Economia
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Re: Economia
DA REPUBBLICA.IT
Ora anche Bruxelles vede la macelleria sociale della crisi Ue
di MAURIZIO RICCI
Ora anche Bruxelles vede la macelleria sociale della crisi Ue
Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea
ROMA -"La crisi ha accresciuto il disagio finanziario e i livelli di debito delle famiglie, esacerbato la povertà e l'esclusione sociale, indebolito i legami sociali e spinto molte famiglie e molte persone ad affidarsi a un sostegno informale". Ed ecco i responsabili: "Il deterioramento della situazione sociale per un prolungato periodo di tempo ha avuto un impatto negativo sulla fiducia e sulla credibilità di governi e istituzioni e della loro capacità di farvi fronte".
Syriza? Podemos? Tsipras che chiude la campagna elettorale? I populisti di sinistra in genere? Niente affatto. Chi parla così è la Commissione di Bruxelles, in un documento ufficiale: il rapporto annuale sulla situazione sociale europea, appena uscito. Vi si racconta di un continente devastato dalla crisi e non si riesce a nascondere la macelleria sociale imposta dalle ricette scelte per affrontare la crisi. Un fallimento racchiuso in due numeri. Il Pil degli Stati Uniti, dove la crisi è nata, è oggi più alto dell'8 per cento rispetto al 2007, mentre quello europeo è ancora inferiore al livello di sette anni fa.
La Banca centrale europea si appresta, con ogni probabilità, a varare misure inedite e rivoluzionarie nei prossimi giorni, ma, per quanto coraggiosi, gli interventi di politica monetaria non possono, da soli, ribaltare il collasso della struttura sociale europea. Il mercato del lavoro, teatro in questi anni di drastici e, occasionalmente, brutali esperimenti che avrebbero dovuto
renderlo più fluido ed efficiente continua a mandare segnali di allarme. La disoccupazione è al 10 per cento e, secondo il rapporto, ci vorranno anni, prima che si torni alla situazione precrisi.
L'Italia ha perso 1 milione 200 mila posti di lavoro, la Spagna 3,4 milioni, la Grecia (su una popolazione di 10 milioni di abitanti) un milione. Le riforme non hanno impedito che i disoccupati a lungo termine raddoppiassero, in particolare fra i giovani. E la qualità del lavoro, anche quando c'è, continua a peggiorare.
In Europa, ci sono oltre 3 milioni di posti part time in più (una crescita dell'8 per cento) contro un crollo di nove milioni e mezzo nel conto dei contratti a tempo indeterminato (meno 5,2 per cento). In Spagna, la percentuale di part time sul totale dei contratti è aumentata di oltre un terzo, dall'11,6 per cento del 2007 al 15,8 per cento del 2013, mentre i contratti a tempo pieno perdevano dieci punti: dal 31,6 per cento del totale al 23,1 per cento. In Italia, il part time è salito dal 13,6 per cento del totale fino a sfiorare il 18 per cento. E il lavoro precario e instabile non sembra mantenere le promesse di assestamento. In Italia, il tasso di trasformazione di contratti part time in contratti a tempo pieno, dicono i dati Ue, oscilla fra il 20-25 per cento. E anche in Germania non siamo sopra il 40-45 per cento.
In ossequio all'ortodossia dominante, la Commissione non può fare a meno di mostrare apprezzamento per il progressivo spostamento della protezione sociale dalla difesa del posto di lavoro alla difesa di una vita di lavoro, attraverso il sostegno nella riqualificazione professionale. Ma, anche qui, molte sono le promesse tradite. La più ovvia: in circa metà degli Stati Ue la spesa in scuola ed educazione non è aumentata, è diminuita. Il risultato complessivo è, nei paesi più colpiti dalla crisi, un aggravarsi degli squilibri sociali.
In Italia, in Spagna, in Grecia, il 20 per cento più ricco della popolazione guadagna oggi sei-sette volte di più del restante 80 per cento. In ogni caso, neanche l'impegno riformatore può bastare, neppure coniugato con la politica monetaria, a rialzare l'Europa dal baratro della crisi. Il rapporto della Commissione riconosce, tra le righe, quanto molti economisti sostengono da tempo: c'è bisogno di margini più ampi nella politica di bilancio. L'ammodernamento delle istituzioni, la fluidificazione del mercato del lavoro, le liberalizzazioni dei mercati sono importanti, ma, dice il rapporto, "c'è da aspettarsi che abbiano un impatto limitato in un contesto di domanda debole".
(17 gennaio 2015)
Ora anche Bruxelles vede la macelleria sociale della crisi Ue
di MAURIZIO RICCI
Ora anche Bruxelles vede la macelleria sociale della crisi Ue
Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea
ROMA -"La crisi ha accresciuto il disagio finanziario e i livelli di debito delle famiglie, esacerbato la povertà e l'esclusione sociale, indebolito i legami sociali e spinto molte famiglie e molte persone ad affidarsi a un sostegno informale". Ed ecco i responsabili: "Il deterioramento della situazione sociale per un prolungato periodo di tempo ha avuto un impatto negativo sulla fiducia e sulla credibilità di governi e istituzioni e della loro capacità di farvi fronte".
Syriza? Podemos? Tsipras che chiude la campagna elettorale? I populisti di sinistra in genere? Niente affatto. Chi parla così è la Commissione di Bruxelles, in un documento ufficiale: il rapporto annuale sulla situazione sociale europea, appena uscito. Vi si racconta di un continente devastato dalla crisi e non si riesce a nascondere la macelleria sociale imposta dalle ricette scelte per affrontare la crisi. Un fallimento racchiuso in due numeri. Il Pil degli Stati Uniti, dove la crisi è nata, è oggi più alto dell'8 per cento rispetto al 2007, mentre quello europeo è ancora inferiore al livello di sette anni fa.
La Banca centrale europea si appresta, con ogni probabilità, a varare misure inedite e rivoluzionarie nei prossimi giorni, ma, per quanto coraggiosi, gli interventi di politica monetaria non possono, da soli, ribaltare il collasso della struttura sociale europea. Il mercato del lavoro, teatro in questi anni di drastici e, occasionalmente, brutali esperimenti che avrebbero dovuto
renderlo più fluido ed efficiente continua a mandare segnali di allarme. La disoccupazione è al 10 per cento e, secondo il rapporto, ci vorranno anni, prima che si torni alla situazione precrisi.
L'Italia ha perso 1 milione 200 mila posti di lavoro, la Spagna 3,4 milioni, la Grecia (su una popolazione di 10 milioni di abitanti) un milione. Le riforme non hanno impedito che i disoccupati a lungo termine raddoppiassero, in particolare fra i giovani. E la qualità del lavoro, anche quando c'è, continua a peggiorare.
In Europa, ci sono oltre 3 milioni di posti part time in più (una crescita dell'8 per cento) contro un crollo di nove milioni e mezzo nel conto dei contratti a tempo indeterminato (meno 5,2 per cento). In Spagna, la percentuale di part time sul totale dei contratti è aumentata di oltre un terzo, dall'11,6 per cento del 2007 al 15,8 per cento del 2013, mentre i contratti a tempo pieno perdevano dieci punti: dal 31,6 per cento del totale al 23,1 per cento. In Italia, il part time è salito dal 13,6 per cento del totale fino a sfiorare il 18 per cento. E il lavoro precario e instabile non sembra mantenere le promesse di assestamento. In Italia, il tasso di trasformazione di contratti part time in contratti a tempo pieno, dicono i dati Ue, oscilla fra il 20-25 per cento. E anche in Germania non siamo sopra il 40-45 per cento.
In ossequio all'ortodossia dominante, la Commissione non può fare a meno di mostrare apprezzamento per il progressivo spostamento della protezione sociale dalla difesa del posto di lavoro alla difesa di una vita di lavoro, attraverso il sostegno nella riqualificazione professionale. Ma, anche qui, molte sono le promesse tradite. La più ovvia: in circa metà degli Stati Ue la spesa in scuola ed educazione non è aumentata, è diminuita. Il risultato complessivo è, nei paesi più colpiti dalla crisi, un aggravarsi degli squilibri sociali.
In Italia, in Spagna, in Grecia, il 20 per cento più ricco della popolazione guadagna oggi sei-sette volte di più del restante 80 per cento. In ogni caso, neanche l'impegno riformatore può bastare, neppure coniugato con la politica monetaria, a rialzare l'Europa dal baratro della crisi. Il rapporto della Commissione riconosce, tra le righe, quanto molti economisti sostengono da tempo: c'è bisogno di margini più ampi nella politica di bilancio. L'ammodernamento delle istituzioni, la fluidificazione del mercato del lavoro, le liberalizzazioni dei mercati sono importanti, ma, dice il rapporto, "c'è da aspettarsi che abbiano un impatto limitato in un contesto di domanda debole".
(17 gennaio 2015)
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Re: Economia
Qualche giorno fa il ministro Padoan ha ripetuto la gag che fu dell’allora premier Monti.
“Vedo una luce in fondo al tunnel”
Sono tre anni che l’ha pronunciata e tutti possono toccare con mano la realtà. I montiani ci avevano chiesto di saper aspettare.
Abbiamo atteso inutilmente.
Non si devono poi lamentare se a livello popolare i commenti poi si sprecano:
- Cambi erbivendolo
- Un bicchiere di Bardolino di troppo?
Ci strarompono con le informazioni delle manovre per eleggere il presidente della Repubblica, mentre queste notizie in Tv non passano.
^^^^^^^^
Ogni ora falliscono due aziende
(LUISA GRION).
18/01/2015 di triskel182
Cribis: nel 2014 hanno chiuso 15.605 imprese (+9%). Commercio ed edilizia in affanno.
ROMA – Due fallimenti all’ora, 62 al giorno. Piccole e grandi aziende che si arrendono alla crisi e portano i libri in tribunale: in testa i settori dell’edilizia e del commercio all’ingrosso, ma gettano la spugna anche macchinari industriali e computer.
E’ la mappa dell’Italia che chiude, una mappa che negli ultimi sei anni è andata espandendosi e non dà segni di ridimensionamento. Secondo i dati di Cribis D&B (società del gruppo Crif specializzata in business information), nel 2014 ci sono stati 15.605 fallimenti, in aumento del 9% rispetto all’anno precedente e del 66% rispetto al 2009, il periodo a partire dal quale la crisi economica ha prodotto i suoi effetti sul territorio. Ma il picco estremo è stato toccato nell’ultimo quadrimestre dello scorso anno, che ha visto fallire 4.502 imprese: è il dato più alto dal 2009.
Non si vede dunque un’inversione di tendenza: negli ultimi sei anni, sottolinea lo studio, oltre 75 mila imprese hanno portato i libri in tribunale, nella maggior parte dei casi società di capitali, quindi di dimensione non necessariamente ridotta. Le aziende piccole infatti, quando sono in difficoltà chiudono in tempi brevi, direttamente, senza avviare il giudiziario. I fallimenti sono il risultato finale di una crisi che si manifesta in aziende più grandi e che vede i primi segnali nella difficoltà di far fronte ai pagamenti. Cribis D&B fa notare che fallimenti, difficoltà di far onore ai debiti o di riscuotere i crediti vanno di pari passo. Dal 2010 ad oggi c’è stato un aumente to del 252,7% dei ritardi gravi (dai trenta giorni in su). In realtà solo il 37,5% delle imprese italiane è puntuale nei versamenti. E la difficile liquidità di cassa è spesso il campanello d’allarme di un futuro fallimento.
«La situazione è critica nel commercio e nell’edilizia, settori dove nell’ultimo anno sono fallipercorso 4 mila imprese», commenta Marco Preti, amministratore delegato di Cribis. L’unica nota positiva, puntualizza, «è che negli ultimi anni le aziende italiane hanno investito molto in strumenti che consentono di intercettare tempestivamente i segnali di deterioramento. Sono quindi riuscite a prevenire e limitare meglio i rischi e a fare previsioni sui flussi di cassa». Nella lunga lista delle aziende fallite, accanto a quelle che costruiscono nuovi edifici (1.899 solo nel 2014) o installazioni (1.309) o commerciano all’ingrosso beni durevoli (1.197), ci sono anche bar e ristoranti (720), trasporti, abbigliamento, alimentari, produzioni di macchine industriali e computer. La crisi non risparmia le aree ad alta densità industriale. In testa alla classifica c’è quindi la Lombardia che assorbe da sola oltre il 22% dei fallimenti nazionali e che dal 2009 ad oggi ha visto portare i libri in tribunale 16.578 aziende. La seguono il Lazio (10,5), la Campania (8,7) e il Veneto (con l’8,4%).
Da La Repubblica del 18/01/2015.
“Vedo una luce in fondo al tunnel”
Sono tre anni che l’ha pronunciata e tutti possono toccare con mano la realtà. I montiani ci avevano chiesto di saper aspettare.
Abbiamo atteso inutilmente.
Non si devono poi lamentare se a livello popolare i commenti poi si sprecano:
- Cambi erbivendolo
- Un bicchiere di Bardolino di troppo?
Ci strarompono con le informazioni delle manovre per eleggere il presidente della Repubblica, mentre queste notizie in Tv non passano.
^^^^^^^^
Ogni ora falliscono due aziende
(LUISA GRION).
18/01/2015 di triskel182
Cribis: nel 2014 hanno chiuso 15.605 imprese (+9%). Commercio ed edilizia in affanno.
ROMA – Due fallimenti all’ora, 62 al giorno. Piccole e grandi aziende che si arrendono alla crisi e portano i libri in tribunale: in testa i settori dell’edilizia e del commercio all’ingrosso, ma gettano la spugna anche macchinari industriali e computer.
E’ la mappa dell’Italia che chiude, una mappa che negli ultimi sei anni è andata espandendosi e non dà segni di ridimensionamento. Secondo i dati di Cribis D&B (società del gruppo Crif specializzata in business information), nel 2014 ci sono stati 15.605 fallimenti, in aumento del 9% rispetto all’anno precedente e del 66% rispetto al 2009, il periodo a partire dal quale la crisi economica ha prodotto i suoi effetti sul territorio. Ma il picco estremo è stato toccato nell’ultimo quadrimestre dello scorso anno, che ha visto fallire 4.502 imprese: è il dato più alto dal 2009.
Non si vede dunque un’inversione di tendenza: negli ultimi sei anni, sottolinea lo studio, oltre 75 mila imprese hanno portato i libri in tribunale, nella maggior parte dei casi società di capitali, quindi di dimensione non necessariamente ridotta. Le aziende piccole infatti, quando sono in difficoltà chiudono in tempi brevi, direttamente, senza avviare il giudiziario. I fallimenti sono il risultato finale di una crisi che si manifesta in aziende più grandi e che vede i primi segnali nella difficoltà di far fronte ai pagamenti. Cribis D&B fa notare che fallimenti, difficoltà di far onore ai debiti o di riscuotere i crediti vanno di pari passo. Dal 2010 ad oggi c’è stato un aumente to del 252,7% dei ritardi gravi (dai trenta giorni in su). In realtà solo il 37,5% delle imprese italiane è puntuale nei versamenti. E la difficile liquidità di cassa è spesso il campanello d’allarme di un futuro fallimento.
«La situazione è critica nel commercio e nell’edilizia, settori dove nell’ultimo anno sono fallipercorso 4 mila imprese», commenta Marco Preti, amministratore delegato di Cribis. L’unica nota positiva, puntualizza, «è che negli ultimi anni le aziende italiane hanno investito molto in strumenti che consentono di intercettare tempestivamente i segnali di deterioramento. Sono quindi riuscite a prevenire e limitare meglio i rischi e a fare previsioni sui flussi di cassa». Nella lunga lista delle aziende fallite, accanto a quelle che costruiscono nuovi edifici (1.899 solo nel 2014) o installazioni (1.309) o commerciano all’ingrosso beni durevoli (1.197), ci sono anche bar e ristoranti (720), trasporti, abbigliamento, alimentari, produzioni di macchine industriali e computer. La crisi non risparmia le aree ad alta densità industriale. In testa alla classifica c’è quindi la Lombardia che assorbe da sola oltre il 22% dei fallimenti nazionali e che dal 2009 ad oggi ha visto portare i libri in tribunale 16.578 aziende. La seguono il Lazio (10,5), la Campania (8,7) e il Veneto (con l’8,4%).
Da La Repubblica del 18/01/2015.
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Re: Economia
questo articolo di galimberti ha aspetti interessanti, in particolare una politica monetaria espansiva non sempre crea inflazione in periodi di crisi economica, ma anche aspetti non condivisibili ,
la bce e veramente una banca centrale dello stato o una banca privata sovranazionale ? e manca una analisi della trappola delle liquidita, senza politiche di sviluppo macroeconomiche di sostegno domanda consumi ed investimenti, le politiche monetarie creano una economia finanziaria speculativa.
Un passo inquietante ove galiberti sostiene che l ' aumento delle imposte non è per sostenere lo stato sociale ma per contenere l' inflazione.
---------------------------------------------------------------------------------------------------
Sole 24 ore di oggi articolo di Galimberti.
Ormai il Qe dell'Eurozona è in dirittura d'arrivo. La recente pronuncia favorevole
della Corte di giustizia europea sulla legittimità degli acquisti di titoli da parte della Bce non dissìpa tutti i problemi legali, ma certamente incoraggia il Consiglio della Bce a procedere sulla via dell'espansione quantitativa della moneta. Vediamo alcune domande e alcune risposte.
Che cos'è il Qe?
La definizione più semplice è: creazione di moneta, al di fuori dell'ordinaria amministrazione.
La moneta viene creata in continuazione, dato che l'economia si espande e ha bisogno del lubrificante monetario. La creazione avviene con il torchio fisico o con quello elettronico. Ci sono circostanze in cui la creazione di moneta diventa un' arma della politica monetaria: cessa di essere un lubrificante e diventa un carburante. La Banca centrale va sul mercato e acquista titoli. Come li paga?
Creando, appunto, moneta. Quali rischi si corrono ? I detrattori associano la creazione di moneta con l'inflazione, è appunto quello di un'ascesa incontrollata dei prezzi. Tuttavia sia la teoria che l'esperienza dicono che questo rischio
non esiste o, se esiste, è controllabile. Si ricorre al Qe quando l'economia ristagna
e l'inflazione è assente e, soprattutto, quando nel sistema economico ci sono molte risorse inoperose, sia di manodopera che di impianti (disoccupazione e capacità produttiva inutilizzata).
ll Qe mira appunto a far ripartire l'economia, ma prima che la moneta venga tirata fuori dai cassetti, sia spesa e porti a pressioni sui prezzi, molto tempo deve
passare. Le pressioni sui prezzi si manifestano quando l' economia è vicina alla piena occupazione e gli stabilimenti funzionano a pieno ritmo. Quando questo succederà, la moneta creata ìn eccesso potrà essere ritirata gradualmente, in modo da tenere l'ìnflazione sotto controllo. Le Banche centrali, così come hanno gli idranti per immettere liquidità, hanno anche delle idrovore per prosciugarla. ( ndr: le tasse servono in realtà a questo. Non a finanziare lo Stato che come si è visto può finanziarsi da solo illimitatamente ma a tenere sotto controllo l'inflazione ritirando la liquidità) Se poi passiamo dalla teoria all'esperienza, vediamo che in tutti i Paesi dove il Qe è stato impiegato con abbondanza non c'è stata alcuna traccia di inflazione.
Un secondo rischio, che è al centro dell'opposizione tedesca al Qe, è legato al cosiddetto "azzardo morale": se la Bee compra i titoli dei Paesi che fanno fatica a quadrare i bilanci pubblici, fa un favore a questi Paesi, e per ciò stesso li induce a fare meno sforzi per risanare i bilanci. (NDR Ovvero non c'è alcun bisogno di risanare i bilanci pubblici )
Quali sono gli effetti del Qe sui conti pubblici? Sono, naturalmente, favorevoli. Lo Stato trova più facile collocare i titoli e il tasso di interesse che deve pagare scende. Inoltre, c'è una peculiarità del Qe di cui di solito non si tiene conto. Quando la Banca centrale compra titoli di Stato, incassa poi gli interessi su questi titoli, e quindi i suoi profitti vanno alle stelle I costi sono gli stessi di prima, ma i ricavi si gonfiano. Ora, tutte le Banche centrali per statuto devono versare i loro profitti allo Stato (la Bce li versa alle Banche centrali dei Paesi membri e queste versano allo Stato i loro utili). In ultima analisi, è come se gli Stati si finanziassero
a tasso zero dato che gli interessi che pagano poi gli tornano sotto altra forma
Per esempio, la Fed ha appena reso noto gli utili del 2012 sono 101,5 miliardidi dollari, e di questi 98,7 sono riversati al Tesoro Usa.
la bce e veramente una banca centrale dello stato o una banca privata sovranazionale ? e manca una analisi della trappola delle liquidita, senza politiche di sviluppo macroeconomiche di sostegno domanda consumi ed investimenti, le politiche monetarie creano una economia finanziaria speculativa.
Un passo inquietante ove galiberti sostiene che l ' aumento delle imposte non è per sostenere lo stato sociale ma per contenere l' inflazione.
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Sole 24 ore di oggi articolo di Galimberti.
Ormai il Qe dell'Eurozona è in dirittura d'arrivo. La recente pronuncia favorevole
della Corte di giustizia europea sulla legittimità degli acquisti di titoli da parte della Bce non dissìpa tutti i problemi legali, ma certamente incoraggia il Consiglio della Bce a procedere sulla via dell'espansione quantitativa della moneta. Vediamo alcune domande e alcune risposte.
Che cos'è il Qe?
La definizione più semplice è: creazione di moneta, al di fuori dell'ordinaria amministrazione.
La moneta viene creata in continuazione, dato che l'economia si espande e ha bisogno del lubrificante monetario. La creazione avviene con il torchio fisico o con quello elettronico. Ci sono circostanze in cui la creazione di moneta diventa un' arma della politica monetaria: cessa di essere un lubrificante e diventa un carburante. La Banca centrale va sul mercato e acquista titoli. Come li paga?
Creando, appunto, moneta. Quali rischi si corrono ? I detrattori associano la creazione di moneta con l'inflazione, è appunto quello di un'ascesa incontrollata dei prezzi. Tuttavia sia la teoria che l'esperienza dicono che questo rischio
non esiste o, se esiste, è controllabile. Si ricorre al Qe quando l'economia ristagna
e l'inflazione è assente e, soprattutto, quando nel sistema economico ci sono molte risorse inoperose, sia di manodopera che di impianti (disoccupazione e capacità produttiva inutilizzata).
ll Qe mira appunto a far ripartire l'economia, ma prima che la moneta venga tirata fuori dai cassetti, sia spesa e porti a pressioni sui prezzi, molto tempo deve
passare. Le pressioni sui prezzi si manifestano quando l' economia è vicina alla piena occupazione e gli stabilimenti funzionano a pieno ritmo. Quando questo succederà, la moneta creata ìn eccesso potrà essere ritirata gradualmente, in modo da tenere l'ìnflazione sotto controllo. Le Banche centrali, così come hanno gli idranti per immettere liquidità, hanno anche delle idrovore per prosciugarla. ( ndr: le tasse servono in realtà a questo. Non a finanziare lo Stato che come si è visto può finanziarsi da solo illimitatamente ma a tenere sotto controllo l'inflazione ritirando la liquidità) Se poi passiamo dalla teoria all'esperienza, vediamo che in tutti i Paesi dove il Qe è stato impiegato con abbondanza non c'è stata alcuna traccia di inflazione.
Un secondo rischio, che è al centro dell'opposizione tedesca al Qe, è legato al cosiddetto "azzardo morale": se la Bee compra i titoli dei Paesi che fanno fatica a quadrare i bilanci pubblici, fa un favore a questi Paesi, e per ciò stesso li induce a fare meno sforzi per risanare i bilanci. (NDR Ovvero non c'è alcun bisogno di risanare i bilanci pubblici )
Quali sono gli effetti del Qe sui conti pubblici? Sono, naturalmente, favorevoli. Lo Stato trova più facile collocare i titoli e il tasso di interesse che deve pagare scende. Inoltre, c'è una peculiarità del Qe di cui di solito non si tiene conto. Quando la Banca centrale compra titoli di Stato, incassa poi gli interessi su questi titoli, e quindi i suoi profitti vanno alle stelle I costi sono gli stessi di prima, ma i ricavi si gonfiano. Ora, tutte le Banche centrali per statuto devono versare i loro profitti allo Stato (la Bce li versa alle Banche centrali dei Paesi membri e queste versano allo Stato i loro utili). In ultima analisi, è come se gli Stati si finanziassero
a tasso zero dato che gli interessi che pagano poi gli tornano sotto altra forma
Per esempio, la Fed ha appena reso noto gli utili del 2012 sono 101,5 miliardidi dollari, e di questi 98,7 sono riversati al Tesoro Usa.
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Re: Economia
il comico paolo rossi, l economista nino galloni e il filosofo fusaro vistito da yippy anni 60 non male
http://www.scribd.com/doc/253276553/Inc ... aio-Milano
http://www.scribd.com/doc/253276553/Inc ... aio-Milano
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Re: Economia
il prof. Nino Galloni insieme Besostri, Imposimato, Rodotà e una autorevole candidatura per la presidenza della repubblica
guardate cosa dice in questa intervista non è di sinistra non è di destra appartiene a tutto il popolo italino che ha sofferto in questi 10 anni,
http://www.lantidiplomatico.it/dettnews ... 6&pg=10242
guardate cosa dice in questa intervista non è di sinistra non è di destra appartiene a tutto il popolo italino che ha sofferto in questi 10 anni,
http://www.lantidiplomatico.it/dettnews ... 6&pg=10242
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Re: Economia
Boschi loschi...
http://www.dagospia.com/rubrica-4/busin ... -92747.htm
http://www.dagospia.com/rubrica-4/busin ... -93095.htm
MAXI SPECULAZIONE SULLE POPOLARI LA PISTA DELLA CONSOB PORTA A LONDRA
Mario Gerevini per il “Corriere della Sera”
Voci, segnali, indiscrezioni, indizi, generici nei contenuti, più precisi nel luogo geografico: Londra. Qui si sarebbe concentrata un’intensa attività sui titoli di alcune banche popolari quotate in Borsa nei giorni precedenti l’annuncio e il varo della riforma. Dieci gli istituti che dovranno trasformarsi in spa, sette sono sul listino di Piazza Affari tra cui i due big Banco Popolare e Ubi Banca, e tutti hanno preso il volo alle prime notizie sulla riforma. Londra, dunque, una delle piazze finanziarie più importanti del mondo, con il London Stock Exchange che sette anni facomprò la Borsa Italiana.
Attività anomala sulle Popolari? Movimenti che potrebbero perfino far sospettare un caso di insider trading?
Spingersi troppo in là non ha senso dal momento che modalità, confini e circostanze delle operazioni non sono noti. Si sa però, sulla base di convergenti fonti di mercato, che alcuni soggetti con base a Londra avrebbero creato posizioni anche rilevanti in azioni delle banche popolari nei giorni e nelle ore precedenti le prime circostanziate indiscrezioni (quindi prima delle 17.30 di venerdì 16 gennaio) sul decreto di riforma che abolisce il voto capitario nelle Popolari, ossia il principio di «una testa un voto» per cui tutti i soci sono uguali a prescindere dalle azioni possedute.
Considerando l’effetto dirompente che la notizia ha avuto sul mercato a partire da lunedì 19 gennaio, con rialzi a due cifre di tutte le banche coinvolte, è evidente quanto siano stati abili gli «accumulatori» di pacchetti. A fine settimana, nonostante le prese di profitto di ieri, il Banco Popolare, per esempio, registra un balzo del 21%, Ubi del 15%, la Popolare Emilia del 24% e Banca Popolare di Milano del 21%. E non sono titoli sottili che si muovono con un paio di ordini fuori prezzo.
Ma lo scatto più spettacolare è quello della Popolare Etruria e Lazio di cui è vicepresidente Pier Luigi Boschi, il padre del ministro per le Riforme Maria Elena Boschi: +65%. È plausibile, dunque, che quelle posizioni «londinesi» siano state prontamente smontate con i titoli scaricati sul mercato approfittando da una parte dei rialzi e dall’altra dagli enormi volumi di scambio che garantiscono maggior copertura.
Secondo una delle fonti interpellate, alcune posizioni in carico a intermediari londinesi non erano effetto di precedenti operazioni di trading sul mercato ma un accumulo di portafoglio dei clienti.
È la tempistica delle operazioni, comunque, l’aspetto più delicato se davvero si riuscirà mai ad accertarne la consistenza e individuare intermediari e beneficiari. Si sa che l’utilizzo di schermi e lo schema delle sponde in paradisi fiscali spesso frena le verifiche, anche quelle della Consob. La quale per adesso è impegnata negli accertamenti preliminari sull’operatività dei titoli delle Popolari, sia a monte sia a valle delle notizie sulla riforma. Di più le fonti della Commissione non aggiungono. Ma il famoso «faro» della Consob è acceso. La luce potrebbe «tirare» fino a Londra e più che a valle potrebbe guardare a monte.
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http://www.dagospia.com/rubrica-4/busin ... -92747.htm
http://www.dagospia.com/rubrica-4/busin ... -93095.htm
MAXI SPECULAZIONE SULLE POPOLARI LA PISTA DELLA CONSOB PORTA A LONDRA
Mario Gerevini per il “Corriere della Sera”
Voci, segnali, indiscrezioni, indizi, generici nei contenuti, più precisi nel luogo geografico: Londra. Qui si sarebbe concentrata un’intensa attività sui titoli di alcune banche popolari quotate in Borsa nei giorni precedenti l’annuncio e il varo della riforma. Dieci gli istituti che dovranno trasformarsi in spa, sette sono sul listino di Piazza Affari tra cui i due big Banco Popolare e Ubi Banca, e tutti hanno preso il volo alle prime notizie sulla riforma. Londra, dunque, una delle piazze finanziarie più importanti del mondo, con il London Stock Exchange che sette anni facomprò la Borsa Italiana.
Attività anomala sulle Popolari? Movimenti che potrebbero perfino far sospettare un caso di insider trading?
Spingersi troppo in là non ha senso dal momento che modalità, confini e circostanze delle operazioni non sono noti. Si sa però, sulla base di convergenti fonti di mercato, che alcuni soggetti con base a Londra avrebbero creato posizioni anche rilevanti in azioni delle banche popolari nei giorni e nelle ore precedenti le prime circostanziate indiscrezioni (quindi prima delle 17.30 di venerdì 16 gennaio) sul decreto di riforma che abolisce il voto capitario nelle Popolari, ossia il principio di «una testa un voto» per cui tutti i soci sono uguali a prescindere dalle azioni possedute.
Considerando l’effetto dirompente che la notizia ha avuto sul mercato a partire da lunedì 19 gennaio, con rialzi a due cifre di tutte le banche coinvolte, è evidente quanto siano stati abili gli «accumulatori» di pacchetti. A fine settimana, nonostante le prese di profitto di ieri, il Banco Popolare, per esempio, registra un balzo del 21%, Ubi del 15%, la Popolare Emilia del 24% e Banca Popolare di Milano del 21%. E non sono titoli sottili che si muovono con un paio di ordini fuori prezzo.
Ma lo scatto più spettacolare è quello della Popolare Etruria e Lazio di cui è vicepresidente Pier Luigi Boschi, il padre del ministro per le Riforme Maria Elena Boschi: +65%. È plausibile, dunque, che quelle posizioni «londinesi» siano state prontamente smontate con i titoli scaricati sul mercato approfittando da una parte dei rialzi e dall’altra dagli enormi volumi di scambio che garantiscono maggior copertura.
Secondo una delle fonti interpellate, alcune posizioni in carico a intermediari londinesi non erano effetto di precedenti operazioni di trading sul mercato ma un accumulo di portafoglio dei clienti.
È la tempistica delle operazioni, comunque, l’aspetto più delicato se davvero si riuscirà mai ad accertarne la consistenza e individuare intermediari e beneficiari. Si sa che l’utilizzo di schermi e lo schema delle sponde in paradisi fiscali spesso frena le verifiche, anche quelle della Consob. La quale per adesso è impegnata negli accertamenti preliminari sull’operatività dei titoli delle Popolari, sia a monte sia a valle delle notizie sulla riforma. Di più le fonti della Commissione non aggiungono. Ma il famoso «faro» della Consob è acceso. La luce potrebbe «tirare» fino a Londra e più che a valle potrebbe guardare a monte.
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Renzi elenca i successi del governo. “Sarò breve”.
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Re: Economia
Però non fanno nulla per cambiare.iospero ha scritto:DA REPUBBLICA.IT
Ora anche Bruxelles vede la macelleria sociale della crisi Ue
di MAURIZIO RICCI
Ora anche Bruxelles vede la macelleria sociale della crisi Ue
Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea
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Re: Economia
Capitalismo e pulsione di morte
di Pierangelo Dacrema
Può, l’economia, essere pane per la psicanalisi? Certo. Frutto dell’incantevole collegamento tra corpo e cervello, l’economia è pensiero tradotto in azione. E un cervello prigioniero di un corpo, che implica un corpo prigioniero di un cervello, è proprio materia da psicanalisti.
Un circolo virtuoso: Bloomsbury
Nel 1914 avviene il primo contatto tra Freud e Bloomsbury, il quartiere di Londra da cui prende il nome la singolare comunità di intellettuali che ha visto eccellere Virginia Woolf ed Edward M. Forster nel romanzo, Duncan Grant e Vanessa Bell nella pittura, Roger Fry e Clive Bell nella critica d’arte, Lytton Strachey nella biografia e nella storia, Desmond McCarthy nella critica letteraria, Leonard Woolf e J. M. Keynes nella politica e nell’economia. Keynes cita Freud nel terzo capitolo del suo folgorante Le conseguenze economiche della pace, quando traccia un ritratto dei protagonisti della Conferenza di Versailles e ci racconta di uno speciale complesso freudiano del presidente Wilson.
Freud era lettore attento di Lytton Strachey oltre che di Keynes. E Keynes si servì abbondantemente di Freud per la stesura del Trattato della moneta e della Teoria generale. Che cosa accomuna Freud e Keynes? Molto più della condivisione dell’idea che quella dell’artista fosse l’attività più luminosa e importante di tutte. Keynes, infatti, fu esplicito nel parlare del genio di Freud, della sua immaginazione scientifica e della forza rivoluzionaria delle sue teorie: in altre parole, fu chiaro nell’attribuire allo scienziato viennese le doti che attribuiva a se stesso.
Il pensiero di Freud e quello di Keynes sono i protagonisti assoluti di Capitalismo e pulsione di morte, (trad. A. Bracci Testasecca, La Lepre edizioni, 2010) un libro stringato ma molto denso, ben più articolato delle sue dimensioni. Perché mai Gilles Dostaler, storico dell’economia, e Bernard Maris, l’economista assassinato durante l’attentato alla sede di Charlie Hebdo, sono sicuri di poter asserire che lo spirito del capitalismo è pervaso da un senso di morte? Semplice, perché la pulsione di morte è ovunque: c’è sadismo e istinto di distruzione nell’eros, c’è erotismo nell’istinto di morte, c’è pulsione di morte nell’arte, nella cultura, nella creazione.
Ma nel fatto economico troviamo aggravanti, accentuazioni. Da un lato è sotto gli occhi di tutti la “vecchia” economia libidinale, il dirottamento sistematico della libido verso la produzione, alla ricerca spasmodica della sua massimizzazione. Dall’altro c’è il denaro, materia incandescente, infernale. L’uomo combatte instancabilmente la morte attraverso la propria pulsione di morte. Dietro l’abitudine al lavoro esiste un insopprimibile istinto del gioco. E il lavoro, questo passatempo obbligato, è la valvola di sfogo del corpo, della carica libidica dell’Io. Si lavora per vivere, si vive per lavorare, si finisce per tesaurizzare. Il tesaurizzatore è un uomo profondamente angosciato. Keynes lo sa, e stabilisce un rapporto preciso tra l’angoscia, la pulsione di morte e il tasso d’interesse.
Un desiderio perverso di liquidità
La liquidità è specchio del nostro timore del futuro, delle nostre incertezze, della precarietà di ogni cosa. Il possesso di moneta lenisce le nostre inquietudini. Che cosa può indurci a separarcene? L’interesse, il cui tasso diventa così la perfetta misura della nostra inquietudine. L’economia classica vedeva nel tasso d’interesse una ricompensa dell’astinenza.
Keynes vi riconosce invece una misura della rinuncia alla liquidità, un prezzo per l’allontanamento dal calore rassicurante del denaro, la contropartita per la temporanea separazione dalla bacchetta magica che ravviva la speranza e placa la paura,, lo scudo d’oro a cui si è dedicato tanto tempo, prima per costruirlo e poi per rafforzarlo, continuare a lucidarlo. Ma un mondo di accumulatori di denaro ucciderebbe l’economia. Se tutti preferissero il possesso di moneta nessuno più investirebbe e si creerebbero i presupposti per la trappola della liquidità descritta da Keynes, il buco nero dell’incertezza in cui perfino il denaro diventerebbe impotente, incapace di allontanare lo spettro della recessione e del collasso del sistema.
In questo senso, e alla luce della situazione attuale, Keynes potrebbe andar fiero della sua preveggenza. Un mondo obnubilato dal denaro è pericoloso, e anche losco. La crisi dei subprimes, le agenzie di rating che hanno accreditato prodotti finanziari derivati indecifrabili, derivati finanziari che avevano il compito di gestire l’angoscia e che invece l’hanno acuita, le banche americane che hanno inondato il mercato di credito creando il caos, le banche centrali che hanno inondato i mercati di base monetaria senza alcun risultato: tutti elementi che tradiscono una bulimia di liquidità con effetti disastrosi.
Più degli scandali dello sperpero e dei fallimenti bancari colpisce lo scandalo della disoccupazione, dell’accumulo di fortune colossali da parte di pochi a fronte della povertà estrema di molti, dello stravolgimento dei rapporti umani non più leggibili all’insegna della cooperazione o dello sfruttamento, della sottomissione o della fratellanza ma sotto l’egida inaccettabile della disumanità e dell’immoralità.
La rendita è morta o continua a uccidere?
Keynes aveva predicato l’eutanasia del redditiere perché la rendita erode non solo i salari ma anche i profitti, soffoca piano piano l’imprenditore oltre che i suoi dipendenti. E non è così fuori luogo immaginare che la nostra economia possa produrre la catastrofe di un mondo ridotto a una gigantesca bidonville in cui la moltitudine a malapena sopravvive e un’esigua minoranza di redditieri si appropria di tutto il surplus. Smettere di crescere a tutto vantaggio di pochi, troppo pochi? Ma la fine della crescita, lo stato stazionario, somiglia drammaticamente alla morte, al coma irreversibile. Nulla più di nuovo che accade, che si sia capaci o desiderosi di far succedere. Possibile che gli uomini se ne accontentino?
Eppure Keynes aveva dichiarato la sua aspirazione a questo stato stazionario, una condizione in cui sarebbe cessata la corsa al denaro e gli esseri umani avrebbero finalmente coltivato l’arte di vivere. Un secolo ancora sulla strada sbagliata per poi trovare la via giusta, un periodo abbastanza lungo di politiche monetarie – ovviamente keynesiane, tutte fondate sulla capacità taumaturgica della moneta – per poter dare uno stabile, definitivo benessere all’intero pianeta. Usare il denaro, la sua potenza, per arrivare a dimostrarne la sostanziale inutilità, o che comunque si possa farne a meno. E questo Keynes non si era limitato a fantasticarlo, ne aveva fatto oggetto di una previsione “tecnica” – quella del suo noto saggio “Prospettive economiche per i nostri nipoti” – destinata, a suo dire, ad avverarsi oggi, nella nostra epoca. Come mai la previsione di un uomo pur così abile nei pronostici si è rivelata clamorosamente sbagliata?
Freud aveva capito che la fame di denaro riesce a canalizzare le più sadiche pulsioni degli uomini, in qualche modo contenerle, dirigerle, tradurre in esiti relativamente innocui ciò che potrebbe trovare sbocchi drammatici e crudeli. La libido può avere manifestazioni molto aggressive, induce spesso a umiliare, ferire, persino uccidere. Meglio un capro espiatorio, il denaro, appunto. Da notare come la diagnosi fosse condivisa da Keynes. Ma a questo punto il suo errore. Egli, di fatto, ha ritenuto che certi vizi e difetti molto radicati degli uomini – gli istinti poco edificanti indagati da Freud – li si potesse correggere, sanare fino quasi a dimenticarseli in un arco di tempo limitato. Per questo la profezia di Keynes di un uomo che cessa di rincorrere il bene fatuo della ricchezza materiale somiglia all’utopia di Marx di una società senza classi fatta di individui che, dopo qualche ora di lavoro, si sentono liberi di dedicarsi alla caccia, alla pesca e all’arricchimento dello spirito. E allora?
Economia del tempo presente
Allora il libro di Gilles Dostaler e Bernard Maris si presenta non solo come un efficace strumento di riflessione ma diventa anche un modo per trasformare Freud e Keynes in testimoni vividi del nostro tempo. La lezione principale è che è lecito sperare in un miglioramento, non in una panacea. Gli uomini continueranno a lavorare per vivere, a vivere per lavorare, a voler cambiare per crescere, evolversi e assecondare la loro voglia di assomigliare a Dio. Ma in economia qualcosa di nuovo potrebbe accadere. Gli uomini, molti uomini, potrebbero continuare a voler arricchirsi fino alla nausea.
Ma il capro espiatorio – lo scudo, l’oggetto della maniacale attenzione – potrebbe diventare la proprietà, il possesso delle cose tangibili, non più del denaro. Parlo della proprietà e del potere che ne deriva sulle cose e sulle persone, parlo del cuore del capitalismo e della salvaguardia della sua essenza. E il tutto affinché non esploda una violenza e una distruzione peggiori di quelle imputabili al meccanismo capitalistico.
Il prezzo pagato dal capitale per conquistarsi questa forma di sopravvivenza? La rinuncia al denaro – alla sua parte più cruda e più becera, la merce “esclusa” – combinata con la gratuità di tutti i beni messi sul mercato da chi, in termini di proprietà e di relative responsabilità, potrebbe tranquillamente continuare ad arricchirsi e a sfiancarsi di lavoro per riuscirvi. Ricchi costretti a una distribuzione più generosa e diffusa dei frutti del capitale, poveri finalmente, e legalmente, ammessi alla fruizione di una parte cospicua dell’enorme frutto del capitale e del lavoro. Un compromesso ragionevole, almeno per ora.
http://www.sinistrainrete.info/teoria/4 ... morte.html
di Pierangelo Dacrema
Può, l’economia, essere pane per la psicanalisi? Certo. Frutto dell’incantevole collegamento tra corpo e cervello, l’economia è pensiero tradotto in azione. E un cervello prigioniero di un corpo, che implica un corpo prigioniero di un cervello, è proprio materia da psicanalisti.
Un circolo virtuoso: Bloomsbury
Nel 1914 avviene il primo contatto tra Freud e Bloomsbury, il quartiere di Londra da cui prende il nome la singolare comunità di intellettuali che ha visto eccellere Virginia Woolf ed Edward M. Forster nel romanzo, Duncan Grant e Vanessa Bell nella pittura, Roger Fry e Clive Bell nella critica d’arte, Lytton Strachey nella biografia e nella storia, Desmond McCarthy nella critica letteraria, Leonard Woolf e J. M. Keynes nella politica e nell’economia. Keynes cita Freud nel terzo capitolo del suo folgorante Le conseguenze economiche della pace, quando traccia un ritratto dei protagonisti della Conferenza di Versailles e ci racconta di uno speciale complesso freudiano del presidente Wilson.
Freud era lettore attento di Lytton Strachey oltre che di Keynes. E Keynes si servì abbondantemente di Freud per la stesura del Trattato della moneta e della Teoria generale. Che cosa accomuna Freud e Keynes? Molto più della condivisione dell’idea che quella dell’artista fosse l’attività più luminosa e importante di tutte. Keynes, infatti, fu esplicito nel parlare del genio di Freud, della sua immaginazione scientifica e della forza rivoluzionaria delle sue teorie: in altre parole, fu chiaro nell’attribuire allo scienziato viennese le doti che attribuiva a se stesso.
Il pensiero di Freud e quello di Keynes sono i protagonisti assoluti di Capitalismo e pulsione di morte, (trad. A. Bracci Testasecca, La Lepre edizioni, 2010) un libro stringato ma molto denso, ben più articolato delle sue dimensioni. Perché mai Gilles Dostaler, storico dell’economia, e Bernard Maris, l’economista assassinato durante l’attentato alla sede di Charlie Hebdo, sono sicuri di poter asserire che lo spirito del capitalismo è pervaso da un senso di morte? Semplice, perché la pulsione di morte è ovunque: c’è sadismo e istinto di distruzione nell’eros, c’è erotismo nell’istinto di morte, c’è pulsione di morte nell’arte, nella cultura, nella creazione.
Ma nel fatto economico troviamo aggravanti, accentuazioni. Da un lato è sotto gli occhi di tutti la “vecchia” economia libidinale, il dirottamento sistematico della libido verso la produzione, alla ricerca spasmodica della sua massimizzazione. Dall’altro c’è il denaro, materia incandescente, infernale. L’uomo combatte instancabilmente la morte attraverso la propria pulsione di morte. Dietro l’abitudine al lavoro esiste un insopprimibile istinto del gioco. E il lavoro, questo passatempo obbligato, è la valvola di sfogo del corpo, della carica libidica dell’Io. Si lavora per vivere, si vive per lavorare, si finisce per tesaurizzare. Il tesaurizzatore è un uomo profondamente angosciato. Keynes lo sa, e stabilisce un rapporto preciso tra l’angoscia, la pulsione di morte e il tasso d’interesse.
Un desiderio perverso di liquidità
La liquidità è specchio del nostro timore del futuro, delle nostre incertezze, della precarietà di ogni cosa. Il possesso di moneta lenisce le nostre inquietudini. Che cosa può indurci a separarcene? L’interesse, il cui tasso diventa così la perfetta misura della nostra inquietudine. L’economia classica vedeva nel tasso d’interesse una ricompensa dell’astinenza.
Keynes vi riconosce invece una misura della rinuncia alla liquidità, un prezzo per l’allontanamento dal calore rassicurante del denaro, la contropartita per la temporanea separazione dalla bacchetta magica che ravviva la speranza e placa la paura,, lo scudo d’oro a cui si è dedicato tanto tempo, prima per costruirlo e poi per rafforzarlo, continuare a lucidarlo. Ma un mondo di accumulatori di denaro ucciderebbe l’economia. Se tutti preferissero il possesso di moneta nessuno più investirebbe e si creerebbero i presupposti per la trappola della liquidità descritta da Keynes, il buco nero dell’incertezza in cui perfino il denaro diventerebbe impotente, incapace di allontanare lo spettro della recessione e del collasso del sistema.
In questo senso, e alla luce della situazione attuale, Keynes potrebbe andar fiero della sua preveggenza. Un mondo obnubilato dal denaro è pericoloso, e anche losco. La crisi dei subprimes, le agenzie di rating che hanno accreditato prodotti finanziari derivati indecifrabili, derivati finanziari che avevano il compito di gestire l’angoscia e che invece l’hanno acuita, le banche americane che hanno inondato il mercato di credito creando il caos, le banche centrali che hanno inondato i mercati di base monetaria senza alcun risultato: tutti elementi che tradiscono una bulimia di liquidità con effetti disastrosi.
Più degli scandali dello sperpero e dei fallimenti bancari colpisce lo scandalo della disoccupazione, dell’accumulo di fortune colossali da parte di pochi a fronte della povertà estrema di molti, dello stravolgimento dei rapporti umani non più leggibili all’insegna della cooperazione o dello sfruttamento, della sottomissione o della fratellanza ma sotto l’egida inaccettabile della disumanità e dell’immoralità.
La rendita è morta o continua a uccidere?
Keynes aveva predicato l’eutanasia del redditiere perché la rendita erode non solo i salari ma anche i profitti, soffoca piano piano l’imprenditore oltre che i suoi dipendenti. E non è così fuori luogo immaginare che la nostra economia possa produrre la catastrofe di un mondo ridotto a una gigantesca bidonville in cui la moltitudine a malapena sopravvive e un’esigua minoranza di redditieri si appropria di tutto il surplus. Smettere di crescere a tutto vantaggio di pochi, troppo pochi? Ma la fine della crescita, lo stato stazionario, somiglia drammaticamente alla morte, al coma irreversibile. Nulla più di nuovo che accade, che si sia capaci o desiderosi di far succedere. Possibile che gli uomini se ne accontentino?
Eppure Keynes aveva dichiarato la sua aspirazione a questo stato stazionario, una condizione in cui sarebbe cessata la corsa al denaro e gli esseri umani avrebbero finalmente coltivato l’arte di vivere. Un secolo ancora sulla strada sbagliata per poi trovare la via giusta, un periodo abbastanza lungo di politiche monetarie – ovviamente keynesiane, tutte fondate sulla capacità taumaturgica della moneta – per poter dare uno stabile, definitivo benessere all’intero pianeta. Usare il denaro, la sua potenza, per arrivare a dimostrarne la sostanziale inutilità, o che comunque si possa farne a meno. E questo Keynes non si era limitato a fantasticarlo, ne aveva fatto oggetto di una previsione “tecnica” – quella del suo noto saggio “Prospettive economiche per i nostri nipoti” – destinata, a suo dire, ad avverarsi oggi, nella nostra epoca. Come mai la previsione di un uomo pur così abile nei pronostici si è rivelata clamorosamente sbagliata?
Freud aveva capito che la fame di denaro riesce a canalizzare le più sadiche pulsioni degli uomini, in qualche modo contenerle, dirigerle, tradurre in esiti relativamente innocui ciò che potrebbe trovare sbocchi drammatici e crudeli. La libido può avere manifestazioni molto aggressive, induce spesso a umiliare, ferire, persino uccidere. Meglio un capro espiatorio, il denaro, appunto. Da notare come la diagnosi fosse condivisa da Keynes. Ma a questo punto il suo errore. Egli, di fatto, ha ritenuto che certi vizi e difetti molto radicati degli uomini – gli istinti poco edificanti indagati da Freud – li si potesse correggere, sanare fino quasi a dimenticarseli in un arco di tempo limitato. Per questo la profezia di Keynes di un uomo che cessa di rincorrere il bene fatuo della ricchezza materiale somiglia all’utopia di Marx di una società senza classi fatta di individui che, dopo qualche ora di lavoro, si sentono liberi di dedicarsi alla caccia, alla pesca e all’arricchimento dello spirito. E allora?
Economia del tempo presente
Allora il libro di Gilles Dostaler e Bernard Maris si presenta non solo come un efficace strumento di riflessione ma diventa anche un modo per trasformare Freud e Keynes in testimoni vividi del nostro tempo. La lezione principale è che è lecito sperare in un miglioramento, non in una panacea. Gli uomini continueranno a lavorare per vivere, a vivere per lavorare, a voler cambiare per crescere, evolversi e assecondare la loro voglia di assomigliare a Dio. Ma in economia qualcosa di nuovo potrebbe accadere. Gli uomini, molti uomini, potrebbero continuare a voler arricchirsi fino alla nausea.
Ma il capro espiatorio – lo scudo, l’oggetto della maniacale attenzione – potrebbe diventare la proprietà, il possesso delle cose tangibili, non più del denaro. Parlo della proprietà e del potere che ne deriva sulle cose e sulle persone, parlo del cuore del capitalismo e della salvaguardia della sua essenza. E il tutto affinché non esploda una violenza e una distruzione peggiori di quelle imputabili al meccanismo capitalistico.
Il prezzo pagato dal capitale per conquistarsi questa forma di sopravvivenza? La rinuncia al denaro – alla sua parte più cruda e più becera, la merce “esclusa” – combinata con la gratuità di tutti i beni messi sul mercato da chi, in termini di proprietà e di relative responsabilità, potrebbe tranquillamente continuare ad arricchirsi e a sfiancarsi di lavoro per riuscirvi. Ricchi costretti a una distribuzione più generosa e diffusa dei frutti del capitale, poveri finalmente, e legalmente, ammessi alla fruizione di una parte cospicua dell’enorme frutto del capitale e del lavoro. Un compromesso ragionevole, almeno per ora.
http://www.sinistrainrete.info/teoria/4 ... morte.html
Renzi elenca i successi del governo. “Sarò breve”.
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Re: Economia
EDITORIA IN CRISI
19 MAR 2015 17:52
- LA MORIA DELL’EDITORIA
- TRENTAMILA EDICOLE E 200 TESTATE SONO A RISCHIO CHIUSURA: TRABALLANO TREMILA POSTI DI LAVORO
- LE EDICOLE SI LAMENTANO DEI DISTRIBUTORI MA IL PROBLEMA E’ CHE I LETTORI SONO IN FUGA
Il più grave e urgente dei problemi per le edicole è il sistema distributivo chiuso, blindato, monopolizzato - Si è obbligati a rivolgersi a uno dei quattro distributori nazionali, due di quali sono di proprietà di grandi gruppi editoriali - A livello locale la situazione è anche peggiore…
To.Ro. per il “Fatto quotidiano”
Trentamila edicole “superstiti” e sofferenti, in un mercato in crisi nera.
Oltre 200 testate su tutto il territorio nazionale che rischiano di chiudere i battenti, cancellando 3.000 posti di lavoro.
All’Hotel Nazionale di Roma, sindacalisti e imprenditori del settore hanno scattato una fotografia impietosa dell’editoria italiana. Proponendo, contestualmente, gli interventi necessari per invertire il declino. L’iniziativa, promossa dalle tre principali sigle degli edicolanti (Sinagi, Snag e Usiagi), parte dalla domanda che dà il titolo all'incontro: “Editoria, riforma o rivoluzione?”.
Secondo Vincenzo Vita, ex senatore e giornalista, moderatore del dibattito, servirebbe davvero “una piccola rivoluzione copernicana”.
In pochi anni, si è passati da 42 mila a 30 mila edicole. Quelle che resistono sono “una rete sociale unica e un patrimonio da conservare a tutti i costi”.
Giuseppe Marchica (segretario generale del Sinagi) ha messo in fila una lunga serie di proposte qualificate per la riforma promessa (da tempo) dal governo Renzi.
Primo: “Bisogna abolire la distinzione, vecchia e superata, tra edicola esclusiva e non esclusiva (ovvero tra gli esercizi che vivono esclusivamente della vendita di carta stampata e i negozi che invece affiancano giornali e periodici ad altre forme di commercio, come negozi e supermercati).
Secondo: “Non possiamo più pensare di uscire dalla crisi con il denaro pubblico. Oggi chiedere soldi a pioggia allo Stato non ha più senso, né possibilità di successo. I fondi residui, piuttosto, siano utilizzati per finanziare un ticket per la cultura a disposizione di giovani e famiglie, per l’acquisto di giornali, libri e riviste al 50 per cento di sconto”.
Secondo Armando Abbiati (segretario dello Snag), il primo presupposto di qualsiasi riforma dovrebbe essere la costituzione di “un unico sistema di informatizzazione condiviso tra le tre categorie” (editori, fornitori e venditori). Abbiati è pessimista: “Probabilmente non sarà mai fatto. Editori e fornitori non vogliono trasparenza e controllo: è come avere la finanza in casa”.
Ma il più grave e urgente dei problemi dell’editoria italiana, per il sindacalista, è un altro: “Il sistema distributivo è chiuso, blindato, monopolizzato. Si è obbligati a rivolgersi a uno dei quattro distributori nazionali, due di quali sono di proprietà di grandi gruppi editoriali”.
A livello locale la situazione è anche peggiore: “Sul territorio ci sono 90 distributori locali. I contratti di fornitura sono imposti con regole capestro. Si comportano da signori feudali e hanno in mano il rubinetto della carta stampata. Se un’edicola è considerata non profittevole, la chiudono: in Italia 4 distributori locali hanno lasciato interi paesi senza giornali”. La priorità di qualsiasi intervento legislativo, condivisa da tutte le sigle sindacali, è spezzare questa catena.
Tra gli interventi anche quello di Cinzia Monteverdi, amministratore delegato del Fatto Quotidiano. “La riforma deve essere di sistema e deve coinvolgere tutte le parti della filiera. Imprenditori, editori, distributori: ognuno deve mettersi in discussione e rinunciare a qualcosa. Ma in fretta: questa crisi non lascia più tempo”.
In platea, accanto agli operatori del settore, siedono i destinatari delle proposte: l’europarlamentare di Forza Italia Lara Comi, gli onorevoli Roberto Rampi (Pd), Giuseppe Brescia (M5s), Giovanni Paglia (Sel), Stefano Candiani (Lega). In rappresentanza del governo, c’è Antonio Funiciello, collaboratore di Luca Lotti, titolare della delega all’editoria. Funiciello ha garantito “l’apertura di un tavolo per la riforma del settore entro pochissime settimane”. Trentamila edicolanti attendono il governo al banco.
19 MAR 2015 17:52
- LA MORIA DELL’EDITORIA
- TRENTAMILA EDICOLE E 200 TESTATE SONO A RISCHIO CHIUSURA: TRABALLANO TREMILA POSTI DI LAVORO
- LE EDICOLE SI LAMENTANO DEI DISTRIBUTORI MA IL PROBLEMA E’ CHE I LETTORI SONO IN FUGA
Il più grave e urgente dei problemi per le edicole è il sistema distributivo chiuso, blindato, monopolizzato - Si è obbligati a rivolgersi a uno dei quattro distributori nazionali, due di quali sono di proprietà di grandi gruppi editoriali - A livello locale la situazione è anche peggiore…
To.Ro. per il “Fatto quotidiano”
Trentamila edicole “superstiti” e sofferenti, in un mercato in crisi nera.
Oltre 200 testate su tutto il territorio nazionale che rischiano di chiudere i battenti, cancellando 3.000 posti di lavoro.
All’Hotel Nazionale di Roma, sindacalisti e imprenditori del settore hanno scattato una fotografia impietosa dell’editoria italiana. Proponendo, contestualmente, gli interventi necessari per invertire il declino. L’iniziativa, promossa dalle tre principali sigle degli edicolanti (Sinagi, Snag e Usiagi), parte dalla domanda che dà il titolo all'incontro: “Editoria, riforma o rivoluzione?”.
Secondo Vincenzo Vita, ex senatore e giornalista, moderatore del dibattito, servirebbe davvero “una piccola rivoluzione copernicana”.
In pochi anni, si è passati da 42 mila a 30 mila edicole. Quelle che resistono sono “una rete sociale unica e un patrimonio da conservare a tutti i costi”.
Giuseppe Marchica (segretario generale del Sinagi) ha messo in fila una lunga serie di proposte qualificate per la riforma promessa (da tempo) dal governo Renzi.
Primo: “Bisogna abolire la distinzione, vecchia e superata, tra edicola esclusiva e non esclusiva (ovvero tra gli esercizi che vivono esclusivamente della vendita di carta stampata e i negozi che invece affiancano giornali e periodici ad altre forme di commercio, come negozi e supermercati).
Secondo: “Non possiamo più pensare di uscire dalla crisi con il denaro pubblico. Oggi chiedere soldi a pioggia allo Stato non ha più senso, né possibilità di successo. I fondi residui, piuttosto, siano utilizzati per finanziare un ticket per la cultura a disposizione di giovani e famiglie, per l’acquisto di giornali, libri e riviste al 50 per cento di sconto”.
Secondo Armando Abbiati (segretario dello Snag), il primo presupposto di qualsiasi riforma dovrebbe essere la costituzione di “un unico sistema di informatizzazione condiviso tra le tre categorie” (editori, fornitori e venditori). Abbiati è pessimista: “Probabilmente non sarà mai fatto. Editori e fornitori non vogliono trasparenza e controllo: è come avere la finanza in casa”.
Ma il più grave e urgente dei problemi dell’editoria italiana, per il sindacalista, è un altro: “Il sistema distributivo è chiuso, blindato, monopolizzato. Si è obbligati a rivolgersi a uno dei quattro distributori nazionali, due di quali sono di proprietà di grandi gruppi editoriali”.
A livello locale la situazione è anche peggiore: “Sul territorio ci sono 90 distributori locali. I contratti di fornitura sono imposti con regole capestro. Si comportano da signori feudali e hanno in mano il rubinetto della carta stampata. Se un’edicola è considerata non profittevole, la chiudono: in Italia 4 distributori locali hanno lasciato interi paesi senza giornali”. La priorità di qualsiasi intervento legislativo, condivisa da tutte le sigle sindacali, è spezzare questa catena.
Tra gli interventi anche quello di Cinzia Monteverdi, amministratore delegato del Fatto Quotidiano. “La riforma deve essere di sistema e deve coinvolgere tutte le parti della filiera. Imprenditori, editori, distributori: ognuno deve mettersi in discussione e rinunciare a qualcosa. Ma in fretta: questa crisi non lascia più tempo”.
In platea, accanto agli operatori del settore, siedono i destinatari delle proposte: l’europarlamentare di Forza Italia Lara Comi, gli onorevoli Roberto Rampi (Pd), Giuseppe Brescia (M5s), Giovanni Paglia (Sel), Stefano Candiani (Lega). In rappresentanza del governo, c’è Antonio Funiciello, collaboratore di Luca Lotti, titolare della delega all’editoria. Funiciello ha garantito “l’apertura di un tavolo per la riforma del settore entro pochissime settimane”. Trentamila edicolanti attendono il governo al banco.
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Re: Economia
Nei Tg delle 12.00 in poi, il ministro Padoan, spiegava l'economia in rosa.
Mentre un titolo del Corriere recita:
ECONOMIA
Il Pil cresce meno del previsto
Nel primo trimestre solo 0,2%
(E se Renzi provasse con il Viagra?)
Stima di Confindustria. «Colpa del calo della produzione industriale a gennaio»
di Redazione Online
Il Pil italiano «viaggia verso un +0,2% nel primo trimestre»: è la previsione del Centro studi di Confindustria, che indica quindi l’attesa di «un recupero», spiegando che la stima è «negativamente influenzata dall’inciampo della produzione industriale a gennaio (che potrebbe, però, essere ribaltato a febbraio)» che ha fatto segnare un -0,7%.
Febbraio positivo
In effetti, sempre secondo Confindustria, la produzione industriale a febbraio è stimata in crescita dello 0,4% . «Le attese di ripresa dell’economia italiana - afferma inoltre il Centro studi di Confindustria - trovano conferma nell’incremento della produzione e dei dati di vendita, seppure ancora contenuta».
25 marzo 2015 | 15:55
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/economia/15_marz ... 35a2.shtml
Mentre un titolo del Corriere recita:
ECONOMIA
Il Pil cresce meno del previsto
Nel primo trimestre solo 0,2%
(E se Renzi provasse con il Viagra?)
Stima di Confindustria. «Colpa del calo della produzione industriale a gennaio»
di Redazione Online
Il Pil italiano «viaggia verso un +0,2% nel primo trimestre»: è la previsione del Centro studi di Confindustria, che indica quindi l’attesa di «un recupero», spiegando che la stima è «negativamente influenzata dall’inciampo della produzione industriale a gennaio (che potrebbe, però, essere ribaltato a febbraio)» che ha fatto segnare un -0,7%.
Febbraio positivo
In effetti, sempre secondo Confindustria, la produzione industriale a febbraio è stimata in crescita dello 0,4% . «Le attese di ripresa dell’economia italiana - afferma inoltre il Centro studi di Confindustria - trovano conferma nell’incremento della produzione e dei dati di vendita, seppure ancora contenuta».
25 marzo 2015 | 15:55
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/economia/15_marz ... 35a2.shtml
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