"Casa comune della sinistra e dei democratici"
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Re: "Casa comune della sinistra e dei democratici"
Tra Civati, Landini e L'Altra Europa con Tsipras una cosa sola DOVREBBE NASCERE , almeno spero, una casa comune dei democratici e forse diventa impegnativo che si possa definire anche di sinistra.
(Induce a riflettere sulle disuguaglianze crescenti nel nostro Paese: il 10% delle famiglie più ricche possiede il 46,6% delle ricchezza netta familiare totale (45,7% nel 2010). A rilevarlo L’indagine sui bilanci delle famiglie italiane nel 2012 della Banca d’Italia.)
Mettere una patrimoniale solo a quel 10% delle famiglie più ricche e non come oggi che la patrimoniale è a carico di tutti coloro che hanno una casa o hanno un normale conto in banca è una cosa di sinistra ?
Non mi sembra , lo fanno in tutti i paesi occidentali, lo farebbe l'ex ministro Passera, lo farebbe Diego Della Valle, quindi potrebbe farlo benissimo un governo democratico di centro.
Oltre a mettere una patrimoniale sui più ricchi si potrebbe anche limitare al massimo la circolazione del denaro contante, mettere una drastica tassa sulle eredità, controllare seriamente i grandi evasori, e fare tutte quelle cose che nessun governo di centrosinistra ha mai osato a mettere in campo a causa dei frenatori presenti ovunque
(Induce a riflettere sulle disuguaglianze crescenti nel nostro Paese: il 10% delle famiglie più ricche possiede il 46,6% delle ricchezza netta familiare totale (45,7% nel 2010). A rilevarlo L’indagine sui bilanci delle famiglie italiane nel 2012 della Banca d’Italia.)
Mettere una patrimoniale solo a quel 10% delle famiglie più ricche e non come oggi che la patrimoniale è a carico di tutti coloro che hanno una casa o hanno un normale conto in banca è una cosa di sinistra ?
Non mi sembra , lo fanno in tutti i paesi occidentali, lo farebbe l'ex ministro Passera, lo farebbe Diego Della Valle, quindi potrebbe farlo benissimo un governo democratico di centro.
Oltre a mettere una patrimoniale sui più ricchi si potrebbe anche limitare al massimo la circolazione del denaro contante, mettere una drastica tassa sulle eredità, controllare seriamente i grandi evasori, e fare tutte quelle cose che nessun governo di centrosinistra ha mai osato a mettere in campo a causa dei frenatori presenti ovunque
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Re: "Casa comune della sinistra e dei democratici"
Lo stop and go è la normalità nelle transizioni di questo tipo.
Barbara Spinelli, addio a lista Tsipras un anno dopo il voto: “Progetto fallito”
A meno di un anno dall'elezione, l'annuncio del’europarlamentare. Resterà come indipendente nel gruppo Sinistra Unitaria Europea-Ngl. "Idea nata per superare frammentazione e coinvolgere anche elettori non di sinistra, ma i risultati non sono stati all'altezza". Nessuna adesione a soggetti politici italiani, ma "alle regionali appoggerò chi lotta contro il Partito della nazione"
di F. Q. | 11 maggio 2015
Un anno dopo l’elezione, Barbara Spinelli lascia dalla lista l’Altra Europa con Tsipras. L’europarlamentare intende però restare a Bruxelles come indipendente nel gruppo Sinistra Unitaria Europea-Ngl. “Non intendo contribuire in alcun modo a un’ennesima atomizzazione della sinistra fondando o promuovendo un’ulteriore frazione politica” afferma la giornalista e scrittrice, precisando che “in Italia non entrerò in nessun gruppo, se eccettuo la mia militanza nell’associazione Libertà e Giustizia”. E annunciando che si concentrerà “sulle attività parlamentari europee con attenzione particolare a quello che succede in Italia e in Grecia”.
La lettera mette fine a un rapporto tormentato fin dall’inizio. Barbara Spinelli annunciò la propria candidatura di bandiera per tirare la volata alla lista ispirata al leader della sinistra greca, affermando che in caso di elezione avrebbe rinunciato al seggio. Dopo il voto, però, cambiò idea e parlò di “pressioni” da parte dei suoi elettori perché affrontasse davvero l’avventura di Bruxelles. Ne nacque un caso e il candidato di Sel Marco Furfaro, che le sarebbe subentrato, restò fuori dall’Europarlamento.
L’Altra Europa, continua Spinelli, “nacque come progetto di superamento dei piccoli partiti di sinistra; come conquista di un elettorato deluso sia dal Pd e dal M5S sia dal voto stesso, dunque un elettorato non esclusivamente ‘di sinistra’. Ritengo che L’Altra Europa non sia oggi all’altezza di quel progetto: è quanto ho sostenuto assieme a molti ex garanti e militanti della Lista, in una lettera aperta di dissenso indirizzata il 18 aprile a chi la dirige”.
L’europarlamentare si dice convinta che “l’Unione e l’eurozona vinceranno o si perderanno politicamente, a seconda di come sarà affrontata la ‘questione greca’. Proseguirò le battaglie fatte in questo primo anno di legislatura in difesa dei diritti fondamentali, a cominciare dalla questione migranti. In Italia, continuerò a combattere le grandi intese, l’idea di un “Partito della Nazione”, l’ortodossia delle riforme strutturali, la decostituzionalizzazione della nostra democrazia. Nelle prossime regionali appoggerò tutti coloro che sono davvero e sino in fondo impegnati in questa battaglia”.
La vox populi va letta tutta su:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/05 ... a/1673212/
Barbara Spinelli, addio a lista Tsipras un anno dopo il voto: “Progetto fallito”
A meno di un anno dall'elezione, l'annuncio del’europarlamentare. Resterà come indipendente nel gruppo Sinistra Unitaria Europea-Ngl. "Idea nata per superare frammentazione e coinvolgere anche elettori non di sinistra, ma i risultati non sono stati all'altezza". Nessuna adesione a soggetti politici italiani, ma "alle regionali appoggerò chi lotta contro il Partito della nazione"
di F. Q. | 11 maggio 2015
Un anno dopo l’elezione, Barbara Spinelli lascia dalla lista l’Altra Europa con Tsipras. L’europarlamentare intende però restare a Bruxelles come indipendente nel gruppo Sinistra Unitaria Europea-Ngl. “Non intendo contribuire in alcun modo a un’ennesima atomizzazione della sinistra fondando o promuovendo un’ulteriore frazione politica” afferma la giornalista e scrittrice, precisando che “in Italia non entrerò in nessun gruppo, se eccettuo la mia militanza nell’associazione Libertà e Giustizia”. E annunciando che si concentrerà “sulle attività parlamentari europee con attenzione particolare a quello che succede in Italia e in Grecia”.
La lettera mette fine a un rapporto tormentato fin dall’inizio. Barbara Spinelli annunciò la propria candidatura di bandiera per tirare la volata alla lista ispirata al leader della sinistra greca, affermando che in caso di elezione avrebbe rinunciato al seggio. Dopo il voto, però, cambiò idea e parlò di “pressioni” da parte dei suoi elettori perché affrontasse davvero l’avventura di Bruxelles. Ne nacque un caso e il candidato di Sel Marco Furfaro, che le sarebbe subentrato, restò fuori dall’Europarlamento.
L’Altra Europa, continua Spinelli, “nacque come progetto di superamento dei piccoli partiti di sinistra; come conquista di un elettorato deluso sia dal Pd e dal M5S sia dal voto stesso, dunque un elettorato non esclusivamente ‘di sinistra’. Ritengo che L’Altra Europa non sia oggi all’altezza di quel progetto: è quanto ho sostenuto assieme a molti ex garanti e militanti della Lista, in una lettera aperta di dissenso indirizzata il 18 aprile a chi la dirige”.
L’europarlamentare si dice convinta che “l’Unione e l’eurozona vinceranno o si perderanno politicamente, a seconda di come sarà affrontata la ‘questione greca’. Proseguirò le battaglie fatte in questo primo anno di legislatura in difesa dei diritti fondamentali, a cominciare dalla questione migranti. In Italia, continuerò a combattere le grandi intese, l’idea di un “Partito della Nazione”, l’ortodossia delle riforme strutturali, la decostituzionalizzazione della nostra democrazia. Nelle prossime regionali appoggerò tutti coloro che sono davvero e sino in fondo impegnati in questa battaglia”.
La vox populi va letta tutta su:
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Re: "Casa comune della sinistra e dei democratici"
Barbara Spinelli se ne va .......
Civati lascia il Pd, i miraggi della sinistra
Samuele Mazzolini -Il Fatto Q
La fuoriuscita di Pippo Civati dal Pd ha creato una notevole eccitazione presso le rive sinistre del panorama politico: agli iniziali corteggiamenti di Fratoianni per conto di Sel, si sono aggiunte anche le aperture di Rifondazione Comunista per bocca di Paolo Ferrero. La nuova condizione di “scapolo” politico del deputato monzese riaccende dunque il dibattito su parole a più riprese sbandierate, quali “costituente”, “unità della sinistra”, “coalizione sociale”, spingendo Vendola a risfoderare persino la promessa di dissolvere Sel in un contenitore più ampio.
Per chi ormai già da tempo ha compreso che il Pd non è in assoluto un soggetto di trasformazione sociale, né di difesa di conquiste passate, ma piuttosto un agente politico apertamente regressivo, lo sfilamento di Civati non può che suscitare un lieve moto di gioia. Ma dico lieve proprio perché, in fin dei conti, la questione è prettamente personale nonché distante: un po’ come quando si viene a sapere che un lontano conoscente è appena uscito da un percorso di vita particolarmente difficile. È uscito dal tunnel, evviva. Ma affari suoi, in fin dei conti.
L’eccitazione della sinistra radicale tradisce invece un modo vecchio di intendere e fare politica: crede di poter risollevare le proprio fortune non già attraverso dispute per l’interpretazione del senso comune o processi di lotta reali, ma attraverso le geometrie variabili dell’alta politica, lo spostamento di dirigenti da un contenitore all’altro. Questo nell’infondata convinzione che alle diverse correnti politiche corrispondano pezzi di società, come se l’autoreferenzialità del ceto politico non fosse un fenomeno abbastanza reale. Ma con Civati il miraggio è ancora più grande: Vendola & co. sbagliano persino nel pensare di portare dalla loro qualche truppa cammellata. Civati – un mite idealista a cui vanno riconosciuti meriti che non includono la strategia politica – esce dal Pd in solitudine, senza portare con sé quasi nessuno. Segno della continuità politica e antropologica che c’era tra i benpensanti che Civati aveva raccolto attorno a sé e il resto della «borghesia togliattiana», per mutuare la felice espressione coniata da Goffredo Fofi.
Ma perché non dire anche che Civati è uscito per la ragione sbagliata? Di tutte le potenti giustificazioni che Renzi gli ha offerto da quando ha assunto la Presidenza del Consiglio, Civati esce su quella più istituzionale di tutte, quella meno sociale, quella che parla meno alle condizioni di impoverimento e solitudine di un crescente segmento della popolazione italiana. Nonché su quella che tradisce ancora una volta i complessi della sinistra.
Dirò in questo senso un’altra cosa stridente: l’Italicum, pur approvato con una fiducia discutibile e pur contenendo una schifezza immonda come le liste bloccate, permette finalmente di avere delle maggioranze chiare. Pur senza estirpare la «miseria della vita parlamentare», si tratta di una legge elettorale che rende più difficili le geometrie variabili, gli inciuci, i voltagabbana. Il tanto vituperato premio di maggioranza non è poi quello che ha permesso a Syriza di governare in Grecia con una certa serenità? Non procura di scongiurare le grandi coalizioni che Civati ha così strenuamente combattuto?
Il fatto è che la sinistra italiana è ancora ostaggio di fantasie post-belliche, che tradiscono la sua passione per le cause superate (oltre che per quelle perse, che a volte coincidono). Se il parlamentarismo fu una risposta storica al verticalismo personalista del Ventennio, oggigiorno la chiarezza su chi vince e sul nome di chi governa prevalgono di gran lunga sui timori di presunte derive presidenzialiste. Sulla scorta degli esempi di Syriza e Podemos, la sinistra dovrebbe aprire una riflessione sulla questione del leader senza i paraocchi ipocriti dell’orizzontalismo a oltranza. Parallelamente, alla gente preoccupa di più la caciara di un parlamento inerte e litigioso rispetto alla scomparsa di partiti che rappresentano interessi corporativi e identità nostalgiche. Sarà pur arrivata l’ora di fare i conti con i sentimenti prevalenti che esistono nel Paese piuttosto che continuare ad applicare lezioni di manuali che hanno preso troppa polvere?
Mi rendo conto di essere un po’ duro con Civati, che in fondo è una delle persone meglio intenzionate offerte dalla politica italiana negli ultimi anni. A scanso di equivoci, va precisato che il vero nemico da combattere è Renzi e il suo progetto trasformista, di ricambio delle élite piuttosto che della loro eliminazione. Ma per mettere in difficoltà questa farsa gattopardesca bisogna essere capaci di riscoprire l’ampio respiro del pensiero strategico a partire dalle esigenze concrete di quella maggioranza invisibile descritta da Emanuele Ferragina per costruire un vocabolario nuovo, un orizzonte attuale di passioni politiche. Scrivo quindi per scongiurare che Civati diventi la facile preda dei tatticismi inavveduti, delle erudizioni striminzite e provinciali, dei lessici stereotipati e noiosi della sinistra nostrana, ma sappia mettere a disposizione sé stesso – come una risorsa tra le molte esistenti – di progetti che puntino un po’ più in alto (e che magari non esistono ancora).
Assistiamo a queste evoluzioni della sinistra e aspettiamo i risultati delle prossime regionali per capire come reagisce l'elettorato italiano a questi sconvolgimenti.
Civati lascia il Pd, i miraggi della sinistra
Samuele Mazzolini -Il Fatto Q
La fuoriuscita di Pippo Civati dal Pd ha creato una notevole eccitazione presso le rive sinistre del panorama politico: agli iniziali corteggiamenti di Fratoianni per conto di Sel, si sono aggiunte anche le aperture di Rifondazione Comunista per bocca di Paolo Ferrero. La nuova condizione di “scapolo” politico del deputato monzese riaccende dunque il dibattito su parole a più riprese sbandierate, quali “costituente”, “unità della sinistra”, “coalizione sociale”, spingendo Vendola a risfoderare persino la promessa di dissolvere Sel in un contenitore più ampio.
Per chi ormai già da tempo ha compreso che il Pd non è in assoluto un soggetto di trasformazione sociale, né di difesa di conquiste passate, ma piuttosto un agente politico apertamente regressivo, lo sfilamento di Civati non può che suscitare un lieve moto di gioia. Ma dico lieve proprio perché, in fin dei conti, la questione è prettamente personale nonché distante: un po’ come quando si viene a sapere che un lontano conoscente è appena uscito da un percorso di vita particolarmente difficile. È uscito dal tunnel, evviva. Ma affari suoi, in fin dei conti.
L’eccitazione della sinistra radicale tradisce invece un modo vecchio di intendere e fare politica: crede di poter risollevare le proprio fortune non già attraverso dispute per l’interpretazione del senso comune o processi di lotta reali, ma attraverso le geometrie variabili dell’alta politica, lo spostamento di dirigenti da un contenitore all’altro. Questo nell’infondata convinzione che alle diverse correnti politiche corrispondano pezzi di società, come se l’autoreferenzialità del ceto politico non fosse un fenomeno abbastanza reale. Ma con Civati il miraggio è ancora più grande: Vendola & co. sbagliano persino nel pensare di portare dalla loro qualche truppa cammellata. Civati – un mite idealista a cui vanno riconosciuti meriti che non includono la strategia politica – esce dal Pd in solitudine, senza portare con sé quasi nessuno. Segno della continuità politica e antropologica che c’era tra i benpensanti che Civati aveva raccolto attorno a sé e il resto della «borghesia togliattiana», per mutuare la felice espressione coniata da Goffredo Fofi.
Ma perché non dire anche che Civati è uscito per la ragione sbagliata? Di tutte le potenti giustificazioni che Renzi gli ha offerto da quando ha assunto la Presidenza del Consiglio, Civati esce su quella più istituzionale di tutte, quella meno sociale, quella che parla meno alle condizioni di impoverimento e solitudine di un crescente segmento della popolazione italiana. Nonché su quella che tradisce ancora una volta i complessi della sinistra.
Dirò in questo senso un’altra cosa stridente: l’Italicum, pur approvato con una fiducia discutibile e pur contenendo una schifezza immonda come le liste bloccate, permette finalmente di avere delle maggioranze chiare. Pur senza estirpare la «miseria della vita parlamentare», si tratta di una legge elettorale che rende più difficili le geometrie variabili, gli inciuci, i voltagabbana. Il tanto vituperato premio di maggioranza non è poi quello che ha permesso a Syriza di governare in Grecia con una certa serenità? Non procura di scongiurare le grandi coalizioni che Civati ha così strenuamente combattuto?
Il fatto è che la sinistra italiana è ancora ostaggio di fantasie post-belliche, che tradiscono la sua passione per le cause superate (oltre che per quelle perse, che a volte coincidono). Se il parlamentarismo fu una risposta storica al verticalismo personalista del Ventennio, oggigiorno la chiarezza su chi vince e sul nome di chi governa prevalgono di gran lunga sui timori di presunte derive presidenzialiste. Sulla scorta degli esempi di Syriza e Podemos, la sinistra dovrebbe aprire una riflessione sulla questione del leader senza i paraocchi ipocriti dell’orizzontalismo a oltranza. Parallelamente, alla gente preoccupa di più la caciara di un parlamento inerte e litigioso rispetto alla scomparsa di partiti che rappresentano interessi corporativi e identità nostalgiche. Sarà pur arrivata l’ora di fare i conti con i sentimenti prevalenti che esistono nel Paese piuttosto che continuare ad applicare lezioni di manuali che hanno preso troppa polvere?
Mi rendo conto di essere un po’ duro con Civati, che in fondo è una delle persone meglio intenzionate offerte dalla politica italiana negli ultimi anni. A scanso di equivoci, va precisato che il vero nemico da combattere è Renzi e il suo progetto trasformista, di ricambio delle élite piuttosto che della loro eliminazione. Ma per mettere in difficoltà questa farsa gattopardesca bisogna essere capaci di riscoprire l’ampio respiro del pensiero strategico a partire dalle esigenze concrete di quella maggioranza invisibile descritta da Emanuele Ferragina per costruire un vocabolario nuovo, un orizzonte attuale di passioni politiche. Scrivo quindi per scongiurare che Civati diventi la facile preda dei tatticismi inavveduti, delle erudizioni striminzite e provinciali, dei lessici stereotipati e noiosi della sinistra nostrana, ma sappia mettere a disposizione sé stesso – come una risorsa tra le molte esistenti – di progetti che puntino un po’ più in alto (e che magari non esistono ancora).
Assistiamo a queste evoluzioni della sinistra e aspettiamo i risultati delle prossime regionali per capire come reagisce l'elettorato italiano a questi sconvolgimenti.
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Re: "Casa comune della sinistra e dei democratici"
CIVATI FA LE SUE CONSULTAZIONI PIANO PER UN GRUPPO AL SENATO (Salvatore Cannavò)
08/05/2015 di triskel182
DA LANDINI A CAMUSSO, FINO AGLI EX M5S. E SUL BLOG PARTONO LE ISCRIZIONI.
Il giorno dopo, Pippo Civati ha compreso che sta per giocarsi la partita della vita. L’addio al Pd è ormai un fatto acquisito anche se in quel partito c’è chi gli chiede di ripensarci e, soprattutto, c’è tra i suoi sostenitori chi non lo segue, come Corradino Mineo. CIVATI PERÒ HA VARCATO il suo piccolo Rubicone e quindi ormai studia da leader. Il primo atto è stato quello di rivedere il proprio blog, molto seguito e che da ieri vede campeggiare la sua faccia telegenica con una scheda per registrare la propria adesione. Al tempo della politica 2.0, le iscrizioni a un partito che ancora non c’è si fanno anche così. Il neo-leader, però, ha fatto anche altro contattando e vedendo possibili alleati e sostenitori.
Nei giorni scorsi è andato in Fiom a prendere un caffè con Maurizio Landini che ha registrato un suo diverso atteggiamento nei confronti della “coalizione sociale”. Civati all’inizio l’aveva bollata come una proposta confusa mentre ora punta a un rapporto diretto con Landini anche se quest’ultimo è molto restio a farsi trascinare nel solito “tormentone” politico. Civati, comunque, ha chiesto un incontro anche a Susanna Camusso, a Paolo Ferrero di Rifondazione comunista e ieri si è recato al Senato per incontrare i senatori ex M5S con i quali dovrebbe formare un nuovo gruppo a Palazzo Madama. L’operazione si realizzerà la prossima settimana e vedrà riuniti i sette senatori di Sel più altri fuoriusciti vari. Un pacchetto di mischia che avrebbe una certa influenza in quel campo minato rappresentato dalla Camera alta. IL RAPPORTO CON SEL , in ogni caso, è al momento quello decisivo perché il partito di Nichi Vendola si è buttato a corpo morto sull’ex dirigente democratico atteso da mesi nel suo passo decisivo. Vendola e i suoi sono disponibili a sciogliersi per far nascere una cosa nuova, “finalmente fuori dalla vecchia logica pattizia”, come spiega il responsabile organizzazione, Massimiliano Smeriglio. L’ipotesi è di far nascere una “cosa nuova” dotata di proprie regole democratiche, magari di primarie e quindi in grado di competere sul serio nell’agone politico. Insomma, non un partitino del 5-6%. L’attivismo di Sel, però, potrebbe non essere piaciuto molto a Civati: troppo stretto e repentino l’abbraccio, troppo datata la proposta, avanzata da quest’ultimo, di una leadership della nuova sinistra affidata a Giuliano Pisapia. Il nome del sindaco di Milano, in realtà, è stato avanzato nei giorni scorsi dal fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari anche se nelle varie anime della sinistra in gestazione nessuno scommette sulla sua figura. “Serve una nuova generazione” sottolinea Smeriglio che oltre a Civati comprenda tanti validi dirigenti della stessa Sel, come il coordinatore Nicola Fratoianni o il sindaco di Cagliari, Massimo Zedda. Per i nomi è ancora presto, però. Prima, bisogna realizzare la “nuova cosa”. Tutto si metterà in moto dopo le elezioni regionali incaricate di offrire elementi nuovi di analisi. Civati, ad esempio, si attende molto dal risultato ligure dove il “suo” candidato, Luca Pastori-no è dato dai sondaggi al 20%. Non vincerà ma quella cifra aiuterebbe a misurare le ambizioni sue e dei suoi compagni di viaggio. Il già candidato alle primarie Pd contro Renzi, spera anche in altri arrivi dal Pd, ad esempio quello di Stefano Fassina o di Alfredo D’Attorre che al momento non si muovono ma che, dopo le Regionali, potrebbero farlo. C’è poi il ruolo di Sergio Cofferati che si è sentito ieri meno solo nella sua decisione, presa mesi fa, di abbandonare il Pd e che da parlamentare europeo gioca un ruolo non marginale. LA PARTITA È SOLO all’inizio. I renziani si dicono convinti che Civati non porterà via chissà quale porzione di elettorato rivolgendosi, di fatto, solo a chi ha già abbandonato il Pd. Scorrendo i commenti sui social network e in calce al suo blog, sembrerebbe proprio così. A sinistra, però, si intravvedono le prime serie difficoltà del governo che ha trovato un ostacolo imprevisto nella riforma della scuola e che non incrocia nessuna ripresa economica. Le cose possono cambiare, è la speranza. Chi guarda da lontano, ma con occhio interessato, è anche il M5S che marca stretto le mosse di Civati. Ieri è stato Beppe Grillo a lanciare l’ultima offesa: “Sono mezze calze”.
Da Il Fatto Quotidiano del 08/05/2015.
08/05/2015 di triskel182
DA LANDINI A CAMUSSO, FINO AGLI EX M5S. E SUL BLOG PARTONO LE ISCRIZIONI.
Il giorno dopo, Pippo Civati ha compreso che sta per giocarsi la partita della vita. L’addio al Pd è ormai un fatto acquisito anche se in quel partito c’è chi gli chiede di ripensarci e, soprattutto, c’è tra i suoi sostenitori chi non lo segue, come Corradino Mineo. CIVATI PERÒ HA VARCATO il suo piccolo Rubicone e quindi ormai studia da leader. Il primo atto è stato quello di rivedere il proprio blog, molto seguito e che da ieri vede campeggiare la sua faccia telegenica con una scheda per registrare la propria adesione. Al tempo della politica 2.0, le iscrizioni a un partito che ancora non c’è si fanno anche così. Il neo-leader, però, ha fatto anche altro contattando e vedendo possibili alleati e sostenitori.
Nei giorni scorsi è andato in Fiom a prendere un caffè con Maurizio Landini che ha registrato un suo diverso atteggiamento nei confronti della “coalizione sociale”. Civati all’inizio l’aveva bollata come una proposta confusa mentre ora punta a un rapporto diretto con Landini anche se quest’ultimo è molto restio a farsi trascinare nel solito “tormentone” politico. Civati, comunque, ha chiesto un incontro anche a Susanna Camusso, a Paolo Ferrero di Rifondazione comunista e ieri si è recato al Senato per incontrare i senatori ex M5S con i quali dovrebbe formare un nuovo gruppo a Palazzo Madama. L’operazione si realizzerà la prossima settimana e vedrà riuniti i sette senatori di Sel più altri fuoriusciti vari. Un pacchetto di mischia che avrebbe una certa influenza in quel campo minato rappresentato dalla Camera alta. IL RAPPORTO CON SEL , in ogni caso, è al momento quello decisivo perché il partito di Nichi Vendola si è buttato a corpo morto sull’ex dirigente democratico atteso da mesi nel suo passo decisivo. Vendola e i suoi sono disponibili a sciogliersi per far nascere una cosa nuova, “finalmente fuori dalla vecchia logica pattizia”, come spiega il responsabile organizzazione, Massimiliano Smeriglio. L’ipotesi è di far nascere una “cosa nuova” dotata di proprie regole democratiche, magari di primarie e quindi in grado di competere sul serio nell’agone politico. Insomma, non un partitino del 5-6%. L’attivismo di Sel, però, potrebbe non essere piaciuto molto a Civati: troppo stretto e repentino l’abbraccio, troppo datata la proposta, avanzata da quest’ultimo, di una leadership della nuova sinistra affidata a Giuliano Pisapia. Il nome del sindaco di Milano, in realtà, è stato avanzato nei giorni scorsi dal fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari anche se nelle varie anime della sinistra in gestazione nessuno scommette sulla sua figura. “Serve una nuova generazione” sottolinea Smeriglio che oltre a Civati comprenda tanti validi dirigenti della stessa Sel, come il coordinatore Nicola Fratoianni o il sindaco di Cagliari, Massimo Zedda. Per i nomi è ancora presto, però. Prima, bisogna realizzare la “nuova cosa”. Tutto si metterà in moto dopo le elezioni regionali incaricate di offrire elementi nuovi di analisi. Civati, ad esempio, si attende molto dal risultato ligure dove il “suo” candidato, Luca Pastori-no è dato dai sondaggi al 20%. Non vincerà ma quella cifra aiuterebbe a misurare le ambizioni sue e dei suoi compagni di viaggio. Il già candidato alle primarie Pd contro Renzi, spera anche in altri arrivi dal Pd, ad esempio quello di Stefano Fassina o di Alfredo D’Attorre che al momento non si muovono ma che, dopo le Regionali, potrebbero farlo. C’è poi il ruolo di Sergio Cofferati che si è sentito ieri meno solo nella sua decisione, presa mesi fa, di abbandonare il Pd e che da parlamentare europeo gioca un ruolo non marginale. LA PARTITA È SOLO all’inizio. I renziani si dicono convinti che Civati non porterà via chissà quale porzione di elettorato rivolgendosi, di fatto, solo a chi ha già abbandonato il Pd. Scorrendo i commenti sui social network e in calce al suo blog, sembrerebbe proprio così. A sinistra, però, si intravvedono le prime serie difficoltà del governo che ha trovato un ostacolo imprevisto nella riforma della scuola e che non incrocia nessuna ripresa economica. Le cose possono cambiare, è la speranza. Chi guarda da lontano, ma con occhio interessato, è anche il M5S che marca stretto le mosse di Civati. Ieri è stato Beppe Grillo a lanciare l’ultima offesa: “Sono mezze calze”.
Da Il Fatto Quotidiano del 08/05/2015.
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Re: "Casa comune della sinistra e dei democratici"
La sinistra è anche cultura non solo poltrone, fondazioni e minchiate varie.
Sedici anni fa qualcuno ci aveva avvisato che si stava preparando un grande esodo di massa dall’Africa. Ma valli a capire come sono fatti gli uomini, se non ti prendi una tranvata in faccia non ti accorgi di avere di fronte un tram. Dalla cultura cristiana prendiamo a prestito il detto relativo a San Tommaso che non crede se non ci mette il naso.
Ma noi(inteso come classe dirigente), ce ne siamo sbattuti altamente. Oggi, i pirletti, sono arrivati all’Onu,…..con scarsi risultati, e si affannano in soluzioni ridicole che non fermeranno l’invasione.
Al nostro interno il problema lo abbiamo affidato ad Alfano, quel genio assoluto che tutta la galassia ci invidia.
Da tempo, nella più grande indifferenza, sta avanzando il problema dell’automazione.
L’automazione toglie posti di lavoro. In una fase storica che di lavoro non ce n’è perché mancano i consumi.
Mancano i consumi perché una classe dirigente criminale ha deciso di mettere a pani e pesci le classi inferiori.
Oltre al fatto che per garantire i fondi delle rapine di Stato, chi lavora, come risulta da un’aggiornamento della statistica alla scorsa settimana, fino al 14 di agosto lo fa per lo Stato.
Io ricordo il dato precedente in cui si lavorava fino a giugno.
In Cina, nel più grosso serbatoio di mano d’opera a basso costo, nasce a Dongguan la prima fabbrica senza operai: “Sostituiti da 1.000 robot”
Cosa facciamo????????????????????
Mettiamo la testa sotto la sabbia come sedici anni fa con l’esodo Africano??????????
Ci sono solo due soluzioni per questo caso
1) Si trova il modo di una società diversa da quella attuale in cui l’evoluzione tecnologica convive con l’uomo
2) Oppure si adotta il vecchio metodo di sempre. Si stermina metà della popolazione del pianeta in attesa di ripartire e verificare se la macellazione di metà della popolazione è sufficiente a convivere con i robot. Altrimenti si riparte con una nuova guerra una nuova macellazione. E avanti così fino a quando non si trova la condizione ottimale.
Io sono vecchio, ma mi ruga a dover morire macellato in questo modo. Visto poi che la salute regge, e che da un anno grazie a un epaprotettore (Termine applicato alle sostanze con effetti terapeutici nei confronti del fegato), trovo un grande giovamento per tutto il corpo (fornisce una grande tranquillità), sarebbe assurdo fare la fine del topo.
A preoccuparsene di più dovrebbero essere gli amici più giovani del forum, come soloo42001 o shiloh
Poi immagino che abbiate tutti dei figli o anche nipoti come nel mio caso. Bisogna pensare anche a loro.
Attendo risposte.
Continua
Sedici anni fa qualcuno ci aveva avvisato che si stava preparando un grande esodo di massa dall’Africa. Ma valli a capire come sono fatti gli uomini, se non ti prendi una tranvata in faccia non ti accorgi di avere di fronte un tram. Dalla cultura cristiana prendiamo a prestito il detto relativo a San Tommaso che non crede se non ci mette il naso.
Ma noi(inteso come classe dirigente), ce ne siamo sbattuti altamente. Oggi, i pirletti, sono arrivati all’Onu,…..con scarsi risultati, e si affannano in soluzioni ridicole che non fermeranno l’invasione.
Al nostro interno il problema lo abbiamo affidato ad Alfano, quel genio assoluto che tutta la galassia ci invidia.
Da tempo, nella più grande indifferenza, sta avanzando il problema dell’automazione.
L’automazione toglie posti di lavoro. In una fase storica che di lavoro non ce n’è perché mancano i consumi.
Mancano i consumi perché una classe dirigente criminale ha deciso di mettere a pani e pesci le classi inferiori.
Oltre al fatto che per garantire i fondi delle rapine di Stato, chi lavora, come risulta da un’aggiornamento della statistica alla scorsa settimana, fino al 14 di agosto lo fa per lo Stato.
Io ricordo il dato precedente in cui si lavorava fino a giugno.
In Cina, nel più grosso serbatoio di mano d’opera a basso costo, nasce a Dongguan la prima fabbrica senza operai: “Sostituiti da 1.000 robot”
Cosa facciamo????????????????????
Mettiamo la testa sotto la sabbia come sedici anni fa con l’esodo Africano??????????
Ci sono solo due soluzioni per questo caso
1) Si trova il modo di una società diversa da quella attuale in cui l’evoluzione tecnologica convive con l’uomo
2) Oppure si adotta il vecchio metodo di sempre. Si stermina metà della popolazione del pianeta in attesa di ripartire e verificare se la macellazione di metà della popolazione è sufficiente a convivere con i robot. Altrimenti si riparte con una nuova guerra una nuova macellazione. E avanti così fino a quando non si trova la condizione ottimale.
Io sono vecchio, ma mi ruga a dover morire macellato in questo modo. Visto poi che la salute regge, e che da un anno grazie a un epaprotettore (Termine applicato alle sostanze con effetti terapeutici nei confronti del fegato), trovo un grande giovamento per tutto il corpo (fornisce una grande tranquillità), sarebbe assurdo fare la fine del topo.
A preoccuparsene di più dovrebbero essere gli amici più giovani del forum, come soloo42001 o shiloh
Poi immagino che abbiate tutti dei figli o anche nipoti come nel mio caso. Bisogna pensare anche a loro.
Attendo risposte.
Continua
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Re: "Casa comune della sinistra e dei democratici"
continua dal post precedente
Cina, nasce a Dongguan la prima fabbrica senza operai: “Sostituiti da 1.000 robot”
Il piano della Shenzhen Evenwin Precision Technology Co, un’azienda privata che fabbrica componenti per telefoni cellulari, è quello di ridurre del 90% l'attuale forza lavoro (1.800 persone) sostituendola con un migliaio di robot. Nella regione del Guandong il governo ha annunciato un piano di investimenti di 135,5 miliardi di euro nei prossimi tre anni per sostituire sulle linee di assemblaggio gli automi agli umani. Ma Pechino è ancora in ritardo rispetto a Giappone, Germania e Usa
di China Files per il Fatto | 6 maggio 2015
A Dongguan – l’ex “fabbrica del mondo” – al via il primo stabilimento che sostituirà completamente il lavoro manuale con gli automi. Il piano della Shenzhen Evenwin Precision Technology Co, un’azienda privata che fabbrica componenti per telefoni cellulari, è quello di ridurre del 90% l’attuale forza lavoro sostituendola con un migliaio di robot. Chen Xingqi, presidente dell’azienda, ha previsto che dopo questa prima fase sarà sufficiente il lavoro di appena duecento persone contro le attuali 1800. E che la capacità di produzione annuale dell’azienda si assesterà attorno ai 280 milioni di euro. Quello che non ha ancora reso pubblico è a quanto ammonta l’investimento fatto per la riconversione degli stabilimenti.
Secondo i dati ufficiali, da settembre scorso la metropoli di 6,5 milioni di abitanti avrebbe già avviato l’automazione di 500 fabbriche rendendo superflui 30mila lavoratori. E questi numeri verranno triplicati entro il 2016. Dongguan è nella regione sudorientale del Guandong, da sempre la più sviluppata nell’ambito del settore manifatturiero. Qui il governo ha annunciato un piano di investimenti di 135,5 miliardi di euro nei prossimi tre anni per sostituire sulle linee di assemblaggio i robot agli operai. Le singole aziende potranno ricevere sussidi per avviare il processo di automazione nei loro stabilimenti. Si tratta di cifre che oscillano tra i 20 e i 70 milioni di euro. Guangzhou, il capoluogo della regione con oltre 14 milioni di abitanti, ha annunciato che l’80% della manodopera verrà sostituita da macchine entro il 2020.
Pubblicità
Si tratta di una svolta storica nell’economia e nella società della Repubblica popolare. Nell’ultimo decennio gli stipendi della classe operaia sono aumentati in media del 10% ogni anno. E il costo dei robot è stato inversamente proporzionale: nello stesso periodo è diminuito del 5% ogni anno. Siamo inoltre di fronte a una fase cruciale che gli economisti chiamano “il punto di svolta di Lewis”, ovvero il momento in cui in una società la percentuale di popolazione in età da lavoro lavoro comincia a calare, gli stipendi salgono più rapidamente della produttività e diminuisce il flusso di migranti che dalle campagne si sposta in città.
Secondo un recente rapporto dell’Ufficio nazionale di statistica, la forza lavoro è più vecchia, istruita e costosa di quella degli anni precedenti. L’età media ha superato i 38 anni, e il salario mensile è arrivato a più di 400 euro. E il 24% ha un diploma di scuola superiore o addirittura una laurea. Contemporaneamente i piccoli e medi imprenditori soffrono la crisi e investono sempre più nel lavoro meccanizzato. Foxconn – la più grande multinazionale di assemblaggio di componenti elettronici, balzata tristemente alle cronache negli ultimi anni per una serie di suicidi tra i suoi dipendenti – aveva annunciato il suo piano di automazione già nel 2012. Oggi, secondo un sondaggio interno, più del 30% dei suoi operai teme di essere sostituito dalle macchine.
Intendiamoci. La Cina è ancora in ritardo rispetto a Giappone, Germania e Stati Uniti. La percentuale attuale è quella di 30 robot ogni 10mila operai. Inoltre quattro automi su cinque sono prodotti e commissionati dalle multinazionali straniere che operano in Cina. Ma il settore dell’automazione è stato ritenuto fondamentale nello scorso piano quinquennale e si calcola che già nel 2017 il numero totale dei robot operativi nelle fabbriche cinesi raddoppierà e supererà quello del resto del mondo. Si passerà dalle 200mila unità attuali alle 400mila. Nel frattempo il governo ha elargito incentivi per la riconversione del lavoro e ha sponsorizzato la creazione di aziende nazionali che possano supplire la domanda interna di automi.
È sicuramente una soluzione vincente per ovviare alla carenza di forza lavoro. Ma il suo funzionamento è legato alla riuscita di un passaggio storico di ogni civiltà: contemporaneamente dovranno crescere terziario e consumatori. E non è detto che il sistema regga con una crescita economica in calo che, secondo la stessa leadership, per quest’anno sarà pari o inferiore al 7%. È il ritmo di crescita più lento dal 1990, cioè da quando la Cina ha subito sanzioni internazionali a seguito del massacro di piazza Tian’anmen.
di Cecilia Attanasio Ghezzi
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/05 ... t/1656031/
Cina, nasce a Dongguan la prima fabbrica senza operai: “Sostituiti da 1.000 robot”
Il piano della Shenzhen Evenwin Precision Technology Co, un’azienda privata che fabbrica componenti per telefoni cellulari, è quello di ridurre del 90% l'attuale forza lavoro (1.800 persone) sostituendola con un migliaio di robot. Nella regione del Guandong il governo ha annunciato un piano di investimenti di 135,5 miliardi di euro nei prossimi tre anni per sostituire sulle linee di assemblaggio gli automi agli umani. Ma Pechino è ancora in ritardo rispetto a Giappone, Germania e Usa
di China Files per il Fatto | 6 maggio 2015
A Dongguan – l’ex “fabbrica del mondo” – al via il primo stabilimento che sostituirà completamente il lavoro manuale con gli automi. Il piano della Shenzhen Evenwin Precision Technology Co, un’azienda privata che fabbrica componenti per telefoni cellulari, è quello di ridurre del 90% l’attuale forza lavoro sostituendola con un migliaio di robot. Chen Xingqi, presidente dell’azienda, ha previsto che dopo questa prima fase sarà sufficiente il lavoro di appena duecento persone contro le attuali 1800. E che la capacità di produzione annuale dell’azienda si assesterà attorno ai 280 milioni di euro. Quello che non ha ancora reso pubblico è a quanto ammonta l’investimento fatto per la riconversione degli stabilimenti.
Secondo i dati ufficiali, da settembre scorso la metropoli di 6,5 milioni di abitanti avrebbe già avviato l’automazione di 500 fabbriche rendendo superflui 30mila lavoratori. E questi numeri verranno triplicati entro il 2016. Dongguan è nella regione sudorientale del Guandong, da sempre la più sviluppata nell’ambito del settore manifatturiero. Qui il governo ha annunciato un piano di investimenti di 135,5 miliardi di euro nei prossimi tre anni per sostituire sulle linee di assemblaggio i robot agli operai. Le singole aziende potranno ricevere sussidi per avviare il processo di automazione nei loro stabilimenti. Si tratta di cifre che oscillano tra i 20 e i 70 milioni di euro. Guangzhou, il capoluogo della regione con oltre 14 milioni di abitanti, ha annunciato che l’80% della manodopera verrà sostituita da macchine entro il 2020.
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Si tratta di una svolta storica nell’economia e nella società della Repubblica popolare. Nell’ultimo decennio gli stipendi della classe operaia sono aumentati in media del 10% ogni anno. E il costo dei robot è stato inversamente proporzionale: nello stesso periodo è diminuito del 5% ogni anno. Siamo inoltre di fronte a una fase cruciale che gli economisti chiamano “il punto di svolta di Lewis”, ovvero il momento in cui in una società la percentuale di popolazione in età da lavoro lavoro comincia a calare, gli stipendi salgono più rapidamente della produttività e diminuisce il flusso di migranti che dalle campagne si sposta in città.
Secondo un recente rapporto dell’Ufficio nazionale di statistica, la forza lavoro è più vecchia, istruita e costosa di quella degli anni precedenti. L’età media ha superato i 38 anni, e il salario mensile è arrivato a più di 400 euro. E il 24% ha un diploma di scuola superiore o addirittura una laurea. Contemporaneamente i piccoli e medi imprenditori soffrono la crisi e investono sempre più nel lavoro meccanizzato. Foxconn – la più grande multinazionale di assemblaggio di componenti elettronici, balzata tristemente alle cronache negli ultimi anni per una serie di suicidi tra i suoi dipendenti – aveva annunciato il suo piano di automazione già nel 2012. Oggi, secondo un sondaggio interno, più del 30% dei suoi operai teme di essere sostituito dalle macchine.
Intendiamoci. La Cina è ancora in ritardo rispetto a Giappone, Germania e Stati Uniti. La percentuale attuale è quella di 30 robot ogni 10mila operai. Inoltre quattro automi su cinque sono prodotti e commissionati dalle multinazionali straniere che operano in Cina. Ma il settore dell’automazione è stato ritenuto fondamentale nello scorso piano quinquennale e si calcola che già nel 2017 il numero totale dei robot operativi nelle fabbriche cinesi raddoppierà e supererà quello del resto del mondo. Si passerà dalle 200mila unità attuali alle 400mila. Nel frattempo il governo ha elargito incentivi per la riconversione del lavoro e ha sponsorizzato la creazione di aziende nazionali che possano supplire la domanda interna di automi.
È sicuramente una soluzione vincente per ovviare alla carenza di forza lavoro. Ma il suo funzionamento è legato alla riuscita di un passaggio storico di ogni civiltà: contemporaneamente dovranno crescere terziario e consumatori. E non è detto che il sistema regga con una crescita economica in calo che, secondo la stessa leadership, per quest’anno sarà pari o inferiore al 7%. È il ritmo di crescita più lento dal 1990, cioè da quando la Cina ha subito sanzioni internazionali a seguito del massacro di piazza Tian’anmen.
di Cecilia Attanasio Ghezzi
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/05 ... t/1656031/
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Re: "Casa comune della sinistra e dei democratici"
Le tue son domande terribili, Zione a cui e' difficile dare una risposta se non ci scrolliamo di dosso questo sistema sociale che accomuna un po tutti i partiti nelle stessa filosofia politica entro la quale si differenziano solo fra chi offende di meno o fra chi dice piu' o meno stronzata.camillobenso ha scritto:La sinistra è anche cultura non solo poltrone, fondazioni e minchiate varie.
Sedici anni fa qualcuno ci aveva avvisato che si stava preparando un grande esodo di massa dall’Africa. Ma valli a capire come sono fatti gli uomini, se non ti prendi una tranvata in faccia non ti accorgi di avere di fronte un tram. Dalla cultura cristiana prendiamo a prestito il detto relativo a San Tommaso che non crede se non ci mette il naso.
Ma noi(inteso come classe dirigente), ce ne siamo sbattuti altamente. Oggi, i pirletti, sono arrivati all’Onu,…..con scarsi risultati, e si affannano in soluzioni ridicole che non fermeranno l’invasione.
Al nostro interno il problema lo abbiamo affidato ad Alfano, quel genio assoluto che tutta la galassia ci invidia.
Da tempo, nella più grande indifferenza, sta avanzando il problema dell’automazione.
L’automazione toglie posti di lavoro. In una fase storica che di lavoro non ce n’è perché mancano i consumi.
Mancano i consumi perché una classe dirigente criminale ha deciso di mettere a pani e pesci le classi inferiori.
Oltre al fatto che per garantire i fondi delle rapine di Stato, chi lavora, come risulta da un’aggiornamento della statistica alla scorsa settimana, fino al 14 di agosto lo fa per lo Stato.
Io ricordo il dato precedente in cui si lavorava fino a giugno.
In Cina, nel più grosso serbatoio di mano d’opera a basso costo, nasce a Dongguan la prima fabbrica senza operai: “Sostituiti da 1.000 robot”
Cosa facciamo????????????????????
Mettiamo la testa sotto la sabbia come sedici anni fa con l’esodo Africano??????????
Ci sono solo due soluzioni per questo caso
1) Si trova il modo di una società diversa da quella attuale in cui l’evoluzione tecnologica convive con l’uomo
2) Oppure si adotta il vecchio metodo di sempre. Si stermina metà della popolazione del pianeta in attesa di ripartire e verificare se la macellazione di metà della popolazione è sufficiente a convivere con i robot. Altrimenti si riparte con una nuova guerra una nuova macellazione. E avanti così fino a quando non si trova la condizione ottimale.
Io sono vecchio, ma mi ruga a dover morire macellato in questo modo. Visto poi che la salute regge, e che da un anno grazie a un epaprotettore (Termine applicato alle sostanze con effetti terapeutici nei confronti del fegato), trovo un grande giovamento per tutto il corpo (fornisce una grande tranquillità), sarebbe assurdo fare la fine del topo.
A preoccuparsene di più dovrebbero essere gli amici più giovani del forum, come soloo42001 o shiloh
Poi immagino che abbiate tutti dei figli o anche nipoti come nel mio caso. Bisogna pensare anche a loro.
Attendo risposte.
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Destra e pseudo sinistra pensano allo stesse future societa' e quindi e' difficile dare delle soluzioni che vadano al di fuori di questi limiti.
Ed e' proprio qui che la sinistra e' debole e non e' in grado di dare alternative a queste politiche ultra liberiste che per loro natura portano inevitabilmente a questi drammi nei prossimi decenni
Ne abbiamo parlato anche in un altro 3D http://forumisti.mondoforum.com/viewtop ... 834#p30834 che poi e' andato a finir male probabilmente proprio per non avere risposte chiare e fattibili
Si definiamo troppo spesso di sinistra ma probabilmente o non abbiamo capito un .azzo o con molta probabilita' abbiamo paura dei cambiamenti e tutto sommato si vivacchia in questo sistema.
Spesso ci facciamo guidare da coloro che a parole vorrebbero fare la "rivoluzione" ma che poi tutto sommato preferiscono questo sistema.
Ci facciamo troppo spesso infinocchiare perche' affidiamo ad altri la guida dei cambiamenti. lo si e' visto dove la deriva degli ex PCI ci ha portati.
Abbiamo bisogno continuamente del condottiero e questo lo si vede anche attualmente quando si personalizza un partito col nome di un leader. Destra e pseudo sinistra adottano lo stesso metodo poiche sono nella stessa lunghezza d'onda ed essendo nella stessa lunghezza d'onda non possono ragionare diversamente e quindi non i metodi per arrivarci ma gli obiettivi snon possono essere diversi.
Non ne verremmo mai fuori da queste situazione se anche noi non abbiamo chiaro dove vogliamo andare e come dobbiamo porci in politica.
Se deve nascere un nuovo partito questo deve essere molto chiaro sugli obiettivi che dovra porsi ma sopratutto che societa' futura ha in mente.
Dovra' aver il coraggio di osare in tutto e per tutto anche sapendo che si dovra' camminare in un campo minato in cui ti troverai tutti contro poiche quando si trattera' di difendere un sistema troveranno immediatamente l'unita'.
E' questo potra' essere parcepito dalla masse operaio/salariate ?
Su questo ho un gran dubbio pero' ritengo che valga sempre la pena di osare poiche la sinistra per sua definizione lo deve sempre fare comunque.
Dovra' verificare se possa esistere anche una piccola possibilita di far aggregare questo popolo ora allo sbaraglio. E non sono pochi.
E poi, non basterebbe solo questo poiche diventerebbe quasi inutile se in questo mondo globalizzato non si riuscira' a trovare accordi fra tutte le anime che contestano queste societa' sia in europa che oltre.
Sara' questo il grosso problema che si presentera' qualora si trovasse il bandolo della matasa per iniziare poiche senza questo tutto sicuramente diventerebbe inutile.
Se si riuscira' a trovare un tred-union fra tutte queste forze potremmo anche far tremare i polsi a parecchi altrimenti, mettiamocela via e.... vaffa.....o tutti.
un salutone
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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Re: "Casa comune della sinistra e dei democratici"
Pippo Civati, addio al Pd: ora pensa a un partito tutto suo
Andrea Carugati, L'Huffington Post
Un “partito di Civati”. E’ questo l’obiettivo dello sfidante di Renzi alle ultime primarie, che ha deciso dopo lunga meditazione di lasciare il Pd. Nessun nuovo gruppo parlamentare alle viste, e neppure un matrimonio con Sel, che subito gli ha spalancato le porte per “costruire insieme qualcosa di nuovo”. Per non smentire la sua fama di solista, anche nel prossimo futuro Civati intende ballare da solo. E mettere le fondamenta di un nuovo partito, che non intende assolutamente collocare nella sinistra radicale, o farne uno dei perni di un nuovo rassemblement gauchista tipo “Sinistra arcobaleno”.
No, Civati, spiega chi gli ha parlato negli ultimi giorni, intende costruire una forza che ha come ispirazione l’Ulivo di Prodi, una forza “di centrosinistra, che parla con tutta la sinistra ma non è né identitaria né radicale”. Di estrema sinistra, in effetti, Civati non lo è stato mai. Prova ne sia che le idee liberal del suo ex responsabile economico sono state rapidamente scippate da Renzi. Un partito, dunque, con la grandissima ambizione di costruire un Pd alternativo, un Pd “come avrebbe dovuto essere”. Non a caso, nel giorno dello strappo, Civati posta sul suo blog un lungo post in cui parla di Nikola Tesla, pioniere dell’elettricità. Un post in cui parla di tradizione e cambiamento, delle “persone con cui pensavamo di aver condiviso una visione e che all’improvviso hanno cambiato idea”. Questi ex compagni del Pd, spiega, “hanno promosso e approvato cementificazioni e trivellazioni, e ce li siamo trovati in tivù a deridere le ragioni di chi difende l'ambiente o crede che il futuro passi attraverso soluzioni differenti”. Civati intende procedere su questa strada, “con tutti quelli che lo vorranno, che sono tantissimi”.
Per ora raggiungerà il suo braccio destro Luca Pastorino nel gruppo Misto della Camera. E darà una mano proprio a Pastorino, candidato in Liguria contro la renziana Raffaella Paita, in una delle sfide simbolo della guerra tra i due Pd, quello di Renzi, che i civatiani considerano “geneticamente modificato” e irrecuperabile, e quello di Civati, sostenuto in Liguria anche da un vecchio leone come Sergio Cofferati, che ha lasciato il Pd più di tre mesi fa, bruciando i tempi.
Di nuovi gruppi parlamentari, per ora, non se ne vedono. Alla Camera Civati non ha i numeri, né intende raccogliere l’invito dei cugini di Sel per “costruire insieme una nuova casa comune”. In Senato, per ora sembra congelata l’ipotesi di un nuovo gruppo con i 3-4 civatiani, Sel e alcuni ex grillini guidati da Francesco Campanella. In questi giorni, i senatori civatiani Mineo, Tocci e Ricchiuti si stanno riunendo in Senato con gli altri della minoranza (in totale sono 22), per dare battaglia insieme su temi chiave come la scuola, la Rai e la riforma costituzionale, che saranno votate dall’Aula prima dell’estate. “Senza questi senatori il governo Renzi non ha la maggioranza, la nostra sarà una battaglia politica vera, non solo di emendamenti”, spiega ad Huffpost Corradino Mineo.”Uscire dal Pd? Non lo farò, non combattere questa battaglia significherebbe disertare”. L’agenda di questi gruppo dei 22, a sentire Mineo, è molto hard. “Su scuola, Rai e Costituzione vogliamo che i testi cambino radicalmente, non bastano delle correzioni”. Sullo sfondo, se Renzi non scenderà a più miti consigli, o se dovesse allargare la sua maggioranza a destra, c’è l’ipotesi di un nuovo gruppo parlamentare. “Se il premier non ci ascolterà, valuteremo”, dice Mineo. “Le assicuro che io e Tocci non siamo certo trai più radicali del gruppo. La vicenda dell’Italicum ha cambiato i rapporti dentro il Pd, che ormai è geneticamente modificato”. Il bersaniano Federico Fornaro è più prudente: “Da noi non ci saranno mai minacce, solo contributi per incidere sui grandi temi in agenda. A partire dalla scuola e dalla riforma costituzionale”.
In Senato dunque la minoranza, dai bersaniani fino ai civatiani, sembra pronta a fare squadra. La “brigata Gotor”, l’ha già ribattezzata qualcuno, citando il nome del senatore più vicino a Pier Luigi Bersani. E se arrivasse il soccorso di Verdini? “A quel punto cambierebbero pelle la maggioranza e anche il Pd, e ognuno di noi si assumerebbe le proprie responsabilità”, spiega Fornaro. “Dopo essersi guardato allo specchio”.
La galassia della sinistra “No Renzi” per ora non sembra trovare un proprio punto di stabilità. Né un agenda comune. “Ma il futuro è la costruzione di una forza di sinistra larga, popolare e di governo”, assicura Arturo Scotto, capogruppo di Sel, con un lungo passato nei Ds, proprio come Civati. La collaborazione tra i vendoliani e Pippo, alla Camera, ormai è un’abitudine: emendamenti comuni sulle riforme, sul Jobs Act. “Proseguiremo in questa direzione”, assicura Scotto. Civati, per ora, si muove da solo. E sul suo sito interviene ancora una volta a metà pomeriggio per spiegare che “non ho più fiducia in questo governo, nelle sue scelte, nei modi che ha scelto, negli obiettivi che si è dato”. “Ormai il Pd è un partito nuovo e diverso, fondato sull’Italicum e sulla figura del suo segretario. Chi non è d'accordo, viene solo vissuto con fastidio”. “Non lascio il Pd per aderire a un progetto politico esistente, ma per avviare un percorso nella società italiana, alla ricerca di quel progetto di cui parlai un anno fa, che ho sempre avuto nel cuore. Nessuna polemica con chi nel Pd rimane, solo l'auspicio di ritrovarsi un giorno, a fare cose diverse da quelle che si stanno facendo ora”.
“Per prima cosa mi dedicherò al partito degli astensionisti, il partito più grande, che vincerebbe le elezioni direttamente al primo turno”, chiude Civati. “Perché questa non è solo una fine, è anche un inizio”.
Andrea Carugati, L'Huffington Post
Un “partito di Civati”. E’ questo l’obiettivo dello sfidante di Renzi alle ultime primarie, che ha deciso dopo lunga meditazione di lasciare il Pd. Nessun nuovo gruppo parlamentare alle viste, e neppure un matrimonio con Sel, che subito gli ha spalancato le porte per “costruire insieme qualcosa di nuovo”. Per non smentire la sua fama di solista, anche nel prossimo futuro Civati intende ballare da solo. E mettere le fondamenta di un nuovo partito, che non intende assolutamente collocare nella sinistra radicale, o farne uno dei perni di un nuovo rassemblement gauchista tipo “Sinistra arcobaleno”.
No, Civati, spiega chi gli ha parlato negli ultimi giorni, intende costruire una forza che ha come ispirazione l’Ulivo di Prodi, una forza “di centrosinistra, che parla con tutta la sinistra ma non è né identitaria né radicale”. Di estrema sinistra, in effetti, Civati non lo è stato mai. Prova ne sia che le idee liberal del suo ex responsabile economico sono state rapidamente scippate da Renzi. Un partito, dunque, con la grandissima ambizione di costruire un Pd alternativo, un Pd “come avrebbe dovuto essere”. Non a caso, nel giorno dello strappo, Civati posta sul suo blog un lungo post in cui parla di Nikola Tesla, pioniere dell’elettricità. Un post in cui parla di tradizione e cambiamento, delle “persone con cui pensavamo di aver condiviso una visione e che all’improvviso hanno cambiato idea”. Questi ex compagni del Pd, spiega, “hanno promosso e approvato cementificazioni e trivellazioni, e ce li siamo trovati in tivù a deridere le ragioni di chi difende l'ambiente o crede che il futuro passi attraverso soluzioni differenti”. Civati intende procedere su questa strada, “con tutti quelli che lo vorranno, che sono tantissimi”.
Per ora raggiungerà il suo braccio destro Luca Pastorino nel gruppo Misto della Camera. E darà una mano proprio a Pastorino, candidato in Liguria contro la renziana Raffaella Paita, in una delle sfide simbolo della guerra tra i due Pd, quello di Renzi, che i civatiani considerano “geneticamente modificato” e irrecuperabile, e quello di Civati, sostenuto in Liguria anche da un vecchio leone come Sergio Cofferati, che ha lasciato il Pd più di tre mesi fa, bruciando i tempi.
Di nuovi gruppi parlamentari, per ora, non se ne vedono. Alla Camera Civati non ha i numeri, né intende raccogliere l’invito dei cugini di Sel per “costruire insieme una nuova casa comune”. In Senato, per ora sembra congelata l’ipotesi di un nuovo gruppo con i 3-4 civatiani, Sel e alcuni ex grillini guidati da Francesco Campanella. In questi giorni, i senatori civatiani Mineo, Tocci e Ricchiuti si stanno riunendo in Senato con gli altri della minoranza (in totale sono 22), per dare battaglia insieme su temi chiave come la scuola, la Rai e la riforma costituzionale, che saranno votate dall’Aula prima dell’estate. “Senza questi senatori il governo Renzi non ha la maggioranza, la nostra sarà una battaglia politica vera, non solo di emendamenti”, spiega ad Huffpost Corradino Mineo.”Uscire dal Pd? Non lo farò, non combattere questa battaglia significherebbe disertare”. L’agenda di questi gruppo dei 22, a sentire Mineo, è molto hard. “Su scuola, Rai e Costituzione vogliamo che i testi cambino radicalmente, non bastano delle correzioni”. Sullo sfondo, se Renzi non scenderà a più miti consigli, o se dovesse allargare la sua maggioranza a destra, c’è l’ipotesi di un nuovo gruppo parlamentare. “Se il premier non ci ascolterà, valuteremo”, dice Mineo. “Le assicuro che io e Tocci non siamo certo trai più radicali del gruppo. La vicenda dell’Italicum ha cambiato i rapporti dentro il Pd, che ormai è geneticamente modificato”. Il bersaniano Federico Fornaro è più prudente: “Da noi non ci saranno mai minacce, solo contributi per incidere sui grandi temi in agenda. A partire dalla scuola e dalla riforma costituzionale”.
In Senato dunque la minoranza, dai bersaniani fino ai civatiani, sembra pronta a fare squadra. La “brigata Gotor”, l’ha già ribattezzata qualcuno, citando il nome del senatore più vicino a Pier Luigi Bersani. E se arrivasse il soccorso di Verdini? “A quel punto cambierebbero pelle la maggioranza e anche il Pd, e ognuno di noi si assumerebbe le proprie responsabilità”, spiega Fornaro. “Dopo essersi guardato allo specchio”.
La galassia della sinistra “No Renzi” per ora non sembra trovare un proprio punto di stabilità. Né un agenda comune. “Ma il futuro è la costruzione di una forza di sinistra larga, popolare e di governo”, assicura Arturo Scotto, capogruppo di Sel, con un lungo passato nei Ds, proprio come Civati. La collaborazione tra i vendoliani e Pippo, alla Camera, ormai è un’abitudine: emendamenti comuni sulle riforme, sul Jobs Act. “Proseguiremo in questa direzione”, assicura Scotto. Civati, per ora, si muove da solo. E sul suo sito interviene ancora una volta a metà pomeriggio per spiegare che “non ho più fiducia in questo governo, nelle sue scelte, nei modi che ha scelto, negli obiettivi che si è dato”. “Ormai il Pd è un partito nuovo e diverso, fondato sull’Italicum e sulla figura del suo segretario. Chi non è d'accordo, viene solo vissuto con fastidio”. “Non lascio il Pd per aderire a un progetto politico esistente, ma per avviare un percorso nella società italiana, alla ricerca di quel progetto di cui parlai un anno fa, che ho sempre avuto nel cuore. Nessuna polemica con chi nel Pd rimane, solo l'auspicio di ritrovarsi un giorno, a fare cose diverse da quelle che si stanno facendo ora”.
“Per prima cosa mi dedicherò al partito degli astensionisti, il partito più grande, che vincerebbe le elezioni direttamente al primo turno”, chiude Civati. “Perché questa non è solo una fine, è anche un inizio”.
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Re: "Casa comune della sinistra e dei democratici"
Sinistra: non c’è rosa senza Spine-lli
Politica
di Sergio Caserta | 14 maggio 2015 COMMENTI (39)
Consulente aziendale
Nel 1966, alla vigilia delle elezioni politiche, si respirava un’aria di attesa di grandi cambiamenti per il nostro paese.
Le sinistre avevano conquistato, l’anno precedente alle elezioni amministrative, le più importanti città d’Italia, Napoli, Roma, Milano e si auspicava di compiere un nuovo grande balzo per mandare finalmente la Dc all’opposizione.
C’era quasi il timore per un futuro pieno di incognite ed anche di promettenti speranze, lo slogan più riuscito della campagna elettorale era “insieme costruiremo un Paese dieci volte più bello”!
Non andò così, la Dc non perse anche se il Pci raggiunse la percentuale più alta della sua storia, il 34,4 % che rese la sinistra indispensabile per qualsiasi maggioranza parlamentare. Da lì in avanti cominciarono i problemi.
Con mia grande sorpresa e curiosità venni a sapere che Antonio Guarino, professore di Diritto costituzionale all’Università Federico II, con cui avevo svolto l’esame molto severo, si candidava come indipendente nelle liste del partito.
Insieme con lui altri illustri intellettuali, esponenti del mondo laico e di quello cattolico progressista, partecipavano in prima persona nelle liste del Pci che rappresentava in quel momento storico il partito più affidabile per realizzare in Italia i cambiamenti che si consideravano indispensabili.
Quello degli indipendenti fu un movimento politico di grandi dimensioni ed enorme importanza, alla base delle storiche vittorie dei referendum sul divorzio e sull’aborto che costituirono passaggi di straordinario avanzamento civile e culturale, di un Paese che sentiva il bisogno di superare l’integralismo ed il collateralismo cattolico della parte più retriva della Dc.
Anche il Pci cambiò fisionomia dopo quell’incontro così ricco di significati ed anche di diversità, certo non privo di conflitti e dialettica.
In quella fase il partito di cui ero militante attraversava forse la fase più esaltante della sua storia. Si combinavano positivamente i tratti di un partito comunista a forte impronta marxista, e permeato dalla tradizione leninista del partito di quadri ma già profondamente innovato dalle scelte togliattane che sul solco del pensiero gramsciano e di altri pensatori come Labriola, aveva perseguito e conseguito un’apertura alle democrazia e alle masse, nel segno della conquista dell’egemonia culturale nel paese.
Ai vertici c’era un gruppo dirigente molto forte e qualificato intorno al segretario Enrico Berlinguer, dotato di grande carisma ma certo non da solo come si pretende che siano i leader oggi.
Basta ricordare alcuni dei nomi della sua segreteria nel tempo: Ingrao, Tortorella, Paietta, Chiaromonte, Amendola, Iotti, Seroni, Napolitano, tutte personalità di grande valore e prestigio che certo non facevano mancare al segretario il peso delle loro opinioni (consiglio vivamente di leggere la biografia di Francesco Barbagallo, Enrico Berlinguer, Roma, Carocci, 2006).
In quel periodo si creò un “melting pot” di culture, c’erano gli epigoni del sessantotto con la loro spinta al radicale rifiuto dei principi della società borghese, soffiava ancora il vento della decolonizzazione in Africa, la vittoria del Viet Nam sugli Usa, la rivoluzione cubana, la formazione del movimento dei paesi non allineati, con al vertice la Jugoslavia di Tito che prometteva uno sviluppo del socialismo in una maggiore libertà, si può dire oggi utopie fallite?
Forse ma non è un caso se proprio in quegli anni la società italiana ha compiuto il suo progresso economico, sociale e civile più importante, poi è cominciato il regresso.
Riporto questi ricordi e suggestioni perché difronte alla notizia delle dimissioni di Barbara Spinelli dal movimento l’Altra Europa non si può non fare un parallelo con quella stagione che abbiamo vissuto e che è stata senz’altro più feconda.
Qualunque forze politica si ponga l’obiettivo di incidere nella realtà, per tutelare gli interessi che ritiene di rappresentare, la sinistra quello dei lavoratori e degli sfruttati, non può pensare di realizzarlo senza una politica consapevole e senza gli strumenti che la cultura e le competenze consentono.
Ora il paradosso è che Barbara Spinelli ispiratrice e animatrice, insieme ad altri, di un movimento che per la prima volta dopo anni, riunisce intellettuali e forze di diversa ispirazione, in un progetto che avrebbe potuto se ben diretto e organizzato portare ad una rapida crescita, anche sull’onda dei movimenti che in Europa con Syriza e Podemos pongono con successo all’ordine del giorno la necessità di superare le politiche liberiste, è portata ad abbandonare questo movimento perché non riesce più a trovare ragioni di condivisione del suo agire politico.
L’incapacità di confrontarsi sulle differenze reali, il tatticismo esasperato, la predeterminazione di soluzioni organizzative che inibiscono il confronto, il chiudersi in ambiti di gruppi che perseguono uno stucchevole unanimismo omogeneizzante, sempre alla ricerca della propria auto conferma, sono gli ingredienti di una minestra alquanto riscaldata e assai mediocre, sono la malattie delle “piccole sinistre” che purtroppo viviamo oggi.
Penso che un gruppo dirigente all’altezza come ho cercato di rappresentare, non sarebbe giunto a questo punto e non avrebbe consentito che le relazioni anche sul piano personale sprofondassero al livello attuale. La personalizzazione e l’immiserimento della politica hanno toccato il fondo e certo che da qui non si può partire per costruire niente di serio.
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Re: "Casa comune della sinistra e dei democratici"
Sinistra: non c’è rosa senza Spine-lli
Politica
di Sergio Caserta | 14 maggio 2015 COMMENTI (39)
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Nel 1966, alla vigilia delle elezioni politiche, si respirava un’aria di attesa di grandi cambiamenti per il nostro paese.
Le sinistre avevano conquistato, l’anno precedente alle elezioni amministrative, le più importanti città d’Italia, Napoli, Roma, Milano e si auspicava di compiere un nuovo grande balzo per mandare finalmente la Dc all’opposizione.
C’era quasi il timore per un futuro pieno di incognite ed anche di promettenti speranze, lo slogan più riuscito della campagna elettorale era “insieme costruiremo un Paese dieci volte più bello”!
Non andò così, la Dc non perse anche se il Pci raggiunse la percentuale più alta della sua storia, il 34,4 % che rese la sinistra indispensabile per qualsiasi maggioranza parlamentare. Da lì in avanti cominciarono i problemi.
Con mia grande sorpresa e curiosità venni a sapere che Antonio Guarino, professore di Diritto costituzionale all’Università Federico II, con cui avevo svolto l’esame molto severo, si candidava come indipendente nelle liste del partito.
Insieme con lui altri illustri intellettuali, esponenti del mondo laico e di quello cattolico progressista, partecipavano in prima persona nelle liste del Pci che rappresentava in quel momento storico il partito più affidabile per realizzare in Italia i cambiamenti che si consideravano indispensabili.
Quello degli indipendenti fu un movimento politico di grandi dimensioni ed enorme importanza, alla base delle storiche vittorie dei referendum sul divorzio e sull’aborto che costituirono passaggi di straordinario avanzamento civile e culturale, di un Paese che sentiva il bisogno di superare l’integralismo ed il collateralismo cattolico della parte più retriva della Dc.
Anche il Pci cambiò fisionomia dopo quell’incontro così ricco di significati ed anche di diversità, certo non privo di conflitti e dialettica.
In quella fase il partito di cui ero militante attraversava forse la fase più esaltante della sua storia. Si combinavano positivamente i tratti di un partito comunista a forte impronta marxista, e permeato dalla tradizione leninista del partito di quadri ma già profondamente innovato dalle scelte togliattane che sul solco del pensiero gramsciano e di altri pensatori come Labriola, aveva perseguito e conseguito un’apertura alle democrazia e alle masse, nel segno della conquista dell’egemonia culturale nel paese.
Ai vertici c’era un gruppo dirigente molto forte e qualificato intorno al segretario Enrico Berlinguer, dotato di grande carisma ma certo non da solo come si pretende che siano i leader oggi.
Basta ricordare alcuni dei nomi della sua segreteria nel tempo: Ingrao, Tortorella, Paietta, Chiaromonte, Amendola, Iotti, Seroni, Napolitano, tutte personalità di grande valore e prestigio che certo non facevano mancare al segretario il peso delle loro opinioni (consiglio vivamente di leggere la biografia di Francesco Barbagallo, Enrico Berlinguer, Roma, Carocci, 2006).
In quel periodo si creò un “melting pot” di culture, c’erano gli epigoni del sessantotto con la loro spinta al radicale rifiuto dei principi della società borghese, soffiava ancora il vento della decolonizzazione in Africa, la vittoria del Viet Nam sugli Usa, la rivoluzione cubana, la formazione del movimento dei paesi non allineati, con al vertice la Jugoslavia di Tito che prometteva uno sviluppo del socialismo in una maggiore libertà, si può dire oggi utopie fallite?
Forse ma non è un caso se proprio in quegli anni la società italiana ha compiuto il suo progresso economico, sociale e civile più importante, poi è cominciato il regresso.
Riporto questi ricordi e suggestioni perché difronte alla notizia delle dimissioni di Barbara Spinelli dal movimento l’Altra Europa non si può non fare un parallelo con quella stagione che abbiamo vissuto e che è stata senz’altro più feconda.
Qualunque forze politica si ponga l’obiettivo di incidere nella realtà, per tutelare gli interessi che ritiene di rappresentare, la sinistra quello dei lavoratori e degli sfruttati, non può pensare di realizzarlo senza una politica consapevole e senza gli strumenti che la cultura e le competenze consentono.
Ora il paradosso è che Barbara Spinelli ispiratrice e animatrice, insieme ad altri, di un movimento che per la prima volta dopo anni, riunisce intellettuali e forze di diversa ispirazione, in un progetto che avrebbe potuto se ben diretto e organizzato portare ad una rapida crescita, anche sull’onda dei movimenti che in Europa con Syriza e Podemos pongono con successo all’ordine del giorno la necessità di superare le politiche liberiste, è portata ad abbandonare questo movimento perché non riesce più a trovare ragioni di condivisione del suo agire politico.
L’incapacità di confrontarsi sulle differenze reali, il tatticismo esasperato, la predeterminazione di soluzioni organizzative che inibiscono il confronto, il chiudersi in ambiti di gruppi che perseguono uno stucchevole unanimismo omogeneizzante, sempre alla ricerca della propria auto conferma, sono gli ingredienti di una minestra alquanto riscaldata e assai mediocre, sono la malattie delle “piccole sinistre” che purtroppo viviamo oggi.
Penso che un gruppo dirigente all’altezza come ho cercato di rappresentare, non sarebbe giunto a questo punto e non avrebbe consentito che le relazioni anche sul piano personale sprofondassero al livello attuale. La personalizzazione e l’immiserimento della politica hanno toccato il fondo e certo che da qui non si può partire per costruire niente di serio.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/05 ... i/1684099/
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