Il fallimento della sinistra europea
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Il fallimento della sinistra europea
Luglio 7 Scritto da redazione
Il fallimento del socialismo europeo
di Marco Revelli *
La valanga di «No» non è solo una vittoria del governo e del popolo greco. È una vittoria di tutti gli europei che non hanno voluto smettere di credere nella democrazia.
La paura è stata sconfitta. Clamorosamente. Il tentativo di seminare il terrore nell’elettorato da parte dei principali esponenti delle istituzioni europee, a cominciare dal governatore della Bce Mario Draghi (che togliendo l’ossigeno finanziario alle banche e al popolo greco si è assunto una responsabilità personale gravissima), è fallito. Occorrevano davvero degli «eroi omerici» per resistere a quel ricatto, e sono stati all’altezza della loro storia migliore. Hanno dimostrato che anche in tempi di crisi della politica, la «grande politica» è possibile. Perché è «grande politica» mostrare che la pratica della democrazia è possibile, in un contesto europeo che sembra aver dimenticato questo valore, e di fronte a oligarchie che non la tollerano e non perdono occasione per dimostrarlo. Ed è «grande politica» aver mostrato — da quella che potrebbe apparire un’estrema periferia del continente e che invece se ne rivela il vero centro — che l’architettura su cui si basa l’Unione europea non regge. Che va cambiata dalla radice. Pena la fine dell’Europa.
Dopo questo voto Alexis Tsipras assume statura e ruolo di leader europeo. Quel «ragazzo», come lo chiamano affettuosamente in patria, rappresenta tutti gli europei — e sono davvero tanti — che non si riconoscono in questa gestione inumana, arrogante, egoistica e irresponsabile da parte di coloro che — in nome di un dogma fallimentare — hanno portato l’Europa sull’orlo del disastro, tradendone gli ideali fondativi, rendendola odiosa agli occhi del suo stesso popolo. Dovremo d’ora in poi gridarlo forte, tutti insieme, con un coro transnazionale, che l’Europa è troppo importante per lasciarla nelle mani di oligarchi di tal fatta. Di figure dal profilo tremendamente basso, incapaci di visione, di sguardo, chiuse nella piccineria di un’esistente insostenibile nel futuro, anche nel più vicino, di fronte alle quali spicca, per differenza, la grandezza del gesto di Yanis Varoufakis — l’eroe di piazza Syntagma, l’uomo acclamato dal popolo del «No», un vincitore indiscusso che si dimette per favorire un accordo che va nell’interesse del proprio popolo. Per togliere anche un briciolo di alibi ad avversari rancorosi e nella sostanza meschini, in una situazione che è, con tutta evidenza, durissima.
Il voto greco rivela anche il catastrofico collasso del socialismo europeo. La presa di posizione del vice-cancelliere tedesco Garbriel, schierato addirittura alla destra della Merkel a fare il lavoro sporco per lei – a ribadirne la «pedagogia imperialista» di cui nel suo stesso paese è accusata (Der Spiegel) -, è qualcosa di ancor più tragico del celebre voto dei crediti di guerra nel 1914, perché segna una assimilazione ormai senza più residui. La dichiarata fine di un’identità politica. Così come la vergognosa posizione assunta da Martin Schultz, offensiva dello stesso parlamento europeo che dovrebbe rappresentare, esempio dell’abisso in cui è caduta la socialdemocrazia tedesca ma anche dell’incapacità di ricoprire con dignità un ruolo istituzionale che dovrebbe essere rappresentativo di tutti. Un parlamento degno di questo nome non dovrebbe esitare nemmeno un giorno a chiederne le dimissioni. Per non parlare delle posizioni assunte dal presidente del consiglio italiano Matteo Renzi: la sua imbarazzante performance di fronte alla cancelliera Merkel, gratuita forma di servilismo a danno degli stessi interessi italiani, è il simbolo di un definitivo degrado politico, culturale e morale. Che ne vanifica ogni possibile aspirazione da «mediatore» di alcunché.
Da oggi incomincia una nuova storia per tutte le sinistre europee, a cominciare dalla nostra. I greci hanno aperto una breccia. Contro di loro si scaricherà la voglia di vendetta degli sconfitti, ancora increduli della propria sconfitta perché fiduciosi nell’onnipotenza dei propri mezzi. Tenteranno di continuare a usarli quei mezzi di dissuasione di massa. Tenteranno di prolungare il vero e proprio assedio di tipo medievale che hanno praticato nell’ultima settimana. Stringeranno ancora la garrota al collo dei greci per tentare di piegarne i negoziatori. Sta a tutti noi essere all’altezza del compito. Perché adesso tocca a noi fare la nostra parte, rompendo quell’assedio.
Facendo senatire forte la voce della vera Europa. Mobilitandoci perché è della nostra stessa pelle che si tratta.
*Pubblicato sul Il manifestoG
http://www.listatsipras.eu/blog/item/30 ... lismo.html
Ultima modifica di pancho il 09/07/2015, 18:17, modificato 2 volte in totale.
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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Re: Il fallimento della sinistra europea
Che il socialismo europeo sia clamorosamente fallito l’ho scritto ieri altrove.
Se non fosse così non saprei spiegarmi perché la brigata ex democristiana al grido di “Non vogliamo morire socialisti” impedì di fatto il posizionamento del Pd nella famiglia socialista, al momento della sua costituzione.
Invece quando arriva La Qualunque, totambot, facendo fessi molti ex merli “comunisti”, iscrive il Pd nel Pse.
Rutelli non c’è più, ma Bindi e Fioroni SI.
Allora per me diventa obbligatorio chiederci: “Perché sette anni fa hanno alzato le mura di Gerico e adesso niente? Neanche una piega."
Forse sapevano che il PPE era solo una brodaglia democristiana al servizio del Kaiser Merkel???
Se non fosse così non saprei spiegarmi perché la brigata ex democristiana al grido di “Non vogliamo morire socialisti” impedì di fatto il posizionamento del Pd nella famiglia socialista, al momento della sua costituzione.
Invece quando arriva La Qualunque, totambot, facendo fessi molti ex merli “comunisti”, iscrive il Pd nel Pse.
Rutelli non c’è più, ma Bindi e Fioroni SI.
Allora per me diventa obbligatorio chiederci: “Perché sette anni fa hanno alzato le mura di Gerico e adesso niente? Neanche una piega."
Forse sapevano che il PPE era solo una brodaglia democristiana al servizio del Kaiser Merkel???
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Re: Il fallimento della sinistra europea
Contro di loro si scaricherà la voglia di vendetta degli sconfitti, ancora increduli della propria sconfitta perché fiduciosi nell’onnipotenza dei propri mezzi.
Marco Revelli
Questo è il minimo. Stavano consolidando Il Quarto Reich, e si fermano solo perché un tribuno greco si è messo di traverso?
Quanto all’onnipotenza dei loro mezzi è un dato di fatto.
E questo deve fare comunque riflettere.
Marco Revelli
Questo è il minimo. Stavano consolidando Il Quarto Reich, e si fermano solo perché un tribuno greco si è messo di traverso?
Quanto all’onnipotenza dei loro mezzi è un dato di fatto.
E questo deve fare comunque riflettere.
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Re: Il fallimento della sinistra europea
LE MILLE SFUMATURE DELLA SINISTRA
Il parere di Aldo Giannuli
Lottare contro questa Ue? Archiviamo Tsipras e i suoi fans
Scritto il 15/7/15 • LIBRE nella Categoria: idee
C’è una sinistra che non vincerà mai, anzi che merita di perdere, ed è quella che non accetta di chiamare le cose con il loro nome e di riconoscere le sconfitte.
I sostenitori di Tsipras?
Passati, in meno di una settimana, «dalla più spensierata euforia alla più cupa depressione».
Già, perché «vincere in modo travolgente un referendum, per poi proporre un accordo che coincide per il 95% con le condizioni di quello rifiutato, è già cosa difficile da digerire».
Ma se poi si va ad una intesa «incomparabilmente peggiore, punitiva, tracotante», allora «non c’è scampo e ci si arrocca nel delirio».
Aldo Giannuli osserva la battaglia sul web fra i delusi di Tsipras e i fanatici a oltranza della “Brigata Kalimera”, che non si rassegnano e invocano la “vittoria morale”.
Fra i primi c’è chi accusa Tsipras di tradimento, di aver giocato sporco sin dall’inizio, di essere un agente della Bce che ha raggirato il popolo con un falso referendum: «E questa è l’ala più genuinamente di sinistra, quelli che ci hanno creduto e si sentono traditi». Quella che Giannuli chiama “la Brigata Kalimera”, cioè «i neo socialdemocratici di Sel, Rifondazione, Altra Europa e moderati vari e travestiti, che giocano a fare i radicali» difende Tsipras a oltranza, arrampicandosi sugli specchi.
C’è chi dipinge il leader di Syriza come un diabolico Machiavelli, che alla fine otterrà la riduzione del debito, chi esalta le sostanziose migliorie strappate (quali?), e chi, «con doppio salto mortale carpiato, tenta di dimostrare che il referendum voleva la permanenza nell’euro e questo è stato ottenuto».
C’è anche chi, «contro ogni evidenza», continua a sperare in un “piano B” che porterà alla vittoria: «Mi ricorda quelli che, sino al maggio del 1945, continuarono a sperare nelle armi segrete della Germania che avrebbero rovesciato le sorti del conflitto.
Con una differenza, però: che gli invasati nazifascisti, almeno, combatterono sino all’ultimo (spesso lasciandoci la pelle)», mentre questi «si limitano a fare il tifo: non sono stati capaci di promuovere una conferenza delle opposizioni europee per una campagna di difesa della Grecia, ma che dico?
Non sono stati capaci di organizzare neanche una manifestazione di appoggio, ma adesso mostrano tutto il loro vigore militante. Almeno avessero il pudore di stare zitti».
Già prima del gran rifiunto della Commissione Europea, continua Giannuli, lo stesso Tsipras aveva ha dichiarato che le proposte di accordo avanzate erano “lontane dalle promesse della campagna elettorale”.
Poi, la riduzione del debito non è stata concessa: e i tedeschi dichiarano che “non esiste” questa possibilità, eppure «alcuni tsiprioti a oltranza ne parlano come se fosse cosa fatta».
Anche la rottura in Siryza, che coinvolge anche il ministro “dimissionato” Varoufakis, non li fa recedere di un millimetro «anche se, sino a pochi giorni fa, era il vice-idolo della Brigata Kalimera».
E non solo: «Neppure le condizioni catastrofiche dell’accordo raggiunto (di fatto la confisca dei beni di Stato, il commissariamento della Troika, i licenziamenti collettivi) valgono a scalfire la fede nel grande leader Alexis».
Giannuli non crede che Tsipras sia «un traditore venduto», ma è convinto che si sia dimostrato un disastroso incapace: che senso ha «chiedere un incontro per riaprire i negoziati e presentarsi senza l’ombra di una proposta, che poi viene fatta all’indomani e per dire che andavano bene le condizioni di dieci giorni prima?».
Che logica ha tutto questo?
Il voltafaccia «presupporrebbe la complicità di Varoufakis», ma allora «non si spiegherebbe il suo dissenso attuale, a meno di non pensare che il solo Tsipras abbia ordito tutto da solo, ingannando anche quell’altro genio del suo ministro».
Improbabile: «Queste sono le cose di cui può essere capace un Talleyrand, un Valentino Borgia, un Richelieu, un Metternich, e non mi pare che siamo a questi livelli.
E’ una cosa troppo intelligente per uno come lui che è solo un simpatico giovanotto, che tiene sfitto l’ultimo piano».
Il complotto? Una “leggenda”: «I nostri personaggi sono troppo piccoli per vestire i panni dei grandi congiurati, e mi pare evidente che non si possa sostenere decentemente che, dietro questa calata di braghe con accompagnamento musicale, ci sia chissà quale mefistofelica astuzia per ottenere chissà cosa chissà quando».
Il taglio del debito? «Anche se fosse ottenuto, resterebbero da trovare le risorse per rilanciare gli investimenti e riassorbire l’occupazione, per di più in una situazione in cui l’appartenenza all’area euro sarebbe un ostacolo formidabile alle esportazioni».
Per cui, anche se il taglio fosse mai concesso (e non lo sarà) saremmo ancora “sotto la tenda di ossigeno”.
Secondo Giannuli, la triste verità è che Tsipras «non ha alcun piano coperto: non c’è un pensiero recondito perché l’uomo, proprio, non pensa.
E non considera che con i suoi accordi, entro uno o due anni (sempre che lui ci sia ancora) starà di nuovo affrontando una nuova emergenza perché il debito si riprodurrà fatalmente per via degli interessi».
La dura realtà è che «i suoi sostenitori non riescono ad accettare l’idea che Tsipras è un incapace. E si infuriano se glielo fai notare, perché questa è anche la loro misura: i neo socialdemocratici che non sanno immaginare nulla di diverso dall’esistente».
Ribaltare l’assetto oligarchico dell’Ue basato sull’euro richiede «coraggio, capacità progettuale, rigore analitico, onestà intellettuale, determinazione, chiarezza strategica e abilità tattica.
Tutte qualità che mancano a questi quattro pellegrini della Brigata Kalimera che sono i primi da togliere davanti se vogliamo costruire una sinistra all’altezza dei tempi».
Il parere di Aldo Giannuli
Lottare contro questa Ue? Archiviamo Tsipras e i suoi fans
Scritto il 15/7/15 • LIBRE nella Categoria: idee
C’è una sinistra che non vincerà mai, anzi che merita di perdere, ed è quella che non accetta di chiamare le cose con il loro nome e di riconoscere le sconfitte.
I sostenitori di Tsipras?
Passati, in meno di una settimana, «dalla più spensierata euforia alla più cupa depressione».
Già, perché «vincere in modo travolgente un referendum, per poi proporre un accordo che coincide per il 95% con le condizioni di quello rifiutato, è già cosa difficile da digerire».
Ma se poi si va ad una intesa «incomparabilmente peggiore, punitiva, tracotante», allora «non c’è scampo e ci si arrocca nel delirio».
Aldo Giannuli osserva la battaglia sul web fra i delusi di Tsipras e i fanatici a oltranza della “Brigata Kalimera”, che non si rassegnano e invocano la “vittoria morale”.
Fra i primi c’è chi accusa Tsipras di tradimento, di aver giocato sporco sin dall’inizio, di essere un agente della Bce che ha raggirato il popolo con un falso referendum: «E questa è l’ala più genuinamente di sinistra, quelli che ci hanno creduto e si sentono traditi». Quella che Giannuli chiama “la Brigata Kalimera”, cioè «i neo socialdemocratici di Sel, Rifondazione, Altra Europa e moderati vari e travestiti, che giocano a fare i radicali» difende Tsipras a oltranza, arrampicandosi sugli specchi.
C’è chi dipinge il leader di Syriza come un diabolico Machiavelli, che alla fine otterrà la riduzione del debito, chi esalta le sostanziose migliorie strappate (quali?), e chi, «con doppio salto mortale carpiato, tenta di dimostrare che il referendum voleva la permanenza nell’euro e questo è stato ottenuto».
C’è anche chi, «contro ogni evidenza», continua a sperare in un “piano B” che porterà alla vittoria: «Mi ricorda quelli che, sino al maggio del 1945, continuarono a sperare nelle armi segrete della Germania che avrebbero rovesciato le sorti del conflitto.
Con una differenza, però: che gli invasati nazifascisti, almeno, combatterono sino all’ultimo (spesso lasciandoci la pelle)», mentre questi «si limitano a fare il tifo: non sono stati capaci di promuovere una conferenza delle opposizioni europee per una campagna di difesa della Grecia, ma che dico?
Non sono stati capaci di organizzare neanche una manifestazione di appoggio, ma adesso mostrano tutto il loro vigore militante. Almeno avessero il pudore di stare zitti».
Già prima del gran rifiunto della Commissione Europea, continua Giannuli, lo stesso Tsipras aveva ha dichiarato che le proposte di accordo avanzate erano “lontane dalle promesse della campagna elettorale”.
Poi, la riduzione del debito non è stata concessa: e i tedeschi dichiarano che “non esiste” questa possibilità, eppure «alcuni tsiprioti a oltranza ne parlano come se fosse cosa fatta».
Anche la rottura in Siryza, che coinvolge anche il ministro “dimissionato” Varoufakis, non li fa recedere di un millimetro «anche se, sino a pochi giorni fa, era il vice-idolo della Brigata Kalimera».
E non solo: «Neppure le condizioni catastrofiche dell’accordo raggiunto (di fatto la confisca dei beni di Stato, il commissariamento della Troika, i licenziamenti collettivi) valgono a scalfire la fede nel grande leader Alexis».
Giannuli non crede che Tsipras sia «un traditore venduto», ma è convinto che si sia dimostrato un disastroso incapace: che senso ha «chiedere un incontro per riaprire i negoziati e presentarsi senza l’ombra di una proposta, che poi viene fatta all’indomani e per dire che andavano bene le condizioni di dieci giorni prima?».
Che logica ha tutto questo?
Il voltafaccia «presupporrebbe la complicità di Varoufakis», ma allora «non si spiegherebbe il suo dissenso attuale, a meno di non pensare che il solo Tsipras abbia ordito tutto da solo, ingannando anche quell’altro genio del suo ministro».
Improbabile: «Queste sono le cose di cui può essere capace un Talleyrand, un Valentino Borgia, un Richelieu, un Metternich, e non mi pare che siamo a questi livelli.
E’ una cosa troppo intelligente per uno come lui che è solo un simpatico giovanotto, che tiene sfitto l’ultimo piano».
Il complotto? Una “leggenda”: «I nostri personaggi sono troppo piccoli per vestire i panni dei grandi congiurati, e mi pare evidente che non si possa sostenere decentemente che, dietro questa calata di braghe con accompagnamento musicale, ci sia chissà quale mefistofelica astuzia per ottenere chissà cosa chissà quando».
Il taglio del debito? «Anche se fosse ottenuto, resterebbero da trovare le risorse per rilanciare gli investimenti e riassorbire l’occupazione, per di più in una situazione in cui l’appartenenza all’area euro sarebbe un ostacolo formidabile alle esportazioni».
Per cui, anche se il taglio fosse mai concesso (e non lo sarà) saremmo ancora “sotto la tenda di ossigeno”.
Secondo Giannuli, la triste verità è che Tsipras «non ha alcun piano coperto: non c’è un pensiero recondito perché l’uomo, proprio, non pensa.
E non considera che con i suoi accordi, entro uno o due anni (sempre che lui ci sia ancora) starà di nuovo affrontando una nuova emergenza perché il debito si riprodurrà fatalmente per via degli interessi».
La dura realtà è che «i suoi sostenitori non riescono ad accettare l’idea che Tsipras è un incapace. E si infuriano se glielo fai notare, perché questa è anche la loro misura: i neo socialdemocratici che non sanno immaginare nulla di diverso dall’esistente».
Ribaltare l’assetto oligarchico dell’Ue basato sull’euro richiede «coraggio, capacità progettuale, rigore analitico, onestà intellettuale, determinazione, chiarezza strategica e abilità tattica.
Tutte qualità che mancano a questi quattro pellegrini della Brigata Kalimera che sono i primi da togliere davanti se vogliamo costruire una sinistra all’altezza dei tempi».
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Re: Il fallimento della sinistra europea
Non esiste piu una sinistra europea.Si è inborghesita.
E fa piu danni della destra.
Ciao
Paolo11
E fa piu danni della destra.
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Paolo11
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Re: Il fallimento della sinistra europea
Questa sinistra che obbedisce agli atroci macellai tedeschi
Scritto il 20/7/15 • LIBRE nella Categoria: idee
«Abbiamo guardato increduli a come un partito socialista dopo l’altro si sia immolato sull’altare dell’unione monetaria, per difendere un progetto che favorisce quelle élites economiche che la sinistra storica chiamava “un branco di banchieri”».
Ambrose Evans-Pritchard, notista economico del “Telegraph”, spiega che ormai il velo è caduto, perché la Grecia ha rotto l’incantesimo: «La sinistra è diventata il gendarme delle politiche reazionarie e della disoccupazione di massa generate dall’euro».
Se l’Europa non è nient’altro che la “versione cattiva” del Fmi, «che cosa resta del progetto d’integrazione europea?
I tedeschi, peraltro, volevano solo la “sottomissione rituale” della Grecia».
Punizione a cui, peraltro, la sinistra non si è sottratta: ancora una volta, i leader socialdemocratici sono stati sorpresi a «difendere un regime pro-ciclico di tagli di bilancio, imposto all’Eurozona da un manipolo di reazionari “ordoliberisti”, come ad esempio il ministro delle finanze tedesco».
Se la Germania è «una guida disastrosa per l’Europa», come afferma l’economista Philippe Legrain, già redattore di “Foreign Policy”, «per uno strano scherzo del destino, la sinistra ha lasciato che essa stessa diventasse il gendarme di una struttura economica che ha portato a livelli di disoccupazione una volta impensabili per un governo social-democratico, dotato di una propria moneta e di tutti gli strumenti sovrani».
La sinistra europea, continua Evans-Pritchard, «ha trovato il modo per giustificare un tasso di disoccupazione giovanile che, nonostante l’emigrazione di massa, è ancora al 42% in Italia, al 49% in Spagna e al 50% in Grecia, e ha accettato la “Lunga Depressione” degli ultimi sei anni, più profonda di quella del 1929-1935.
Ha infine docilmente approvato il “Fiscal Compact” dell’Ue, sapendo che esso obbliga i paesi dell’Eurozona a ridurre drasticamente il loro debito pubblico, ogni anno, del 1,5% del Pil in Francia, del 2% in Spagna e del 3,5% in Italia ed in Portogallo, per i prossimi due decenni. Una formula per la depressione permanente, che vieta qualsiasi politica economica di tipo keynesiano», violando anche «i principi dell’economia classica».
Questo, continua Evans-Pritchard, «è ciò che la sinistra prima ha concordato e poi difeso, seppur a malincuore, perché non ha osato mettere in discussione, almeno fino ad ora, la sacralità dell’unione monetaria».
E così, quello che una volta era il potente “Partito Laburista Olandese”, è ormai ridotto ad una specie di pietosa reliquia del passato.
Anche il Pasok è stato letteralmente cancellato, in Grecia, mentre il “Partito Socialista Spagnolo” ha perso la sua ala sinistra in favore del movimento ribelle “Podemos”, da poco vittorioso a Barcellona.
Il leader socialista francese François Hollande, infine, raggiunge a stento, nei sondaggi, il 24%, dopo che la classe operaia francese si è spostata in direzione del “Front National”.
Owen Jones, sul “Guardian”, scrive giustamente che «i progressisti dovrebbero essere sconvolti dalla rovina della Grecia per mano dell’Unione Europea. E’ giunto il momento di appoggiare la causa degli euroscettici».
Gli esponenti della sinistra sono a disagio, continua Jones: «Il loro istinto è quello di contrastare tutto ciò che l’Ukip rappresenta», ma ora «la crudeltà mostrata sia da Bruxelles che da Berlino ha surclassato tutto il resto».
Per George Monbiot, «il “tutto va bene” (con l’Ue) è in ritirata, mentre il “tutto va male” avanza come una furia».
E un’altra giornalista britannica, Suzanne Moore, si domanda: «Come può la sinistra aver dato il proprio supporto a tutto quello che è stato fatto?».
Conclude amaramente il collega Nick Cohen: «L’Unione Europea viene dipinta, non senza fondamento, come un’istituzione crudele, fanatica e stupida».
Dibattiti di questo tenore stanno prendendo piede in tutta Europa, conferma Evans-Pritchard, citando l’economista Luigi Zingales, consigliere di Renzi, convertitosi all’euroscetticismo.
Il giorno in cui la Grecia ha capitolato ha scritto: «Questo progetto europeo è morto per sempre.
Se l’Europa è nient’altro che la versione cattiva del Fmi, che cosa resta del progetto d’integrazione europea?».
In Grecia, “Syriza” è stata «semplicemente costretta ad abbandonare le sue promesse elettorali, per mezzo della coercizione finanziaria», scrive Evans-Pritchard.
La colpa? «Una responsabilità collettiva dei creditori, delle élites dell’Unione Monetaria, dell’oligarchia greca e infine di un immaturo Alexis Tsipras».
Il bail-out (salvataggio esterno) effettuato dalla Troika nel 2010 «aveva lo scopo di salvare l’euro e le banche europee (visto che non c’erano difese contro il contagio), non quello di salvare la Grecia che, al contrario, è stata deliberatamente sacrificata».
In più, i paesi creditori (Germania in primis) «non hanno mai riconosciuto la propria colpevolezza», inoltre «non hanno mai tentato di negoziare onestamente con Syriza».
Si sono limitati a chiedere che i termini del memorandum 2010 fossero applicati alla lettera, «indipendentemente dal fatto che avessero o meno un senso economico», e lo hanno fatto in modo feroce e ipocrita, «nascondendosi dietro a farisaici discorsi sulle regole».
Yanis Varoufakis, l’ex ministro delle finanze, ha ripetuto che i creditori volevano una vera e propria “sottomissione rituale”, «ed è così che gli eventi sono decisamente sembrati ad un gran numero di persone in tutt’Europa».
I paesi creditori hanno quindi forzato la situazione «attraverso l’infame trattativa» cui è stato sottoposto Tsipras, «senza peraltro offrire alcuna chiara riduzione del debito, anche se già sapevano che il Fmi riteneva che la Grecia avesse bisogno sia di una moratoria di 30 anni sulle scadenze del debito».
La durezza dell’Ue a guida tedesca allarma Simon Tilford, del “Centre for European Reform”: «Quello che trovo preoccupante è che sono così pochi i politici tedeschi che sembrano turbati dallo spettacolo di una Grecia umiliata fino a questo punto. I tedeschi hanno sviluppato un racconto di fantasia riguardo la crisi. Hanno trasformato il paesaggio intorno a loro e pensano che siano essi ad essere le vittime».
Secondo Tilford, è devastante l’assenza politica della sinistra: in Italia, Spagna e Francia, la sinistra è da anni aggrappata all’illusione che la Germania avrebbe infine accettato di alleviare l’austerità e di cambiare l’unione monetaria.
«Questo pensiero è stato totalmente screditato dagli eventi dello scorso fine settimana.
Tutti possono vedere, in effetti, a quali brutali livelli si trovi la disoccupazione.
Se le regole dell’Eurozona non possono essere rispettate, prima si va in quarantena e poi si viene buttati fuori».
Non dimentichiamo, aggiunge Evans-Pritchard, che la Bce di Mario Draghi «ha portato la Grecia fin quasi al crollo finale, conseguenza del congelamento della liquidità d’emergenza (Ela) per le banche greche, costringendo Syriza a chiudere le porte ai creditori, ad imporre controlli sui capitali e infine a fermare le importazioni».
Tutto questo, aggiunge Pritchard, «viola i principi dell’”Unione Bancaria Europea”, che dovrebbero separare i destini delle banche private dai travagli degli Stati sovrani.
E’ stata una decisione politica, probabilmente illegale, condita da una forte aggressività tecnica.
E’ in ogni caso molto difficile da conciliare con il dovere della Bce, che è quello di sostenere la stabilità finanziaria».
In realtà, «sappiamo tutti cosa c’era in gioco».
Ovvero: «La Germania e i suoi alleati erano determinati a fare di Syriza un esempio, per scoraggiare gli elettori di qualsiasi altro paese a voler invertire il sistema».
Evans-Pritchard pensa che, alla fine, gli oligarchi perderanno il braccio di ferro: i paesi europei riusciranno a ribellarsi.
In Spagna, “Podemos” ha accusato le istituzioni dell’Ue e il governo spagnolo di aver commesso un “atto di terrorismo”, in violazione del codice penale spagnolo.
Per Costas Lapavitsas, deputato di Syriza, il messaggio saliente degli ultimi cinque mesi è che nessun governo radicale può perseguire delle politiche sovrane, fintanto che è in balia di una banca centrale in grado di tagliare in qualsiasi momento la liquidità: «Adesso è perfettamente chiaro che l’unica via d’uscita è quella di liberarsi dell’unione monetaria».
Kevin O’Rourke, economista di Oxford, prevede che il prossimo partito di sinistra che andrà a sfidare l’unione monetaria «non sarà irresponsabile come Syriza, e non contratterà più da una posizione di tale abietta debolezza».
La lezione che può essere tratta da questa débacle?
Semplice: «Negoziare con la Germania è una perdita di tempo.
Ma, se si vuol farlo, si deve essere disposti ad agire con decisione e unilateralmente; si deve disporre di un piano per il raggiungimento di un avanzo primario (se non è già stato raggiunto); si devono avere in tasca le opzioni sia per un duro default unilaterale che per la fuoriuscita dall’euro, ed essere disposti ad usarle al primo segno di fastidio da parte della Bce».
Quanto alla trucida Germania, che altro dire?
«E’ davvero di così cattivo gusto ricordare che le “Potenze Alleate” decisero di spazzar via la metà delle passività esterne della Germania, nell’ambito dell’accordo sul debito raggiunto a Londra nel febbraio del 1953?».
Quell’atto di saggezza politica arrivò a meno di otto anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dell’occupazione nazista della Grecia, quando le immagini degli orrori erano ancora fresche nella mente di tutti.
«La riduzione del debito ha avuto un certo costo per la Gran Bretagna, che era il più grande creditore nel periodo precedente la guerra», spiega Evans-Pritchard.
«La riduzione fu convenuta nel rispetto dell’interesse collettivo e della scienza economica, e fu volutamente inquadrata nell’ambito di una “trattativa tra eguali”, per sgomberare la nebbia costituita dai giudizi morali.
Il risultato fu il Wirtschaftswunder (miracolo economico) tedesco e gli anni di gloria della ricostruzione post-guerra».
Quindi, «qualunque cosa si possa pensare del comportamento della Grecia – che non ha fatto del male a nessuno – non possiamo usare giusto un minimo di buon senso?».
Scritto il 20/7/15 • LIBRE nella Categoria: idee
«Abbiamo guardato increduli a come un partito socialista dopo l’altro si sia immolato sull’altare dell’unione monetaria, per difendere un progetto che favorisce quelle élites economiche che la sinistra storica chiamava “un branco di banchieri”».
Ambrose Evans-Pritchard, notista economico del “Telegraph”, spiega che ormai il velo è caduto, perché la Grecia ha rotto l’incantesimo: «La sinistra è diventata il gendarme delle politiche reazionarie e della disoccupazione di massa generate dall’euro».
Se l’Europa non è nient’altro che la “versione cattiva” del Fmi, «che cosa resta del progetto d’integrazione europea?
I tedeschi, peraltro, volevano solo la “sottomissione rituale” della Grecia».
Punizione a cui, peraltro, la sinistra non si è sottratta: ancora una volta, i leader socialdemocratici sono stati sorpresi a «difendere un regime pro-ciclico di tagli di bilancio, imposto all’Eurozona da un manipolo di reazionari “ordoliberisti”, come ad esempio il ministro delle finanze tedesco».
Se la Germania è «una guida disastrosa per l’Europa», come afferma l’economista Philippe Legrain, già redattore di “Foreign Policy”, «per uno strano scherzo del destino, la sinistra ha lasciato che essa stessa diventasse il gendarme di una struttura economica che ha portato a livelli di disoccupazione una volta impensabili per un governo social-democratico, dotato di una propria moneta e di tutti gli strumenti sovrani».
La sinistra europea, continua Evans-Pritchard, «ha trovato il modo per giustificare un tasso di disoccupazione giovanile che, nonostante l’emigrazione di massa, è ancora al 42% in Italia, al 49% in Spagna e al 50% in Grecia, e ha accettato la “Lunga Depressione” degli ultimi sei anni, più profonda di quella del 1929-1935.
Ha infine docilmente approvato il “Fiscal Compact” dell’Ue, sapendo che esso obbliga i paesi dell’Eurozona a ridurre drasticamente il loro debito pubblico, ogni anno, del 1,5% del Pil in Francia, del 2% in Spagna e del 3,5% in Italia ed in Portogallo, per i prossimi due decenni. Una formula per la depressione permanente, che vieta qualsiasi politica economica di tipo keynesiano», violando anche «i principi dell’economia classica».
Questo, continua Evans-Pritchard, «è ciò che la sinistra prima ha concordato e poi difeso, seppur a malincuore, perché non ha osato mettere in discussione, almeno fino ad ora, la sacralità dell’unione monetaria».
E così, quello che una volta era il potente “Partito Laburista Olandese”, è ormai ridotto ad una specie di pietosa reliquia del passato.
Anche il Pasok è stato letteralmente cancellato, in Grecia, mentre il “Partito Socialista Spagnolo” ha perso la sua ala sinistra in favore del movimento ribelle “Podemos”, da poco vittorioso a Barcellona.
Il leader socialista francese François Hollande, infine, raggiunge a stento, nei sondaggi, il 24%, dopo che la classe operaia francese si è spostata in direzione del “Front National”.
Owen Jones, sul “Guardian”, scrive giustamente che «i progressisti dovrebbero essere sconvolti dalla rovina della Grecia per mano dell’Unione Europea. E’ giunto il momento di appoggiare la causa degli euroscettici».
Gli esponenti della sinistra sono a disagio, continua Jones: «Il loro istinto è quello di contrastare tutto ciò che l’Ukip rappresenta», ma ora «la crudeltà mostrata sia da Bruxelles che da Berlino ha surclassato tutto il resto».
Per George Monbiot, «il “tutto va bene” (con l’Ue) è in ritirata, mentre il “tutto va male” avanza come una furia».
E un’altra giornalista britannica, Suzanne Moore, si domanda: «Come può la sinistra aver dato il proprio supporto a tutto quello che è stato fatto?».
Conclude amaramente il collega Nick Cohen: «L’Unione Europea viene dipinta, non senza fondamento, come un’istituzione crudele, fanatica e stupida».
Dibattiti di questo tenore stanno prendendo piede in tutta Europa, conferma Evans-Pritchard, citando l’economista Luigi Zingales, consigliere di Renzi, convertitosi all’euroscetticismo.
Il giorno in cui la Grecia ha capitolato ha scritto: «Questo progetto europeo è morto per sempre.
Se l’Europa è nient’altro che la versione cattiva del Fmi, che cosa resta del progetto d’integrazione europea?».
In Grecia, “Syriza” è stata «semplicemente costretta ad abbandonare le sue promesse elettorali, per mezzo della coercizione finanziaria», scrive Evans-Pritchard.
La colpa? «Una responsabilità collettiva dei creditori, delle élites dell’Unione Monetaria, dell’oligarchia greca e infine di un immaturo Alexis Tsipras».
Il bail-out (salvataggio esterno) effettuato dalla Troika nel 2010 «aveva lo scopo di salvare l’euro e le banche europee (visto che non c’erano difese contro il contagio), non quello di salvare la Grecia che, al contrario, è stata deliberatamente sacrificata».
In più, i paesi creditori (Germania in primis) «non hanno mai riconosciuto la propria colpevolezza», inoltre «non hanno mai tentato di negoziare onestamente con Syriza».
Si sono limitati a chiedere che i termini del memorandum 2010 fossero applicati alla lettera, «indipendentemente dal fatto che avessero o meno un senso economico», e lo hanno fatto in modo feroce e ipocrita, «nascondendosi dietro a farisaici discorsi sulle regole».
Yanis Varoufakis, l’ex ministro delle finanze, ha ripetuto che i creditori volevano una vera e propria “sottomissione rituale”, «ed è così che gli eventi sono decisamente sembrati ad un gran numero di persone in tutt’Europa».
I paesi creditori hanno quindi forzato la situazione «attraverso l’infame trattativa» cui è stato sottoposto Tsipras, «senza peraltro offrire alcuna chiara riduzione del debito, anche se già sapevano che il Fmi riteneva che la Grecia avesse bisogno sia di una moratoria di 30 anni sulle scadenze del debito».
La durezza dell’Ue a guida tedesca allarma Simon Tilford, del “Centre for European Reform”: «Quello che trovo preoccupante è che sono così pochi i politici tedeschi che sembrano turbati dallo spettacolo di una Grecia umiliata fino a questo punto. I tedeschi hanno sviluppato un racconto di fantasia riguardo la crisi. Hanno trasformato il paesaggio intorno a loro e pensano che siano essi ad essere le vittime».
Secondo Tilford, è devastante l’assenza politica della sinistra: in Italia, Spagna e Francia, la sinistra è da anni aggrappata all’illusione che la Germania avrebbe infine accettato di alleviare l’austerità e di cambiare l’unione monetaria.
«Questo pensiero è stato totalmente screditato dagli eventi dello scorso fine settimana.
Tutti possono vedere, in effetti, a quali brutali livelli si trovi la disoccupazione.
Se le regole dell’Eurozona non possono essere rispettate, prima si va in quarantena e poi si viene buttati fuori».
Non dimentichiamo, aggiunge Evans-Pritchard, che la Bce di Mario Draghi «ha portato la Grecia fin quasi al crollo finale, conseguenza del congelamento della liquidità d’emergenza (Ela) per le banche greche, costringendo Syriza a chiudere le porte ai creditori, ad imporre controlli sui capitali e infine a fermare le importazioni».
Tutto questo, aggiunge Pritchard, «viola i principi dell’”Unione Bancaria Europea”, che dovrebbero separare i destini delle banche private dai travagli degli Stati sovrani.
E’ stata una decisione politica, probabilmente illegale, condita da una forte aggressività tecnica.
E’ in ogni caso molto difficile da conciliare con il dovere della Bce, che è quello di sostenere la stabilità finanziaria».
In realtà, «sappiamo tutti cosa c’era in gioco».
Ovvero: «La Germania e i suoi alleati erano determinati a fare di Syriza un esempio, per scoraggiare gli elettori di qualsiasi altro paese a voler invertire il sistema».
Evans-Pritchard pensa che, alla fine, gli oligarchi perderanno il braccio di ferro: i paesi europei riusciranno a ribellarsi.
In Spagna, “Podemos” ha accusato le istituzioni dell’Ue e il governo spagnolo di aver commesso un “atto di terrorismo”, in violazione del codice penale spagnolo.
Per Costas Lapavitsas, deputato di Syriza, il messaggio saliente degli ultimi cinque mesi è che nessun governo radicale può perseguire delle politiche sovrane, fintanto che è in balia di una banca centrale in grado di tagliare in qualsiasi momento la liquidità: «Adesso è perfettamente chiaro che l’unica via d’uscita è quella di liberarsi dell’unione monetaria».
Kevin O’Rourke, economista di Oxford, prevede che il prossimo partito di sinistra che andrà a sfidare l’unione monetaria «non sarà irresponsabile come Syriza, e non contratterà più da una posizione di tale abietta debolezza».
La lezione che può essere tratta da questa débacle?
Semplice: «Negoziare con la Germania è una perdita di tempo.
Ma, se si vuol farlo, si deve essere disposti ad agire con decisione e unilateralmente; si deve disporre di un piano per il raggiungimento di un avanzo primario (se non è già stato raggiunto); si devono avere in tasca le opzioni sia per un duro default unilaterale che per la fuoriuscita dall’euro, ed essere disposti ad usarle al primo segno di fastidio da parte della Bce».
Quanto alla trucida Germania, che altro dire?
«E’ davvero di così cattivo gusto ricordare che le “Potenze Alleate” decisero di spazzar via la metà delle passività esterne della Germania, nell’ambito dell’accordo sul debito raggiunto a Londra nel febbraio del 1953?».
Quell’atto di saggezza politica arrivò a meno di otto anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dell’occupazione nazista della Grecia, quando le immagini degli orrori erano ancora fresche nella mente di tutti.
«La riduzione del debito ha avuto un certo costo per la Gran Bretagna, che era il più grande creditore nel periodo precedente la guerra», spiega Evans-Pritchard.
«La riduzione fu convenuta nel rispetto dell’interesse collettivo e della scienza economica, e fu volutamente inquadrata nell’ambito di una “trattativa tra eguali”, per sgomberare la nebbia costituita dai giudizi morali.
Il risultato fu il Wirtschaftswunder (miracolo economico) tedesco e gli anni di gloria della ricostruzione post-guerra».
Quindi, «qualunque cosa si possa pensare del comportamento della Grecia – che non ha fatto del male a nessuno – non possiamo usare giusto un minimo di buon senso?».
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Re: Il fallimento della sinistra europea
Conclude amaramente il collega Nick Cohen: «L’Unione Europea viene dipinta, non senza fondamento, come un’istituzione crudele, fanatica e stupida».
...........crudele, fanatica e stupida
L'ultimo capitolo de "L'aria d'estate" di oggi, ha trattato il tema già preso in esame dentro e fuori il forum, riguardante le dimensioni delle vondole che devono essere teutonicamete non inferiore a 25 mm, pena le multen.
Nell'Europa che va in pezzi, con la Crante Cermania che tiene nella panza 54.700 miliardi di derivati tossici(da queste parti usano un'altro termine molto comune) ai merli boccaloni le oligarchie Ue cercano di dimostrare efficienza passando per intransigenti e rigorosi sulle dimensioni delle vongole.
Negli anni passati i banditen si erano già distinti per la lunghezza dei piselli e il numero dei bacelli.
E ancora prima sulla lunghezza della coda dei cani.
...........crudele, fanatica e stupida
L'ultimo capitolo de "L'aria d'estate" di oggi, ha trattato il tema già preso in esame dentro e fuori il forum, riguardante le dimensioni delle vondole che devono essere teutonicamete non inferiore a 25 mm, pena le multen.
Nell'Europa che va in pezzi, con la Crante Cermania che tiene nella panza 54.700 miliardi di derivati tossici(da queste parti usano un'altro termine molto comune) ai merli boccaloni le oligarchie Ue cercano di dimostrare efficienza passando per intransigenti e rigorosi sulle dimensioni delle vongole.
Negli anni passati i banditen si erano già distinti per la lunghezza dei piselli e il numero dei bacelli.
E ancora prima sulla lunghezza della coda dei cani.
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Re: Il fallimento della sinistra europea
camillobenso ha scritto:Conclude amaramente il collega Nick Cohen: «L’Unione Europea viene dipinta, non senza fondamento, come un’istituzione crudele, fanatica e stupida».
...........crudele, fanatica e stupida
L'ultimo capitolo de "L'aria d'estate" di oggi, ha trattato il tema già preso in esame dentro e fuori il forum, riguardante le dimensioni delle vondole che devono essere teutonicamente non inferiore a 25 mm, pena le multen.
Nell'Europa che va in pezzi, con la Crante Cermania che tiene nella panza 54.700 miliardi di derivati tossici(da queste parti usano un'altro termine molto comune) ai merli boccaloni le oligarchie Ue cercano di dimostrare efficienza passando per intransigenti e rigorosi sulle dimensioni delle vongole.
Negli anni passati i banditen si erano già distinti per la lunghezza dei piselli e il numero dei bacelli.
E ancora prima sulla lunghezza della coda dei cani.
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Re: Il fallimento della sinistra europea
il manifesto 31.10.15
La decadenza socialdemocratica
Germania. Il limite «tedesco» della Spd nel capire il rapporto tra redistribuzione e conflitto
di Paolo Borioni
dente prestazione della sinistra europea di fronte alla crisi e all’austerità, la Spd è spesso presa ad esempio in quanto «la più classica socialdemocrazia». Quindi, il partito tedesco passa per la riprova di un destino inevitabile di tutte le socialdemocrazie come fenomeno storico. In realtà la Spd non è necessariamente rappresentativa della storia e del pensiero socialdemocratico europeo. Le incapacità nel proporre ed attuare politiche di domanda che bilancino il grande surplus di export dipendono non solo dalle dottrine economiche dominanti e dalla forza esportatrice tedesca.
In realtà, differenza fra altre socialdemocrazie e Spd è proprio che essa non è quasi mai potuto o saputo realizzare l’importanza strategica, per la propria forza, del salario e della sua piena espansione. Ciò perché ai tempi di Weimar le politiche della domanda non erano ancora egemoni, e poi venne Hitler, mentre gli scandinavi arrivarono all’espansione interna autonomamente, conoscendo ben poco Keynes. In seguito, la Spd fu al governo solo pochi anni utili a praticare la domanda come elemento fondante della propria forza (e identità): più o meno dal 1970 al 1973, anno in cui l’espansione dei salari cominciò, in un contesto già ideologicamente ostile come quello tedesco, ad essere difficile per via della «stagflazione» di quegli anni. Invece, gli scandinavi poterono per decenni usare i due elementi interconnessi: da un lato la forza organizzata del movimento operaio e la critica al sistema, che imponevano di competere con più innovazione che sfruttamento, dall’altro un’espansione che distribuiva verso il basso i frutti di tutto questo.
Questa redistribuzione rafforzava consenso e piena occupazione, così che poi si poteva con energia tornare a costringere gli imprenditori a politiche, relazioni industriali e investimenti «virtuose». La Spd ha praticato molto la prima parte, per esempio conquistando e poi allargando la Mitbestimmung ancora nel 1976, ma ottenendo meno egemonia del possibile perché praticava in modo incompleto l’altro elemento fondante della socialdemocrazia europea. Ancora di più questo è avvenuto in epoca Euro, coi suoi parametri costrittivi (che per esempio prima di adattarvisi anche troppo bene gli scandinavi avevano tentato di ammorbidire), da cui le riforme di precarizzanti di Schröder: i dati dimostrano che da lì origina il ridimensionamento Spd verso il 25%. Sull’attualità questo si ripercuote molto: la giustissima conquista del salario minimo stenta a produrre effetti di consenso per la Spd. Si pensa sia dovuto all’idea di stigma che vi si associa, che impedisce di renderlo un discorso politico espansivo. Ora, il salario minimo è inteso in Germania, giustamente, come base minima di ogni contratto sindacale, armonizzando legge sui minimi e negoziato.
Ma evidentemente, vista la storia, occorre tempo e fiducia affinché i potenziali (e spesso ex) elettori socialdemocratici credano che ciò porti ad una vera e durevole espansione delle paghe, con tutto ciò che segue per la Spd (consenso), la Germania (crescita interna) e la Ue (evitare la catastrofe). Ma il tempo manca, mentre la possibile evoluzione della Spd e del quadro politico tedesco suggeriscono che solo dinanzi allo spettro di una definitiva decadenza verso lo status di «partito minore» (e spesso ignorato) di coalizione della Cdu i socialdemocratici tedeschi potrebbero rivolgersi alla Linke, accogliendo le prediche degli economisti sindacali Dgb, in favore di una crescita nell’eguaglianza dei redditi da lavoro, in Germania ed in Europa. I tempi dell’evoluzione politica sono insomma quelli complessi dei conflitti profondi, non purtroppo quelli della urgenza europea.
La decadenza socialdemocratica
Germania. Il limite «tedesco» della Spd nel capire il rapporto tra redistribuzione e conflitto
di Paolo Borioni
dente prestazione della sinistra europea di fronte alla crisi e all’austerità, la Spd è spesso presa ad esempio in quanto «la più classica socialdemocrazia». Quindi, il partito tedesco passa per la riprova di un destino inevitabile di tutte le socialdemocrazie come fenomeno storico. In realtà la Spd non è necessariamente rappresentativa della storia e del pensiero socialdemocratico europeo. Le incapacità nel proporre ed attuare politiche di domanda che bilancino il grande surplus di export dipendono non solo dalle dottrine economiche dominanti e dalla forza esportatrice tedesca.
In realtà, differenza fra altre socialdemocrazie e Spd è proprio che essa non è quasi mai potuto o saputo realizzare l’importanza strategica, per la propria forza, del salario e della sua piena espansione. Ciò perché ai tempi di Weimar le politiche della domanda non erano ancora egemoni, e poi venne Hitler, mentre gli scandinavi arrivarono all’espansione interna autonomamente, conoscendo ben poco Keynes. In seguito, la Spd fu al governo solo pochi anni utili a praticare la domanda come elemento fondante della propria forza (e identità): più o meno dal 1970 al 1973, anno in cui l’espansione dei salari cominciò, in un contesto già ideologicamente ostile come quello tedesco, ad essere difficile per via della «stagflazione» di quegli anni. Invece, gli scandinavi poterono per decenni usare i due elementi interconnessi: da un lato la forza organizzata del movimento operaio e la critica al sistema, che imponevano di competere con più innovazione che sfruttamento, dall’altro un’espansione che distribuiva verso il basso i frutti di tutto questo.
Questa redistribuzione rafforzava consenso e piena occupazione, così che poi si poteva con energia tornare a costringere gli imprenditori a politiche, relazioni industriali e investimenti «virtuose». La Spd ha praticato molto la prima parte, per esempio conquistando e poi allargando la Mitbestimmung ancora nel 1976, ma ottenendo meno egemonia del possibile perché praticava in modo incompleto l’altro elemento fondante della socialdemocrazia europea. Ancora di più questo è avvenuto in epoca Euro, coi suoi parametri costrittivi (che per esempio prima di adattarvisi anche troppo bene gli scandinavi avevano tentato di ammorbidire), da cui le riforme di precarizzanti di Schröder: i dati dimostrano che da lì origina il ridimensionamento Spd verso il 25%. Sull’attualità questo si ripercuote molto: la giustissima conquista del salario minimo stenta a produrre effetti di consenso per la Spd. Si pensa sia dovuto all’idea di stigma che vi si associa, che impedisce di renderlo un discorso politico espansivo. Ora, il salario minimo è inteso in Germania, giustamente, come base minima di ogni contratto sindacale, armonizzando legge sui minimi e negoziato.
Ma evidentemente, vista la storia, occorre tempo e fiducia affinché i potenziali (e spesso ex) elettori socialdemocratici credano che ciò porti ad una vera e durevole espansione delle paghe, con tutto ciò che segue per la Spd (consenso), la Germania (crescita interna) e la Ue (evitare la catastrofe). Ma il tempo manca, mentre la possibile evoluzione della Spd e del quadro politico tedesco suggeriscono che solo dinanzi allo spettro di una definitiva decadenza verso lo status di «partito minore» (e spesso ignorato) di coalizione della Cdu i socialdemocratici tedeschi potrebbero rivolgersi alla Linke, accogliendo le prediche degli economisti sindacali Dgb, in favore di una crescita nell’eguaglianza dei redditi da lavoro, in Germania ed in Europa. I tempi dell’evoluzione politica sono insomma quelli complessi dei conflitti profondi, non purtroppo quelli della urgenza europea.
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- Iscritto il: 21/02/2012, 19:25
Re: Il fallimento della sinistra europea
Elezioni Spagna, sondaggio: Rajoy confermato, ma senza maggioranza assoluta
L'inchiesta più attesa e attendibile quando mancano due settimane al voto: i Popolari sarebbero ancora il primo partito, fortemente ridimensionati i socialisti, insidiati dai centristi di Ciudadanos, Podemos quarto partito
di ALESSANDRO OPPE
MADRID - Ancora Rajoy. A due settimane dal voto - e quando mancano poche ore all'inizio della campagna elettorale, che si apre ufficialmente a mezzanotte - il sondaggio più atteso conferma la tendenza alla ripresa del Partito Popolare del premier uscente, con i socialisti che rischiano di subire la sconfitta più pesante in quasi quarant'anni di democrazia, tallonati dalla formazione centrista emergente di Ciudadanos e con la nuova sinistra di Podemos relegata in quarta posizione. La voce del Cis, il Centro de Investigaciones Sociológicas controllato dal governo, è per tradizione quella più ascoltata e rispettata. Non solo per la serietà dell'inchiesta, realizzata con circa diciottomila interviste (otto o nove volte di più rispetto alla media degli altri sondaggi), ma anche perché il suo responso si è in genere dimostrato, anche in occasione delle politiche del 2011, il più vicino alla realtà.
E allora, se le cose stanno così, l'attuale inquilino della Moncloa, dopo anni di difficoltà tra recessione galoppante e scandali che hanno colpito gravemente la credibilità del suo Partito Popolare, potrebbe cominciare a tirare un sospiro di sollievo. Con il 28,6 per cento dei consensi, il Pp si confermerebbe largamente come la prima formazione politica spagnola, in netto calo rispetto a quattro anni fa, quando ottennne la maggioranza assoluta dei seggi con oltre il 44 per cento dei voti, ma comunque in grado di aspirare a mantenersi alla guida dell'esecutivo, soprattutto se sarà capace di raggiungere un accordo con il partito ideologicamente più vicino, Ciudadanos, in crescita costante con il 19 per cento dei consensi (appena un mese fa era al 14,7) e che tallona ormai il Psoe (sprofonda al 20,8, ad ottobre era al 25,3). In questa situazione, per la formazione della rosa nel pugno guidata da Pedro Sánchez, non resterebbero molte opzioni per aspirare al governo, a meno di un'alleanza "tutti contro il Pp", sul modello dell'accordo che nei giorni scorsi in Portogallo ha consentito ai socialisti di Antonio Costa di mandare all'opposizione la destra di Pedro Passos Coelho uscita vincitrice dalle urne. Al Psoe non basterebbe l'appoggio (neppure scontato) di Pablo Iglesias, che non più di dieci mesi fa era riuscito a portare Podemos in testa a tutti i sondaggi, mentre ora si dovrebbe accontentare del ruolo di quarta forza: 9,1 per cento se si considera solo la sigla del partito viola, 15,7 sommando anche le liste collegate presentate a Barcellona, Valencia e in altre parti del Paese.
Il sondaggio conferma comunque la grave crisi del bipartitismo. Su un totale di 350 seggi delle Cortes, Pp e Psoe disponevano nel Parlamento uscente di 296 deputati (i Popolari, con la maggioranza assoluta, a 186, e i socialisti a 110). Ora crollerebbero a poco più di 200: per la formazione di Rajoy si prevede una forchetta fra i 120 e i 128 seggi, quella di Sánchez si manterrebbe tra 77 e 89, molto al di sotto persino del magro risultato registrato da Alfredo Pérez Rubalcaba nel 2011. Quello che è chiaro è che, ad avere le chiavi della governabilità,
sarà il rampante numero uno di Ciudadanos, Albert Rivera. Oltre ad essere considerato il leader più amato (davanti a Sánchez, Iglesias e, fanalino di coda, Rajoy) potrà fissare le condizioni per la formazione dell'esecutivo dopo il voto del 20 dicembre.
http://www.repubblica.it/esteri/2015/12 ... 128704310/
L'inchiesta più attesa e attendibile quando mancano due settimane al voto: i Popolari sarebbero ancora il primo partito, fortemente ridimensionati i socialisti, insidiati dai centristi di Ciudadanos, Podemos quarto partito
di ALESSANDRO OPPE
MADRID - Ancora Rajoy. A due settimane dal voto - e quando mancano poche ore all'inizio della campagna elettorale, che si apre ufficialmente a mezzanotte - il sondaggio più atteso conferma la tendenza alla ripresa del Partito Popolare del premier uscente, con i socialisti che rischiano di subire la sconfitta più pesante in quasi quarant'anni di democrazia, tallonati dalla formazione centrista emergente di Ciudadanos e con la nuova sinistra di Podemos relegata in quarta posizione. La voce del Cis, il Centro de Investigaciones Sociológicas controllato dal governo, è per tradizione quella più ascoltata e rispettata. Non solo per la serietà dell'inchiesta, realizzata con circa diciottomila interviste (otto o nove volte di più rispetto alla media degli altri sondaggi), ma anche perché il suo responso si è in genere dimostrato, anche in occasione delle politiche del 2011, il più vicino alla realtà.
E allora, se le cose stanno così, l'attuale inquilino della Moncloa, dopo anni di difficoltà tra recessione galoppante e scandali che hanno colpito gravemente la credibilità del suo Partito Popolare, potrebbe cominciare a tirare un sospiro di sollievo. Con il 28,6 per cento dei consensi, il Pp si confermerebbe largamente come la prima formazione politica spagnola, in netto calo rispetto a quattro anni fa, quando ottennne la maggioranza assoluta dei seggi con oltre il 44 per cento dei voti, ma comunque in grado di aspirare a mantenersi alla guida dell'esecutivo, soprattutto se sarà capace di raggiungere un accordo con il partito ideologicamente più vicino, Ciudadanos, in crescita costante con il 19 per cento dei consensi (appena un mese fa era al 14,7) e che tallona ormai il Psoe (sprofonda al 20,8, ad ottobre era al 25,3). In questa situazione, per la formazione della rosa nel pugno guidata da Pedro Sánchez, non resterebbero molte opzioni per aspirare al governo, a meno di un'alleanza "tutti contro il Pp", sul modello dell'accordo che nei giorni scorsi in Portogallo ha consentito ai socialisti di Antonio Costa di mandare all'opposizione la destra di Pedro Passos Coelho uscita vincitrice dalle urne. Al Psoe non basterebbe l'appoggio (neppure scontato) di Pablo Iglesias, che non più di dieci mesi fa era riuscito a portare Podemos in testa a tutti i sondaggi, mentre ora si dovrebbe accontentare del ruolo di quarta forza: 9,1 per cento se si considera solo la sigla del partito viola, 15,7 sommando anche le liste collegate presentate a Barcellona, Valencia e in altre parti del Paese.
Il sondaggio conferma comunque la grave crisi del bipartitismo. Su un totale di 350 seggi delle Cortes, Pp e Psoe disponevano nel Parlamento uscente di 296 deputati (i Popolari, con la maggioranza assoluta, a 186, e i socialisti a 110). Ora crollerebbero a poco più di 200: per la formazione di Rajoy si prevede una forchetta fra i 120 e i 128 seggi, quella di Sánchez si manterrebbe tra 77 e 89, molto al di sotto persino del magro risultato registrato da Alfredo Pérez Rubalcaba nel 2011. Quello che è chiaro è che, ad avere le chiavi della governabilità,
sarà il rampante numero uno di Ciudadanos, Albert Rivera. Oltre ad essere considerato il leader più amato (davanti a Sánchez, Iglesias e, fanalino di coda, Rajoy) potrà fissare le condizioni per la formazione dell'esecutivo dopo il voto del 20 dicembre.
http://www.repubblica.it/esteri/2015/12 ... 128704310/
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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