quo vadis PD ????
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Re: quo vadis PD ????
"Ma anche i furbi commettono un errore quando danno per scontato che tutti gli altri siano stupidi. E invece non tutti sono stupidi, impiegano solo un po' più di tempo a capire, tutto qui".
Robert Harris, "Archangel"
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Re: quo vadis PD ????
per il conte camillo
io sono stato in contatto con il gruppo civati, sono andato a votarlo alle primarie pd, ma la mia idea è quella di costruire un movimento a sinistra del pd se possibile socialista senza blariani e pseudodc.
non sono in contatto con civati ma con un suo referente.
io sono stato in contatto con il gruppo civati, sono andato a votarlo alle primarie pd, ma la mia idea è quella di costruire un movimento a sinistra del pd se possibile socialista senza blariani e pseudodc.
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Re: quo vadis PD ????
aaaa42 ha scritto:per il conte camillo
io sono stato in contatto con il gruppo civati, sono andato a votarlo alle primarie pd, ma la mia idea è quella di costruire un movimento a sinistra del pd se possibile socialista senza blariani e pseudodc.
non sono in contatto con civati ma con un suo referente.
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Il Partito Socialista Italiano è stato il primo partito della sinistra italiana. Fondato nel 1892 a Genova, parte con il nome di Partito dei Lavoratori Italiani per poi prendere definitivamente per oltre cent’anni come PSI, dopo il congresso di Parma, dove verrà affiancato da un nuovo partito di sinistra, non marxista, nel 1895.
Non è stato di certo un monolite per quanto riguarda l’unità di pensiero, perché già dagli inizi presenta una vita tormentata.
Prendendo in campo neutro di Wikipedia:
L'uscita dei sindacalisti rivoluzionari (1907)[modifica | modifica sorgente]
La repressione dei moti popolari del 1898 affievolisce il partito che decide di promuovere l'alleanza di tutti partiti dell'estrema sinistra (socialista, repubblicano, radicale). La direzione turatiana vede di buon occhio l'apertura liberale di Giovanni Giolitti nel 1901. Ma in reazione alla politica dei blocchi popolari e al ministerialismo dei riformisti, dal 1902 appare una corrente rivoluzionaria, guidata da Arturo Labriola, che condivide con l'intransigente Enrico Ferri la direzione del partito dal 1904 al 1906. Dopo lo sciopero generale del settembre 1904 - il primo di questa ampiezza in Italia -, questa corrente propugna i metodi delsindacalismo rivoluzionario mentre i suoi rapporti con il resto del partito vanno peggiorando a tal punto che in un suo congresso, avvenuto a Ferrara nel 1907, è decisa l'uscita dal partito e l'incremento dell'azione autonoma sindacale.
Crescenti divisioni, la presenza di Mussolini (1910)[modifica | modifica sorgente]
Il congresso tenuto a Milano nel 1910 mette in luce crescenti insoddisfazioni e nuove divisioni: Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi criticano Turati da destra, Giuseppe Emanuele Modigliani e Gaetano Salvemini da sinistra. All'estrema sinistra si schiera invece Benito Mussolini, che, in qualità di rappresentante della federazione di Forlì, partecipa per la prima volta ad un congresso nazionale del partito.
La scissione del PSRI di Bissolati (1912)[modifica | modifica sorgente]
Il congresso straordinario, convocato a Reggio Emilia, inasprisce le divisioni che attraversano il Partito riguardo all'impresa di Libia. Trionfa la corrente massimalista di Benito Mussolini e si sancisce l'espulsione di una delle aree riformiste, capeggiata da Ivanoe Bonomi e Leonida Bissolati. Quest'ultimo, nel 1911 si era recato al Quirinale per le consultazioni susseguenti la crisi del Governo Luzzatti, causando il malcontento del resto del partito, compreso quello di Turati, esponente di spicco dell'altra corrente riformista. Bissolati e i suoi danno vita al Partito Socialista Riformista Italiano (PSRI).
La crisi dell'interventismo, Mussolini e il socialismo nazionale (1914-1919)[modifica | modifica sorgente]
Allo scoppio della Prima guerra mondiale il partito sviluppò un forte impegno per la neutralità dell'Italia, ma con forti spaccature al suo interno che troveranno un punto di mediazione nella formula "né aderire né sabotare" di Costantino Lazzari. Allo stesso tempo con l'espulsione diBenito Mussolini dichiaratosi interventista, i nuovi socialisti nazionali da lui guidati e racchiusi intorno al giornale Il Popolo d'Italia daranno vita nel marzo 1919 ai Fasci italiani di combattimento, movimento di ispirazione socialista rivoluzionaria e nazionalista.
A partire dagli anni venti, con l'emergere del Partito Nazionale Fascista, le diverse anime del movimento socialista si mossero separatamente dando vita a tre differenti partiti.
La scissione comunista, quella riformista e la clandestinità[modifica | modifica sorgente]
Nel 1921 si tiene a Livorno il XVII congresso del partito. Dopo giorni di dibattito serrato, i massimalisti unitari di Giacinto Menotti Serrati raccolgono 89.028 voti, i comunisti puri 58.783 ed i riformisti concentrazionisti 14.695. I comunisti di Amadeo Bordiga escono dal congresso e fondano il Partito Comunista d'Italia, con lo scopo di aderire ai 21 punti dell'Internazionale Comunista.Lenin, infatti, aveva invitato il PSI a conformarsi ai dettami e ad espellere la corrente riformista di Turati, Treves e Prampolini, ricevendo tuttavia il diniego da parte di Giacinto Menotti Serrati, che non intendeva affatto rompere con alcune delle voci più autorevoli, seppur minoritarie, del partito.
Nell'estate del 1922 Turati, senza rispettare la disciplina del partito, si reca da Vittorio Emanuele III per le rituali consultazioni per risolvere la crisi di governo, ma non fu possibile raggiungere un accordo con Giolitti e il re diede l'incarico a Luigi Facta. Per aver violato il divieto di collaborazione con i partiti borghesi, nell'ottobre del 1922 la corrente riformista viene espulsa a pochi giorno della Marcia su Roma di Benito Mussolini. Turati e i suoi danno quindi vita al Partito Socialista Unitario, il cui segretario, Giacomo Matteotti, sarà rapito e ucciso da alcuni fascisti il 10 giugno 1924.
Tra il 1925 e il 1926 Mussolini vieta i partiti e costringe all'esilio o al confino i socialisti. È proprio durante l'esilio che, nel 1930, in Francia, avviene la riunificazione tra i riformisti di Turati e i massimalisti, guidati dal giovane Pietro Nenni.
*
Nelle varie scissioni occorre ricordare il particolare percorso di Nicolò Bombacci, che uscì dal PSI per fondare il PCI, e successivamente si avvicinò al fascismo.
Nel dopo guerra, un, due, tre, pronti via, si ricomincia con le scissioni. A Palazzo Barberini, nel 1947, se ne va Giuseppe Saragat, che dopo una serie di passaggi, nella migliore tradizione della sinistra italiana, approda nel 1952 al PSDI.
Di nuovo nel 1964, la grande malattia scissionista della sinistra si manifesta in Tullio Vecchietti & Co, che si stacca dal PSI per dare vita al PSIUP.
Una vita tormentata quindi, fatta di continue scissioni.
Non che la destra ed il centro siano stati dei modelli di unità, ma avevano altre impostazioni. Ad esempio la Dc era spaccata in correnti che si combattevano atrocemente, ma sapevano deporre le armi ed unirsi quando il nemico era alle porte, per poi tornarsi a divedere dopo la battaglia.
La sinistra no, invece di unirsi di divide.
Come già riportato più volte in questi ultimi due anni, il primo ciclo della sinistra italiana può considerarsi definitivamente esaurito.
Fausto Bertinotti, che di cose sensate ne ha dette veramente pochine nell’arco della sua vita politica, una però l’ha centrata.
“Fino a quando ci saranno disparità sociali, la sinistra esisterà sempre”.
Già molti anni prima del ritorno del Caimano, nel 1991, le disparità fra mondo del lavoro e la classe dirigente e dominante erano ben evidenti.
Oggi con la crisi si sono accentuate.
Sono quindi questi i tempi della ripartenza della sinistra italiana dopo aver toccato il fondo. Una nuova sinistra che deve nascere sulle riflessioni di tutti i madornali errori commessi in questi 122 anni, cercando di mettere bene in evidenza che è l’unione che fa la forza, e non il suo contrario che si assoggetta al vecchio detto: “Dividi et impera”.
Ecco perché un forum diventa uno strumento utile per confrontare tutte le frontiere del pensiero della sinistra, tenendo ben presente il filmato breve di Francesca Fornario, autrice di:
il candidato leninista curdo
https://www.youtube.com/watch?v=nkNcHPS3vd0
che mette molto bene in evidenza i limiti della sinistra che causano scissioni.
Anche questo forum ne è una diretta testimonianza a partire dallo storico “Ulivo.it”, considerato all’epoca il secondo forum politico nazionale, anche se nessuno è stato mai in grado di indicarmi quale fosse il primo.
L’ultima scissione è avvenuta a causa della nuova divisione nella sinistra. L’adorazione di Renzi per alcuni, e il suo rifiuto per altri.
Tutto secondo i rigidi canoni della sinistra.
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Re: quo vadis PD ????
IL PARTITO SOCIALISTA DI UNITA PROLETARIA : tutti abbiamo sempre pensato al mitico PSIUP come un piccolo partito fatto di grandi e nobili personaggi politici.
Un partito OMOGENEO piccolo, ma una piccola comunità politica di intellettuali di sinistra , socialisti e soprattutto LIBERTARI.
era cosi ?
uniti grandi bravi ????
ovviamente no .
IL PSIUP aveva 2 leaders uno era il TULLIO VECCHIETTI e l' altro era il VITTORIO FOA.
cosa avevano in comune questi 2 personaggi ?
ovviamente NIENTE.
Il Vecchietti era chiamato il 'CARRISTA' sognava i carri armati russi a roma ogni notte.
L' altro il FOA era un libertario di pura razza, sarebbe da dire un ' ANARCHICO'.
Il primo un comunista che definiva Stalin un ' moderato' l' altro un SOCIALISTA amico di TROSKY.
Il Vecchietti si alzava alle 6 di mattina a Roma e si metteva alla finestra con la bandiera rossa dell' URSS e aspettava i carri armati sovietici.
Il secondo Vittorio Foa prendeva il suo enorme bazooka è una volta alla settimana andava al confine Nuova Gorizia , si toglieva gli ' occhialetti' spessore 20 centimetri ed indossa gli occhiali spessore 70 cm.
e con il bozzoka sulle spalle camminava lungo il confine, qualsiasi carro armato sovietico era sotto il suo tiro.
Il Vecchietti dopo 10 anni che aspettava a Roma i russi ebbe un GRAVISSIMA CRISI DEPRESSIVA e si dimise da segretario del PSIUP.
Segretario divenne il prof. Vittorio Foa già segretario generale della Cgil.
I socialisti sono persone libere .
Caro conte Camillo tiene presente che il PSIUP era un partito 'OMOGENEO'.
Un partito OMOGENEO piccolo, ma una piccola comunità politica di intellettuali di sinistra , socialisti e soprattutto LIBERTARI.
era cosi ?
uniti grandi bravi ????
ovviamente no .
IL PSIUP aveva 2 leaders uno era il TULLIO VECCHIETTI e l' altro era il VITTORIO FOA.
cosa avevano in comune questi 2 personaggi ?
ovviamente NIENTE.
Il Vecchietti era chiamato il 'CARRISTA' sognava i carri armati russi a roma ogni notte.
L' altro il FOA era un libertario di pura razza, sarebbe da dire un ' ANARCHICO'.
Il primo un comunista che definiva Stalin un ' moderato' l' altro un SOCIALISTA amico di TROSKY.
Il Vecchietti si alzava alle 6 di mattina a Roma e si metteva alla finestra con la bandiera rossa dell' URSS e aspettava i carri armati sovietici.
Il secondo Vittorio Foa prendeva il suo enorme bazooka è una volta alla settimana andava al confine Nuova Gorizia , si toglieva gli ' occhialetti' spessore 20 centimetri ed indossa gli occhiali spessore 70 cm.
e con il bozzoka sulle spalle camminava lungo il confine, qualsiasi carro armato sovietico era sotto il suo tiro.
Il Vecchietti dopo 10 anni che aspettava a Roma i russi ebbe un GRAVISSIMA CRISI DEPRESSIVA e si dimise da segretario del PSIUP.
Segretario divenne il prof. Vittorio Foa già segretario generale della Cgil.
I socialisti sono persone libere .
Caro conte Camillo tiene presente che il PSIUP era un partito 'OMOGENEO'.
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Re: quo vadis PD ????
19 APR 2014 11:55
1. RENZI È MATTO O ESISTE UN MATTO CHE A PALAZZO CHIGI SI SPACCIA PER RENZI? ESSÌ, IL CICLONE FIORENTINO HA OSATO L’INOSABILE: SFORBICIARE I MAGISTRATI DEI PIÙ ALTI GRADI NEI LORO SUPERSTIPENDI E METTERE ALLA BERLINA NEI LORO TIC DI CASTA INTOCCABILE -
2. “MI ASPETTO CHE I MAGISTRATI NON COMMENTINO LA FORMAZIONE DELLE LEGGI CHE LI RIGUARDANO, COME IO - PER RISPETTO AL PRINCIPIO DELLA SEPARAZIONE DEI POTERI - NON COMMENTO LA FORMAZIONE DELLE SENTENZE. SONO LIBERI E INDIPENDENTI PERCHÉ LO SONO NELLA PROPRIA COSCIENZA, E NON PER I 311MILA EURO DI COMPENSO ANNUI” -
3. LA REAZIONE DEL PRESIDENTE DELL'ANM SABELLI È PICCATA: “COSÌ COME SI POSSONO COMMENTARE E CRITICARE LE SENTENZE, SI POSSONO COMMENTARE E CRITICARE LE LEGGI” - -
Laura Cesaretti per Il Giornale
Sforbiciati nei loro stipendi e messi alla berlina nei loro tic: la casta dei magistrati esce assai ammaccata dall' «oraics» di Matteo Renzi. Che li zittisce pure, usando uno dei loro più antichi argomenti: «Mi aspetto che i magistrati non commentino la formazione delle leggi che li riguardano, come io - per rispetto al principio della separazione dei poteri - non commento la formazione delle sentenze». La reazione del presidente dell'Anm è piccata: «Così come si possono commentare e criticare le sentenze, si possono commentare e criticare le leggi».
Al premier non è andata giù la reazione corporativa all'annuncio che anche i super stipendi degli alti magistrati sarebbero caduti sotto la scure della spending review, che neanche a loro sarebbe stato permesso di guadagnare più del Capo dello Stato. Mentre il primo presidente della Corte di Cassazione oggi si mette in tasca 70mila euro l'anno più di Giorgio Napolitano, per un totale di 311mila euro.
Nella conferenza stampa di ieri Renzi ha voluto dirlo chiaro e tondo, rompendo un altro tabù della sinistra: «I miei collaboratori mi dicono che non dovrei mai parlare di magistratura in pubblico, ma io lo dico lo stesso perché è giusto - esordisce Renzi - non credo che portare lo stipendio di un alto magistrato da 311mila a 240mila euro sia un attentato alla libertà e all'indipendenza della magistratura. Direi che quella cifra è un equo compenso. Accusare il governo di attentare alla funzione della magistratura per questo è un atteggiamento da respingere al mittente».
Una vera e propria intemerata, incassata molto male dalle parti del sindacato delle toghe, l'Anm. Che alla vigilia del decreto governativo aveva firmato un minaccioso comunicato, proprio quello «respinto al mittente» dal premier, denunciando «la gravità di una eventuale iniziativa unilaterale del governo che, senza alcun confronto con le categorie interessate e in via d'urgenza, procedesse a una riduzione strutturale delle retribuzioni».
E la nota si concludeva col consueto mantra, ricordando «i principi costituzionali che assistono la retribuzione dei magistrati come garanzia dell'autonomia e indipendenza della giurisdizione». Equazione bislacca e liquidata ironicamente dal premier, che assicura «grande rispetto e stima per i magistrati», ma nella convinzione che essi «sono liberi e indipendenti perché lo sono nella propria coscienza», e non per i 311mila euro annui.
La categoria però è in subbuglio: non solo il governo si è rifiutato di concertare con l'Anm, ma il taglio alle retribuzioni dei più alti gradi rischia di ripercuotersi a cascata anche sui gradi inferiori, e su quegli scatti automatici di carriera che portano i 2040 euro al mese di un magistrato di prima nomina (3.500 con l'indennità) ai 16.700 euro al mese (18.900 con l'indennità) di un presidente di Cassazione.
Fuori dalla mischia, per ora, rimangono i Paperon de' Paperoni che hanno la fortuna di far parte di organismi costituzionali: Consulta, Camera e Senato, Cnel. Gaetano Silvestri (e prima di lui gli innumerevoli presidenti della Corte Costituzionale, tipo Gustavo Zagrebelski) intasca più del doppio di Napolitano: 545mila euro.
Ma - e qui iniziano i dolori - la legge del '53 aggancia il suo stipendio a quello del primo presidente di Cassazione, sforbiciato da Renzi. Il quale ha mandato un messaggio che fa fischiare le orecchie anche a chi si credeva al sicuro (il segretario generale della Camera Zampetti, 470mila euro e quella del Senato Serafini a 427mila; i loro vice a 358mila, gli altri alti funzionari sopra i 240mila): «Camera e Senato godono di autodichìa e devono decidere da soli. Ma sarebbe bello se nella loro autonomia riflettessero». Grasso e Boldrini sono avverti
1. RENZI È MATTO O ESISTE UN MATTO CHE A PALAZZO CHIGI SI SPACCIA PER RENZI? ESSÌ, IL CICLONE FIORENTINO HA OSATO L’INOSABILE: SFORBICIARE I MAGISTRATI DEI PIÙ ALTI GRADI NEI LORO SUPERSTIPENDI E METTERE ALLA BERLINA NEI LORO TIC DI CASTA INTOCCABILE -
2. “MI ASPETTO CHE I MAGISTRATI NON COMMENTINO LA FORMAZIONE DELLE LEGGI CHE LI RIGUARDANO, COME IO - PER RISPETTO AL PRINCIPIO DELLA SEPARAZIONE DEI POTERI - NON COMMENTO LA FORMAZIONE DELLE SENTENZE. SONO LIBERI E INDIPENDENTI PERCHÉ LO SONO NELLA PROPRIA COSCIENZA, E NON PER I 311MILA EURO DI COMPENSO ANNUI” -
3. LA REAZIONE DEL PRESIDENTE DELL'ANM SABELLI È PICCATA: “COSÌ COME SI POSSONO COMMENTARE E CRITICARE LE SENTENZE, SI POSSONO COMMENTARE E CRITICARE LE LEGGI” - -
Laura Cesaretti per Il Giornale
Sforbiciati nei loro stipendi e messi alla berlina nei loro tic: la casta dei magistrati esce assai ammaccata dall' «oraics» di Matteo Renzi. Che li zittisce pure, usando uno dei loro più antichi argomenti: «Mi aspetto che i magistrati non commentino la formazione delle leggi che li riguardano, come io - per rispetto al principio della separazione dei poteri - non commento la formazione delle sentenze». La reazione del presidente dell'Anm è piccata: «Così come si possono commentare e criticare le sentenze, si possono commentare e criticare le leggi».
Al premier non è andata giù la reazione corporativa all'annuncio che anche i super stipendi degli alti magistrati sarebbero caduti sotto la scure della spending review, che neanche a loro sarebbe stato permesso di guadagnare più del Capo dello Stato. Mentre il primo presidente della Corte di Cassazione oggi si mette in tasca 70mila euro l'anno più di Giorgio Napolitano, per un totale di 311mila euro.
Nella conferenza stampa di ieri Renzi ha voluto dirlo chiaro e tondo, rompendo un altro tabù della sinistra: «I miei collaboratori mi dicono che non dovrei mai parlare di magistratura in pubblico, ma io lo dico lo stesso perché è giusto - esordisce Renzi - non credo che portare lo stipendio di un alto magistrato da 311mila a 240mila euro sia un attentato alla libertà e all'indipendenza della magistratura. Direi che quella cifra è un equo compenso. Accusare il governo di attentare alla funzione della magistratura per questo è un atteggiamento da respingere al mittente».
Una vera e propria intemerata, incassata molto male dalle parti del sindacato delle toghe, l'Anm. Che alla vigilia del decreto governativo aveva firmato un minaccioso comunicato, proprio quello «respinto al mittente» dal premier, denunciando «la gravità di una eventuale iniziativa unilaterale del governo che, senza alcun confronto con le categorie interessate e in via d'urgenza, procedesse a una riduzione strutturale delle retribuzioni».
E la nota si concludeva col consueto mantra, ricordando «i principi costituzionali che assistono la retribuzione dei magistrati come garanzia dell'autonomia e indipendenza della giurisdizione». Equazione bislacca e liquidata ironicamente dal premier, che assicura «grande rispetto e stima per i magistrati», ma nella convinzione che essi «sono liberi e indipendenti perché lo sono nella propria coscienza», e non per i 311mila euro annui.
La categoria però è in subbuglio: non solo il governo si è rifiutato di concertare con l'Anm, ma il taglio alle retribuzioni dei più alti gradi rischia di ripercuotersi a cascata anche sui gradi inferiori, e su quegli scatti automatici di carriera che portano i 2040 euro al mese di un magistrato di prima nomina (3.500 con l'indennità) ai 16.700 euro al mese (18.900 con l'indennità) di un presidente di Cassazione.
Fuori dalla mischia, per ora, rimangono i Paperon de' Paperoni che hanno la fortuna di far parte di organismi costituzionali: Consulta, Camera e Senato, Cnel. Gaetano Silvestri (e prima di lui gli innumerevoli presidenti della Corte Costituzionale, tipo Gustavo Zagrebelski) intasca più del doppio di Napolitano: 545mila euro.
Ma - e qui iniziano i dolori - la legge del '53 aggancia il suo stipendio a quello del primo presidente di Cassazione, sforbiciato da Renzi. Il quale ha mandato un messaggio che fa fischiare le orecchie anche a chi si credeva al sicuro (il segretario generale della Camera Zampetti, 470mila euro e quella del Senato Serafini a 427mila; i loro vice a 358mila, gli altri alti funzionari sopra i 240mila): «Camera e Senato godono di autodichìa e devono decidere da soli. Ma sarebbe bello se nella loro autonomia riflettessero». Grasso e Boldrini sono avverti
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Re: quo vadis PD ????
18 APR 2014 14:02
1. PIPPO CIVATI, CLASSE 1975, LEADER DELL’OPPOSIZIONE PD, FA IL CONTROPELO A RENZI - 2. “E’ UN SEGNO DI UN GRANDE PERICOLO CHE IERI SIANO SERVITI VOTI VENDOLIANI E DI EX GRILLINI PER FAR PASSARE IL DEF E LO SLITTAMENTO DEL PAREGGIO DI BILANCIO. SE IO STESSI ALL’OPPOSIZIONE CHIEDEREI IMMEDIATAMENTE AL GOVERNO DI VENIRE A RIFERIRE IN PARLAMENTO. SULL’ECONOMIA NON SI POSSONO AVERE MAGGIORANZE VARIABILI” - 3. “SU MOLTI TEMI, DALLA LEGALITÀ AL LAVORO, CI SONO ANCORA LE LARGHE INTESE. MA IL DOCUMENTO DI PROGRAMMAZIONE ECONOMICA È UNA SORTA DI VOTO DI FIDUCIA AL GOVERNO” - 4. ‘’ALFANO HA RAGIONE: LA LINEA DI POLITICA ECONOMICA DI RENZI È DI CENTRODESTRA” - 5. CIVATI TEME CHE IN CASO DI RISULTATO NEGATIVO ALLE EUROPEE PER FORZA ITALIA, IL CAVALIERE FACCIA SALTARE IL TAVOLO DELLE RIFORME “PERCHÉ NON SI CAPISCE LA SUA CONVENIENZA A VOTARE CON IL DOPPIO TURNO”. ALLA FINE IL RISCHIO È DI TROVARSI A DOVER FARE LE RIFORME “CON GLI AMICI DI VERDINI, CHE SONO UN PO’ COME I POOH…” -
Colloquio con Pippo Civati di Francesco Bonazzi
Il governo Renzi rischia parecchio, a farsi votare i provvedimenti di bilancio da pezzi dell'opposizione. Inoltre "è privo di una vera politica economica" e sta varando "una manovra fiscale intelligente, ma molto trasversale".
Pippo Civati, classe 1975, leader dell'opposizione Pd, trova molto preoccupante che ieri siano serviti voti vendoliani e di ex grillini per far passare il Def e lo slittamento del pareggio di bilancio. E teme che in caso di risultato negativo alle europee per Forza Italia, il Cavaliere faccia saltare il tavolo delle riforme "perché non si capisce la sua convenienza a votare con il doppio turno". Alla fine il rischio è di trovarsi a dover fare le riforme "con gli amici di Verdini, che sono un po' come i Pooh..."
Ieri in Parlamento, senza i voti di un pugno di vendoliani, ex grillini e di due leghisti, il governo non aveva i voti per far passare il Def. Non è un po' allarmante?
"E' dall'inizio della legislatura che c'è questo evidente problema di numeri, specie dopo l'uscita di Berlusconi dal governo. Di fatto, su molti temi, dalla legalità al lavoro, ci sono ancora le larghe intese. Ma il Def è diverso, è una sorta di voto di fiducia sul governo. Prendere voti qua e là dall'opposizione sul documento di programmazione economica e finanziaria è un fatto politicamente assai rilevante. Tra l'altro mi permetto di far notare un piccolo particolare".
Ovvero?
"Quando nel partito ricordavo, al momento della nascita delle larghe intese, che siano stati eletti con Sel e che senza i vendoliani ci saremmo cacciati nei guai, facevo la figura dell'estremista o, peggio, del gufo. Poi succede che ieri a Palazzo Madama il governo si fa salvare da cinque esponenti di Sel sullo slittamento del pareggio di bilancio e tutti fanno finta di niente".
Ma i problemi sono anche sulle riforme costituzionali, sembra di capire. Ieri a Berlusconi è scappato detto che sull'Italicum c'è una frenata solo perché Renzi "ha paura di non avere i voti".
"C'è tutto un centro assai mobile e imprevedibile, in Parlamento. Tra il Gruppo per le autonomie e le libertà e gli amici di Verdini, che sono tipo i Pooh, li perdi di vista per un po' ma poi ritornano sempre, ballano qualche decina di voti che al Senato possono essere decisivi. A Renzi ho tentato di spiegare più di una volta che sul Senato elettivo c'è un asse tra mezza Forza Italia, gli alfaniani che la pensano come Quagliariello, alcuni ex grillini che apprezzano la proposta Chiti e perfino non pochi leghisti".
Ma l'incidente di ieri è da archiviare?
"Quello che è accaduto ieri è il segno di un grande pericolo. Avere bisogno dei voti dell'opposizione su provvedimenti economici è un fatto grave. Se io stessi all'opposizione chiederei immediatamente al governo di venire a riferire in Parlamento. Sull'economia non si possono avere maggioranze variabili. Ed è anche per questo che sono da sempre contrario all'idea di un governo Renzi che punti ad arrivare al 2018".
A chi fa più gioco, tra Renzi e Berlusconi, questo abbraccio iniziato con il patto del Nazareno e confermato la scorsa settimana con la cena a Palazzo Chigi?
"Per dirlo con una qualche certezza basta aspettare l'esito delle europee. C'è il rischio che Berlusconi, se non fa un risultato decente, si sfili e faccia saltare il tavolo. Se i numeri sono quelli dei sondaggi..."
Con Forza Italia stessa che si accontenterebbe di prendere il 20%...
"Esatto, se i numeri sono quelli, non capirei la convenienza del Cavaliere a votare con il doppio turno, a cui rischia di non arrivare, e a dare il via libera a un Senato rivisitato completamente. Fare patti con un alleato così ondivago vuol dire rischiare di incartarsi ogni momento, perché Berlusconi è instabile per motivi oggettivi e personali. O vogliamo per caso ridurci a fare le famose riforme costituzionali senza il capo dell'opposizione, ma solo con gli amici di Verdini? Il problema del Pd è soprattutto questo, che dall'altra parte è in corso un derby non dichiarato e dagli esiti incerti".
Ossia?
"Le europee del 25 maggio sono una specie di primarie occulte tra Lega, Forza Italia, Udc e Ncd per stabilire chi prenderà la leadership del centrodestra al posto di Berlusconi in vista delle prossime politiche. Questo aumenta le fibrillazioni di Renzi. Che magari, se vede lo spiraglio giusto, può anche pensare di fare lui la prima mossa e andare a vincere le elezioni".
Qualche giorno fa Angelino Alfano in un'intervista al Corriere ha detto tranquillamente che al governo con Renzi l'Ncd ci sta bene perché la linea di politica economica è di centrodestra. Ha ragione o millanta?
"Sono molto curioso di vedere come va a finire oggi la storia del bonus. Mi sembra chiaro che qualche problema di coperture ancora ci sia e che alcuni interventi su altri fronti rischino di ridimensionare i famosi 80 euro di sconto. Ma sulle politiche del lavoro, la firma ce la mette il ministro Poletti però l'impianto è tutto di Maurizio Sacconi, ex ministro del Lavoro ai tempi del governo Berlusconi. Quindi Alfano temo abbia parecchia ragione".
E il Pd che fa?
"Il nostro partito sulla riforma del lavoro si preoccupa solo della riduzione del danno, come se non fossimo il partito di maggioranza relativa. E poi c'è Renzi che qui si gioca la sua battaglia per il voto dei moderati e per l'appoggio di determinati settori".
E il resto della politica economica del governo?
"Politica economica? Al momento non vedo una politica economica, oltre gli sconti fiscali. E quando il governo chiede lo slittamento di un anno del pareggio di bilancio, naturalmente arriva subito Berlusconi che ne approfitta per chiedere direttamente l'abolizione del Fiscal compact".
Una manovra economica però sta andando in porto. Di che segno è?
"Glielo dico subito. E' una manovra molto trasversale. E' una manovra molto intelligente, fatta di tagli fiscali che possono piacere alla destra. C'è un'idea dominante che è quella di un Fisco troppo pesante, per cui si interviene leggermente sulle rendite per abbassare Irpef e Irap. Ma non sono interventi che creano occupazione, che rilanciano determinati settori economici. E poi, da uomo di sinistra, faccio notare che è subito sparito anche solo il dibattito sul reddito minimo".
Dove si colloca l'asticella elettorale per Renzi?
"Ma no, guardi, Renzi alle europee andrà bene e secondo me il nostro partito alla fine starà sopra il 30% dei consensi. Anche perché nella composizione delle liste c'è stato un certo pluralismo. Purtroppo temo che faccia un bel risultato anche Grillo e che prevalgano i messaggi più radicali. Poi bisogna capire se Berlusconi, Alfano, Lega e Fratelli d'Italia, tutti insieme, fanno più del 30%. Se ci arrivano, di fatto, siamo di nuovo al pareggione".
Alla fine però Civati non fa il gufo...
"Ma per carità. A scuola si divertivano con i giochi di parole Civati-civetta. La dialettica su Twitter tra gufi e speranzosi la trovo banale e anche un po' stupida. Se va male il Pd vado male anch'io, che diamine! Dico solo che con tutti gli impegni che si è preso Matteo di fronte agli italiani, e con una maggioranza così pericolante, il rischio di creare una bolla politica fatta di troppe aspettative non possiamo certo ignorarlo".
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Re: quo vadis PD ????
avreste mai immaginato che il PD si sarebbe spinto talmente a destra
da cancellare 60 anni di lotte sindacali con il jobs act Salamella-Sacconi ???
io no...
da cancellare 60 anni di lotte sindacali con il jobs act Salamella-Sacconi ???
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Re: quo vadis PD ????
Io si.
Fin dai tempi di Binetti.
Più di recente, ricordi quando Ichino voleva far cacciare Fassina dal PD e tutti a dargli retta?
Per questo avevo messo il voto al sicuro (relativamente) in SEL.
Magra soddisfazione, comunque.
soloo42000
Fin dai tempi di Binetti.
Più di recente, ricordi quando Ichino voleva far cacciare Fassina dal PD e tutti a dargli retta?
Per questo avevo messo il voto al sicuro (relativamente) in SEL.
Magra soddisfazione, comunque.
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Re: quo vadis PD ????
shiloh ha scritto:avreste mai immaginato che il PD si sarebbe spinto talmente a destra
da cancellare 60 anni di lotte sindacali con il jobs act Salamella-Sacconi ???
io no...
IL RITORNO DELLA PRIMA REPUBBLICA
«Risorgeremo come Lazzaro»
I dc e la profezia che si avvera
Paolo Cirino Pomicino: ««Neppure uno dei nomi presi in considerazione è figlio della Seconda Repubblica»
di Gian Antonio Stella
Esplora il significato del termine: «Un giorno noi dicì ci toglieremo il sudario e risorgeremo come Lazzaro». Esattamente vent’anni dopo, davanti alla prospettiva di un trionfo della «Gens Democristiana» nella sfida quirinalizia, Gerardo Bianco ammicca divertito: «L’ho detta io, quella frase? Non ricordo. Si vede che non ero ancora rimbambito».
Mai avuto paura dell’autoironia, «Gerry White». Basti ricordare quando, nominato ministro dell’Istruzione, disse: «Finalmente potrò comandare su mia moglie professoressa». («Quella me la ricordo: lei non me l’ha mai perdonata».) Men che meno dice di temere quella che per decenni è stata la maledizione democristiana: i franchi tiratori: «A naso, stavolta dovrebbero essere ininfluenti. Anche perché dovrebbero venire disinnescati da altri voti esterni...».
Salgono sbuffi di Balena Bianca, nel Transatlantico di Montecitorio. Sbuffi come non se ne vedevano da anni. Molti anni. Ed è tutto un viavai, in questi giorni, di figure che per molto tempo o solamente per lo spazio di un mattino hanno avuto un ruolo nella vita del nostro Paese nella I Repubblica.
Certo, non mancano post socialdemocratici come Carlo Vizzini, erede in gioventù del seggio del papà Casimiro e poi segretario Psdi e più volte ministro coinvolto in polemiche sulle assunzioni alle Poste («Una scelta che rivendico», disse, «disposi che fosse data la priorità alle regioni che avevano la più alta densità di disoccupati, cioè Sicilia, Calabria, Campania e Basilicata: qui erano il 24%, in Lombardia il 4») e poi ancora per qualche stagione forzista e berlusconiano. E non mancano socialisti di lungo corso come Paolo Pillitteri, il cognato di Craxi che Bettino mise a fare il sindaco di Milano e che fu travolto dal crollo di tutto il sistema socialista. E ancora reduci nostalgici di quella stagione come Lucio Barani, che quando era sindaco di Aulla concesse la cittadinanza onoraria «ai cromosomi X e XY, dei maschi di casa Savoia» e arruolò un «brain trust» di sedicenti fattucchiere per togliere al paese il malocchio rosso e oggi, senatore e segretario del Nuovo Psi sospira: «Con Mattarella si avvererà l’incredibile profezia di Craxi: i comunisti moriranno democristiani».
Ma sono soprattutto loro, gli orfani dello scudocrociato, a riaffacciarsi con uno spirito nuovo, niente affatto penitenziale, in questo Parlamento che per decenni dominarono. Manca il già citato «Gerry White» che aveva preso impegni in Calabria ma non vede l’ora di farsi vedere. Mancano i defunti. Manca Paolo Cirino Pomicino, che sta a Londra ma anche lui conta le ore per rientrare. Gli altri, chi più chi meno, si sono fatti vedere tutti. O quasi tutti.
Questo, esulta Pomicino dall’Inghilterra, «è il trionfo della Prima Repubblica. Dopo vent’anni tutti questi innovatori hanno dovuto cercarsi un inquilino del Colle scegliendolo tra i protagonisti o i comprimari della Prima Repubblica. Ci faccia caso: neppure uno, dei nomi presi in considerazione, è figlio della tanto mitizzata Seconda Repubblica. Per non dire di altre cose». Esempio? «Il trucco di saltare con la scheda bianca le prime tre votazioni, più complicate, è platealmente figlio di una certa cultura dc». Silvio Berlusconi si sente bidonato? «Ben gli sta. Non ha mai voluto affidarsi agli ex democristiani. Adesso gli eredi del Pci l’hanno fatto e si ritrovano al 40%!». Alcuni parlamentari più giovani, magari del MoVimento 5 Stelle, cercano di individuare questo o quell’ospite anzianotto che scivola nello struscio con l’aria di riassaporare un’abitudine antica, come se assistessero all’inaspettata apparizione di creature provenienti dal passato più profondo. Ecco un Ceratosaurus, e poi un Camptosaurus, un Megapnosaurus, un Torvosaurus... E questi da dove escono?
È come se fosse rovesciato, di colpo, quel Mondo Nuovo invocato dopo l’abbattimento della I Repubblica sotto i colpi delle inchieste giudiziarie. Quello che trovava ragion d’essere nella celebre battuta di Antonio Martino: «Abbiamo fatto esperienza dei politici di esperienza e non è stata una bella esperienza».
Ed ecco Sergio d’Antoni, che quando era leader della Cisl pareva avere in pugno un pezzo d’Italia e a un certo punto fondò un movimento nuovo, ovviamente neo-dc, insieme con Pippo Baudo: «Ho sentito che qualcuno teme che anche a Mattarella possa accadere quel che accadde ad Arnaldo Forlani, impallinato dai franchi tiratori. Io non credo sia possibile... Non vedo come si possa votare contro una persona dello spessore di Sergio Mattarella».
Salvatore Cardinale, siciliano di Mussomeli, dicì dai tempi lontani in cui Paolo Emilio Taviani ricambiava l’ostilità di Fanfani spiegando che «nella vita ci sono solo due cose belle, le donne e l’odio perenne per Amintore», passa il pomeriggio a tessere un accordo con gli alfaniani e i berlusconiani siculi e a impestare col sigaro il corridoio fumatori che accoglie gli schiavi del vizio e i malcapitati costretti per ragioni professionali a respirare l’irrespirabile.
Eletto deputato la prima volta nel 1987, assicura gongolante che «l’amico Sergio non dovrebbe avere problemi. Raffaele Fitto, che non a caso è un rampollo cresciuto in casa dicì e ha imparato in fretta come si fa politica, ha già detto che lui e i suoi lo votano. Alla fine, secondo me, i voti potrebbero essere più del previsto. Raccolgo confidenze. Non ha idea di quanti parlamentari e grandi elettori siciliani vengano raggiunti in queste ore dalle telefonate della moglie o dei figli: “Non penserai mica di votare contro Mattarella?!”. Li conosco, i miei: so cosa faranno».
C’è da credergli, che li conosca. Disintegrata la Dc, «Totò» ha circumnavigato negli anni tutto il globo dei partitini nati dal Big-Bang scudocrociato: Ccd, Udr, Udeur, Ppi, Dl... Una diaspora che Mino Martinazzoli aveva ben previsto: «Se la Dc si dovesse spaccare non si spaccherebbe in due ma in tre, in quattro, in cinque, rendendo ininfluente la presenza dei cattolici». Va da sé che, nel partito democratico di oggi, si trova come un fagiolo nel baccello.
Rosy Bindi, che emerse negli ultimi anni della Prima Repubblica come una specie di Giovanna d’Arco scelta come commissario da Martinazzoli per bonificare il partito in Veneto («Cerco uomini da mettere intorno non a un interesse, ma a un disinteresse!») ha smesso i musi lunghi che aveva fino all’altro ieri e pare beata come se avessero scelto lei stessa per salire al Colle. La rivincita, per lei, è doppia. Dovesse andar bene la conta di oggi, sarebbe il trionfo di quelli che il cardinale Alfredo Ottaviani, roccioso difensore delle tradizioni cattoliche e teorico di una Dc destrorsa, chiamava con sprezzante ironia i «comunistelli di sacrestia». Quelli che lo stesso Berlusconi, come ricorda il senatore Augusto Minzolini, teme più ancora di quanti ha bollato negli anni come «i figli di Stalin».
Sintesi dell’incubo: l’eventualità che Mattarella diventi «una specie di nuovo Scalfaro». Un cattolico vecchio stampo che chiamava la Madonna «la Mamma, la Padrona, la Splendidissima, la madre del bell’Amore, la castellana d’Italia, la Corredentrice, l’Ancilla» e faceva mostra di monacale umiltà («Il paragone con l’asino nella nostra povera vita vale sempre. Anche per me. Perché la parentela col somaro c’è sempre, non si perde con l’età») ma per sette anni si mise di traverso più o meno a tutti gli obiettivi del Cavaliere.
Questo è l’incubo di Berlusconi. Il timore che ciò che si sta ricostituendo dentro il Pd e dentro il Parlamento e dentro il suo stesso partito grazie alle insubordinazioni «del giovine Raffaele», finisca per stritolare ciò che resta (pochissimo, rispetto ai proclami di una volta) del «partito liberale di massa» che diceva di avere in testa al momento di scendere in campo.
E vedere tutti insieme questi antichi e novelli dicì che stanno un po’ di qua e un po’ di là ma che oggi potrebbero trovare una sintesi due anni fa impensabile, fa tornare in mente quanto spiegò un giorno, in romanesco, il braccio destro di Andreotti, Franco Evangelisti: «Nella Dc nun se bbutta niente. Mai metterse ‘n testa di dettare i comandamenti del buon diccì. Cominci a dire: primo, devi fa’ così; secondo, non devi fa’ cosà, terzo, parla così, quarto questo, quinto quello e daje a elencà... None! Devi dire: fate come vi pare, basta che portate voti».
31 gennaio 2015 | 07:51
© RIPRODUZIONE RISERVATA«Un giorno noi dicì ci toglieremo il sudario e risorgeremo come Lazzaro». Esattamente vent’anni dopo, davanti alla prospettiva di un trionfo della «Gens Democristiana» nella sfida quirinalizia, Gerardo Bianco ammicca divertito: «L’ho detta io, quella frase? Non ricordo. Si vede che non ero ancora rimbambito».
Mai avuto paura dell’autoironia, «Gerry White». Basti ricordare quando, nominato ministro dell’Istruzione, disse: «Finalmente potrò comandare su mia moglie professoressa». («Quella me la ricordo: lei non me l’ha mai perdonata».) Men che meno dice di temere quella che per decenni è stata la maledizione democristiana: i franchi tiratori: «A naso, stavolta dovrebbero essere ininfluenti. Anche perché dovrebbero venire disinnescati da altri voti esterni...».
Salgono sbuffi di Balena Bianca, nel Transatlantico di Montecitorio. Sbuffi come non se ne vedevano da anni. Molti anni. Ed è tutto un viavai, in questi giorni, di figure che per molto tempo o solamente per lo spazio di un mattino hanno avuto un ruolo nella vita del nostro Paese nella I Repubblica.
Certo, non mancano post socialdemocratici come Carlo Vizzini, erede in gioventù del seggio del papà Casimiro e poi segretario Psdi e più volte ministro coinvolto in polemiche sulle assunzioni alle Poste («Una scelta che rivendico», disse, «disposi che fosse data la priorità alle regioni che avevano la più alta densità di disoccupati, cioè Sicilia, Calabria, Campania e Basilicata: qui erano il 24%, in Lombardia il 4») e poi ancora per qualche stagione forzista e berlusconiano. E non mancano socialisti di lungo corso come Paolo Pillitteri, il cognato di Craxi che Bettino mise a fare il sindaco di Milano e che fu travolto dal crollo di tutto il sistema socialista. E ancora reduci nostalgici di quella stagione come Lucio Barani, che quando era sindaco di Aulla concesse la cittadinanza onoraria «ai cromosomi X e XY, dei maschi di casa Savoia» e arruolò un «brain trust» di sedicenti fattucchiere per togliere al paese il malocchio rosso e oggi, senatore e segretario del Nuovo Psi sospira: «Con Mattarella si avvererà l’incredibile profezia di Craxi: i comunisti moriranno democristiani».
Ma sono soprattutto loro, gli orfani dello scudocrociato, a riaffacciarsi con uno spirito nuovo, niente affatto penitenziale, in questo Parlamento che per decenni dominarono. Manca il già citato «Gerry White» che aveva preso impegni in Calabria ma non vede l’ora di farsi vedere. Mancano i defunti. Manca Paolo Cirino Pomicino, che sta a Londra ma anche lui conta le ore per rientrare. Gli altri, chi più chi meno, si sono fatti vedere tutti. O quasi tutti.
Questo, esulta Pomicino dall’Inghilterra, «è il trionfo della Prima Repubblica. Dopo vent’anni tutti questi innovatori hanno dovuto cercarsi un inquilino del Colle scegliendolo tra i protagonisti o i comprimari della Prima Repubblica. Ci faccia caso: neppure uno, dei nomi presi in considerazione, è figlio della tanto mitizzata Seconda Repubblica. Per non dire di altre cose». Esempio? «Il trucco di saltare con la scheda bianca le prime tre votazioni, più complicate, è platealmente figlio di una certa cultura dc». Silvio Berlusconi si sente bidonato? «Ben gli sta. Non ha mai voluto affidarsi agli ex democristiani. Adesso gli eredi del Pci l’hanno fatto e si ritrovano al 40%!». Alcuni parlamentari più giovani, magari del MoVimento 5 Stelle, cercano di individuare questo o quell’ospite anzianotto che scivola nello struscio con l’aria di riassaporare un’abitudine antica, come se assistessero all’inaspettata apparizione di creature provenienti dal passato più profondo. Ecco un Ceratosaurus, e poi un Camptosaurus, un Megapnosaurus, un Torvosaurus... E questi da dove escono?
È come se fosse rovesciato, di colpo, quel Mondo Nuovo invocato dopo l’abbattimento della I Repubblica sotto i colpi delle inchieste giudiziarie. Quello che trovava ragion d’essere nella celebre battuta di Antonio Martino: «Abbiamo fatto esperienza dei politici di esperienza e non è stata una bella esperienza».
Ed ecco Sergio d’Antoni, che quando era leader della Cisl pareva avere in pugno un pezzo d’Italia e a un certo punto fondò un movimento nuovo, ovviamente neo-dc, insieme con Pippo Baudo: «Ho sentito che qualcuno teme che anche a Mattarella possa accadere quel che accadde ad Arnaldo Forlani, impallinato dai franchi tiratori. Io non credo sia possibile... Non vedo come si possa votare contro una persona dello spessore di Sergio Mattarella».
Salvatore Cardinale, siciliano di Mussomeli, dicì dai tempi lontani in cui Paolo Emilio Taviani ricambiava l’ostilità di Fanfani spiegando che «nella vita ci sono solo due cose belle, le donne e l’odio perenne per Amintore», passa il pomeriggio a tessere un accordo con gli alfaniani e i berlusconiani siculi e a impestare col sigaro il corridoio fumatori che accoglie gli schiavi del vizio e i malcapitati costretti per ragioni professionali a respirare l’irrespirabile.
Eletto deputato la prima volta nel 1987, assicura gongolante che «l’amico Sergio non dovrebbe avere problemi. Raffaele Fitto, che non a caso è un rampollo cresciuto in casa dicì e ha imparato in fretta come si fa politica, ha già detto che lui e i suoi lo votano. Alla fine, secondo me, i voti potrebbero essere più del previsto. Raccolgo confidenze. Non ha idea di quanti parlamentari e grandi elettori siciliani vengano raggiunti in queste ore dalle telefonate della moglie o dei figli: “Non penserai mica di votare contro Mattarella?!”. Li conosco, i miei: so cosa faranno».
C’è da credergli, che li conosca. Disintegrata la Dc, «Totò» ha circumnavigato negli anni tutto il globo dei partitini nati dal Big-Bang scudocrociato: Ccd, Udr, Udeur, Ppi, Dl... Una diaspora che Mino Martinazzoli aveva ben previsto: «Se la Dc si dovesse spaccare non si spaccherebbe in due ma in tre, in quattro, in cinque, rendendo ininfluente la presenza dei cattolici». Va da sé che, nel partito democratico di oggi, si trova come un fagiolo nel baccello.
Rosy Bindi, che emerse negli ultimi anni della Prima Repubblica come una specie di Giovanna d’Arco scelta come commissario da Martinazzoli per bonificare il partito in Veneto («Cerco uomini da mettere intorno non a un interesse, ma a un disinteresse!») ha smesso i musi lunghi che aveva fino all’altro ieri e pare beata come se avessero scelto lei stessa per salire al Colle. La rivincita, per lei, è doppia. Dovesse andar bene la conta di oggi, sarebbe il trionfo di quelli che il cardinale Alfredo Ottaviani, roccioso difensore delle tradizioni cattoliche e teorico di una Dc destrorsa, chiamava con sprezzante ironia i «comunistelli di sacrestia». Quelli che lo stesso Berlusconi, come ricorda il senatore Augusto Minzolini, teme più ancora di quanti ha bollato negli anni come «i figli di Stalin».
Sintesi dell’incubo: l’eventualità che Mattarella diventi «una specie di nuovo Scalfaro». Un cattolico vecchio stampo che chiamava la Madonna «la Mamma, la Padrona, la Splendidissima, la madre del bell’Amore, la castellana d’Italia, la Corredentrice, l’Ancilla» e faceva mostra di monacale umiltà («Il paragone con l’asino nella nostra povera vita vale sempre. Anche per me. Perché la parentela col somaro c’è sempre, non si perde con l’età») ma per sette anni si mise di traverso più o meno a tutti gli obiettivi del Cavaliere.
Questo è l’incubo di Berlusconi. Il timore che ciò che si sta ricostituendo dentro il Pd e dentro il Parlamento e dentro il suo stesso partito grazie alle insubordinazioni «del giovine Raffaele», finisca per stritolare ciò che resta (pochissimo, rispetto ai proclami di una volta) del «partito liberale di massa» che diceva di avere in testa al momento di scendere in campo.
E vedere tutti insieme questi antichi e novelli dicì che stanno un po’ di qua e un po’ di là ma che oggi potrebbero trovare una sintesi due anni fa impensabile, fa tornare in mente quanto spiegò un giorno, in romanesco, il braccio destro di Andreotti, Franco Evangelisti: «Nella Dc nun se bbutta niente. Mai metterse ‘n testa di dettare i comandamenti del buon diccì. Cominci a dire: primo, devi fa’ così; secondo, non devi fa’ cosà, terzo, parla così, quarto questo, quinto quello e daje a elencà... None! Devi dire: fate come vi pare, basta che portate voti».
31 gennaio 2015 | 07:51
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/special ... 2eeb.shtml
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Re: quo vadis PD ????
il Fatto 3.2.15
Il dissidente Alfredo D’Attorre
“Progetti incompatibili con il Pd”
intervista di CdF
Non può passare, in nessuna forma”. Alfredo D’Attorre, deputato, bersaniano di ferro e voce della minoranza Pd calibra le parole, ma sulla norma del 3 per cento non ipotizza compromessi.
Il ministro Maria Elena Boschi ha detto che se riguarda 60 milioni di italiani non si cambia solo perché tocca anche Berlusconi. E che in Francia la soglia è del 10%.
Io sono per mantenere il clima di unità, ma a condizione che lo costruiamo su fatti e verità.
Quali?
Il richiamo alla Francia è del tutto fuori luogo: lì c’è un limite quantitativo molto basso, che vanifica la percentuale.
Questa è la verità. I fatti?
La norma del 3 per cento è un regalo ai grandi evasori.
Era un regalo a Berlusconi?
Voglio credere si sia trattato di un infortunio involontario...
L'ipotesi è che la frode venga esclusa, e con essa l’ex Cav.
Mettere una soglia percentuale, senza un tetto massimo, anche alla sola evasione sarebbe gravissimo, fuori dalla civiltà tributaria occidentale. Vanificherebbe la lotta agli evasori, per giunta premiando quelli ricchi.
Nessun compromesso?
È una norma incompatibile con il Partito democratico.
Ricomincia la discussione interna al Pd?
La stragrande maggioranza del partito la pensa come me. Non si solletica il voto degli evasori, mortificando storia e cultura della sinistra.
Il 3 per cento non è la sola norma contestata.
Ci sono molti elementi da cancellare. A partire da quelli sulle banche.
Renzi vi ascolterà?
Ascolti il suo partito, come per Mattarella. Ha visto che la maggioranza che ottiene è più ampia di quella del patto del Nazareno.
Quello che ora sembra morto.
L’abbiamo disinnescato sul Quirinale, non credo sia morto.
Se sul 3% dovesse andare avanti lo stesso?
Ho fiducia che non insisterà. È materia esplosiva, le conseguenze politiche sarebbero ingestibili...
Il dissidente Alfredo D’Attorre
“Progetti incompatibili con il Pd”
intervista di CdF
Non può passare, in nessuna forma”. Alfredo D’Attorre, deputato, bersaniano di ferro e voce della minoranza Pd calibra le parole, ma sulla norma del 3 per cento non ipotizza compromessi.
Il ministro Maria Elena Boschi ha detto che se riguarda 60 milioni di italiani non si cambia solo perché tocca anche Berlusconi. E che in Francia la soglia è del 10%.
Io sono per mantenere il clima di unità, ma a condizione che lo costruiamo su fatti e verità.
Quali?
Il richiamo alla Francia è del tutto fuori luogo: lì c’è un limite quantitativo molto basso, che vanifica la percentuale.
Questa è la verità. I fatti?
La norma del 3 per cento è un regalo ai grandi evasori.
Era un regalo a Berlusconi?
Voglio credere si sia trattato di un infortunio involontario...
L'ipotesi è che la frode venga esclusa, e con essa l’ex Cav.
Mettere una soglia percentuale, senza un tetto massimo, anche alla sola evasione sarebbe gravissimo, fuori dalla civiltà tributaria occidentale. Vanificherebbe la lotta agli evasori, per giunta premiando quelli ricchi.
Nessun compromesso?
È una norma incompatibile con il Partito democratico.
Ricomincia la discussione interna al Pd?
La stragrande maggioranza del partito la pensa come me. Non si solletica il voto degli evasori, mortificando storia e cultura della sinistra.
Il 3 per cento non è la sola norma contestata.
Ci sono molti elementi da cancellare. A partire da quelli sulle banche.
Renzi vi ascolterà?
Ascolti il suo partito, come per Mattarella. Ha visto che la maggioranza che ottiene è più ampia di quella del patto del Nazareno.
Quello che ora sembra morto.
L’abbiamo disinnescato sul Quirinale, non credo sia morto.
Se sul 3% dovesse andare avanti lo stesso?
Ho fiducia che non insisterà. È materia esplosiva, le conseguenze politiche sarebbero ingestibili...
Chi c’è in linea
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