Se non si estirpano tutti i mali congeniti (corruzione, malaffare, parassitismo, evasione/elusione fiscale, nepotismo), la società italiana non guarirà mai e avrà ricadute continue fino all'estinzione totale!
Maucat
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Adesso se ne esce tenendo conto che QUESTI cittadini, persino quelli nominalmente
vicini a "noi di sinistra", persino noi per certi versi, non ragionano più coi loro stessi
valori di una volta.
Soloo42001
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In questo articolo dell’Espresso si nota che nel crollo generale va incluso il crollo culturale del mondo della sinistra.
ROMA TREMA
Mafia Capitale, perché gli intellettuali non se ne sono accorti?
I protagonisti della vita culturale dell'Urbe non hanno notato il male che colpiva la città. E non discutono del problema. Per quale motivo? Bertolucci: la gente si rassegna. I distinguo di Asor Rosa e Camilleri. Veronesi e Comencini: sì, manca un dibattito vero
DI LIRIO ABBATE
10 aprile 2015
Il declino della politica sta trascinando nel baratro una città dove il malaffare è arrivato fino alla sua degenerazione più pericolosa: la mafia. Eppure nella metropoli dove l’intrallazzo è tracimato ben oltre i confini della corruzione, facendosi sistema di potere crimin ale, è difficile aprire un dibattito che affronti le radici del problema. Gli arresti di dicembre e le intercettazioni che hanno messo a nudo come politici di destra e sinistra fossero al servizio di un clan, non hanno scosso le coscienze. E quella definizione di “ mafia Capitale ” coniata dai magistrati sembra già assimilata, come l’astronave del marziano sbarcato a Roma di Ennio Flaiano.
Ma l’alieno di fronte all’indifferenza della città eterna se ne tornava nella sua lontana galassia d’origine, mentre quello svelato dalle indagini è un male che qui ha messo radici. Senza che tanti protagonisti della vita culturale che abitano nell’Urbe lo avessero notato. «Mafia Capitale? Certo che ci credo. La descrizione che emerge è tipicamente di romani», dice il regista Bernardo Bertolucci. «Sono rimasto sconcertato leggendo sui giornali di quello che è accaduto e di ciò che i pm hanno scoperto. Mi ha sconvolto vedere politici coinvolti di cui si poteva dire che erano insospettabili. E il riferimento è ad alcuni uomini del Pd. Purtroppo la consuetudine quotidiana finisce piano piano per togliere drammaticità ai fatti: la gente si abitua e quindi si rassegna».
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Secondo Bertolucci da questa inchiesta si trae una lezione: «Veniva attaccato il sindaco Marino, anche da alcuni del Pd. Poi dall’indagine è emerso che lui era l’unico non corrotto». E conclude con un’osservazione in presa diretta: «Ho una sensazione: c’è tutta una fioritura di bar e attività commerciali fra Trastevere e piazza Campo de Fiori e vedo qualcosa di strano nei gestori. Qualcosa che non riesco bene a decifrare, non so se sia riconducibile a “mafia Capitale”. Perché a Roma le associazioni per delinquere sono tante...».
Tranchant pure la giornalista francese Marcelle Padovaniche vive da oltre quarant’anni a Roma, scrive per il “Nouvel Observateur” ed è autrice di libri con Leonardo Sciascia e Giovanni Falcone: «Non solo è vera mafia ma c’è qualcosa di assolutamente inedito. La criminalità dà sostegno all’impresa, fa da stampella al capitalismo. È a Roma che si è sperimentato il volto nuovo delle mafie e, in questo modo così esplicito (escludendo Napoli e Palermo), non lo avevo mai visto. A Roma “mafia Capitale” non uccide ma aiuta il capitalismo a sopravvivere. Forse il destino del capitalismo è proprio la mafia».
I romani non vedono il sangue e non pensano dunque alla criminalità organizzata? «È probabile. Così si lasciano prendere dal profitto. Trovo che questa sia una delle più belle indagini che abbia mai visto,e sulle mafie ne ho viste parecchie. Viene fuori molto bene come sotto la finta normalità, sotto la coltre di una metropoli che è Capitale del cattolicesimo e Capitale d’Italia, una città in apparenza burocratica e tranquilla, quasi assopita, si stia formando un modello di sopravvivenza del capitale». Padovani avanza una proposta per studiare meglio il fenomeno: «Thomas Piketty (l’economista francese), dovrebbe venire a Roma a studiare il “modello di sviluppo”, il livello di connivenza fra capitale e mafia che esiste qui. Vorrei che venisse per rendersi conto di quanti affari fa qui la mafia».
Gli intellettuali italiani avrebbero potuto analizzare meglio ciò che avviene a Roma? «L’Italia, lo diceva già Sciascia, è un Paese dove il mondo intellettuale non esiste come ceto. In Francia c’è l’intellettuale che si confronta subito con altri intellettuali, e scaturisce subito una reazione, una mobilitazione. C’è un ceto che risponde a un problema sociale. In Italia non esiste questa categoria. A Roma, che è una città un po’ finta, un coacervo di cose contraddittorie, dove i fatti si sovrappongono, come sovrapposti uno sull’altro sono i diversi strati sociali, il mondo intellettuale è inesistente».
A rendere invisibile questa mafia che non spara ma fa business è proprio una «carenza culturale», dice Enzo Ciconte, docente di Storia della criminalità organizzata all’Università di Roma Tre. Per lui il punto di partenza è che «a Roma non c’è mai stato nessuno, intellettuale, storico o cattedratico che abbia detto che c’era la mafia. Ma per far comprendere meglio agli studenti come cambiano le organizzazioni criminali dico che occorre mettere gli occhiali con le giuste lenti. L’ottica che serve è la cultura: se non si conosce il problema non lo si potrà mai individuare e sconfiggere».
Per Alberto Asor Rosa il problema della mafia a Roma «è emerso, come accade ormai spesso, per merito dell’autorità giudiziaria. Gli altri sembra che non sapessero nulla». E la cultura che fa? «In Italia non si apre più un dibattito su niente. Perché avrebbe dovuto aprirsi proprio sulla decadenza romana? Si potrebbe dire lo stesso per qualsiasi altro avvenimento che accade o è accaduto in Italia negli ultimi dieci anni. C’è stato dibattito sulla corruzione del mondo politico rappresentata - non esclusivamente ma in maniera somma - da Silvio Berlusconi? No. O sulla politica come partecipazione? No. Questo significa che le forze intellettuali che una volta promuovevano o perlomeno partecipavano alle discussioni sono estenuate e impotenti».
E poi aggiunge: «Non so se definire mafia questa fenomenologia serva più a chiarire o a confondere le cose. Secondo me un po’ le confonde. Qualsiasi organizzazione criminale è mafia? Non credo. C’è la mafia che è una cosa storica ben individuata che sopravvive e agisce ancora, e la criminalità di nuovo stampo che ha le sue forme di presenza e organizzazione. A Roma la mafia c’è, ha i locali, e i ristoranti. È differente dalla banda della Magliana rappresentata efficacemente da De Cataldo in “Romanzo Criminale”, quella era costituita da dilettanti: da poveri proletari o para proletari che si arrangiavano con i loro metodi ammazzando la gente. Qui siamo a un livello superiore». E conclude: «Io sono romano, e a Roma, come spesso si sente dire, le cose si aggiustano sempre, e questo è un guaio».
Chi parte dalla descrizione della mafia siciliana vecchio stampo per arrivare a quella della Capitale è Andrea Camilleri. «La mia sincera opinione è innanzitutto che per capire bene il fenomeno occorrerebbe chiarire cosa si intende per mafia. Fino a prova contraria è un’organizzazione a cupola che si dirama in un territorio, per cui un episodio avvenuto per esempio a Siracusa è riconducibile ad altri avvenuti a Palermo, ad Agrigento o a Caltanissetta. Con ciò intendo dire che la mafia è una struttura centripeta. Ritengo invece che gli episodi che accadono in Italia, troppo spesso vengono etichettati come mafiosi mentre in realtà non lo sono. Quello che è avvenuto con il Mose a Venezia non è riconducibile a quello che è avvenuto all’Expo di Milano, non sono due ramificazioni di un unico tronco. Sono due cose completamente diverse, e quindi parlare di mafia è sbagliato. Credo che sia assai più giusto parlare di singole o molteplici associazioni per delinquere non connesse tra di loro, come avviene invece per la mafia». Camilleri puntualizza: «Ora che queste associazioni abbiano mutuato comportamenti mafiosi, ma attenzione non fino all’omicidio, è probabilmente inevitabile. A mio parere si tratta di “etichettare” allo stesso modo episodi di corruzione, di malaffare, di concussione, cioè tutti reati che portano beneficio non a un’unica organizzazione come la mafia, ma a singoli gruppi, a diverse associazioni per delinquere».
E la cultura che può fare contro la mafia? «Per me il compito di un intellettuale è proprio quello di comportarsi correttamente come cittadino. La riforma deve essere radicale e deve modificare la psicologia, la coscienza dei cittadini. Credo inoltre che l’eccesso di rimbombo mediatico finisca per creare una specie di rigetto». Dopo quello che è emerso dalle inchieste ci si attendeva forse una maggiore indignazione da parte dei romani... «Vivere a Roma, oltre a essere certamente un privilegio estetico, è un esercizio di indignazione quotidiana. Crede che gente abituata a uscire ogni giorno di casa mettendosi addosso una corazza per sopravvivere non avesse già chiaro che al governo della città ci fossero degli incompetenti e, assai più spesso, dei delinquenti?».
Chi fa riferimento alla solitudine del pensiero, alla mancanza del dialogo è Francesca Comencini. «Non c’è più quel dibattito vivace che poteva esserci un tempo. Ognuno è chiuso nel proprio individualismo. Non c’è più l’abitudine di riunirsi per poter esprimere ciò che si pensa. Non lo si fa forse perché sono spariti i salotti letterari veri, quelli di un tempo». Oppure non si vuole affrontare il problema della mafia a Roma? «Potrebbe essere un’ipotesi. È anche vero che manca proprio il contesto, non ti vengono nemmeno a cercare. Eppure le possibilità, i luoghi ci sarebbero, dalle piazze alle librerie. Forse esiste qualcuno che ci prova, nel suo piccolo».
Manca un dibattito vero, concreto. Lo fa notare lo scrittoreSandro Veronesi, che sottolinea la gravità della pervasività delle mafie, ma vuole distinguere. Spiega per esempio che Salvatore Buzzi, accusato di essere il complice di Massimo Carminati, «ha creato lavoro con le cooperative», sia pure attraverso appalti pilotati. «Il silenzio su tutto quanto sta accadendo a Roma è certo deleterio. Ma oggi chi ha il carisma o il potere di chiamare all’appello le persone perché si confrontino su qualcosa? L’unico è il Papa che su argomenti come la mafia e la corruzione ha detto come la pensa».
Lo storico Giovanni Sabbatucci ritiene che «mafia Capitale abbia rivelato una realtà di malaffare e corruzione diffusa», ma poi aggiunge che «sia stata forse sopravvalutata». Perché secondo Sabbatucci «la mafia in quanto tale forse non dovrebbe essere evocata in questioni di ordinario malaffare come questa, che comunque colpisce per diffusione, vastità, e spessore criminale. Il mio è un parere da semplice lettore di giornali, che guarda a quello che accade al Sud. Lì si verificano episodi sanguinosi, non solo truffaldini. Non voglio certo dire che quelli romani siano ordinari imbrogli. È qualcosa di più grave anche perché accade a Roma, e si sono verificati in ambienti che avremmo pensato meno esposti. È stata scoperta una politica che si mette nelle mani di personaggi che travalicano ogni schieramento. Una storia brutta, impressionante e sgradevole». Una mafia nuova, che la cultura finora ha saputo vedere, analizzare e denunciare poco e male .
• MAFIA CAPITALE
© Riproduzione riservata10 aprile 2015
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