Caso Cucchi e simili
-
- Messaggi: 155
- Iscritto il: 24/01/2015, 20:23
Caso Cucchi e simili
Come firmatario ho ricevuto il primo messaggio, che giro in questo nuovo argomento.
Ne vorrei fare una bacheca di documentazione, senza interventi e considerazioni personali, per pubblicizzare questi casi.
Lo scopo è arginare l'abuso di potere che spesso porta morti ingiuste e strane assoluzioni da parte di magistrati 'protettivi' verso le 'forze dell'ordine' che però in questi casi sono 'forze del male'.
In attesa che vengano stabilite visite di integrità psicologica periodiche per i portatori di armi, che già fanno le prove di tiro.
-----------------------------------------------------------------------------------------
Vogliamo la verità sulla morte di Stefano Cucchi, chi sa parli
da Il Fatto Quotidiano · 172.393 sostenitori
Aggiornamento sulla petizione
Depositato il ricorso in Cassazione
Il Fatto Quotidiano
13 mar 2015 — Cari firmatari,
continua la nostra battaglia per fare luce sulla morte di Stefano Cucchi. Dopo l’assoluzione in secondo grado di tutti gli imputati e la pubblicazione delle motivazioni della sentenza, la Procura generale di Roma - nella persona del sostituto generale Mario Remus (che nel processo di appello ha sostenuto l’accusa) - e i familiari di Stefano - il padre Giovanni e la sorella Ilaria - hanno depositato in Cassazione i loro ricorsi contro il verdetto.
Il procuratore Mario Remus ha definito la sentenza d’appello a più riprese illogica e contraddittoria: nel verdetto "sono state scartate valide e probabili ipotesi di aggressione violenta, prospettando una possibile accidentalità dei fatti", nonostante "due delle tre ipotesi avanzate dalla perizia affermino una vera e propria aggressione fisica". La Procura generale ha insistito inoltre sulla causa della morte, sulla quale in sentenza si è ritenuto mancassero certezze: "v’è da chiedersi in che misura l’asserita mancanza di certezze non dipenda dal comportamento gravemente negligente dei sanitari".
Per la famiglia, invece, ci sono "difetti capitali nella formulazione dell’imputazione che avrebbe dovuto vedere il fatto qualificato come omicidio preterintenzionale" nei confronti dei tre agenti della polizia penitenziaria.
Noi continuiamo a portare avanti la nostra campagna perché la verità venga alla luce. E rinnoviamo il nostro appello: chi sa parli, si assuma le proprie responsabilità.
***
Questo l’articolo completo pubblicato sul Fatto quotidiano: http://bit.ly/1MxchBq
------------------------------------------------------------------------------------------
http://www.salernotoday.it/cronaca/mort ... padre.html
Buonabitacolo, morto dopo un fermo dei carabinieri: l'appello del padre Massimo Casalnuovo è morto il 20 agosto del 2011, a 22 anni. Tutto è cominciato dopo che è stato fermato dai carabinieri. Abbiamo intervistato il padre, Osvaldo, che insieme a tutta Buonabitacolo chiede che sia fatta luce sulla vicenda
Selene Cilluffo 14 gennaio 2015
Massimo Casalnuovo ha 22 anni quando il 20 agosto 2011 prende il suo motorino e va dall'officina del padre verso casa. Senza casco percorre la via principale del suo paese, Buonabitacolo in provincia di Salerno. Qualche giorno prima alcuni residenti avevano presentato un esposto al sindaco, per chiedere di effettuare maggiori controlli su motorini rumorosi e "truccati". Così polizia municipale e carabinieri si appostano lì, proprio mentre passa anche Massimo. Quando i carabinieri lo vedono hanno già fermato altri due ragazzi e hanno accostato subito dopo una curva. Massimo invece non li vede e uno dei militari (il maresciallo
Giovanni Cunsolo) si mette in mezzo alla strada, così uscendo dalla curva se lo ritrova davanti. Qualche secondo dopo è a terra, ha sbattuto il petto sullo spigolo di un muretto. Morirà in ambulanza poco dopo.
Dopo l'incidente si diffondono due versioni dei fatti totalmente opposte tra loro: quella dell'Arma secondo cui Massimo è caduto dopo avere cercato di investire il maresciallo e ferendolo a un piede, e quella invece di alcuni testimoni secondo cui Massimo ha sbandato a causa del calcio sferrato allo scooter dal maresciallo Cunsolo. All'ospedale di Polla però arrivava prima il maresciallo di Massimo, che invece moriva in ambulanza. Emilio Risi è uno dei testimoni e la sua ricostruzione è stata questa: "Il maresciallo dei carabinieri è balzato fuori dall'auto dove stava redigendo il verbale e ha cercato di fermare il motorino. Il conducente lo ha evitato, il militare ha sferrato un calcio sul lato sinistro del mezzo, un Beta 50. Il ciclomotore ha percorso ancora alcuni metri sbandando, poi è sbattuto contro un muretto a secco di un ponte che sovrasta il fiume Peglio. Il ragazzo che lo guidava è stato sbalzato a terra, aveva sangue sulla fronte e non appariva cosciente".
Poi c'è la versione del maresciallo che ha detto che ha inseguito il ragazzo nell'intento di leggere da vicino la targa del mezzo e di essere stato quasi investito da Casalnuovo, che ha perso il controllo del motorino dopo essergli passato sul "collo del piede sinistro". Nel processo su quei fatti l'imputato è il maresciallo, con l'accusa di omicidio preterintenzionale con l'aggravante di abuso d'ufficio. Il 5 luglio 2013 è stata emessa la prima sentenza: assoluzione con formula dubitativa.
Nelle motivazioni si leggono che i verbali degli interrogatori non sono completi, con dei riassunti delle dichiarazioni.
Sulla storia di Massimo c'è anche un documentario, diffuso sul web, che ricostruisce la sua storia. Oggi è il padre, Osvaldo, ad essere impegnato a chiedere verità e giustizia: "Per il giudice non c'è una prova certa ma io dico che non c'è stata la volontà di cercarla. La polizia scientifica di Roma ha fatto accertamenti e ha trovato sulle scarpe del carabiniere delle microtracce della vernice del motorino di Massimo. E poi ci sono anche i testimoni".
Osvaldo ha fondato insieme alla gente della sua comunità, Buonabitacolo, un comitato per chiedere verità e giustizia per suo figlio: "Noi siamo parte civile e anche la procura generale ha appellato quella sentenza dopo aver letto le motivazioni. Chiediamo solo che la storia di Massimo venga raccontata e si conosca, come quella di Aldrovandi, Uva e Cucchi. Dobbiamo parlare di queste vicende se vogliamo giustizia". Anche con Massimo si era innescato quel meccanismo di "doppia morte", tentato più volte in altri casi simili a questi: "E' stato definito un teppistello, un centauro che ha sfondato il posto di blocco. Ma poi è stato tutto bloccato:
siamo una piccola comunità, ci conosciamo tutti e chiunque sa che Massimo era una persona rispettosa, timida e introversa. Non era certo un delinquente".
Intorno a Osvaldo l'intera comunità di Buonabitacolo che ha organizzato concerti e manifestazioni per ricordare suo figlio e non dimenticare. Intanto, grazie a un consiglio comunale straordinario, il maresciallo dei carabinieri imputato nel processo presterà servizio in un altro paese, ma pur sempre sotto la stessa Procura.
Osvaldo si è rivolto spesso alle istituzioni: "Ho scritto all'allora ministro degli Interni Roberto Maroni. Lui e il sindaco di Buonabitacolo sono stati gli unici a rispondere ai miei appelli. All'epoca avevo scritto anche alla Cancellieri. Adesso il senatore Luigi Manconi si sta occupando della mia storia".
Osvaldo non è solo ma la sua battaglia è difficile: "Non si capisce perché continuino ad ostacolarci. Se sei un cittadino qualunque la giustizia ti massacra ma se sei dell'arma, indossi un camice bianco o una divisa sembra quasi che tu non debba essere processato. Ma io non smetterò di parlare e otterrò la giustizia che cerco".
-----------------------------------------------------------------------------------------
Ne vorrei fare una bacheca di documentazione, senza interventi e considerazioni personali, per pubblicizzare questi casi.
Lo scopo è arginare l'abuso di potere che spesso porta morti ingiuste e strane assoluzioni da parte di magistrati 'protettivi' verso le 'forze dell'ordine' che però in questi casi sono 'forze del male'.
In attesa che vengano stabilite visite di integrità psicologica periodiche per i portatori di armi, che già fanno le prove di tiro.
-----------------------------------------------------------------------------------------
Vogliamo la verità sulla morte di Stefano Cucchi, chi sa parli
da Il Fatto Quotidiano · 172.393 sostenitori
Aggiornamento sulla petizione
Depositato il ricorso in Cassazione
Il Fatto Quotidiano
13 mar 2015 — Cari firmatari,
continua la nostra battaglia per fare luce sulla morte di Stefano Cucchi. Dopo l’assoluzione in secondo grado di tutti gli imputati e la pubblicazione delle motivazioni della sentenza, la Procura generale di Roma - nella persona del sostituto generale Mario Remus (che nel processo di appello ha sostenuto l’accusa) - e i familiari di Stefano - il padre Giovanni e la sorella Ilaria - hanno depositato in Cassazione i loro ricorsi contro il verdetto.
Il procuratore Mario Remus ha definito la sentenza d’appello a più riprese illogica e contraddittoria: nel verdetto "sono state scartate valide e probabili ipotesi di aggressione violenta, prospettando una possibile accidentalità dei fatti", nonostante "due delle tre ipotesi avanzate dalla perizia affermino una vera e propria aggressione fisica". La Procura generale ha insistito inoltre sulla causa della morte, sulla quale in sentenza si è ritenuto mancassero certezze: "v’è da chiedersi in che misura l’asserita mancanza di certezze non dipenda dal comportamento gravemente negligente dei sanitari".
Per la famiglia, invece, ci sono "difetti capitali nella formulazione dell’imputazione che avrebbe dovuto vedere il fatto qualificato come omicidio preterintenzionale" nei confronti dei tre agenti della polizia penitenziaria.
Noi continuiamo a portare avanti la nostra campagna perché la verità venga alla luce. E rinnoviamo il nostro appello: chi sa parli, si assuma le proprie responsabilità.
***
Questo l’articolo completo pubblicato sul Fatto quotidiano: http://bit.ly/1MxchBq
------------------------------------------------------------------------------------------
http://www.salernotoday.it/cronaca/mort ... padre.html
Buonabitacolo, morto dopo un fermo dei carabinieri: l'appello del padre Massimo Casalnuovo è morto il 20 agosto del 2011, a 22 anni. Tutto è cominciato dopo che è stato fermato dai carabinieri. Abbiamo intervistato il padre, Osvaldo, che insieme a tutta Buonabitacolo chiede che sia fatta luce sulla vicenda
Selene Cilluffo 14 gennaio 2015
Massimo Casalnuovo ha 22 anni quando il 20 agosto 2011 prende il suo motorino e va dall'officina del padre verso casa. Senza casco percorre la via principale del suo paese, Buonabitacolo in provincia di Salerno. Qualche giorno prima alcuni residenti avevano presentato un esposto al sindaco, per chiedere di effettuare maggiori controlli su motorini rumorosi e "truccati". Così polizia municipale e carabinieri si appostano lì, proprio mentre passa anche Massimo. Quando i carabinieri lo vedono hanno già fermato altri due ragazzi e hanno accostato subito dopo una curva. Massimo invece non li vede e uno dei militari (il maresciallo
Giovanni Cunsolo) si mette in mezzo alla strada, così uscendo dalla curva se lo ritrova davanti. Qualche secondo dopo è a terra, ha sbattuto il petto sullo spigolo di un muretto. Morirà in ambulanza poco dopo.
Dopo l'incidente si diffondono due versioni dei fatti totalmente opposte tra loro: quella dell'Arma secondo cui Massimo è caduto dopo avere cercato di investire il maresciallo e ferendolo a un piede, e quella invece di alcuni testimoni secondo cui Massimo ha sbandato a causa del calcio sferrato allo scooter dal maresciallo Cunsolo. All'ospedale di Polla però arrivava prima il maresciallo di Massimo, che invece moriva in ambulanza. Emilio Risi è uno dei testimoni e la sua ricostruzione è stata questa: "Il maresciallo dei carabinieri è balzato fuori dall'auto dove stava redigendo il verbale e ha cercato di fermare il motorino. Il conducente lo ha evitato, il militare ha sferrato un calcio sul lato sinistro del mezzo, un Beta 50. Il ciclomotore ha percorso ancora alcuni metri sbandando, poi è sbattuto contro un muretto a secco di un ponte che sovrasta il fiume Peglio. Il ragazzo che lo guidava è stato sbalzato a terra, aveva sangue sulla fronte e non appariva cosciente".
Poi c'è la versione del maresciallo che ha detto che ha inseguito il ragazzo nell'intento di leggere da vicino la targa del mezzo e di essere stato quasi investito da Casalnuovo, che ha perso il controllo del motorino dopo essergli passato sul "collo del piede sinistro". Nel processo su quei fatti l'imputato è il maresciallo, con l'accusa di omicidio preterintenzionale con l'aggravante di abuso d'ufficio. Il 5 luglio 2013 è stata emessa la prima sentenza: assoluzione con formula dubitativa.
Nelle motivazioni si leggono che i verbali degli interrogatori non sono completi, con dei riassunti delle dichiarazioni.
Sulla storia di Massimo c'è anche un documentario, diffuso sul web, che ricostruisce la sua storia. Oggi è il padre, Osvaldo, ad essere impegnato a chiedere verità e giustizia: "Per il giudice non c'è una prova certa ma io dico che non c'è stata la volontà di cercarla. La polizia scientifica di Roma ha fatto accertamenti e ha trovato sulle scarpe del carabiniere delle microtracce della vernice del motorino di Massimo. E poi ci sono anche i testimoni".
Osvaldo ha fondato insieme alla gente della sua comunità, Buonabitacolo, un comitato per chiedere verità e giustizia per suo figlio: "Noi siamo parte civile e anche la procura generale ha appellato quella sentenza dopo aver letto le motivazioni. Chiediamo solo che la storia di Massimo venga raccontata e si conosca, come quella di Aldrovandi, Uva e Cucchi. Dobbiamo parlare di queste vicende se vogliamo giustizia". Anche con Massimo si era innescato quel meccanismo di "doppia morte", tentato più volte in altri casi simili a questi: "E' stato definito un teppistello, un centauro che ha sfondato il posto di blocco. Ma poi è stato tutto bloccato:
siamo una piccola comunità, ci conosciamo tutti e chiunque sa che Massimo era una persona rispettosa, timida e introversa. Non era certo un delinquente".
Intorno a Osvaldo l'intera comunità di Buonabitacolo che ha organizzato concerti e manifestazioni per ricordare suo figlio e non dimenticare. Intanto, grazie a un consiglio comunale straordinario, il maresciallo dei carabinieri imputato nel processo presterà servizio in un altro paese, ma pur sempre sotto la stessa Procura.
Osvaldo si è rivolto spesso alle istituzioni: "Ho scritto all'allora ministro degli Interni Roberto Maroni. Lui e il sindaco di Buonabitacolo sono stati gli unici a rispondere ai miei appelli. All'epoca avevo scritto anche alla Cancellieri. Adesso il senatore Luigi Manconi si sta occupando della mia storia".
Osvaldo non è solo ma la sua battaglia è difficile: "Non si capisce perché continuino ad ostacolarci. Se sei un cittadino qualunque la giustizia ti massacra ma se sei dell'arma, indossi un camice bianco o una divisa sembra quasi che tu non debba essere processato. Ma io non smetterò di parlare e otterrò la giustizia che cerco".
-----------------------------------------------------------------------------------------
-
- Messaggi: 191
- Iscritto il: 17/01/2015, 9:10
Re: Caso Cucchi e simili
Mi è capitato più di una volta, di notte in città, osservare persone (giovani, uomini, donne) piegate, quasi accovacciate, con le braccia a tenersi la pancia, quasi a stringerla per favorire il vomito, che, avvicinate, con fare brusco, da poliziotti, incominciavano a lamentarsi ed a gridare ad alta voce di essere lasciati in pace.
Soprattutto quando venivano spinte o strattonate imprecavano ed indisponevano ancora di più i poliziotti, che forzavano i toni a dimostrare che il loro intervento non era per lenire le loro condizioni di sofferenza quanto perché in qualità di tutori dell'ordine, dovevano farlo rispettare a tutti i costi (imporlo anche allo stesso individuo, coartando la stessa sfera personale).
In queste circostanze è facile che il sofferente possa sentirsi violentato nel suo intimo, e manifestare la sua esasperazione, la sua impotente rabbia, con reiterate grida e con espressioni offensive ... sta a coloro che si sentono forti ed intoccabili porgersi con altri modi e metodi per non peggiorare la situazione (soprattutto se c'è recidività).
A volte le forze dell'ordine ci riescono, ma altre volte non sono propense a prendersi a cuore le condizioni dei deboli ed a porgere una mano (aperta) e finiscono per alterare o per compromettere definitivamente il delicato equilibrio fisico e mentale del "bisognoso".
Soprattutto quando venivano spinte o strattonate imprecavano ed indisponevano ancora di più i poliziotti, che forzavano i toni a dimostrare che il loro intervento non era per lenire le loro condizioni di sofferenza quanto perché in qualità di tutori dell'ordine, dovevano farlo rispettare a tutti i costi (imporlo anche allo stesso individuo, coartando la stessa sfera personale).
In queste circostanze è facile che il sofferente possa sentirsi violentato nel suo intimo, e manifestare la sua esasperazione, la sua impotente rabbia, con reiterate grida e con espressioni offensive ... sta a coloro che si sentono forti ed intoccabili porgersi con altri modi e metodi per non peggiorare la situazione (soprattutto se c'è recidività).
A volte le forze dell'ordine ci riescono, ma altre volte non sono propense a prendersi a cuore le condizioni dei deboli ed a porgere una mano (aperta) e finiscono per alterare o per compromettere definitivamente il delicato equilibrio fisico e mentale del "bisognoso".
-
- Messaggi: 155
- Iscritto il: 24/01/2015, 20:23
Re: Caso Cucchi e simili
Iafran: "in qualità di tutori dell'ordine, dovevano farlo rispettare a tutti i costi". Ma l'ordine qual è? Che intendono per ordine? Scambiano lucciole per lanterne e sparano. Meno male che non lo fanno tutti.
-------------------
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09 ... i/1113841/
Davide Bifolco non è una vittima di Napoli
di Salvatore Altiero | 8 settembre 2014
Soccavo, Napoli, Rione Traiano, nella notte, dopo un inseguimento, un’auto sperona uno scooter con a bordo tre persone, un ventiduenne scende dall’auto, è armato, un colpo di pistola ammazza Davide, 17 anni. Se il colpo non fosse partito da una pistola d’ordinanza, il racconto della vicenda sarebbe stato più o meno questo. E allora c’è da capire cosa rende difficile l’utilizzo delle parole giuste e la giusta contestualizzazione dei fatti.
Ammesso che un incensurato, disarmato, alla guida di un motorino possa essere scambiato per uno spacciatore e un carabiniere intravvedere nella notte il luccichio di una pistola e per questo lanciarsi all’inseguimento, senza chiamare rinforzi nonostante il soggetto armato, poi inciampare e ammazzare un ragazzo di 17 anni (questa la versione del carabiniere) perché la pistola aveva il colpo in canna senza sicura. Ammesso tutto ciò, qualcosa di sicuro c’è: quanto è accaduto è insopportabile, già prima di aver stabilito volontarietà o accidentalità dell’omicidio. È insopportabile perché l’unica responsabilità di Davide quando è stato raggiunto dal proiettile che lo ha ucciso era di essere a bordo di uno scooter senza casco e di non essersi fermato all’alt. In un mondo normale, al massimo, avrebbe meritato uno scappellotto. Tutto il resto, non è superfluo, ma pone l’accento su aspetti che non serviranno ad evitare che tutto si ripeta.
Come si ripete da sempre: Federico Adrovandi, Stefano Cucchi, Gerardino Diglio, crivellato da una raffica di mitra a 13 anni, Antonio Mannalà, il rapinatore ucciso a fine luglio a Cardito con un colpo alla schiena dopo un inseguimento, Mario Castellano, anche lui 17 anni, ucciso nel luglio del 2000 dopo aver forzato un posto di blocco.
Insopportabile, fino a suscitare conati di rabbia e moti di repulsione verso chi detiene il potere di fare opinione e informazione, è poi, nella stragrande maggioranza dei casi, il racconto giornalistico o pseudo-giornalistico della vicenda, da Saviano a tal Pietro Senaldi che su Libero scrive: “prima che del carabiniere di pochi anni più vecchio che ha sparato uccidendolo, Davide Bifolco, il 17enne ammazzato a Napoli mentre fuggiva dalle forze dell’ordine, è vittima della sua città … che vive al di fuori della legge, i cui abitanti, anche quelli che non sono criminali, tengono abitualmente comportamenti che in altre parti d’Italia non sono tollerati”. Più o meno dello stesso tenore, l’articolo di Arnaldo Capezzuto sul fattoquotidiano.it. È la retorica razzista che pervade la narrazione di Napoli. Mi torna in mente Genova, 2001, Piazza Alimonda. Tra gli uomini in divisa che circondano il corpo di Carlo Giuliani ce n’è uno che urla ad un manifestante: “lo hai ucciso tu con il tuo sasso. Bastardo“. Napoli è quel bastardo.
Se il ventiduenne non avesse indossato una divisa, si sarebbe scritto “omicidio“, colposo, intenzionale, accidentale, ma omicidio, soppressione di una vita umana ad opera di un altro essere umano non “tragedia”. Emerge invece il background culturale di una società disposta a delegare allo Stato l’idea di giustizia e non solo la legalità.
A tinte verghiane viene dipinto un mondo senza possibilità di riscatto, dove morire ammazzati è “più normale”, perché qui il fato ha più motivi di essere crudele. Esercizi di prosa che spostano l’attenzione dai fatti e deviano i criteri di giudizio; tutto serve a sostenere il registro narrativo di un incidente, di una tragedia, addossando alla vittima una sorta di colpa insita nella sua provenienza sociale o peggio geografica. Non è più omicidio, è qualcos’altro. Davide è stato ucciso dall’arma di un carabiniere, ma è vittima di Napoli.
Vittorio Alfieri, in Della tirannide, scrive: “Indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzione delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d’impunità … chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo”. Da questo punto di vista le parole di Saviano non si inscrivono in una cornice culturale diversa seppur declinata con altre sfumature. Anche l’Italia ha la sua Ferguson – dice Saviano – e fin qui non è un accostamento per cui servisse chissà quale acume. Poi però aggiunge “nessuno dirà che Davide è morto perché viveva in un territorio in guerra. E in guerra non ci sono seconde possibilità, ti va sempre male, da qualunque parte tu stia. Tutti buoni, tutti cattivi e tutti morti”.
Se nessuno lo avesse detto sarebbe stato semplicemente perché Davide non è morto in guerra ma a Napoli, Europa, Italia, Stato democratico in cui si vanta la garanzia dei diritti civili e della dignità dell’essere umano. Se penso a uomini, donne e bambini massacrati in Palestina mi è già difficile affermare che in guerra non ci sia possibilità di distinguere buoni e cattivi, ma il parallelismo assume i contorni del più banale esercizio di retorica perbenista se si confronta con la realtà dei fatti che di questo immaginario pacifista e non violento non ha proprio nulla. Non ci si può nascondere dietro la nebbia omologante del buonismo, del “tutti morti”, tutti colpevoli e vittime al tempo stesso. No, è morto un ragazzo di 17 anni, è morto ammazzato, punto, altre vittime non ce ne sono e di sicuro non è solo, ma anche un problema di buoni e cattivi. Se poi a corrotti, indagati, pregiudicati, si permette di governare ma ad un diciassettenne si spara perché forza un posto di blocco, non si chiama guerra ma “Stato di ingiustizia” e senza giustizia non c’è pace, in Palestina come a Napoli ed in ogni altra parte del mondo.
Il peggio però è che non è vero che nessuno lo ha detto, l’immagine di uno “stato di guerra” in cui tutto può accadere è stata evocata ed abusata. La morte di Davide Bifolco è stata l’ennesima occasione per ritornare a calcare i tratti narrativi di una Napoli assassina e spietata che ha premuto di nuovo il grilletto. Davide Bifolco è vittima di Napoli per il solo fatto di essere – anche – una città di mafie, microcriminalità e disagio sociale.
La realtà è che non v’erano motivi sufficienti neanche per estrarla dalla fondina quella pistola, figuriamoci per puntarla. Dall’altra parte, tre ragazzini, disarmati, minorenni, uno in fuga, gli altri due ormai fermati. È vero invece che alle responsabilità individuali vanno sommate quelle di un intero sistema. La teatralizzazione e l’esercizio di prosa sul disagio, sulla situazione di criminalità diffusa, in questo caso non servono a raccontare la realtà ma a trasfigurarla, ad agevolare un’impunità pretesa con arroganza istituzionale. E poi a riempire le pagine vuote di chi scrive seduto ad una scrivania senza sapere nulla della realtà delle strade che racconta.
Primo errore: non si tratta né di un’inchiesta sociale in cui si tenta di analizzare e raccontare la vita di persone svantaggiate, né di un agguato di camorra in cui l’omicidio va inserito nell’ambito di una dinamica criminale. Qui non bisogna rispondere a domande su un determinato contesto sociale o criminale, ma provare a spiegare perché un carabiniere, volontariamente o meno, ha ammazzato un ragazzo.
Secondo errore: si arriva ad aggiungere alla vicenda un colpevole che in questo caso non ha responsabilità o ne ha in misura meno che secondaria, la città di Napoli, e poiché siamo nella società dell’immagine e delle belle parole, l’esercizio di stile sul racconto della Napoli cattiva fa assumere a questo colpevole ingiusta centralità agli occhi dell’opinione pubblica.
Terzo errore: se proprio si vuole parlare di Napoli e della sua complessità, ciò che ci si dovrebbe chiedere allora è perché lo Stato non riesce ad assumere le vesti di una soluzione che non sia esclusivamente repressione, ma alternativa possibile di rinascita sociale.
Il contesto della vicenda di Davide Bifolco non è Napoli, ma tutti i posti di blocco e le circostanze in cui qualcuno è morto per un “colpo accidentale” esploso da una pistola d’ordinanza o in carcere massacrato di botte.
Sabato a Soccavo, al corteo per Davide, è avvenuto anche che uno dei plotoni di polizia indietreggiasse togliendosi il casco di fronte ad una comunità in lutto. Un passo indietro. La morte di Davide è un insulto alla dignità umana e se una vita innocente viene spazzata via da un uomo in divisa, la rabbia è degna e inevitabile e non può essere affrontata proclamando l’infallibilità delle istituzioni.
Accidentale o volontaria, Davide non è vittima di Napoli ma vittima di Stato, come in una guerra, solo che la guerra qui non c’entra.
---
http://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/ ... 6477.shtml
Il giudice: "La sola vittima è il carabiniere" - A entrare con durezza nella vicenda è Luigi Bobbio, per anni pm anticamorra, poi senatore ( DI ALLEANZA NAZIONALE ) e sindaco di Castellammare di Stabia (Napoli) e oggi giudice al Tribunale civile di Nocera Inferiore, in provincia di Salerno. Lui ha deciso senza mezze misure da che parte stare e lo ha scritto su Facebook. "L'identikit del bravo ragazzo una volta era ben diverso da quello che oggi qualche sprovveduto vorrebbe appiccicare al morto dell'altra notte". Il carabiniere che ha sparato "è la sola e unica vittima di quanto è accaduto". Secondo il magistrato, "giustificazionismo, buonismo, perdonismo e pietà non solo non servono a niente ma aggravano il male. A 17 anni si è uomini fatti e gli uomini sono responsabili delle loro scelte, delle loro azioni, dei loro stili di vita".
-------------------
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09 ... i/1113841/
Davide Bifolco non è una vittima di Napoli
di Salvatore Altiero | 8 settembre 2014
Soccavo, Napoli, Rione Traiano, nella notte, dopo un inseguimento, un’auto sperona uno scooter con a bordo tre persone, un ventiduenne scende dall’auto, è armato, un colpo di pistola ammazza Davide, 17 anni. Se il colpo non fosse partito da una pistola d’ordinanza, il racconto della vicenda sarebbe stato più o meno questo. E allora c’è da capire cosa rende difficile l’utilizzo delle parole giuste e la giusta contestualizzazione dei fatti.
Ammesso che un incensurato, disarmato, alla guida di un motorino possa essere scambiato per uno spacciatore e un carabiniere intravvedere nella notte il luccichio di una pistola e per questo lanciarsi all’inseguimento, senza chiamare rinforzi nonostante il soggetto armato, poi inciampare e ammazzare un ragazzo di 17 anni (questa la versione del carabiniere) perché la pistola aveva il colpo in canna senza sicura. Ammesso tutto ciò, qualcosa di sicuro c’è: quanto è accaduto è insopportabile, già prima di aver stabilito volontarietà o accidentalità dell’omicidio. È insopportabile perché l’unica responsabilità di Davide quando è stato raggiunto dal proiettile che lo ha ucciso era di essere a bordo di uno scooter senza casco e di non essersi fermato all’alt. In un mondo normale, al massimo, avrebbe meritato uno scappellotto. Tutto il resto, non è superfluo, ma pone l’accento su aspetti che non serviranno ad evitare che tutto si ripeta.
Come si ripete da sempre: Federico Adrovandi, Stefano Cucchi, Gerardino Diglio, crivellato da una raffica di mitra a 13 anni, Antonio Mannalà, il rapinatore ucciso a fine luglio a Cardito con un colpo alla schiena dopo un inseguimento, Mario Castellano, anche lui 17 anni, ucciso nel luglio del 2000 dopo aver forzato un posto di blocco.
Insopportabile, fino a suscitare conati di rabbia e moti di repulsione verso chi detiene il potere di fare opinione e informazione, è poi, nella stragrande maggioranza dei casi, il racconto giornalistico o pseudo-giornalistico della vicenda, da Saviano a tal Pietro Senaldi che su Libero scrive: “prima che del carabiniere di pochi anni più vecchio che ha sparato uccidendolo, Davide Bifolco, il 17enne ammazzato a Napoli mentre fuggiva dalle forze dell’ordine, è vittima della sua città … che vive al di fuori della legge, i cui abitanti, anche quelli che non sono criminali, tengono abitualmente comportamenti che in altre parti d’Italia non sono tollerati”. Più o meno dello stesso tenore, l’articolo di Arnaldo Capezzuto sul fattoquotidiano.it. È la retorica razzista che pervade la narrazione di Napoli. Mi torna in mente Genova, 2001, Piazza Alimonda. Tra gli uomini in divisa che circondano il corpo di Carlo Giuliani ce n’è uno che urla ad un manifestante: “lo hai ucciso tu con il tuo sasso. Bastardo“. Napoli è quel bastardo.
Se il ventiduenne non avesse indossato una divisa, si sarebbe scritto “omicidio“, colposo, intenzionale, accidentale, ma omicidio, soppressione di una vita umana ad opera di un altro essere umano non “tragedia”. Emerge invece il background culturale di una società disposta a delegare allo Stato l’idea di giustizia e non solo la legalità.
A tinte verghiane viene dipinto un mondo senza possibilità di riscatto, dove morire ammazzati è “più normale”, perché qui il fato ha più motivi di essere crudele. Esercizi di prosa che spostano l’attenzione dai fatti e deviano i criteri di giudizio; tutto serve a sostenere il registro narrativo di un incidente, di una tragedia, addossando alla vittima una sorta di colpa insita nella sua provenienza sociale o peggio geografica. Non è più omicidio, è qualcos’altro. Davide è stato ucciso dall’arma di un carabiniere, ma è vittima di Napoli.
Vittorio Alfieri, in Della tirannide, scrive: “Indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzione delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d’impunità … chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo”. Da questo punto di vista le parole di Saviano non si inscrivono in una cornice culturale diversa seppur declinata con altre sfumature. Anche l’Italia ha la sua Ferguson – dice Saviano – e fin qui non è un accostamento per cui servisse chissà quale acume. Poi però aggiunge “nessuno dirà che Davide è morto perché viveva in un territorio in guerra. E in guerra non ci sono seconde possibilità, ti va sempre male, da qualunque parte tu stia. Tutti buoni, tutti cattivi e tutti morti”.
Se nessuno lo avesse detto sarebbe stato semplicemente perché Davide non è morto in guerra ma a Napoli, Europa, Italia, Stato democratico in cui si vanta la garanzia dei diritti civili e della dignità dell’essere umano. Se penso a uomini, donne e bambini massacrati in Palestina mi è già difficile affermare che in guerra non ci sia possibilità di distinguere buoni e cattivi, ma il parallelismo assume i contorni del più banale esercizio di retorica perbenista se si confronta con la realtà dei fatti che di questo immaginario pacifista e non violento non ha proprio nulla. Non ci si può nascondere dietro la nebbia omologante del buonismo, del “tutti morti”, tutti colpevoli e vittime al tempo stesso. No, è morto un ragazzo di 17 anni, è morto ammazzato, punto, altre vittime non ce ne sono e di sicuro non è solo, ma anche un problema di buoni e cattivi. Se poi a corrotti, indagati, pregiudicati, si permette di governare ma ad un diciassettenne si spara perché forza un posto di blocco, non si chiama guerra ma “Stato di ingiustizia” e senza giustizia non c’è pace, in Palestina come a Napoli ed in ogni altra parte del mondo.
Il peggio però è che non è vero che nessuno lo ha detto, l’immagine di uno “stato di guerra” in cui tutto può accadere è stata evocata ed abusata. La morte di Davide Bifolco è stata l’ennesima occasione per ritornare a calcare i tratti narrativi di una Napoli assassina e spietata che ha premuto di nuovo il grilletto. Davide Bifolco è vittima di Napoli per il solo fatto di essere – anche – una città di mafie, microcriminalità e disagio sociale.
La realtà è che non v’erano motivi sufficienti neanche per estrarla dalla fondina quella pistola, figuriamoci per puntarla. Dall’altra parte, tre ragazzini, disarmati, minorenni, uno in fuga, gli altri due ormai fermati. È vero invece che alle responsabilità individuali vanno sommate quelle di un intero sistema. La teatralizzazione e l’esercizio di prosa sul disagio, sulla situazione di criminalità diffusa, in questo caso non servono a raccontare la realtà ma a trasfigurarla, ad agevolare un’impunità pretesa con arroganza istituzionale. E poi a riempire le pagine vuote di chi scrive seduto ad una scrivania senza sapere nulla della realtà delle strade che racconta.
Primo errore: non si tratta né di un’inchiesta sociale in cui si tenta di analizzare e raccontare la vita di persone svantaggiate, né di un agguato di camorra in cui l’omicidio va inserito nell’ambito di una dinamica criminale. Qui non bisogna rispondere a domande su un determinato contesto sociale o criminale, ma provare a spiegare perché un carabiniere, volontariamente o meno, ha ammazzato un ragazzo.
Secondo errore: si arriva ad aggiungere alla vicenda un colpevole che in questo caso non ha responsabilità o ne ha in misura meno che secondaria, la città di Napoli, e poiché siamo nella società dell’immagine e delle belle parole, l’esercizio di stile sul racconto della Napoli cattiva fa assumere a questo colpevole ingiusta centralità agli occhi dell’opinione pubblica.
Terzo errore: se proprio si vuole parlare di Napoli e della sua complessità, ciò che ci si dovrebbe chiedere allora è perché lo Stato non riesce ad assumere le vesti di una soluzione che non sia esclusivamente repressione, ma alternativa possibile di rinascita sociale.
Il contesto della vicenda di Davide Bifolco non è Napoli, ma tutti i posti di blocco e le circostanze in cui qualcuno è morto per un “colpo accidentale” esploso da una pistola d’ordinanza o in carcere massacrato di botte.
Sabato a Soccavo, al corteo per Davide, è avvenuto anche che uno dei plotoni di polizia indietreggiasse togliendosi il casco di fronte ad una comunità in lutto. Un passo indietro. La morte di Davide è un insulto alla dignità umana e se una vita innocente viene spazzata via da un uomo in divisa, la rabbia è degna e inevitabile e non può essere affrontata proclamando l’infallibilità delle istituzioni.
Accidentale o volontaria, Davide non è vittima di Napoli ma vittima di Stato, come in una guerra, solo che la guerra qui non c’entra.
---
http://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/ ... 6477.shtml
Il giudice: "La sola vittima è il carabiniere" - A entrare con durezza nella vicenda è Luigi Bobbio, per anni pm anticamorra, poi senatore ( DI ALLEANZA NAZIONALE ) e sindaco di Castellammare di Stabia (Napoli) e oggi giudice al Tribunale civile di Nocera Inferiore, in provincia di Salerno. Lui ha deciso senza mezze misure da che parte stare e lo ha scritto su Facebook. "L'identikit del bravo ragazzo una volta era ben diverso da quello che oggi qualche sprovveduto vorrebbe appiccicare al morto dell'altra notte". Il carabiniere che ha sparato "è la sola e unica vittima di quanto è accaduto". Secondo il magistrato, "giustificazionismo, buonismo, perdonismo e pietà non solo non servono a niente ma aggravano il male. A 17 anni si è uomini fatti e gli uomini sono responsabili delle loro scelte, delle loro azioni, dei loro stili di vita".
Ultima modifica di cardif il 15/03/2015, 14:43, modificato 1 volta in totale.
-
- Messaggi: 386
- Iscritto il: 08/01/2015, 0:53
Re: Caso Cucchi e simili
Proprio oggi cade la giornata delle vittime degli abusi della polizia. Le criticità maggiori sono date dalla mancanza di identificabilità dei poliziotti e dalla connivenza con le autorità, vista la evidente ritrosia dei magistrati a condannare membri delle forze dell'ordine (da cui può dipendere anche la propria incolumità). Emergono poi pregiudizi e discriminazioni razziali:
http://www.internazionale.it/opinione/f ... la-polizia
...
Il ferimento di due poliziotti a Ferguson, nella notte tra il 12 e il 13 marzo, rischia di mettere in ombra un fatto molto più grave perché strutturale: esistono città e quartieri, negli Stati Uniti come in Europa, dove i cittadini, soprattutto se giovani, di sesso maschile e non abbastanza bianchi, si aspettano di essere fermati, insultati, maltrattati, feriti o uccisi da agenti di polizia in servizio.
...
(l'articolo merita una lettura integrale)
E c'è anche la campagna di raccolta firme:
http://police-identification-europe.org/index.php/it/
http://www.internazionale.it/opinione/f ... la-polizia
...
Il ferimento di due poliziotti a Ferguson, nella notte tra il 12 e il 13 marzo, rischia di mettere in ombra un fatto molto più grave perché strutturale: esistono città e quartieri, negli Stati Uniti come in Europa, dove i cittadini, soprattutto se giovani, di sesso maschile e non abbastanza bianchi, si aspettano di essere fermati, insultati, maltrattati, feriti o uccisi da agenti di polizia in servizio.
...
(l'articolo merita una lettura integrale)
E c'è anche la campagna di raccolta firme:
http://police-identification-europe.org/index.php/it/
Renzi elenca i successi del governo. “Sarò breve”.
-
- Messaggi: 155
- Iscritto il: 24/01/2015, 20:23
Re: Caso Cucchi e simili
Non faccio solo una critica a comportamenti di questo tipo da parte di qualcuno che crede nel 'potere' della divisa.
Una democrazia compiuta ha due gambe su cui cammina: la prima è il rispetto delle regole.
E le regole non possono essere interpretate in modo diverso a seconda che ad uccidere sia uno con la divisa o un civile. Penso che sia una battaglia di democrazia battersi perché non avvengano casi come questi di uso eccessivo della repressione e disparità di trattamento in giudizio.
Sul piano del comportamento di questi personaggi, farei una domanda
- ai pm Francesca Loy e Vincenzo Barba, che non hanno indagato nessuno per il pestaggio di Stefano Cucchi, se secondo loro è lecito pestare qualcuno fino a farlo morire, casomai un loro parente, con la giustificazione che, tanto, si droga.
- al maresciallo Giovanni Cunsolo, che pare abbia provocato la morte di Massimo Casalnuovo: "Se lei avesse riconosciuto suo figlio o nipote, avrebbe dato lo stesso quel calcio?"
- a Lugi Bobbio: "Se il ragazzo ucciso dal carabiniere, di cui con tanta delicatezza da parte della stampa si omette il nome, fosse stato suo figlio, lei avrebbe parlato lo stesso 'del morto dell'altra notte'?
Flaviomob: Certo, in USA la polizia ha spesso la mano pesante. Imporrei l'assunzione di poliziotti in misura uguale tra bianchi, neri, spagnoli.
In Italia vorrei che anche gli italiani capissero il problema.
Ho sentito uno dire che l'assassinio di Gabriele Sandri da parte del poliziotto Spaccarotella fu un incidente, nonostante la condanna definitiva a 9 anni e 4 mesi per omicidio volontario. Si uccide uno scambiandolo per rapitore perché litiga di calcio? Penso che Spaccarotella sarà pure trattato bene in carcere dai secondini; mica come Cucchi.
Le forze dell'ordine ci guadagnano, forse, a giustificare simili comportamenti? Non sarebbero più credibili e non darebbero più fiducia se non lo facessero?
Per i casi di Casalnuovo e Bifolco non s'è formato un movimento di opinione. Per Cucchi sì, perché la sorella si è battuta ed ha raggiunto la grande informazione.
Ma la sua richiesta di giustizia trova contro Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria). Non è una vergogna?
http://espresso.repubblica.it/attualita ... a-1.186402
cardif
Una democrazia compiuta ha due gambe su cui cammina: la prima è il rispetto delle regole.
E le regole non possono essere interpretate in modo diverso a seconda che ad uccidere sia uno con la divisa o un civile. Penso che sia una battaglia di democrazia battersi perché non avvengano casi come questi di uso eccessivo della repressione e disparità di trattamento in giudizio.
Sul piano del comportamento di questi personaggi, farei una domanda
- ai pm Francesca Loy e Vincenzo Barba, che non hanno indagato nessuno per il pestaggio di Stefano Cucchi, se secondo loro è lecito pestare qualcuno fino a farlo morire, casomai un loro parente, con la giustificazione che, tanto, si droga.
- al maresciallo Giovanni Cunsolo, che pare abbia provocato la morte di Massimo Casalnuovo: "Se lei avesse riconosciuto suo figlio o nipote, avrebbe dato lo stesso quel calcio?"
- a Lugi Bobbio: "Se il ragazzo ucciso dal carabiniere, di cui con tanta delicatezza da parte della stampa si omette il nome, fosse stato suo figlio, lei avrebbe parlato lo stesso 'del morto dell'altra notte'?
Flaviomob: Certo, in USA la polizia ha spesso la mano pesante. Imporrei l'assunzione di poliziotti in misura uguale tra bianchi, neri, spagnoli.
In Italia vorrei che anche gli italiani capissero il problema.
Ho sentito uno dire che l'assassinio di Gabriele Sandri da parte del poliziotto Spaccarotella fu un incidente, nonostante la condanna definitiva a 9 anni e 4 mesi per omicidio volontario. Si uccide uno scambiandolo per rapitore perché litiga di calcio? Penso che Spaccarotella sarà pure trattato bene in carcere dai secondini; mica come Cucchi.
Le forze dell'ordine ci guadagnano, forse, a giustificare simili comportamenti? Non sarebbero più credibili e non darebbero più fiducia se non lo facessero?
Per i casi di Casalnuovo e Bifolco non s'è formato un movimento di opinione. Per Cucchi sì, perché la sorella si è battuta ed ha raggiunto la grande informazione.
Ma la sua richiesta di giustizia trova contro Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria). Non è una vergogna?
http://espresso.repubblica.it/attualita ... a-1.186402
cardif
-
- Messaggi: 155
- Iscritto il: 24/01/2015, 20:23
Re: Caso Cucchi e simili
Kaies Bohli è morto dopo l’arresto per asfissia: "C’è la responsabilità dello Stato"
Secondo l'autopsia, Kaies Bohili, il pusher tunisino della cui morte avevamo parlato qui, sarebbe morto per asfissia. Più precisamente per "Arresto cardiocircolatorio neurogenico secondario ad asfissia violenta da inibizione dell'espansione della gabbia toracica". Del caso se ne era parlato a lungo, ma il risultato al quale si è giunti potrebbe significare molto per l'andamento delle indagini. Chi invece rimane sulle sue posizioni è l'Arma, che non ha commentato.
http://www.agoravox.it/Kaies-Bohli-e-mo ... resto.html
Plauso al Procuratore Capo di Sanremo Roberto Cavallone:
"questa è una morte di cui lo Stato italiano deve farsi carico... poi ci sono le responsabilità penali che sono personali ... andrà individuato chi dei militari che hanno partecipato a questa operazione ha tenuto un comportamento che possa aver determinato la morte di Bohli perché certamente è morto perché gli è stato impedito in qualche modo di respirare ...il medico legale: le asfissie secondarie per impedimento degli atti respiratori per immobilizzazione diretta o indiretta del torace rappresentano una assai peculiare e rara forma di morte ...ostacolo indiretto al mantice toracico polmonare con progressivo esaurimento e paralisi dei muscoli respiratori... i militari hanno deciso di tenere un atteggiamento di silenzio..." che rederà difficile l'accertamento dei fatti.
https://www.youtube.com/watch?v=eAxNS74c3pY
ma: 6 marzo scorso:
il GUP Massimiliano Botti ha prosciolto dalle accuse i tre militari perché il fatto non sussiste, per uno di loro e perché non costituisce reato, per gli altri due
Non luogo a procedere. E' la decisione del GUP Massimiliano Botti presa questa mattina in merito alla vicenda che vede protagonisti tre carabinieri, Fabio Ventura, Gianluca Palumbo e Fabiano Di Sipio accusati di omicidio colposo per la morte del tunisino Kaies Bohli, avvenuta nell'estate del 2012, dopo un arresto concitato nei suoi confronti con l'accusa di spaccio di sostanze stupefacenti, nei pressi del parcheggio del supermercato Lidl a Riva Ligure.
Secondo l'accusa, sostenuta dal PM Roberto Cavallone, i tre avrebbero immobilizzato Bohli applicandogli una pressione al torace che gli sarebbe stata fatale, tesi osteggiata dagli avvocati difensori Fabrizio Spigarelli, Alessandro Mager e Alessandro Sindoni.
Botti ha prosciolto dalle accuse i tre militari perché il fatto non sussiste, per uno di loro e perché non costituisce reato, per gli altri due. Insomma la condotta dei militari sarebbe stata corretta. Non è escluso però un ricorso in appello da parte dell'accusa.
_-------------------------------
Secondo l'autopsia, Kaies Bohili, il pusher tunisino della cui morte avevamo parlato qui, sarebbe morto per asfissia. Più precisamente per "Arresto cardiocircolatorio neurogenico secondario ad asfissia violenta da inibizione dell'espansione della gabbia toracica". Del caso se ne era parlato a lungo, ma il risultato al quale si è giunti potrebbe significare molto per l'andamento delle indagini. Chi invece rimane sulle sue posizioni è l'Arma, che non ha commentato.
http://www.agoravox.it/Kaies-Bohli-e-mo ... resto.html
Plauso al Procuratore Capo di Sanremo Roberto Cavallone:
"questa è una morte di cui lo Stato italiano deve farsi carico... poi ci sono le responsabilità penali che sono personali ... andrà individuato chi dei militari che hanno partecipato a questa operazione ha tenuto un comportamento che possa aver determinato la morte di Bohli perché certamente è morto perché gli è stato impedito in qualche modo di respirare ...il medico legale: le asfissie secondarie per impedimento degli atti respiratori per immobilizzazione diretta o indiretta del torace rappresentano una assai peculiare e rara forma di morte ...ostacolo indiretto al mantice toracico polmonare con progressivo esaurimento e paralisi dei muscoli respiratori... i militari hanno deciso di tenere un atteggiamento di silenzio..." che rederà difficile l'accertamento dei fatti.
https://www.youtube.com/watch?v=eAxNS74c3pY
ma: 6 marzo scorso:
il GUP Massimiliano Botti ha prosciolto dalle accuse i tre militari perché il fatto non sussiste, per uno di loro e perché non costituisce reato, per gli altri due
Non luogo a procedere. E' la decisione del GUP Massimiliano Botti presa questa mattina in merito alla vicenda che vede protagonisti tre carabinieri, Fabio Ventura, Gianluca Palumbo e Fabiano Di Sipio accusati di omicidio colposo per la morte del tunisino Kaies Bohli, avvenuta nell'estate del 2012, dopo un arresto concitato nei suoi confronti con l'accusa di spaccio di sostanze stupefacenti, nei pressi del parcheggio del supermercato Lidl a Riva Ligure.
Secondo l'accusa, sostenuta dal PM Roberto Cavallone, i tre avrebbero immobilizzato Bohli applicandogli una pressione al torace che gli sarebbe stata fatale, tesi osteggiata dagli avvocati difensori Fabrizio Spigarelli, Alessandro Mager e Alessandro Sindoni.
Botti ha prosciolto dalle accuse i tre militari perché il fatto non sussiste, per uno di loro e perché non costituisce reato, per gli altri due. Insomma la condotta dei militari sarebbe stata corretta. Non è escluso però un ricorso in appello da parte dell'accusa.
_-------------------------------
-
- Messaggi: 191
- Iscritto il: 17/01/2015, 9:10
Re: Caso Cucchi e simili
È molto difficile resistere al fascino della divisa (poliziotto, carabinieri, finanziere et.) e a non sfruttare il potere che essa può riservare.
Perché essere "servitori dello Stato" quanto si può essere in connubio con i "padroni dello Stato"?
Si possono guadagnare attenzioni, meriti, promozioni ... basta non avere scrupoli, non ascoltare la propria coscienza e mettersi a totale disposizione del potente di turno.
Solo così si può fare il proprio gioco e dare sfogo a qualche tendenza repressa.
Ma c'è anche chi fa il proprio dovere e, per ironia della sorte ... lo Stato glielo rimprovera.
Per uno strana casualità, il Fatto Quotidiano di stamane contiene un reportage di E. Liuzzi e F. Sansa ("Quegli eroi presi a calci nel sedere. Poliziotti che hanno denunciato i superiori, finanzieri anti-slot, dirigenti che scoprirono spese pazze o cemento. Nessun premio, solo guai") su alcuni servitori dello Stato che, strano a dirsi, hanno fatto il proprio dovere, nonostante rischi e costi, e che, alla fine, ci hanno rimesso.
Riporto i nomi dei personaggi menzionati dai due giornalisti su il Fatto (penso, però, che siano molto di più nella realtà), per il loro meritevole comportamento:
Filippo Bertolami, vicequestore. Ha osato denunciare quello che non andava nella sua polizia: graduatorie, sprechi, falle nel sistema di sicurezza e lo scandalo delle case blu (è stato sospseso dal servizio; per lui è stata chiesta anche la destituzione dalla polizia).
Umberto Rapetto, ex generale della Finanza. Con il Nucleo Speciale Frodi Telematiche della Finanza ha realizzato l’indagine della Corte dei Conti sui signori delle slot. Ha lasciato la divisa (ha denunciato davanti ai pm milanesi di essere stato “scoraggiato” dai suoi superiori).
Ornella Piredda, impiegata regionale della Sardegna. Ha detto no dopo aver scopertole ruberie che avvenivano nella sua Regione le ha denunciato. Le sue accuse sono state confermate (grazie a Ornella lo scandalo spese pazze è esploso in mezza Italia).
Danilo Palmucci, atleta pulito e mazziato. Fu il primo a chiedere che gli esami che gli esami pre-campionato fossero più stringenti (per la denuncia fu querelato : “In tribunaleho vinto, ma la mia immagine ne è uscita rovinata, in primis a causa della stampa sportiva”).
Nicoletta Faraldi, dirigente Regione Liguria. Aveva detto “No” al grattacielo a due passi dal Bisagno. (La Regione l’ha trasferita all’Ufficio animali)
Enrico Ceci ex dipendente della filiale di Parma del Banco di Desio. Decise di denunciare, tramite alcuni esposti, irregolarità riscontrate, tra cui il riciclaggio. (ha perso il lavoro “avrebbe leso il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore)
Perché essere "servitori dello Stato" quanto si può essere in connubio con i "padroni dello Stato"?
Si possono guadagnare attenzioni, meriti, promozioni ... basta non avere scrupoli, non ascoltare la propria coscienza e mettersi a totale disposizione del potente di turno.
Solo così si può fare il proprio gioco e dare sfogo a qualche tendenza repressa.
Ma c'è anche chi fa il proprio dovere e, per ironia della sorte ... lo Stato glielo rimprovera.
Per uno strana casualità, il Fatto Quotidiano di stamane contiene un reportage di E. Liuzzi e F. Sansa ("Quegli eroi presi a calci nel sedere. Poliziotti che hanno denunciato i superiori, finanzieri anti-slot, dirigenti che scoprirono spese pazze o cemento. Nessun premio, solo guai") su alcuni servitori dello Stato che, strano a dirsi, hanno fatto il proprio dovere, nonostante rischi e costi, e che, alla fine, ci hanno rimesso.
Riporto i nomi dei personaggi menzionati dai due giornalisti su il Fatto (penso, però, che siano molto di più nella realtà), per il loro meritevole comportamento:
Filippo Bertolami, vicequestore. Ha osato denunciare quello che non andava nella sua polizia: graduatorie, sprechi, falle nel sistema di sicurezza e lo scandalo delle case blu (è stato sospseso dal servizio; per lui è stata chiesta anche la destituzione dalla polizia).
Umberto Rapetto, ex generale della Finanza. Con il Nucleo Speciale Frodi Telematiche della Finanza ha realizzato l’indagine della Corte dei Conti sui signori delle slot. Ha lasciato la divisa (ha denunciato davanti ai pm milanesi di essere stato “scoraggiato” dai suoi superiori).
Ornella Piredda, impiegata regionale della Sardegna. Ha detto no dopo aver scopertole ruberie che avvenivano nella sua Regione le ha denunciato. Le sue accuse sono state confermate (grazie a Ornella lo scandalo spese pazze è esploso in mezza Italia).
Danilo Palmucci, atleta pulito e mazziato. Fu il primo a chiedere che gli esami che gli esami pre-campionato fossero più stringenti (per la denuncia fu querelato : “In tribunaleho vinto, ma la mia immagine ne è uscita rovinata, in primis a causa della stampa sportiva”).
Nicoletta Faraldi, dirigente Regione Liguria. Aveva detto “No” al grattacielo a due passi dal Bisagno. (La Regione l’ha trasferita all’Ufficio animali)
Enrico Ceci ex dipendente della filiale di Parma del Banco di Desio. Decise di denunciare, tramite alcuni esposti, irregolarità riscontrate, tra cui il riciclaggio. (ha perso il lavoro “avrebbe leso il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore)
-
- Messaggi: 155
- Iscritto il: 24/01/2015, 20:23
Re: Caso Cucchi e simili
iafran scrive: "Ma c'è anche chi fa il proprio dovere e, per ironia della sorte ... lo Stato glielo rimprovera"
Penso che più che definirli eroi, sia meglio definirli persone che hanno fatto il loro dovere. Da apprezzare, certamente.
Ma se la società deve aspettare gli eroi per le denunce da loro fatte, quand'è che poliziotti e carabinieri fanno semplicemente il proprio dovere?
Mica quando sparano o bloccano le persone provocandone la morte, per far rispettare l'ordine pubblico?
Piuttosto è da stigmatizzare il comportamento dei superiori, di cui sarebbe opportuno conoscere i nomi, che hanno operato ritorsioni contro di loro.
Solo che non si sa il nome di chi ha ucciso Kaies Bohli, figurati questi.
Insomma, non vorrei che si parli delle storie degli eroi come opera di distrazione dalle storie degli assassini.
cardif
Penso che più che definirli eroi, sia meglio definirli persone che hanno fatto il loro dovere. Da apprezzare, certamente.
Ma se la società deve aspettare gli eroi per le denunce da loro fatte, quand'è che poliziotti e carabinieri fanno semplicemente il proprio dovere?
Mica quando sparano o bloccano le persone provocandone la morte, per far rispettare l'ordine pubblico?
Piuttosto è da stigmatizzare il comportamento dei superiori, di cui sarebbe opportuno conoscere i nomi, che hanno operato ritorsioni contro di loro.
Solo che non si sa il nome di chi ha ucciso Kaies Bohli, figurati questi.
Insomma, non vorrei che si parli delle storie degli eroi come opera di distrazione dalle storie degli assassini.
cardif
-
- Messaggi: 191
- Iscritto il: 17/01/2015, 9:10
Re: Caso Cucchi e simili
Rassicurati, non avevo alcuna intenzione di obnubilare "le storie degli assassini".cardif ha scritto:Insomma, non vorrei che si parli delle storie degli eroi come opera di distrazione dalle storie degli assassini.
Ho parlato delle difficoltà che incontrano alcune persone per fare il loro dovere in Italia. Ma quelle che lo fanno o lo hanno fatto con dignità hanno toccato con mano tutto il marciume che regna nelle istituzioni di uno Stato dei furbi e dei vessatori, che arrivano anche ad usare la violenza per i loro scopi.
Uno Stato che lascia discrezionalità a rispettare le leggi e che tende ad annullare anche i diritti dei suoi abitanti (all'istruzione, all'assistenza sanitaria, alla ricerca, al lavoro, alla giustizia, al benessere, etc.) può rispettare il dissenso e le attese dei cittadini (non parliamo della loro privacy), che considera "sudditi"?
Coloro che si pongono al suo servizio (in questo caso, le forze dell'ordine) devono eseguire i suoi "dettami" e fare il lavoro sporco. Se vogliono entrare nelle grazie della classe egemone, devono dimostrare che hanno potere e che possono usare la forza ... per ricevere, all'occorrenza, protezione ed insabbiamenti per ogni loro malefatta.
Nel caso di Federico Aldovrandi (e negli altri casi da te menzionati) mi ha indignato il comportamento irrispettoso del loro sindacato di polizia verso la mamma del ragazzo, quanto doveva prendere tutte le distanze dagli agenti che avevano abusato del loro ruolo: ha dimostrato, purtroppo, che oggi non ha più senso o valore l'espressione di "onorare la divisa".
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Caso Cucchi e simili
GIUSTIZIA
Caso Cucchi: "Il nostro Stefano è stato ucciso
La procura deve indagare per omicidio"
I familiari di Stefano Cucchi chiedono, con una memoria, di seguire la pista dell'omicidio preterintenzionale. E nel documento analizzano le conclusione dei giudici di appello: "La morte per fame e sete contrasta con gli elementi emersi". Intanto si avvicina il processo in Cassazione per le guardie e i medici assolti in secondo grado
DI GIOVANNI TIZIAN
16 marzo 2015
Stefano Cucchi non è morto di fame e di sete. Per questo, secondo i familiari assistiti dall'avvocato Fabio Anselmo, il reato su cui deve indagare la procura di Roma è omicidio preterintenzionale. Lo scrivono in una memoria depositata pochi giorni fa in cui chiedono al procuratore capo Giuseppe Pignatone di valutare questa ipotesi di reato.
In pratica, sostiene la famiglia Cucchi, Stefano è morto per il pestaggio subito. Una tesi che le motivazione della sentenza di secondo grado della corte d'appello rafforzerebbe. «Questo verdetto offre concreti riscontri per affermare che nel caso di specie si tratta propriamente di omicidio preterintenzionale». In altre parole, qualcuno ha picchiato Cucchi subito dopo l'arresto: non voleva ucciderlo, ma quelle lesioni hanno poi provocato la sua morte.
Nel frattempo, parallelamente alla seconda inchiesta sulla morte del giovane geometra romano, la procura generale e i Cucchi hanno presentato il ricorso in Cassazione contro l'assoluzione degli imputati nel processo di secondo grado. I medici e le tre guardia penitenziarie prosciolte dalle accuse ora dovranno passare per la suprema Corte.
Il documento inviato al capo della procura capitolina, Giuseppe Pignatone, è invece un'analisi delle conclusioni a cui sono giunti i giudici di secondo grado. E sulla base di queste l'avvocato Anselmo darà battaglia. «La corte d'assise d'appello non ha mai negato che la morte di Stefano Cucchi è legata alle lesioni che ha subito e che sono attribuite agli agenti di polizia penitenziaria imputati. Per non riconoscere l'eccepita nullita bastava sostenere che la sua morte non ha alcun legame con le percosse subite», si legge nella memoria.
Per questo i giudici hanno trasmesso gli atti, così come richiesto da Anselmo durante il dibattimento, in procura. Lo hanno fatto con questa motivazione: «Al fine di accertare eventuali responsabilità di persone diverse dagli agenti di polizia penitenziaria giudicati da questa Corte». Ma non c'è solo questo nelle motivazioni della Corte.
Un passaggio riguarda la relazione dei periti del giudice di primo grado in cui sostenevano che la morte fosse dovuta a «inanizione», privazione, cioè, di acqua e di cibo. «La tesi dei periti deve ritenersi senza fondamento», scrivono nella memoria, e citano le parole del collegio giudicante: «La tesi della sindrome da inanizione seguita dal primo giudice non può essere condivisa, poiché si basa su elementi di fatto che non hanno trovato riscontro nelle risultante del processo».
I giudici di secondo grado quindi ritengono contrastante la tesi degli esperti con quanto emerso nel dibattimento. Contestano, per esempio, la misurazione del peso di Stefano: « La valutazione del peso all'ingresso in carcere deve considerarsi frutto di superficialità nelle rilevazioni e peraltro osserva la Corte che la morte per inanizione non può essere la conseguenza di un digiuno protratto per soli sei giorni, perciò gli stessi periti hanno dovuto sostenere che la sindrome era insorta già da diverso tempo, quanto meno a partire dal 2009».
Affermazioni, scrivono nel memoriale, non supportate da dati concreti. E nemmeno gli organi del geometra presentavano le caratteristiche tipiche di chi muore per fame e per sete. Non solo, anche per quanto riguarda l'insorgenza dei primi sintomi mancavano riferimenti bibliografici, e si faceva riferimento alla sola «esperienza personale di uno dei componenti del collegio peritale».
La sentenza di secondo grado e l'atto di accusa della difesa di Cucchi, dunque, indeboliscono la tesi del decesso per fame e sete di Stefano. E rafforzano l'ipotesi delle lesioni alla base della morte. Una pista che i familiari chiedono di seguire ai pm che hanno in mano il nuovo fascicolo.
http://espresso.repubblica.it/attualita ... =HEF_RULLO
Caso Cucchi: "Il nostro Stefano è stato ucciso
La procura deve indagare per omicidio"
I familiari di Stefano Cucchi chiedono, con una memoria, di seguire la pista dell'omicidio preterintenzionale. E nel documento analizzano le conclusione dei giudici di appello: "La morte per fame e sete contrasta con gli elementi emersi". Intanto si avvicina il processo in Cassazione per le guardie e i medici assolti in secondo grado
DI GIOVANNI TIZIAN
16 marzo 2015
Stefano Cucchi non è morto di fame e di sete. Per questo, secondo i familiari assistiti dall'avvocato Fabio Anselmo, il reato su cui deve indagare la procura di Roma è omicidio preterintenzionale. Lo scrivono in una memoria depositata pochi giorni fa in cui chiedono al procuratore capo Giuseppe Pignatone di valutare questa ipotesi di reato.
In pratica, sostiene la famiglia Cucchi, Stefano è morto per il pestaggio subito. Una tesi che le motivazione della sentenza di secondo grado della corte d'appello rafforzerebbe. «Questo verdetto offre concreti riscontri per affermare che nel caso di specie si tratta propriamente di omicidio preterintenzionale». In altre parole, qualcuno ha picchiato Cucchi subito dopo l'arresto: non voleva ucciderlo, ma quelle lesioni hanno poi provocato la sua morte.
Nel frattempo, parallelamente alla seconda inchiesta sulla morte del giovane geometra romano, la procura generale e i Cucchi hanno presentato il ricorso in Cassazione contro l'assoluzione degli imputati nel processo di secondo grado. I medici e le tre guardia penitenziarie prosciolte dalle accuse ora dovranno passare per la suprema Corte.
Il documento inviato al capo della procura capitolina, Giuseppe Pignatone, è invece un'analisi delle conclusioni a cui sono giunti i giudici di secondo grado. E sulla base di queste l'avvocato Anselmo darà battaglia. «La corte d'assise d'appello non ha mai negato che la morte di Stefano Cucchi è legata alle lesioni che ha subito e che sono attribuite agli agenti di polizia penitenziaria imputati. Per non riconoscere l'eccepita nullita bastava sostenere che la sua morte non ha alcun legame con le percosse subite», si legge nella memoria.
Per questo i giudici hanno trasmesso gli atti, così come richiesto da Anselmo durante il dibattimento, in procura. Lo hanno fatto con questa motivazione: «Al fine di accertare eventuali responsabilità di persone diverse dagli agenti di polizia penitenziaria giudicati da questa Corte». Ma non c'è solo questo nelle motivazioni della Corte.
Un passaggio riguarda la relazione dei periti del giudice di primo grado in cui sostenevano che la morte fosse dovuta a «inanizione», privazione, cioè, di acqua e di cibo. «La tesi dei periti deve ritenersi senza fondamento», scrivono nella memoria, e citano le parole del collegio giudicante: «La tesi della sindrome da inanizione seguita dal primo giudice non può essere condivisa, poiché si basa su elementi di fatto che non hanno trovato riscontro nelle risultante del processo».
I giudici di secondo grado quindi ritengono contrastante la tesi degli esperti con quanto emerso nel dibattimento. Contestano, per esempio, la misurazione del peso di Stefano: « La valutazione del peso all'ingresso in carcere deve considerarsi frutto di superficialità nelle rilevazioni e peraltro osserva la Corte che la morte per inanizione non può essere la conseguenza di un digiuno protratto per soli sei giorni, perciò gli stessi periti hanno dovuto sostenere che la sindrome era insorta già da diverso tempo, quanto meno a partire dal 2009».
Affermazioni, scrivono nel memoriale, non supportate da dati concreti. E nemmeno gli organi del geometra presentavano le caratteristiche tipiche di chi muore per fame e per sete. Non solo, anche per quanto riguarda l'insorgenza dei primi sintomi mancavano riferimenti bibliografici, e si faceva riferimento alla sola «esperienza personale di uno dei componenti del collegio peritale».
La sentenza di secondo grado e l'atto di accusa della difesa di Cucchi, dunque, indeboliscono la tesi del decesso per fame e sete di Stefano. E rafforzano l'ipotesi delle lesioni alla base della morte. Una pista che i familiari chiedono di seguire ai pm che hanno in mano il nuovo fascicolo.
http://espresso.repubblica.it/attualita ... =HEF_RULLO
Chi c’è in linea
Visitano il forum: Majestic-12 [Bot], Semrush [Bot] e 9 ospiti