali soldi incassati dalla famiglia Renzi irregolarmente.
Di opposto parere Federico Bagattini, legale di Tiziano Renzi: «L’operazione è stata del tutto regolare tanto da non costituire un profilo di addebito mosso dalla Procura di Genova. Noi ci confrontiamo da una parte con i magistrati di Genova e dall’altra con il giudice civile e penale in caso di affermazione non vere e lesive della reputazione del nostro cliente».
«L’azienda di Tiziano Renzi? Se necessario agiremo»
Finanziamenti alla società del padre del premier, interviene Rossi: ma no a strumentalizzazioni
di Marco Gasperetti
FIRENZE Una società che cambia proprietari, pur rimanendo in famiglia, chiede un finanziamento con coperture e garanzie offerte dalla finanziaria della Regione Toscana e poi si trasferisce a Genova. E che in poco tempo cambia «genere»: da maschile diventa femminile per poi tornare ancora una volta maschile. Sembrano tutto sommato inezie amministrative e invece questi cambi e trasferimenti repentini, insieme alla divisione dell’azienda in due rami (buono e cattivo), avrebbero un valore monetario non proprio irrilevante (da 60 mila a 263 mila euro) e potrebbero aver violato le regole di Fidi Toscana che garantisce con soldi pubblici le imprese in difficoltà in cerca di finanziamenti. Se poi alla vicenda si aggiungono i nomi di Tiziano Renzi, delle figlie Matilde e Benedetta e della moglie Laura Bovoli, rispettivamente padre, sorelle e madre del premier, e che la Regione Toscana ammette qualche presunta irregolarità sulle procedure, ecco che tutto diventa un nuovo caso. Tanto da far intervenire il presidente della Toscana, Enrico Rossi: «Se ci saranno da prendere provvedimenti li prenderemo senza scadere nella strumentalizzazione politica, che mi sembra piuttosto montata» ha detto il governatore.
Si parla ancora di Chil Post, la società fallita di Tiziano Renzi sulla quale indaga per bancarotta fraudolenta la Procura di Genova. Non c’è un nuovo sviluppo giudiziario, bensì l’apertura di un filone politico-amministrativo, innescato da un’interrogazione del consigliere regionale di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli; questi ha sollevato dubbi sulla concessione di un fido da 437 mila euro garantito alla Chil e solo in parte restituiti; la risposta dell’assessore regionale alle Attività produttive, Gianfranco Simoncini, sembra in parte dare ragione a Donzelli.
«Il passaggio da società maschile a femminile sembra un escamotage per prendere più soldi — sottolinea il consigliere di Fdi —. Le regole di Fidi Toscana prevedono infatti un’erogazione del 60% a copertura di prestiti di aziende maschili e dell’80% per quelle femminili. Tiziano Renzi ha deciso di cedere l’azienda a moglie e figlie che, dopo aver ottenuto i soldi, l’hanno passata ancora al padre e marito. E tutto questo senza informare, come da regolamento, Fidi Toscana». Nella risposta all’interrogazione la Regione, ha ammesso che effettivamente «le informazioni non sono state comunicate» e ha invitato «gli organi di Fidi a compiere ogni verifica». Donzelli ha chiesto di recuperare eventuali soldi incassati dalla famiglia Renzi irregolarmente.
Di opposto parere Federico Bagattini, legale di Tiziano Renzi: «L’operazione è stata del tutto regolare tanto da non costituire un profilo di addebito mosso dalla Procura di Genova. Noi ci confrontiamo da una parte con i magistrati di Genova e dall’altra con il giudice civile e penale in caso di affermazione non vere e lesive della reputazione del nostro cliente».
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Re: Renzi
“La manina di Renzi salva-B. è un reato di falso”
(Silvia Truzzi).
17/01/2015 di triskel182
La gelida manina era quella del premier. Lo ha detto lui, in favore di telecamere, dopo che si erano fatti altri nomi, da quello del ministro Pier Carlo Padoan a quello del vice Luigi Casero.
Ma la paternità di quell’articolo della delega fiscale che stabiliva la depenalizzazione di evasione e frode fiscale al di sotto della soglia del 3 per cento dell’imponibile (facendo una “cortesia” a Berlusconi e alle grandi banche) è più che sospetta.
Lo spiega Alessandro Pace, professore emerito di diritto costituzionale alla Sapienza, che vede nell’inserimento di soppiatto dell’art. 19 bis nel testo (approvato dal Consiglio dei ministri il 24 dicembre) non è uno sbaglio, ma un reato.
Precisamente un falso materiale in atto pubblico, anzi un tentativo di falso, perché la norma è stata ritirata dopo che il Fatto aveva denunciato la cosa durante le vacanze di Natale.
Intanto si affaccia un’altra grana, un altro falso (in bilancio), contenuto nel ddl anticorruzione.
Aumentano le pene, ma resta intatta la norma berlusconiana che svuota il reato e non punisce chi falsifica il bilancio in misura inferiore del 5 per cento dell’utile d’impresa, o nella misura dell’1 per cento del patrimonio netto.
Professore, perché l’inserimento di soppiatto dell’art. 19 bis nella delega fiscale costituisce un reato?
Perché il presidente Renzi, pur ricoprendo la massima carica politica del nostro ordinamento costituzionale, ha usato un sotterfugio per far sì che una sua volizione “individuale” assumesse le sembianze di una disposizione legislativa approvata con tutti i crismi dal Consiglio dei ministri, contro la verità dei fatti.
Nel 2011 Berlusconi aveva fatto la stessa cosa nel decreto legge sulla manovra finanziaria, con il famoso comma pro-Fininvest, introdotto all’insaputa del ministro del Tesoro.
Esatto. Mentre Renzi, all’insaputa dei suoi ministri, ha tentato di contrabbandare un aiutino a Berlusconi per garantirsene l’appoggio nell’elezione del presidente della Repubblica e nelle riforme, Berlusconi, nel 2011, tentò, all’insaputa di Giulio Tremonti e dei ministri leghisti, di infilare, in un decreto sulla manovra finanziaria, una norma a suo beneficio personale consistente nel ritardare di 5 o 6 anni il pagamento del debito della Fininvest alla Cir. Scrissi a tal proposito un articolo su Repubblica per denunciare la gravità del fatto ma non si mosse foglia…
Lei ha invocato una commissione d’inchiesta, dicendo che se non si farà luce, la responsabilità politica e giuridica ricadrà interamente su Renzi. Eppure sembra che nemmeno voglia riferire alle Camere.
Esatto, io suggerii l’istituzione di una commissione ministeriale d’inchiesta quando ancora Renzi si proclamava innocente. Ritenevo infatti doverosa l’individuazione della “manina” e che si ponesse fine all’indecoroso balletto dei possibili responsabili del fatto (il ministro Padoan, il viceministro Casero, la responsabile degli Affari legislativi Manzione ecc.). Quando apparve il mio commento, l’8 gennaio, ebbi la sorpresa di leggere in altri articoli che Renzi aveva tranquillamente ammesso di esser stato lui l’autore dell’art. 19 bis della delega fiscale. Lo ha poi ribadito la sera del giorno dopo nell’ intervista di Lilli Gruber a Otto e mezzo. Né Renzi né la Gruber accennarono alla manina, con il che, agli occhi dei telespettatori, sembrò che tutto fosse rientrato nella normalità. Il che non è affatto vero: si tratta di una gravissima violazione delle nostre istituzioni democratiche secondo le quali la formazione delle decisioni legislative dovrebbe avvenire nel dibattito e nella trasparenza. Infatti se il presidente Renzi ha usato un tale sotterfugio, ciò lo si può spiegare o perché voleva che l’aiutino a Berlusconi venisse conosciuto il più tardi possibile oppure perché considera i suoi ministri e le sue ministre succubi alle sue decisioni, e quindi fargliele formalmente approvare o meno, il risultato sarebbe lo stesso. Il che non è meno grave e solleva ulteriori perplessità sulle finalità delle riforme costituzionali che Renzi ha in mente.
Lei ha scritto che “negli Stati Uniti sarebbe stato addirittura chiesto l’impeachment del Presidente Obama”. Pensa che Renzi dovrebbe dimettersi?
Renzi è nato a Firenze mentre Obama è nato negli Stati Uniti, dove il retaggio del puritanesimo è ancora vivo. Non si dimentichi a tal riguardo che, per gli americani, la menzogna costituisce il più grave reato che un presidente della Repubblica possa compiere. Si pensi al caso Clinton-Lewinski . Le dimissioni di Renzi sono l’ultima cosa al mondo che augurerei all’Italia in questo momento. Riterrei invece necessario un dibattito dinanzi a una delle Camere, magari a seguito di una mozione di censura, non di sfiducia, perché porcherie del genere non abbiano più a ripetersi. Il Parlamento è ormai totalmente svuotato della sua principale funzione, quella legislativa.
“La manina di Renzi salva-B. è un reato di falso” (Silvia Truzzi).
17/01/2015 di triskel182
Alessandro PaceIl costituzionalista Alessandro Pace.
La gelida manina era quella del premier. Lo ha detto lui, in favore di telecamere, dopo che si erano fatti altri nomi, da quello del ministro Pier Carlo Padoan a quello del vice Luigi Casero. Ma la paternità di quell’articolo della delega fiscale che stabiliva la depenalizzazione di evasione e frode fiscale al di sotto della soglia del 3 per cento dell’imponibile (facendo una “cortesia” a Berlusconi e alle grandi banche) è più che sospetta. Lo spiega Alessandro Pace, professore emerito di diritto costituzionale alla Sapienza, che vede nell’inserimento di soppiatto dell’art. 19 bis nel testo (approvato dal Consiglio dei ministri il 24 dicembre) non uno sbaglio, ma un reato. Precisamente un falso materiale in atto pubblico, anzi un tentativo di falso, perché la norma è stata ritirata dopo che il Fatto aveva denunciato la cosa durante le vacanze di Natale.
Intanto si affaccia un’altra grana, un altro falso (in bilancio), contenuto nel ddl anticorruzione. Aumentano le pene, ma resta intatta la norma berlusconiana che svuota il reato e non punisce chi falsifica il bilancio in misura inferiore del 5 per cento dell’utile d’impresa, o nella misura dell’1 per cento del patrimonio netto. Professore, perché l’inserimento di soppiatto dell’art. 19 bis nella delega fiscale costituisce un reato? Perché il presidente Renzi, pur ricoprendo la massima carica politica del nostro ordinamento costituzionale, ha usato un sotterfugio per far sì che una sua volizione “individuale” assumesse le sembianze di una disposizione legislativa approvata con tutti i crismi dal Consiglio dei ministri, contro la verità dei fatti. Nel 2011 Berlusconi aveva fatto la stessa cosa nel decreto legge sulla manovra finanziaria, con il famoso comma pro-Fininvest, introdotto all’insaputa del ministro del Tesoro. Esatto. Mentre Renzi, all’insaputa dei suoi ministri, ha tentato di contrabbandare un aiutino a Berlusconi per garantirsene l’appoggio nell’elezione del presidente della Repubblica e nelle riforme, Berlusconi, nel 2011, tentò, all’insaputa di Giulio Tremonti e dei ministri leghisti, di infilare, in un decreto sulla manovra finanziaria, una norma a suo beneficio personale consistente nel ritardare di 5 o 6 anni il pagamento del debito della Fininvest alla Cir. Scrissi a tal proposito un articolo su Repubblica per denunciare la gravità del fatto ma non si mosse foglia… Lei ha invocato una commissione d’inchiesta, dicendo che se non si farà luce, la responsabilità politica e giuridica ricadrà interamente su Renzi. Eppure sembra che nemmeno voglia riferire alle Camere. Esatto, io suggerii l’istituzione di una commissione ministeriale d’inchiesta quando ancora Renzi si proclamava innocente. Ritenevo infatti doverosa l’individuazione della “manina” e che si ponesse fine all’indecoroso balletto dei possibili responsabili del fatto (il ministro Padoan, il viceministro Casero, la responsabile degli Affari legislativi Manzione ecc.). Quando apparve il mio commento, l’8 gennaio, ebbi la sorpresa di leggere in altri articoli che Renzi aveva tranquillamente ammesso di esser stato lui l’autore dell’art. 19 bis della delega fiscale. Lo ha poi ribadito la sera del giorno dopo nell’ intervista di Lilli Gruber a Otto e mezzo. Né Renzi né la Gruber accennarono alla manina, con il che, agli occhi dei telespettatori, sembrò che tutto fosse rientrato nella normalità. Il che non è affatto vero: si tratta di una gravissima violazione delle nostre istituzioni democratiche secondo le quali la formazione delle decisioni legislative dovrebbe avvenire nel dibattito e nella trasparenza. Infatti se il presidente Renzi ha usato un tale sotterfugio, ciò lo si può spiegare o perché voleva che l’aiutino a Berlusconi venisse conosciuto il più tardi possibile oppure perché considera i suoi ministri e le sue ministre succubi alle sue decisioni, e quindi fargliele formalmente approvare o meno, il risultato sarebbe lo stesso. Il che non è meno grave e solleva ulteriori perplessità sulle finalità delle riforme costituzionali che Renzi ha in mente. Lei ha scritto che “negli Stati Uniti sarebbe stato addirittura chiesto l’impeachment del Presidente Obama”. Pensa che Renzi dovrebbe dimettersi? Renzi è nato a Firenze mentre Obama è nato negli Stati Uniti, dove il retaggio del puritanesimo è ancora vivo. Non si dimentichi a tal riguardo che, per gli americani, la menzogna costituisce il più grave reato che un presidente della Repubblica possa compiere. Si pensi al caso Clinton-Lewinski . Le dimissioni di Renzi sono l’ultima cosa al mondo che augurerei all’Italia in questo momento. Riterrei invece necessario un dibattito dinanzi a una delle Camere, magari a seguito di una mozione di censura, non di sfiducia, perché porcherie del genere non abbiano più a ripetersi. Il Parlamento è ormai totalmente svuotato della sua principale funzione, quella legislativa. Da tempo legiferano i governi, o per delega o con i decreti: una grave alterazione del principio di separazione dei poteri. Purtroppo è così. Ma quel che è peggio è che se dovessero essere approvati sia l’Italicum che la riforma costituzionale, lo svuotamento della funzione legislativa del Parlamento, che ora è patologico, diverrebbe fisiologico.
Da Il Fatto Quotidiano del 17/01/2015.
(Silvia Truzzi).
17/01/2015 di triskel182
La gelida manina era quella del premier. Lo ha detto lui, in favore di telecamere, dopo che si erano fatti altri nomi, da quello del ministro Pier Carlo Padoan a quello del vice Luigi Casero.
Ma la paternità di quell’articolo della delega fiscale che stabiliva la depenalizzazione di evasione e frode fiscale al di sotto della soglia del 3 per cento dell’imponibile (facendo una “cortesia” a Berlusconi e alle grandi banche) è più che sospetta.
Lo spiega Alessandro Pace, professore emerito di diritto costituzionale alla Sapienza, che vede nell’inserimento di soppiatto dell’art. 19 bis nel testo (approvato dal Consiglio dei ministri il 24 dicembre) non è uno sbaglio, ma un reato.
Precisamente un falso materiale in atto pubblico, anzi un tentativo di falso, perché la norma è stata ritirata dopo che il Fatto aveva denunciato la cosa durante le vacanze di Natale.
Intanto si affaccia un’altra grana, un altro falso (in bilancio), contenuto nel ddl anticorruzione.
Aumentano le pene, ma resta intatta la norma berlusconiana che svuota il reato e non punisce chi falsifica il bilancio in misura inferiore del 5 per cento dell’utile d’impresa, o nella misura dell’1 per cento del patrimonio netto.
Professore, perché l’inserimento di soppiatto dell’art. 19 bis nella delega fiscale costituisce un reato?
Perché il presidente Renzi, pur ricoprendo la massima carica politica del nostro ordinamento costituzionale, ha usato un sotterfugio per far sì che una sua volizione “individuale” assumesse le sembianze di una disposizione legislativa approvata con tutti i crismi dal Consiglio dei ministri, contro la verità dei fatti.
Nel 2011 Berlusconi aveva fatto la stessa cosa nel decreto legge sulla manovra finanziaria, con il famoso comma pro-Fininvest, introdotto all’insaputa del ministro del Tesoro.
Esatto. Mentre Renzi, all’insaputa dei suoi ministri, ha tentato di contrabbandare un aiutino a Berlusconi per garantirsene l’appoggio nell’elezione del presidente della Repubblica e nelle riforme, Berlusconi, nel 2011, tentò, all’insaputa di Giulio Tremonti e dei ministri leghisti, di infilare, in un decreto sulla manovra finanziaria, una norma a suo beneficio personale consistente nel ritardare di 5 o 6 anni il pagamento del debito della Fininvest alla Cir. Scrissi a tal proposito un articolo su Repubblica per denunciare la gravità del fatto ma non si mosse foglia…
Lei ha invocato una commissione d’inchiesta, dicendo che se non si farà luce, la responsabilità politica e giuridica ricadrà interamente su Renzi. Eppure sembra che nemmeno voglia riferire alle Camere.
Esatto, io suggerii l’istituzione di una commissione ministeriale d’inchiesta quando ancora Renzi si proclamava innocente. Ritenevo infatti doverosa l’individuazione della “manina” e che si ponesse fine all’indecoroso balletto dei possibili responsabili del fatto (il ministro Padoan, il viceministro Casero, la responsabile degli Affari legislativi Manzione ecc.). Quando apparve il mio commento, l’8 gennaio, ebbi la sorpresa di leggere in altri articoli che Renzi aveva tranquillamente ammesso di esser stato lui l’autore dell’art. 19 bis della delega fiscale. Lo ha poi ribadito la sera del giorno dopo nell’ intervista di Lilli Gruber a Otto e mezzo. Né Renzi né la Gruber accennarono alla manina, con il che, agli occhi dei telespettatori, sembrò che tutto fosse rientrato nella normalità. Il che non è affatto vero: si tratta di una gravissima violazione delle nostre istituzioni democratiche secondo le quali la formazione delle decisioni legislative dovrebbe avvenire nel dibattito e nella trasparenza. Infatti se il presidente Renzi ha usato un tale sotterfugio, ciò lo si può spiegare o perché voleva che l’aiutino a Berlusconi venisse conosciuto il più tardi possibile oppure perché considera i suoi ministri e le sue ministre succubi alle sue decisioni, e quindi fargliele formalmente approvare o meno, il risultato sarebbe lo stesso. Il che non è meno grave e solleva ulteriori perplessità sulle finalità delle riforme costituzionali che Renzi ha in mente.
Lei ha scritto che “negli Stati Uniti sarebbe stato addirittura chiesto l’impeachment del Presidente Obama”. Pensa che Renzi dovrebbe dimettersi?
Renzi è nato a Firenze mentre Obama è nato negli Stati Uniti, dove il retaggio del puritanesimo è ancora vivo. Non si dimentichi a tal riguardo che, per gli americani, la menzogna costituisce il più grave reato che un presidente della Repubblica possa compiere. Si pensi al caso Clinton-Lewinski . Le dimissioni di Renzi sono l’ultima cosa al mondo che augurerei all’Italia in questo momento. Riterrei invece necessario un dibattito dinanzi a una delle Camere, magari a seguito di una mozione di censura, non di sfiducia, perché porcherie del genere non abbiano più a ripetersi. Il Parlamento è ormai totalmente svuotato della sua principale funzione, quella legislativa.
“La manina di Renzi salva-B. è un reato di falso” (Silvia Truzzi).
17/01/2015 di triskel182
Alessandro PaceIl costituzionalista Alessandro Pace.
La gelida manina era quella del premier. Lo ha detto lui, in favore di telecamere, dopo che si erano fatti altri nomi, da quello del ministro Pier Carlo Padoan a quello del vice Luigi Casero. Ma la paternità di quell’articolo della delega fiscale che stabiliva la depenalizzazione di evasione e frode fiscale al di sotto della soglia del 3 per cento dell’imponibile (facendo una “cortesia” a Berlusconi e alle grandi banche) è più che sospetta. Lo spiega Alessandro Pace, professore emerito di diritto costituzionale alla Sapienza, che vede nell’inserimento di soppiatto dell’art. 19 bis nel testo (approvato dal Consiglio dei ministri il 24 dicembre) non uno sbaglio, ma un reato. Precisamente un falso materiale in atto pubblico, anzi un tentativo di falso, perché la norma è stata ritirata dopo che il Fatto aveva denunciato la cosa durante le vacanze di Natale.
Intanto si affaccia un’altra grana, un altro falso (in bilancio), contenuto nel ddl anticorruzione. Aumentano le pene, ma resta intatta la norma berlusconiana che svuota il reato e non punisce chi falsifica il bilancio in misura inferiore del 5 per cento dell’utile d’impresa, o nella misura dell’1 per cento del patrimonio netto. Professore, perché l’inserimento di soppiatto dell’art. 19 bis nella delega fiscale costituisce un reato? Perché il presidente Renzi, pur ricoprendo la massima carica politica del nostro ordinamento costituzionale, ha usato un sotterfugio per far sì che una sua volizione “individuale” assumesse le sembianze di una disposizione legislativa approvata con tutti i crismi dal Consiglio dei ministri, contro la verità dei fatti. Nel 2011 Berlusconi aveva fatto la stessa cosa nel decreto legge sulla manovra finanziaria, con il famoso comma pro-Fininvest, introdotto all’insaputa del ministro del Tesoro. Esatto. Mentre Renzi, all’insaputa dei suoi ministri, ha tentato di contrabbandare un aiutino a Berlusconi per garantirsene l’appoggio nell’elezione del presidente della Repubblica e nelle riforme, Berlusconi, nel 2011, tentò, all’insaputa di Giulio Tremonti e dei ministri leghisti, di infilare, in un decreto sulla manovra finanziaria, una norma a suo beneficio personale consistente nel ritardare di 5 o 6 anni il pagamento del debito della Fininvest alla Cir. Scrissi a tal proposito un articolo su Repubblica per denunciare la gravità del fatto ma non si mosse foglia… Lei ha invocato una commissione d’inchiesta, dicendo che se non si farà luce, la responsabilità politica e giuridica ricadrà interamente su Renzi. Eppure sembra che nemmeno voglia riferire alle Camere. Esatto, io suggerii l’istituzione di una commissione ministeriale d’inchiesta quando ancora Renzi si proclamava innocente. Ritenevo infatti doverosa l’individuazione della “manina” e che si ponesse fine all’indecoroso balletto dei possibili responsabili del fatto (il ministro Padoan, il viceministro Casero, la responsabile degli Affari legislativi Manzione ecc.). Quando apparve il mio commento, l’8 gennaio, ebbi la sorpresa di leggere in altri articoli che Renzi aveva tranquillamente ammesso di esser stato lui l’autore dell’art. 19 bis della delega fiscale. Lo ha poi ribadito la sera del giorno dopo nell’ intervista di Lilli Gruber a Otto e mezzo. Né Renzi né la Gruber accennarono alla manina, con il che, agli occhi dei telespettatori, sembrò che tutto fosse rientrato nella normalità. Il che non è affatto vero: si tratta di una gravissima violazione delle nostre istituzioni democratiche secondo le quali la formazione delle decisioni legislative dovrebbe avvenire nel dibattito e nella trasparenza. Infatti se il presidente Renzi ha usato un tale sotterfugio, ciò lo si può spiegare o perché voleva che l’aiutino a Berlusconi venisse conosciuto il più tardi possibile oppure perché considera i suoi ministri e le sue ministre succubi alle sue decisioni, e quindi fargliele formalmente approvare o meno, il risultato sarebbe lo stesso. Il che non è meno grave e solleva ulteriori perplessità sulle finalità delle riforme costituzionali che Renzi ha in mente. Lei ha scritto che “negli Stati Uniti sarebbe stato addirittura chiesto l’impeachment del Presidente Obama”. Pensa che Renzi dovrebbe dimettersi? Renzi è nato a Firenze mentre Obama è nato negli Stati Uniti, dove il retaggio del puritanesimo è ancora vivo. Non si dimentichi a tal riguardo che, per gli americani, la menzogna costituisce il più grave reato che un presidente della Repubblica possa compiere. Si pensi al caso Clinton-Lewinski . Le dimissioni di Renzi sono l’ultima cosa al mondo che augurerei all’Italia in questo momento. Riterrei invece necessario un dibattito dinanzi a una delle Camere, magari a seguito di una mozione di censura, non di sfiducia, perché porcherie del genere non abbiano più a ripetersi. Il Parlamento è ormai totalmente svuotato della sua principale funzione, quella legislativa. Da tempo legiferano i governi, o per delega o con i decreti: una grave alterazione del principio di separazione dei poteri. Purtroppo è così. Ma quel che è peggio è che se dovessero essere approvati sia l’Italicum che la riforma costituzionale, lo svuotamento della funzione legislativa del Parlamento, che ora è patologico, diverrebbe fisiologico.
Da Il Fatto Quotidiano del 17/01/2015.
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Re: Renzi
Del caso della famiglia Renzi se ne stanno occupando questa settimana :
Il Fatto Quotidiano
Il Corriere della Sera
Libero
Il Giorno
Il Giornale
tutti gli altri muti.
Come in completo e devoto silenzio i Tg e i talk.
Dire che buona parte dei media sono asserviti al potere, é sempre poco.
Le Tv di Silviolo tacciono. Devono preservare il pacco del Nazareno.
Se fossimo in campagna elettorale e al governo non ci fosse Renzi, come credete che si comporterebbero la tv di Silviolo?
Certo che siamo ancora ben primitivi.
il Fatto 17.1.15
Il papà di Renzi ora rischia anche la truffa
Dopo l’inchiesta che lo vede indagato per bancarotta, avviate nuove indagini sul mutuo insoluto pagato dallo Stato
di Davide Vecchi
Dal papà all’amico. La vicenda del mutuo insoluto della società Chil Post di Tiziano Renzi, rimborsato dallo Stato attraverso presunti illeciti compiuti dal padre del premier, ora coinvolge direttamente la banca che ha ricevuto il versamento. Gli accertamenti degli inquirenti della Procura di Genova, che hanno indagato il padre del premier per bancarotta fraudolenta per il fallimento della Chil Post, e quelli dei dirigenti della finanziaria della Regione Toscana si concentrano sul credito cooperativo di Pontassieve. I primi stanno valutando il possibile reato di truffa ai danni dello Stato, i secondi per approfondire eventuali omissioni e individuare quindi dei possibili responsabili da cui farsi eventualmente rimborsare il danno per i 263 mila euro elargiti da Fidi Toscana, la controllata dalla Regione.
DOPO L’INTERVENTO di due giorni fa del governatore Enrico Rossi, che ha annunciato al Fatto la volontà di approfondire se ci sono state delle responsabilità da parte dei familiari del premier annunciando le necessarie denuncie agli organi competenti, Fidi Toscana ieri ha avanzato richiesta formale alla banca di Pontassieve a fornire l’intera documentazione relativa al mutuo concesso alla Chil Post. La finanziaria controllata per il 49% dalla Regione, infatti, potrebbe rivalersi sull’istituto di credito: secondo il regolamento sottoscritto al momento della richiesta di garanzia avanzata dalla madre del premier, Laura Bo-voli, e dalle sorelle Benedetta e Matilde, la banca era obbligata a comunicare ogni variazione societaria, così come le titolari. Ma a Fidi Toscana, confermano al Fatto i vertici, il credito di Pontassieve ha comunicato solamente il cambio di nome di società da Chil a Chil Post. Non una riga sulla cessione di beni e servizi per due milioni di euro, quella che i pm di Genova ritengono la parte sana della società, né del cambio di sede e di proprietà. Informazioni fondamentali che, stando a quanto ammette Fidi Toscana, sono state trasmesse solo dopo la dichiarazione di fallimento nel 2011. A guidare la banca oggi è Matteo Spanò, un fedelissimo del Presidente del Consiglio dai tempi della Provincia di Firenze.
Cresciuti insieme negli scout, fin dai lupetti, Spanò guida anche il Museo dei Ragazzi controllato da Palazzo Vecchio, nominato per espresso desiderio di Renzi. Che lo aveva già insediato a capo della Florence Multimedia, società creata ad hoc nel 2004 dal non ancora rottamatore ma giovane presidente della Provincia e poi finita all’attenzione della Corte dei Conti per 9,2 milioni di euro spesi tra il 2006 e il 2009. Tra cui ci sono fatture pagate alla Dotmedia, impresa privata di Spanò. Alla Dotmedia, società che fino al 2012 è stata tra i fornitori del Comune di Firenze, sono finite anche alcune commesse dirette affidate dal Museo dei Ragazzi. Presieduto, come detto, sempre da Spanò. Un dato: Dotmedia è passata da 9 mila euro di fatturazione del 2008 ai 401 mila del 2011. Socio di Spanò era Andrea Conticini allo stesso tempo socio della Eventi 6, la società della famiglia Renzi: amministrata dalle sorelle Matilde e Benedetta, che ne detengono il 36 per cento ciascuna, insieme alla madre, Laura Bovoli, che ha l’8 per cento. Il restante 20 per cento era in mano a Conticini, marito di Matilde. Spanò dunque, è per Renzi un uomo di fiducia e di famiglia.
LA EVENTI 6 però è anche la società a cui la Chil Post cede la parte sana prima di fallire. E su questa si è concentrata l’inchiesta degli inquirenti liguri. Magistrati che, a quanto si apprende, nei mesi scorsi erano già arrivati a individuare il giro di fondi ricevuti da Fidi Toscana e hanno già acquisito la documentazione necessaria attraverso gli uomini della Guardia di Finanza che sequestrarono il materiale presso gli uffici dell’istituto di credito lo scorso settembre. L’ipotesi investigativa a carico di Tiziano Renzi è quella della truffa ai danni dello Stato.
Il Fatto Quotidiano
Il Corriere della Sera
Libero
Il Giorno
Il Giornale
tutti gli altri muti.
Come in completo e devoto silenzio i Tg e i talk.
Dire che buona parte dei media sono asserviti al potere, é sempre poco.
Le Tv di Silviolo tacciono. Devono preservare il pacco del Nazareno.
Se fossimo in campagna elettorale e al governo non ci fosse Renzi, come credete che si comporterebbero la tv di Silviolo?
Certo che siamo ancora ben primitivi.
il Fatto 17.1.15
Il papà di Renzi ora rischia anche la truffa
Dopo l’inchiesta che lo vede indagato per bancarotta, avviate nuove indagini sul mutuo insoluto pagato dallo Stato
di Davide Vecchi
Dal papà all’amico. La vicenda del mutuo insoluto della società Chil Post di Tiziano Renzi, rimborsato dallo Stato attraverso presunti illeciti compiuti dal padre del premier, ora coinvolge direttamente la banca che ha ricevuto il versamento. Gli accertamenti degli inquirenti della Procura di Genova, che hanno indagato il padre del premier per bancarotta fraudolenta per il fallimento della Chil Post, e quelli dei dirigenti della finanziaria della Regione Toscana si concentrano sul credito cooperativo di Pontassieve. I primi stanno valutando il possibile reato di truffa ai danni dello Stato, i secondi per approfondire eventuali omissioni e individuare quindi dei possibili responsabili da cui farsi eventualmente rimborsare il danno per i 263 mila euro elargiti da Fidi Toscana, la controllata dalla Regione.
DOPO L’INTERVENTO di due giorni fa del governatore Enrico Rossi, che ha annunciato al Fatto la volontà di approfondire se ci sono state delle responsabilità da parte dei familiari del premier annunciando le necessarie denuncie agli organi competenti, Fidi Toscana ieri ha avanzato richiesta formale alla banca di Pontassieve a fornire l’intera documentazione relativa al mutuo concesso alla Chil Post. La finanziaria controllata per il 49% dalla Regione, infatti, potrebbe rivalersi sull’istituto di credito: secondo il regolamento sottoscritto al momento della richiesta di garanzia avanzata dalla madre del premier, Laura Bo-voli, e dalle sorelle Benedetta e Matilde, la banca era obbligata a comunicare ogni variazione societaria, così come le titolari. Ma a Fidi Toscana, confermano al Fatto i vertici, il credito di Pontassieve ha comunicato solamente il cambio di nome di società da Chil a Chil Post. Non una riga sulla cessione di beni e servizi per due milioni di euro, quella che i pm di Genova ritengono la parte sana della società, né del cambio di sede e di proprietà. Informazioni fondamentali che, stando a quanto ammette Fidi Toscana, sono state trasmesse solo dopo la dichiarazione di fallimento nel 2011. A guidare la banca oggi è Matteo Spanò, un fedelissimo del Presidente del Consiglio dai tempi della Provincia di Firenze.
Cresciuti insieme negli scout, fin dai lupetti, Spanò guida anche il Museo dei Ragazzi controllato da Palazzo Vecchio, nominato per espresso desiderio di Renzi. Che lo aveva già insediato a capo della Florence Multimedia, società creata ad hoc nel 2004 dal non ancora rottamatore ma giovane presidente della Provincia e poi finita all’attenzione della Corte dei Conti per 9,2 milioni di euro spesi tra il 2006 e il 2009. Tra cui ci sono fatture pagate alla Dotmedia, impresa privata di Spanò. Alla Dotmedia, società che fino al 2012 è stata tra i fornitori del Comune di Firenze, sono finite anche alcune commesse dirette affidate dal Museo dei Ragazzi. Presieduto, come detto, sempre da Spanò. Un dato: Dotmedia è passata da 9 mila euro di fatturazione del 2008 ai 401 mila del 2011. Socio di Spanò era Andrea Conticini allo stesso tempo socio della Eventi 6, la società della famiglia Renzi: amministrata dalle sorelle Matilde e Benedetta, che ne detengono il 36 per cento ciascuna, insieme alla madre, Laura Bovoli, che ha l’8 per cento. Il restante 20 per cento era in mano a Conticini, marito di Matilde. Spanò dunque, è per Renzi un uomo di fiducia e di famiglia.
LA EVENTI 6 però è anche la società a cui la Chil Post cede la parte sana prima di fallire. E su questa si è concentrata l’inchiesta degli inquirenti liguri. Magistrati che, a quanto si apprende, nei mesi scorsi erano già arrivati a individuare il giro di fondi ricevuti da Fidi Toscana e hanno già acquisito la documentazione necessaria attraverso gli uomini della Guardia di Finanza che sequestrarono il materiale presso gli uffici dell’istituto di credito lo scorso settembre. L’ipotesi investigativa a carico di Tiziano Renzi è quella della truffa ai danni dello Stato.
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Re: Renzi
da Il Fatto Q -inserito su Renzi perché sono in sintonia
Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa
Al Mef c'è chi si porta via pure i timbri. Nel giro di due anni hanno subito provvedimenti disciplinari per reati penali anche 800 dipendenti della Guardia di Finanza. Neppure la Presidenza del Consiglio e il Consiglio di Stato sono immuni. Ecco la radiografia degli illeciti nelle istituzioni che non avete mai letto. E l'Anac corre ai ripari: dipendenti onesti, segnalate a noi
17 gennaio 2015
Al Tesoro c’è chi si porta via pure i timbri. Se parlare di 60 miliardi l’anno quasi non impressiona più, si possono però citare i 130 dipendenti della Difesa per i quali nel giro di due anni l’amministrazione ha avviato procedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti. Certo potevano essere anche di più, visto che l’amministrazione conta 31.589 dipendenti tra militari e civili. Fatto sta che tra il 2013 e il 2014 per 109 di loro è scattata la sospensione cautelare dal servizio con privazione della retribuzione, cinque sono stati licenziati in tronco. A cercare bene si scopre che neppure la Presidenza del Consiglio, coi suoi 3.382 dipendenti, è immune agli illeciti: negli ultimi due anni Palazzo Chigi ha dovuto vedersela con un dirigente accusato di peculato e sei procedimenti disciplinari legati a vicende penali, una delle quali per rivelazione di segreto d’ufficio. Nel frattempo al Ministero dell’Economia e Finanze si sono registrati 15 casi su 11.507 dipendenti, compreso quello che s’è portato a casa i timbri dell’ufficio, e vai a sapere per farne cosa.
La mappa anche le guardie fanno i ladri
Pillole da una casistica che disegna una inedita “mappa della corruzione” nelle amministrazioni che sono il cuore dello Stato. La si ottiene analizzando una per una le “relazioni annuali sull’attività anticorruzione” che i funzionari responsabili della prevenzione delle amministrazioni pubbliche devono predisporre entro il 31 dicembre di ogni anno, così come previsto dalla legge Severino (n.190/2012), le norme in fatto pubblicità e trasparenza (decreto n. 33/2013) e le successive “disposizioni sulla condotta per i pubblici dipendenti” (n. 62/2013). Prescrizioni cui ha contribuito in maniera importante l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), fornendo le linee guida del Piano nazionale anticorruzione, elaborando schemi operativi e modelli organizzativi e operativi per le amministrazioni e predisposto formulari destinati alla raccolta, gestione e diffusione dei dati nei piani triennali delle singole PA.
Un articolato sistema di prevenzione e contrasto che – visti i numeri – sembra ancora insufficiente a contenere un fenomeno che si consuma prevalentemente nelle amministrazioni statali. Il bubbone, infatti, è tutto lì, come certificano le 341 sentenze pronunciate negli ultimi 10 anni dalla Corte dei Conti per casi di corruzione e concussione: il 62% ha riguardato i dipendenti dello Stato, a pari merito col 12% quelli dei comuni, sanità, enti previdenziali e assistenziali. Residuali, al momento, i reati che riguardano province, regioni e università.
Dunque il problema è nel cuore dello Stato. E la tendenza non sembra cambiare, anzi. Dai documenti aggiornati a dicembre si apprende anzi di amministrazioni che hanno visto raddoppiare gli episodi di illecito penale nel giro di un anno. Al Ministero per i Beni culturali ad esempio erano stati 12 nel 2013, nel 2014 sono stati 24. Altri rapporti fanno intravedere la penetrazione verticale dell’inquinamento corruttivo. Non fa gli argine, ad esempio, il Consiglio di Stato. Siamo in casa di giudici, non ci si aspetterebbe che ladri e corrotti avessero dimora. Invece su 869 dipendenti sono stati avviati 15 provvedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti, due sono terminati con il licenziamento. E che cosa succede, allora, a casa delle guardie?
La Finanza reprime gli illeciti. Ma molto lavoro arriva direttamente dai suoi uffici, e su dimensioni di scala impressionanti. La Gdf conta 433 dirigenti, 2.477 ufficiali, 56mila tra ispettori, appuntati e finanzieri. Negli ultimi due anni le Fiamme Gialle hanno avviato ben 783 procedimenti disciplinari per fatti penali a carico dei propri dipendenti: 17 riguardano ufficiali, 766 personale non dirigente o direttivo. Con quali effetti e sanzioni? Una degradazione generale: 658 sanzioni disciplinari di corpo, 40 sospensioni disciplinari, 66 perdite di grado. Nota di colore: nel cortocircuito tra guardie e ladri spunta anche il finanziere “colluso con estranei per frodare la Finanza”.
La via italiana all’anticorruzione, visti questi, sembra ancora in salita. La difficoltà è palese, avvertita e denunciata sia dall’interno degli uffici pubblici e sia all’esterno, come in più occasioni ha segnalato la stessa Anac. I responsabili della trasparenza lo dicono chiaramente: a due anni dalla legge che è il perno delle politiche di contrasto al fenomeno, le amministrazioni non hanno poteri effettivi, non ricevono risorse adeguate, devono muoversi in un quadro normativo sempre più complesso e farraginoso che affastella leggi su leggi. Solo gli obblighi di pubblicazione hanno raggiunto quota 270. “Un monitoraggio efficace è difficilmente attuabile”, ammette Luigi Ferrara, da sei mesi responsabile anticorruzione del Mef, “anche in considerazione del fatto che l’Amministrazione non ha poteri d’indagine e che i terzi potenzialmente interessati sono molto numerosi”. E abbiamo visto quanto.
Una macchina senza benzina. Che non va avanti
Il dito è puntato sull’insufficienza di strumenti e risorse per debellare la natura pervasiva e sistemica della corruzione. Si è fatto un gran parlare dei fondi per l’authority, spesso centellinati in nome del risparmio. Per nulla di quelle che servono alle amministrazioni per utilizzare gli strumenti via via codificati dal legislatore per fare opera di prevenzione dall’interno. L’impressione, ammette un funzionario, è che si vuol fare la guerra a parole, a costo zero. E questo atteggiamento vanifica gli sforzi. Un esempio? Il personale individuato dalle amministrazioni per vigilare sui settori a maggior rischio si sarebbe dovuto formare “senza ulteriori oneri per lo Stato, nella Scuola superiore della pubblica amministrazione”. Questo dice la legge 190. Ma quasi mai succede. “Alcune misure e raccomandazioni, per lo più riferite alla Scuola Superiore dell’economia e delle finanze, sono state superate a seguito della soppressione della Scuola medesima”, fa notare con sottile ironia il responsabile anticorruzione del Mef, Luigi Ferrara. L’Anac gli dà ragione, sottolineando come il legislatore avesse assegnato alla formazione un ruolo essenziale, ma a distanza di un anno era ancora “la tessera mancante del mosaico”. Tanto che le attività progettate dalla Scuola nazionale dell’amministrazione “non si può dire siano andate a regime”.
A volte le carenze riguardano cose banali: “Mancano gli applicativi informatici ad hoc per il supporto dell’attività di monitoraggio e di attuazione delle misure anticorruzione”, mette a verbale il capo dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane del Miur, Sabrina Bono. Del resto, spiega, il nuovo complesso di norme che ha investito le amministrazioni si scontra con la mancanza di personale dedicato. Per far seguito agli impegni previsti dalla normativa anticorruzione la funzionaria si è avvalsa di un dirigente e di due funzionari che “hanno svolto tali funzioni congiuntamente ai compiti assegnati in ragione dell’ufficio d’appartenenza”. Uno modo delicato per dire che non c’è personale da dedicare alla missione, a fronte di un aumento esponenziale degli adempimenti. In questo quadro, l’invito a ciascuna amministrazione a disegnare una propria politica di prevenzione rischia di cadere nel vuoto.
L’authority chiama in causa la politica
Sono criticità ben note all’Anac che negli anni ha lanciato più volte l’allarme sul rischio che le iniziative assunte si traducano in un mero adempimento formale degli obblighi, senza effetti reali sul malcostume nella cosa pubblica. Già nel primo anno di applicazione della 190/2012 l’Autorità chiamava in causa la politica e inviava al Parlamento una durissima relazione: “Appare particolarmente problematica – si legge – la constatazione che il livello politico non abbia mostrato particolare determinazione e impegno”. La rampogna era diretta al legislatore che affastellava leggi su leggi per spegnere l’incendio della corruzione salvo dimenticarsi di aprire i rubinetti. Ma era rivolta anche ai vertici delle amministrazioni pubbliche che all’invito a render conto delle proprie attività, segnatamente in fatto di trasparenza, rispondevano alzando un muro di gomma. Dopo un anno, per dire, solo l’8% dei ministeri si era premurata di indicare un responsabile interno. Molte non trasmettevano i dati, altre non davano seguito agli obblighi in materia di pubblicazione. Con la beffa finale, segnalata direttamente da Cantone pochi mesi dopo, per cui – a fronte del quadro sopra descritto – “la quasi totalità dei dirigenti pubblici ha conseguito una valutazione non inferiore al 90% del livello massimo atteso”.
Quelle denunce mai fatte. Ecco l’ultima speranza
Il dato fa poi il paio con la scarsa propensione dei dipendenti degli “uffici” a denunciare “fatti penalmente rilevanti per i quali siano venuti a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro”. Doveva essere la mina che fa saltare il sistema dall’interno, il famoso whisteblowing di matrice anglosassone, tanto enfatizzato dai mezzi di informazione all’indomani dell’approvazione della legge Severino. E quanti “sussurrano”? Pochi, quasi nessuno. Le “Relazioni” dei responsabili anticorruzione confermano che le segnalazioni si contano sulle dita di una mano e che quasi mai arrivano da dentro gli uffici, nonostante la promessa protezione contro rappresaglie e discriminazioni. Se ci sono, quasi sempre arrivano da fuori. Esempi. La Difesa, con 30mila dipendenti, registra un solo caso che abbia comportato una misura di tutela del segnalante. Il Ministero dell’Istruzione ha 4.223 dipendenti in servizio. Il responsabile anticorruzione nel suo rapporto conferma che la procedura è attivata via mail. Quanti l’hanno usata in due anni? Nessuno. Segno che il timore e l’omertà tengono ancora banco negli “uffici”. E forse per questo lo scorso 9 gennaio l’Anac ha diramato una nota per segnalare la propria competenza a ricevere segnalazioni. L’indirizzo è whistleblowing@anticorruzione.it.
Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa
Al Mef c'è chi si porta via pure i timbri. Nel giro di due anni hanno subito provvedimenti disciplinari per reati penali anche 800 dipendenti della Guardia di Finanza. Neppure la Presidenza del Consiglio e il Consiglio di Stato sono immuni. Ecco la radiografia degli illeciti nelle istituzioni che non avete mai letto. E l'Anac corre ai ripari: dipendenti onesti, segnalate a noi
17 gennaio 2015
Al Tesoro c’è chi si porta via pure i timbri. Se parlare di 60 miliardi l’anno quasi non impressiona più, si possono però citare i 130 dipendenti della Difesa per i quali nel giro di due anni l’amministrazione ha avviato procedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti. Certo potevano essere anche di più, visto che l’amministrazione conta 31.589 dipendenti tra militari e civili. Fatto sta che tra il 2013 e il 2014 per 109 di loro è scattata la sospensione cautelare dal servizio con privazione della retribuzione, cinque sono stati licenziati in tronco. A cercare bene si scopre che neppure la Presidenza del Consiglio, coi suoi 3.382 dipendenti, è immune agli illeciti: negli ultimi due anni Palazzo Chigi ha dovuto vedersela con un dirigente accusato di peculato e sei procedimenti disciplinari legati a vicende penali, una delle quali per rivelazione di segreto d’ufficio. Nel frattempo al Ministero dell’Economia e Finanze si sono registrati 15 casi su 11.507 dipendenti, compreso quello che s’è portato a casa i timbri dell’ufficio, e vai a sapere per farne cosa.
La mappa anche le guardie fanno i ladri
Pillole da una casistica che disegna una inedita “mappa della corruzione” nelle amministrazioni che sono il cuore dello Stato. La si ottiene analizzando una per una le “relazioni annuali sull’attività anticorruzione” che i funzionari responsabili della prevenzione delle amministrazioni pubbliche devono predisporre entro il 31 dicembre di ogni anno, così come previsto dalla legge Severino (n.190/2012), le norme in fatto pubblicità e trasparenza (decreto n. 33/2013) e le successive “disposizioni sulla condotta per i pubblici dipendenti” (n. 62/2013). Prescrizioni cui ha contribuito in maniera importante l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), fornendo le linee guida del Piano nazionale anticorruzione, elaborando schemi operativi e modelli organizzativi e operativi per le amministrazioni e predisposto formulari destinati alla raccolta, gestione e diffusione dei dati nei piani triennali delle singole PA.
Un articolato sistema di prevenzione e contrasto che – visti i numeri – sembra ancora insufficiente a contenere un fenomeno che si consuma prevalentemente nelle amministrazioni statali. Il bubbone, infatti, è tutto lì, come certificano le 341 sentenze pronunciate negli ultimi 10 anni dalla Corte dei Conti per casi di corruzione e concussione: il 62% ha riguardato i dipendenti dello Stato, a pari merito col 12% quelli dei comuni, sanità, enti previdenziali e assistenziali. Residuali, al momento, i reati che riguardano province, regioni e università.
Dunque il problema è nel cuore dello Stato. E la tendenza non sembra cambiare, anzi. Dai documenti aggiornati a dicembre si apprende anzi di amministrazioni che hanno visto raddoppiare gli episodi di illecito penale nel giro di un anno. Al Ministero per i Beni culturali ad esempio erano stati 12 nel 2013, nel 2014 sono stati 24. Altri rapporti fanno intravedere la penetrazione verticale dell’inquinamento corruttivo. Non fa gli argine, ad esempio, il Consiglio di Stato. Siamo in casa di giudici, non ci si aspetterebbe che ladri e corrotti avessero dimora. Invece su 869 dipendenti sono stati avviati 15 provvedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti, due sono terminati con il licenziamento. E che cosa succede, allora, a casa delle guardie?
La Finanza reprime gli illeciti. Ma molto lavoro arriva direttamente dai suoi uffici, e su dimensioni di scala impressionanti. La Gdf conta 433 dirigenti, 2.477 ufficiali, 56mila tra ispettori, appuntati e finanzieri. Negli ultimi due anni le Fiamme Gialle hanno avviato ben 783 procedimenti disciplinari per fatti penali a carico dei propri dipendenti: 17 riguardano ufficiali, 766 personale non dirigente o direttivo. Con quali effetti e sanzioni? Una degradazione generale: 658 sanzioni disciplinari di corpo, 40 sospensioni disciplinari, 66 perdite di grado. Nota di colore: nel cortocircuito tra guardie e ladri spunta anche il finanziere “colluso con estranei per frodare la Finanza”.
La via italiana all’anticorruzione, visti questi, sembra ancora in salita. La difficoltà è palese, avvertita e denunciata sia dall’interno degli uffici pubblici e sia all’esterno, come in più occasioni ha segnalato la stessa Anac. I responsabili della trasparenza lo dicono chiaramente: a due anni dalla legge che è il perno delle politiche di contrasto al fenomeno, le amministrazioni non hanno poteri effettivi, non ricevono risorse adeguate, devono muoversi in un quadro normativo sempre più complesso e farraginoso che affastella leggi su leggi. Solo gli obblighi di pubblicazione hanno raggiunto quota 270. “Un monitoraggio efficace è difficilmente attuabile”, ammette Luigi Ferrara, da sei mesi responsabile anticorruzione del Mef, “anche in considerazione del fatto che l’Amministrazione non ha poteri d’indagine e che i terzi potenzialmente interessati sono molto numerosi”. E abbiamo visto quanto.
Una macchina senza benzina. Che non va avanti
Il dito è puntato sull’insufficienza di strumenti e risorse per debellare la natura pervasiva e sistemica della corruzione. Si è fatto un gran parlare dei fondi per l’authority, spesso centellinati in nome del risparmio. Per nulla di quelle che servono alle amministrazioni per utilizzare gli strumenti via via codificati dal legislatore per fare opera di prevenzione dall’interno. L’impressione, ammette un funzionario, è che si vuol fare la guerra a parole, a costo zero. E questo atteggiamento vanifica gli sforzi. Un esempio? Il personale individuato dalle amministrazioni per vigilare sui settori a maggior rischio si sarebbe dovuto formare “senza ulteriori oneri per lo Stato, nella Scuola superiore della pubblica amministrazione”. Questo dice la legge 190. Ma quasi mai succede. “Alcune misure e raccomandazioni, per lo più riferite alla Scuola Superiore dell’economia e delle finanze, sono state superate a seguito della soppressione della Scuola medesima”, fa notare con sottile ironia il responsabile anticorruzione del Mef, Luigi Ferrara. L’Anac gli dà ragione, sottolineando come il legislatore avesse assegnato alla formazione un ruolo essenziale, ma a distanza di un anno era ancora “la tessera mancante del mosaico”. Tanto che le attività progettate dalla Scuola nazionale dell’amministrazione “non si può dire siano andate a regime”.
A volte le carenze riguardano cose banali: “Mancano gli applicativi informatici ad hoc per il supporto dell’attività di monitoraggio e di attuazione delle misure anticorruzione”, mette a verbale il capo dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane del Miur, Sabrina Bono. Del resto, spiega, il nuovo complesso di norme che ha investito le amministrazioni si scontra con la mancanza di personale dedicato. Per far seguito agli impegni previsti dalla normativa anticorruzione la funzionaria si è avvalsa di un dirigente e di due funzionari che “hanno svolto tali funzioni congiuntamente ai compiti assegnati in ragione dell’ufficio d’appartenenza”. Uno modo delicato per dire che non c’è personale da dedicare alla missione, a fronte di un aumento esponenziale degli adempimenti. In questo quadro, l’invito a ciascuna amministrazione a disegnare una propria politica di prevenzione rischia di cadere nel vuoto.
L’authority chiama in causa la politica
Sono criticità ben note all’Anac che negli anni ha lanciato più volte l’allarme sul rischio che le iniziative assunte si traducano in un mero adempimento formale degli obblighi, senza effetti reali sul malcostume nella cosa pubblica. Già nel primo anno di applicazione della 190/2012 l’Autorità chiamava in causa la politica e inviava al Parlamento una durissima relazione: “Appare particolarmente problematica – si legge – la constatazione che il livello politico non abbia mostrato particolare determinazione e impegno”. La rampogna era diretta al legislatore che affastellava leggi su leggi per spegnere l’incendio della corruzione salvo dimenticarsi di aprire i rubinetti. Ma era rivolta anche ai vertici delle amministrazioni pubbliche che all’invito a render conto delle proprie attività, segnatamente in fatto di trasparenza, rispondevano alzando un muro di gomma. Dopo un anno, per dire, solo l’8% dei ministeri si era premurata di indicare un responsabile interno. Molte non trasmettevano i dati, altre non davano seguito agli obblighi in materia di pubblicazione. Con la beffa finale, segnalata direttamente da Cantone pochi mesi dopo, per cui – a fronte del quadro sopra descritto – “la quasi totalità dei dirigenti pubblici ha conseguito una valutazione non inferiore al 90% del livello massimo atteso”.
Quelle denunce mai fatte. Ecco l’ultima speranza
Il dato fa poi il paio con la scarsa propensione dei dipendenti degli “uffici” a denunciare “fatti penalmente rilevanti per i quali siano venuti a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro”. Doveva essere la mina che fa saltare il sistema dall’interno, il famoso whisteblowing di matrice anglosassone, tanto enfatizzato dai mezzi di informazione all’indomani dell’approvazione della legge Severino. E quanti “sussurrano”? Pochi, quasi nessuno. Le “Relazioni” dei responsabili anticorruzione confermano che le segnalazioni si contano sulle dita di una mano e che quasi mai arrivano da dentro gli uffici, nonostante la promessa protezione contro rappresaglie e discriminazioni. Se ci sono, quasi sempre arrivano da fuori. Esempi. La Difesa, con 30mila dipendenti, registra un solo caso che abbia comportato una misura di tutela del segnalante. Il Ministero dell’Istruzione ha 4.223 dipendenti in servizio. Il responsabile anticorruzione nel suo rapporto conferma che la procedura è attivata via mail. Quanti l’hanno usata in due anni? Nessuno. Segno che il timore e l’omertà tengono ancora banco negli “uffici”. E forse per questo lo scorso 9 gennaio l’Anac ha diramato una nota per segnalare la propria competenza a ricevere segnalazioni. L’indirizzo è whistleblowing@anticorruzione.it.
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Re: Renzi
Renzi : come lo vede Tsipras
di Luca Sappino, L’Espresso - «Renzi presenta un forte dualismo, è come se si trattasse, quasi, potremmo dire, di una personalità scissa». A parlare è Alexis Tsipras, leader di Syriza, il partito della sinistra greca che i sondaggi ancora oggi, a pochi giorni dalle elezioni, indicano come vincitore e primo partito del paese.
«Per metà, in Europa, il suo profilo deve essere quello di un leader che rivendica una prospettiva diversa da quella dell’austerità e del patto di stabilità, visto che stanno strozzando anche l’Italia», sono le parole di Tsipras, su Matteo Renzi, raccolte nel libro di Teodoro Andreadis Synghellakis, “Alexis Tsipras, la mia Sinistra” (edizioni Bordeaux), in libreria da martedì, con la prefazione di Stefano Rodotà: «L’altra metà del profilo, tuttavia, è quello di un politico che avanza come un’asfaltatrice, allo scopo di imporre le riforme neoliberiste all’interno del paese, nella riorganizzazione produttiva e la liberalizzazione dell’economia, misure dalle quali, ovviamente, può trarre giovamento solo l’elite con le lobby economiche».
Il giudizio quindi è severo, al netto di alcune aperture diplomatiche. Se da una parte Tsipras cerca di scrollarsi di dosso la nomea di nemico pubblico numero uno dell’Europa unita, dall’altra ha ben chiaro cosa dovrebbe fare, e non fa, il premier italiano, tra semestre europeo e rapporto con Angela Merkel.
di Luca Sappino, L’Espresso - «Renzi presenta un forte dualismo, è come se si trattasse, quasi, potremmo dire, di una personalità scissa». A parlare è Alexis Tsipras, leader di Syriza, il partito della sinistra greca che i sondaggi ancora oggi, a pochi giorni dalle elezioni, indicano come vincitore e primo partito del paese.
«Per metà, in Europa, il suo profilo deve essere quello di un leader che rivendica una prospettiva diversa da quella dell’austerità e del patto di stabilità, visto che stanno strozzando anche l’Italia», sono le parole di Tsipras, su Matteo Renzi, raccolte nel libro di Teodoro Andreadis Synghellakis, “Alexis Tsipras, la mia Sinistra” (edizioni Bordeaux), in libreria da martedì, con la prefazione di Stefano Rodotà: «L’altra metà del profilo, tuttavia, è quello di un politico che avanza come un’asfaltatrice, allo scopo di imporre le riforme neoliberiste all’interno del paese, nella riorganizzazione produttiva e la liberalizzazione dell’economia, misure dalle quali, ovviamente, può trarre giovamento solo l’elite con le lobby economiche».
Il giudizio quindi è severo, al netto di alcune aperture diplomatiche. Se da una parte Tsipras cerca di scrollarsi di dosso la nomea di nemico pubblico numero uno dell’Europa unita, dall’altra ha ben chiaro cosa dovrebbe fare, e non fa, il premier italiano, tra semestre europeo e rapporto con Angela Merkel.
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Re: Renzi
iospero ha scritto:Renzi : come lo vede Tsipras
di Luca Sappino, L’Espresso - «Renzi presenta un forte dualismo, è come se si trattasse, quasi, potremmo dire, di una personalità scissa». A parlare è Alexis Tsipras, leader di Syriza, il partito della sinistra greca che i sondaggi ancora oggi, a pochi giorni dalle elezioni, indicano come vincitore e primo partito del paese.
«Per metà, in Europa, il suo profilo deve essere quello di un leader che rivendica una prospettiva diversa da quella dell’austerità e del patto di stabilità, visto che stanno strozzando anche l’Italia», sono le parole di Tsipras, su Matteo Renzi, raccolte nel libro di Teodoro Andreadis Synghellakis, “Alexis Tsipras, la mia Sinistra” (edizioni Bordeaux), in libreria da martedì, con la prefazione di Stefano Rodotà: «L’altra metà del profilo, tuttavia, è quello di un politico che avanza come un’asfaltatrice, allo scopo di imporre le riforme neoliberiste all’interno del paese, nella riorganizzazione produttiva e la liberalizzazione dell’economia, misure dalle quali, ovviamente, può trarre giovamento solo l’elite con le lobby economiche».
Il giudizio quindi è severo, al netto di alcune aperture diplomatiche. Se da una parte Tsipras cerca di scrollarsi di dosso la nomea di nemico pubblico numero uno dell’Europa unita, dall’altra ha ben chiaro cosa dovrebbe fare, e non fa, il premier italiano, tra semestre europeo e rapporto con Angela Merkel.
Aggiungerei.
Nessuna meraviglia tuttavia. Non ci troviamo di fronte ad alcun disturbo di personalità.
Difatti gli obiettivi di Renzi sono la carriera di Renzi stesso.
A tal fine, dunque, l'immagine di contestatore dell'Europa gli conquista voti, così come
le riforme neoliberiste gli conquistano appoggi "forti".
Entrambe le "facce", dunque, risultano perfettamente strumentali.
soloo42000
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Re: Renzi
il Fatto 18.1.15
La denuncia
Il professor Pace e le regole saltate a Palazzo Chigi
ERA STATO il professor Alessandro Pace, giurista di fama, a chiarire ieri al Fatto Quotidiano che la “manina” del governo sulla depenalizzazione dell’evasione e della frode fiscale sotto il 3% dell’imponibile non poteva essere classificata come una guasconata del giovane premier. È infatti configurabile come reato. Perché? “Perché il presidente Renzi, pur ricoprendo la massima carica politica del nostro ordinamento costituzionale, ha usato un sotterfugio per far sì che una sua volizione ‘individuale’ assumesse le sembianze di una disposizione legislativa approvata con tutti i crismi dal Consiglio dei ministri, contro la verità dei fatti”. Negli Stati Uniti, lo facesse Obama, rischierebbe l’impeachment.
La denuncia
Il professor Pace e le regole saltate a Palazzo Chigi
ERA STATO il professor Alessandro Pace, giurista di fama, a chiarire ieri al Fatto Quotidiano che la “manina” del governo sulla depenalizzazione dell’evasione e della frode fiscale sotto il 3% dell’imponibile non poteva essere classificata come una guasconata del giovane premier. È infatti configurabile come reato. Perché? “Perché il presidente Renzi, pur ricoprendo la massima carica politica del nostro ordinamento costituzionale, ha usato un sotterfugio per far sì che una sua volizione ‘individuale’ assumesse le sembianze di una disposizione legislativa approvata con tutti i crismi dal Consiglio dei ministri, contro la verità dei fatti”. Negli Stati Uniti, lo facesse Obama, rischierebbe l’impeachment.
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