Scienze della comunicazione

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camillobenso
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Scienze della comunicazione

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Scienze della comunicazione
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Le scienze della comunicazione sono le scienze sociali che studiano la comunicazione umana.

Le scienze coinvolte in questi studi sono numerose e si differenziano non solo per gli approcci, ma anche per le tipologie di fenomeni comunicativi che osservano, anche se in ambito accademico quando si parla di comunicazione si allude quasi sempre alle comunicazioni di massa (giornalismo, radio, televisione, cinema, nuovi media) e ai processi comunicativi di tipo istituzionale o professionale, cioè la comunicazione pubblica(intesa come comunicazione della pubblica amministrazione), la comunicazione sociale e la comunicazione d'impresa, comprendente la pubblicità, le pubbliche relazioni e alcuni segmenti del marketing.
Di solito, infatti, per riferirsi ai processi di comunicazione interpersonale si parla di scienze del linguaggio.

Discipline
Sociologia]
I fenomeni comunicativi, e in particolare mediatici, sono da sempre oggetto di interesse della sociologia.

Se con la locuzione "scienze della comunicazione", al plurale, ci si riferisce all'insieme delle scienze sociali coinvolte nella ricerca in quest'àmbito, con "scienza della comunicazione" si intende la sociologia dei processi comunicativi.

Il lavoro dei sociologi americani Melvin DeFleur e Sandra Ball-Rokeach, pubblicato in forma di manuale per la prima volta nel 1985, raccoglie i presupposti teorici fondamentali per lo studio della comunicazione ed è considerato la base di tutti gli studi comunicazionali, anche se questi hanno origini più remote, e cioè nella sociologia di immediata derivazione marxistadella scuola di Francoforte. Un'altra scuola famosa è quella di Palo Alto, facente riferimento a Marshall McLuhan.
Un altro importante modello teorico di approccio sociologico è stato proposto da John Baptist Thompson in quella che in origine era la sua tesi di dottorato, nota in italiano con il titolo "Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media". In tale saggio Thompson propone un modello teorico efficacissimo per comprendere l'influenza determinante che i media hanno sui comportamenti umani.
Alla sociologia interessa il processo comunicativo in quanto tale, analizzando il suo concreto atteggiarsi nei contesti sociali, a livello micro (per il quale la teoria più famosa è la metafora teatrale di Erving Goffman) e a livello macro, e partendo dal presupposto che la comunicazione è la principale attività umana in quanto «non si può non comunicare»[1].
La sociologia si occupa anche di tutti gli aspetti della comunicazione d'impresa: relazioni pubbliche, pubblicità, corporate communication, customer relationship management e, anche attraverso la metodologia della ricerca sociale (che si avvale di tecniche statistiche per la rilevazione dei dati e della sociologia per le analisi qualitative degli stessi),marketing analitico, strategico e operativo. Insieme con la scienza politica si occupa di comunicazione pubblica e sociale.
Considerando la definizione di Fred N. Kerlinger e Howard B. Lee[2], in base alla quale una teoria scientifica è anche ciò che consente di fornire spiegazioni e previsioni di fenomeni attraverso procedimenti logico-deduttivi e non sperimentali[3], la sociologia ha sistematizzato i modelli teorici di approccio agli studi comunicativi, prendendo in considerazione sia quelli di derivazione scientifico-sociale sia quelli filosofico-speculativi. Si possono distinguere fondamentalmente cinque grandi scuole di pensiero, che sono fondamentalmente le quattro grandi correnti della sociologia, a loro volta distinte in oggettiviste e soggettiviste, che applicano ai processi comunicativi la stessa visione complessiva e generale che hanno della realtà:
• lo "struttural-funzionalismo" (corrente oggettivista), di derivazione linguistica e concentrato sull'organizzazione del linguaggio. Talvolta distinto rispettivamente in strutturalismo, con riferimento alla linguistica di Ferdinand de Saussure, e in funzionalismo, con riferimento alla sociologia su di essa basata, e segnatamente il modello organicista di Herbert Spencer e il funzionalismo di Émile Durkheim e Talcott Parsons, considera i sistemi sociali come corpi organici. La comunicazione non sarebbe che uno dei processi attraverso i quali verrebbero soddisfatte le esigenze di questi organismi, strutturalmente invariabili. In questo gruppo di teorie i risultati dei processi comunicativi sono visti perlopiù come oggettivi e non intenzionali. Infatti il presupposto della teoria linguistica sottesa è che a un significante corrisponde necessariamente un determinato significato (indipendenza del segno): l'eventuale non corrispondenza semantica tra ciò che si sa in astratto e ciò che esiste in concreto costituisce semplicemente una non verità. Il segno ha cioè carattere di assoluta universalità all'interno del contesto di riferimento (comunità di locutori o singolo sistema sociale, non considerato però nell'accezione di culturale) e pertanto il ruolo dell'interprete ha valore limitatamente alla sua conoscenza.
• le "teorie critiche" (oggettiviste). Includono la teoria del conflitto di Karl Marx. Tra di esse, la teoria critica della società della scuola di Francoforte e il femminismo. Negli anni '90 del XX secolo si è sviluppata in Italia una scuola di studi socio-comunicazionali in prospettiva di genere, iniziata da Milly Buonanno. Tuttavia tale filone non può essere completamente inquadrato nelle teorie critiche e fa riferimento al filone interdisciplinare dei cultural studies, che coinvolge anche la linguistica, l'antropologia, l'economia e lascienza politica.
• le "teorie cognitivo-comportamentali" (soggettiviste). Anche qui i più pignoli distinguono in cognitivismo e comportamentismo. Queste teorie hanno carattere squisitamente psicologico e il loro interesse centrale non risiede nelle strutture sociali e culturali ma nell'individuo, anche se colto nelle manifestazioni oggettive e non nell'introspezione. Questo carattere fa assumere loro importanza centrale per la psicologia sociale, ma sono state talvolta richiamate anche in campo sociologico come teorie dello stimolo e della risposta, anch'esse di tipo biologico, come quelle funzionalistiche, ma non organiciste, bensì neurali. Esse studiano le relazioni che intercorrono tra le variabili cognitive che agiscono nel corso dei fenomeni: per poter studiare i fenomeni stessi, vanno isolate e analizzate quelle più importanti.
• le "teorie interazionali, convenzionali e interpretative" (soggettiviste). Queste teorie sostengono che la vita sociale è un processo di interazione dal quale risultano le strutture e le funzioni. La comunicazione è la principale forma di interazione e dunque la forza preminente, che fa da collante per la società stessa. Esse studiano dunque la costruzione dei significati, visto come convenzione (e non come arbitrio) elaborata attraverso la comunicazione. A differenza della teoria del conflitto e di quelle organiciste, esse sono soggettiviste e non oggettiviste. A loro avviso, i significati si costruiscono attraverso processi di mediazione simbolica (e non di semplice negoziazione comunicativa), che hanno carattere rituale. Fenomenologia, ermeneutica ed etnografia possono essere considerate sottocategorie di questa corrente. Anche lasociolinguistica e la pragmatica, che studiano i significati in rapporto ai contesti, sono generalmente collegate a queste correnti.

Psicologia
Un contributo allo studio dei processi di comunicazione di massa proviene dalla psicologia cognitiva e dalla psicologia sociale. La psicologia si occupa principalmente di due elementi:
• nell'ambito delle comunicazioni di massa, l'impatto che i mezzi di comunicazione hanno sulla psiche dei singoli individui o sulla cosiddetta psiche collettiva;
• nell'ambito della comunicazione d'impresa, e più specificamente per il marketing strategico e la pubblicità, il consumer behaviour e le tecniche di persuasione del cliente.
I due elementi sono studiati soprattutto mediante approcci psicosociali, mentre dei comportamenti dei singoli individui in relazione ai loro effetti si occupano soprattutto i cognitivisti.

Semiotica
La semiotica è la teoria dei segni. Essa, soprattutto nelle sue versioni strutturale, generativa e interpretativa, ha da sempre sviluppato il suo interesse scientifico verso la comunicazione, in ogni suo aspetto individuale e collettivo, inglobando il fenomeno nella più ampia sfera della significazione, ossia di tutto ciò che gli esseri umani usano per dare senso a se stessi e al mondo: dalla verbalità delle lingue alle immagini, dalla gestualità allo spazio, dal corpo nella sua complessità a, soprattutto, una continua mescolanza e ibridazione di tutto ciò. Oggi la semiotica generativa trova spazio in molteplici àmbiti di riflessione e applicazione, dal disegno industriale alla comunicazione visiva, dalla comunicazione pubblicitaria ai palinsesti televisivi.

Altri contributi]
Altri contributi allo studio dei processi comunicativi vengono dai diversi rami della linguistica, dall'antropologia, dai cultural studies, mentre le scienze dell'educazione e della formazione si occupano dell'educazione all'uso dei media nonché, insieme con la psicologia e la stessa sociologia, dell'ottimizzazione dei processi comunicativi aziendali interni.
La scienza politica si occupa di studiare la nascita e l'evoluzione delle esigenze informative e di pubblicità degli atti parlamentari e della pubblica amministrazione, dell'e-government, della multimedialità e dell'implementazione delle nuove tecnologie nella pubblica amministrazione, nonché di analizzare, osservare e implementare strategie di comunicazione politica. Studia altresì la libertà informativa e più in generale comunicativa in rapporto al sistema politico, non nel diritto, come fa la scienza giuridica, ma nel suo concreto atteggiarsi.
La storia si occupa della nascita e dell'evoluzione dei mezzi di comunicazione nel tempo e la storia sociale del cambiamento della società in relazione alla loro introduzione, nonché del loro impatto sulle abitudini sociali in una prospettiva storica.
La geografia si occupa delle trasformazioni dello spazio dovute all'impatto di mezzi, strumenti e reti di comunicazione, tant'è che negli ultimi anni si sta cominciando a sviluppare una branca detta proprio geografia della comunicazione, derivata soprattutto dalla geografia economico-politica ma presentante forti assonanze con la geografia culturale.
La scienza giuridica si occupa della regolamentazione giuridica della comunicazione: per diritto dell'informazione solitamente si intende quella branca del diritto pubblico (in particolare costituzionale e amministrativo) che studia la normativa a proposito dei mezzi di comunicazione di massa, che, in alcuni ordinamenti, può avere anche risvoltipenalistici, con particolare riferimento alla tutela della personalità, dell'onore, del decoro e della reputazione nonché ai reati politici e d'opinione.
Anche il diritto privato però si occupa di comunicazione: il diritto dell'immagine e il diritto d'autore, sebbene trasversali, riguardano molto più la sfera privatistica (e in particolare, per gli aspetti che riguardano la tuela degli interessi economici derivanti dallo sfruttamento dell'immagine e delle opere dell'ingegno, quella civilistica), come pure, più in generale, la tutela giurisdizionale e non giurisdizionale degli interessi legittimi derivanti dall'uso dei mezzi di comunicazione.
L'organizzazione delle imprese si occupa di management dei processi comunicativi aziendali.
Ulteriori contributi, soprattutto di tipo operativo, provengono dalla linguistica computazionale, campo di studi radicato e particolarmente sviluppato nell'Università di Salerno, dove diedero vita al primo dipartimento di ricerca in scienze della comunicazione d'Italia proprio dei linguisti: Emilio d'Agostino, Tullio De Mauro, Annibale Elia.
Infine, anche l'antropologia si occupa di significazione, sebbene, a differenza della semiotica, in stretto rapporto con il contesto, che studia correlativamente e non indipendentemente dal segno.
camillobenso
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Re: Scienze della comunicazione

Messaggio da camillobenso »

E’vera questa osservazioni di Vittorio Feltri e di Francesco Bonazzi???

Parlare difficile però è un vizio comune, a sinistra

“Sì è un fatto ricorrente. Sembra quasi che sia un precetto da osservare per far parte di una certa élite. Parlare per confondere chi ascolta. O scrivere in modo involuto. A volte questo capita sul “Foglio”, ma anche altrove. Leggi un articolo e arrivato al terzo capoverso ti chiedi: ma che cavolo stanno dicendo? Invece Renzi non è così”.

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Parlare difficile è un vizio comune della sinistra??? Non riusciamo a farci capire???
Rom
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Re: Scienze della comunicazione

Messaggio da Rom »

camillobenso ha scritto:E’vera questa osservazioni di Vittorio Feltri e di Francesco Bonazzi???
Parlare difficile però è un vizio comune, a sinistra
“Sì è un fatto ricorrente. Sembra quasi che sia un precetto da osservare per far parte di una certa élite. Parlare per confondere chi ascolta. O scrivere in modo involuto. A volte questo capita sul “Foglio”, ma anche altrove. Leggi un articolo e arrivato al terzo capoverso ti chiedi: ma che cavolo stanno dicendo? Invece Renzi non è così”.
Parlare difficile è un vizio comune della sinistra??? Non riusciamo a farci capire???
Vittorio Feltri somiglia sempre di più a Francesco Alberoni, cioè al sociologo che sembra esistere per dimostrare che la sociologia è inutile.
Facciamo le persone serie, e prescindiamo dall'osservazione di Feltri.

Il problema della comunicazione e del linguaggio ha due differenti livelli, o meglio due diversi ambiti di analisi e discussione: uno generale e in parte teorico, l'altro pratico e specifico.
Sul piano generale, possiamo dire innanzi tutto che si può essere chiarissimi e allo stesso tempo non dire niente, cioè fare un discorso assolutamente vuoto di contenuti.
Possiamo dire, anche, che la chiarezza dipende dalla volontà di farsi capire, così come l'oscurità può dipendere dalla volontà di non essere capiti, o dal fatto che si cerca di nascondere di non avere niente da dire, o di non avere le risposte da dare.
Poi, nella gran parte dei casi non si parla per "tutti", ma si parla o si scrive avendo in mente un target, o un tipo di interlocutore: ciò che è chiaro per uno può non essere chiaro per altri.
Ci sono infatti argomenti nei quali il linguaggio specialistico, o almeno ragionevolemente specialistico, risulta essere assai più funzionale rispetto a quello divulgativo e semplificato - questa è del resto l'opinione di uno dei più grandi e conosciuti divulgatori, Bertrand Russell.
Dipende, in questo caso, dal tipo di informazione che si intende dare: per fornire una visione d'insieme e approssimativa va bene il linguaggio divulgativo, nel quale si privilegia l'uso di termini comuni, quotidiani, ma se si sta facendo un discorso che comporta un esito tecnicamente stringente i termini e il linguaggio sono obbligati - la semplificazione propagandistica, tipica della polemica politica, è in questo senso deleteria, quando la discussione riguarda qualcosa che si traduce in leggi e regolamenti, o che deriva da leggi e regolamenti, perché illude l'ascoltatore di aver capito, mentre in realtà ha solo ascoltato una versione di parte.
Il fatto che la "democrazia" richieda la comprensione di tutto lo scibile umano e disumano da parte anche degli analfabeti (o della fottutissima casalinga di Voghera) fa parte della retorica populistica, che è sostenuta e usata soprattutto da coloro che nel dogma della semplificazione trovano la giustificazione ideale per manipolare a proprio piacere la verità, o almeno la ricerca di una verità.

Sul piano specifico e pratico, le cose stanno ancora peggio, sono cioè più complicate.
Bisogna intendersi su cosa significa "chiarezza".
Faccio un esempio.
Io sono uno che parla e scrive senza usare (scientemente) parole difficili o inconsuete, e anzi nella vita quotidiana mi piace parlare in pura lingua romana popolare. Ma uso i congiuntivi, e rispetto la sintassi intesa come struttura logica del discorso: questo basta, davanti a un determinato tipo di interlocutori, per farmi qualificare come "intellettuale" - qualifica che starebbe a significare soprattutto che sembro "strano", inusuale, a chi si è abituato all'abolizione del congiuntivo o al linguaggio assertivo, fatto di frasi brevi col punto esclamativo, o a quello pubblicitario. Quindi, in realtà mi capiscono benissimo, ma non mi sentono come uno di loro.
Naturalmente, se voglio, so benissimo cambiare stile e linguaggio e spesso lo faccio - ma anche no, dato che non me ne frega niente di apparire "uno di loro", e non ho niente da vendere o polizze di assicurazione da far sottoscrivere.
Quindi, diciamo che, se il parametro di riferimento è il linguaggio pubblicitario o televisivo, la chiarezza di cui si parla corrisponde a un degrado culturale che non solo non va incoraggiato, ma dev'essere evitato e combattuto come la peste, perchè è in effetti un degrado mentale di cui il linguaggio è solo un sintomo.

La mancanza di chiarezza non riguarda "la sinistra", ma certi determinati ambienti e personaggi: Ingrao era chiarissimo, benché non usasse un linguaggio "popolare", e sfido chiunque ad affermare che non fossero chiari Gramsci e Pasolini nei loro scritti, e comprensibili da chiunque sapesse leggere, anche con una scarsa scolarità alle spalle.
Ambienti e personaggi di sinistra che sono fumosi, possono esserlo per due motivi: perché non hanno le ide chiare, o perché pensano che complicare il discorso li renda più interessanti, più "nobili". E' in sostanza un problema di scempiaggine personale e di gruppo, che a che fare con la psiche umana, assai di più che con il marxismo, il socialismo, il progressismo e "la sinistra".
Semmai, a parziale scusante, possiamo dire che il fenomeno si verifica con più frequenza, o più facilità, a sinistra, perché a sinistra si tende ad affrontare più spesso temi complessi, o ad affrontarli con un approccio più problematico, e quindi è più facile che si cada nella tentazione di rispecchiare questa complessità nel linguaggio, e magari che si abbia difficoltà a districarsi, sintatticamente e tecnicamente, nel groviglio dei concetti.

Su Renzi mi avvalgo della facoltà di non infierire.
Eravamo giovani, eravamo arroganti, eravamo ridicoli, eravamo eccessivi, eravamo avventati. Eravamo bandiere rosse. E avevamo ragione.
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