Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzione?
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
I TEMPI DEI MAESTRI MURATORI CHE INNALZANO MURI OVUNQUE
il manifesto 8.9.15
Netanyahu: no ad ingresso profughi siriani, sì a nuovo muro
Rifugiati . «Israele è un piccolo Paese - ha detto Netanyahu - e non abbiamo la profondità geografica e demografica (per assorbirli). Ecco perchè dobbiamo controllare le nostre frontiere». Una nuova barriera, la quarta, dividerà Israele dalla Giordania
di Michele Giorgio
GERUSALEMME Mai come in questi giorni la destra europea e quella israeliana parlano la stessa lingua.
Sembrava di ascoltare il leader ungherese Viktor Orbán quando domenica il premier israeliano Netanyahu, rispondendo all’appello del capo dell’opposizione Yitzhak Herzog per l’ingresso in Israele di una parte dei profughi siriani, ha spiegato che il Paese è «troppo piccolo» per accoglierli.
«Israele è un piccolo Paese — ha detto Netanyahu alla riunione del governo — e non abbiamo la profondità geografica e demografica (per assorbirli).
Ecco perchè dobbiamo controllare le nostre frontiere».
Il Libano, che è più piccolo di Israele, ne ha accolti un milione sino ad oggi. «Non lasceremo che Israele sia sommerso da un’ondata di immigrati clandestini e attività terroristiche», ha aggiunto Netanyahu.
Sullo sfondo, pesanti come un macigno, le considerazioni dell’opinionista Gideon Levy che, su Haaretz, ha scritto che «Israele non ha nessun diritto di stracciarsi le vesti per la morte di Aylan Kurdi (il piccolo profugo curdo siriano morto in mare, ndr) né di singhiozzare per la foto, né di fingere shock, né di offrire aiuto e sicuramente non di fare prediche all’Europa».
«Vi è un territorio disastrato che Israele ha creato nel suo cortile (Gaza,ndr), un’ora e un quarto di macchina da Tel Aviv», ha aggiunto Levy.
Herzog, aveva lanciato il suo appello dopo una conversazione al telefono con Kamal al Labwani, un rappresentante dell’opposizione anti Bashar Assad che ha visitato Israele, mantiene rapporti stabili con Tel Aviv e in passato ha offerto la cessione definitiva allo Stato ebraico del Golan siriano in cambio di un intervento delle forze armate israeliane a sostegno della galassia di forze islamiste radicali, qaediste e jihadiste che combattono contro il governo di Damasco.
Naturalmente Herzog e il suo interlocutore al Labwani, esponente della “Siria futura”, non hanno preso in alcuna considerazione l’ingresso di altri profughi, storici, quelli palestinesi, che attendono dal 1948, forti di una risoluzione dell’Onu, la 194, di ritornare ai villaggi e alle città da cui furono cacciati o costretti a fuggire.
Ai profughi palestinesi ha pensato invece il presidente dell’Anp Abu Mazen che ha rivolto un appello all’Onu e alla comunità internazionale affinchè facciano pressioni su Netanyahu e il suo governo e lasci entrare in Cisgiordania i rifugiati palestinesi fuggiti da Yarmouk e altri campi a causa della guerra civile siriana.
In casa palestinese queste parole hanno suscitato discussioni.
Mentre ad alcuni l’idea del presidente è apparsa una soluzione credibile, in linea con il diritto internazionale, altri invece l’hanno interpretata come una rinuncia indiretta al “diritto al ritorno” dei profughi palestinesi ai loro centri abitati d’origine (ora in Israele), in accoglimento alla visione di un mini Stato di Palestina (a Gaza e in alcune porzioni della Cisgiordania) contenitore di tutti i palestinesi (forse anche quelli che oggi vivono in Galilea) accanto a Israele Stato del popolo ebraico.
Intanto, ancora a proposito di migranti e profughi di guerra, Netanyahu ha annunciato che Israele inizierà a costruire una barriera alla frontiera con la Giordania, il quarto Muro eretto dallo Stato ebraico.
L’annuncio dei lavori della barriera rappresenta l’ultima decisione presa nel quadro della politica di rigetto dei migranti e richiedenti asilo, in particolare quelli africani (quasi tutti sudanesi ed eritrei), adottata dagli ultimi tre governi israeliani guidati da Netanyahu.
L’autorizzazione del gabinetto di sicurezza era arrivata già alla fine di giugno, in accoglimento della raccomandazione dei servizi di sicurezza di estendere la barriera che divide Israele dall’Egitto anche al confine giordano, in modo da proteggere il nuovo aeroporto di Timna, a 12 km da Eilat. La parte del Muro già autorizzata correrà per 30 km da Eilat a nord, ma Netanyahu vorrebbe allungarla sino alle Alture del Golan. 240 km di confine tra Israele e Giordania più i 95 km cisgiordani tra i Territori palestinesi occupati e la Giordania.
Così, con la motivazione della difesa da possibili infiltrazioni di cellule jihadiste e di profughi, Israele si terrebbe tutta la Valle del Giordano.
il manifesto 8.9.15
Netanyahu: no ad ingresso profughi siriani, sì a nuovo muro
Rifugiati . «Israele è un piccolo Paese - ha detto Netanyahu - e non abbiamo la profondità geografica e demografica (per assorbirli). Ecco perchè dobbiamo controllare le nostre frontiere». Una nuova barriera, la quarta, dividerà Israele dalla Giordania
di Michele Giorgio
GERUSALEMME Mai come in questi giorni la destra europea e quella israeliana parlano la stessa lingua.
Sembrava di ascoltare il leader ungherese Viktor Orbán quando domenica il premier israeliano Netanyahu, rispondendo all’appello del capo dell’opposizione Yitzhak Herzog per l’ingresso in Israele di una parte dei profughi siriani, ha spiegato che il Paese è «troppo piccolo» per accoglierli.
«Israele è un piccolo Paese — ha detto Netanyahu alla riunione del governo — e non abbiamo la profondità geografica e demografica (per assorbirli).
Ecco perchè dobbiamo controllare le nostre frontiere».
Il Libano, che è più piccolo di Israele, ne ha accolti un milione sino ad oggi. «Non lasceremo che Israele sia sommerso da un’ondata di immigrati clandestini e attività terroristiche», ha aggiunto Netanyahu.
Sullo sfondo, pesanti come un macigno, le considerazioni dell’opinionista Gideon Levy che, su Haaretz, ha scritto che «Israele non ha nessun diritto di stracciarsi le vesti per la morte di Aylan Kurdi (il piccolo profugo curdo siriano morto in mare, ndr) né di singhiozzare per la foto, né di fingere shock, né di offrire aiuto e sicuramente non di fare prediche all’Europa».
«Vi è un territorio disastrato che Israele ha creato nel suo cortile (Gaza,ndr), un’ora e un quarto di macchina da Tel Aviv», ha aggiunto Levy.
Herzog, aveva lanciato il suo appello dopo una conversazione al telefono con Kamal al Labwani, un rappresentante dell’opposizione anti Bashar Assad che ha visitato Israele, mantiene rapporti stabili con Tel Aviv e in passato ha offerto la cessione definitiva allo Stato ebraico del Golan siriano in cambio di un intervento delle forze armate israeliane a sostegno della galassia di forze islamiste radicali, qaediste e jihadiste che combattono contro il governo di Damasco.
Naturalmente Herzog e il suo interlocutore al Labwani, esponente della “Siria futura”, non hanno preso in alcuna considerazione l’ingresso di altri profughi, storici, quelli palestinesi, che attendono dal 1948, forti di una risoluzione dell’Onu, la 194, di ritornare ai villaggi e alle città da cui furono cacciati o costretti a fuggire.
Ai profughi palestinesi ha pensato invece il presidente dell’Anp Abu Mazen che ha rivolto un appello all’Onu e alla comunità internazionale affinchè facciano pressioni su Netanyahu e il suo governo e lasci entrare in Cisgiordania i rifugiati palestinesi fuggiti da Yarmouk e altri campi a causa della guerra civile siriana.
In casa palestinese queste parole hanno suscitato discussioni.
Mentre ad alcuni l’idea del presidente è apparsa una soluzione credibile, in linea con il diritto internazionale, altri invece l’hanno interpretata come una rinuncia indiretta al “diritto al ritorno” dei profughi palestinesi ai loro centri abitati d’origine (ora in Israele), in accoglimento alla visione di un mini Stato di Palestina (a Gaza e in alcune porzioni della Cisgiordania) contenitore di tutti i palestinesi (forse anche quelli che oggi vivono in Galilea) accanto a Israele Stato del popolo ebraico.
Intanto, ancora a proposito di migranti e profughi di guerra, Netanyahu ha annunciato che Israele inizierà a costruire una barriera alla frontiera con la Giordania, il quarto Muro eretto dallo Stato ebraico.
L’annuncio dei lavori della barriera rappresenta l’ultima decisione presa nel quadro della politica di rigetto dei migranti e richiedenti asilo, in particolare quelli africani (quasi tutti sudanesi ed eritrei), adottata dagli ultimi tre governi israeliani guidati da Netanyahu.
L’autorizzazione del gabinetto di sicurezza era arrivata già alla fine di giugno, in accoglimento della raccomandazione dei servizi di sicurezza di estendere la barriera che divide Israele dall’Egitto anche al confine giordano, in modo da proteggere il nuovo aeroporto di Timna, a 12 km da Eilat. La parte del Muro già autorizzata correrà per 30 km da Eilat a nord, ma Netanyahu vorrebbe allungarla sino alle Alture del Golan. 240 km di confine tra Israele e Giordania più i 95 km cisgiordani tra i Territori palestinesi occupati e la Giordania.
Così, con la motivazione della difesa da possibili infiltrazioni di cellule jihadiste e di profughi, Israele si terrebbe tutta la Valle del Giordano.
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
Il Sole 8.9.15
In quelle fughe un’unica grande crisi mediterranea
di Vittorio Emanuele Parsi
Due segnali importanti arrivano in queste ore da Berlino e da Parigi: la disponibilità manifestata da entrambe le capitali ad accogliere un importante numero di richiedenti asilo (in gran parte siriani) e la decisione del presidente francese Hollande di valutare la possibilità di estendere alla Siria i bombardamenti dei caccia francesi contro le posizioni di Daesh.
Quest’ultima è stata peraltro accompagnata dal rinnovo di un fermo monito rivolto al dittatore Asad a farsi da parte, allo scopo di facilitare la ricerca di una soluzione politica alla tremenda guerra civile che da oltre tre anni sta letteralmente distruggendo il Paese.
Si tratta anche di due modi diversi ma complementari di fronteggiare la crisi interna all’Unione stessa, manifestatasi con veemenza proprio intorno all’emergenza migratoria, con le accuse rivolte ai “grandi” d’Europa da parte dei Paesi più piccoli, di avere concorso a causare o alimentare direttamente (considerata l’improvvida decisione di abbattere il regime di Gheddafi) o indirettamente (per l’inazione dimostrata di fronte al macello siriano) il presente esodo biblico.
Ma l’annuncio del presidente francese comporta innanzitutto il riconoscimento implicito che, fino a quando non verranno meno le cause che spingono i siriani a fuggire a frotte dal loro Paese, i flussi di migranti continueranno a restare ai livelli attuali.
Comunque si voglia giudicare la decisione annunciata da Hollande, sarebbe sbagliato valutarne l’appropriatezza e la necessità alla luce dell’errore madornale commesso in Libia dal suo predecessore Sarkozy.
L’appropriatezza di un’azione militare conto Daesh non può essere contestata semplicemente perché quella contro Gheddafi ha costituito un clamoroso fiasco politico.
Se il colonnello non costituiva una minaccia per la stabilità del mondo arabo, e per la sicurezza dell’Europa e delll'Occidente, nei confronti del sedicente “califfo” al Baghadadi si può affermare esattamente l’opposto.
Certamente i raid dei jet di Parigi non basteranno a eliminare i tagliagole e i tombaroli arruolatisi sotto le bandiere nere dello “pseudo mahadi”. Ma se non altro ne rallenteranno i piani e ne intralceranno le azioni.
Bombe o non bombe, resta il fatto che il sistema degli Stati del Levante (Iraq, Siria, Libano, Giordania) è sull’orlo del collasso, insieme alla Libia e ai Paesi che si affacciano sullo stretto di Bab el Mandeb (Yemen, Somalia, Eritrea) e che come diretta conseguenza non solo il Mediterraneo meridionale e orientale, ma tutto il Mediterraneo e tutte le regioni che vi si affacciano sono coinvolti in un’unica, grande crisi.
Affinché questa possa essere affrontata, deve essere innanzitutto riempito il vuoto strategico lasciato dalla ritirata americana dal Medio Oriente decisa dall’amministrazione Obama.
È auspicabile che ciò avvenga prevalentemente grazie a una ridefinizione dell’equilibrio in cui gli attori locali giochino un ruolo maggiore e decisivo, assumendosi una quota più ampia della responsabilità del suo mantenimento.
Esattamente in questa direzione va l’accordo sul nucleare iraniano, stipulato dai 5+1 e dalla Repubblica islamica (pur nella consapevolezza delle preoccupazioni saudite e israeliane).
Ma se il Mediterraneo è un sistema unico e interdipendente che è composto da una “sponda Nord” tanto quanto dalla sua “sponda Sud”, ciò implica che anche i Paesi europei devono essere disponibili ad assumersi maggiori oneri e responsabilità che in passato: umanitarie, innanzitutto, ma anche economiche e politiche. E militari, ovviamente.
Lasciare che in Siria “se la sbrigassero i siriani” ha contribuito a produrre l’emergenza umanitaria che - finalmente - abbiamo anche noi sotto gli occhi.
Chiudere i rubinetti o accogliere generosamente i profughi in fuga dal conflitto siriano non servirà a nulla, però, se contemporaneamente non si interverrà sul serbatoio che ne alimenta il flusso.
Non si tratta di provare a esportare la democrazia o imporre il proprio ordine agli altri: si tratta di essere disponibili, insieme agli altri, a farsi carico dei problemi che sono comuni al di là dei nostri desideri, dei nostri timori e delle nostre speranze.
Se ciò dovesse sembrare troppo complicato, pericoloso o semplicemente oneroso, vale la pena ricordare che quando ipotizziamo di concorrere a rimuovere le cause politiche delle presenti massicce migrazioni, stiamo parlando della parte “facile” del compito.
Molto più complesso, lungo e costoso sarà affrontare e tentare di alleviare le ragioni economiche alla base dei flussi che dal Mediterraneo e dai Balcani si riversano sull’Europa.
Ma su questo nessuno ha in mente nessuna soluzione, nemmeno la cancelliera Merkel.
Eppure se domani, per incanto, in Siria dovesse “trionfare la democrazia”, qualcuno ritiene davvero che gli attuali richiedenti asilo tornerebbero tutti in un Paese devastato e dal futuro economico incerto? Evidentemente no.
E neanche cesserebbero di arrivare i disperati dall’Africa subsahariana o dall’Asia meridionale.
Provare a governare insieme il Mediterraneo e le sue coste è solo il primo passo necessario e ineludibile, dunque, di uno sforzo che richiederà una vera e propria rivoluzione del nostro modo di concepire i rapporti politici ed economici tra Nord e Sud di questo emisfero, e i confini della “nostra” regione ben più che quelli dell’Unione stessa, che ci piaccia o meno, che lo si desideri o che lo si tema.
In quelle fughe un’unica grande crisi mediterranea
di Vittorio Emanuele Parsi
Due segnali importanti arrivano in queste ore da Berlino e da Parigi: la disponibilità manifestata da entrambe le capitali ad accogliere un importante numero di richiedenti asilo (in gran parte siriani) e la decisione del presidente francese Hollande di valutare la possibilità di estendere alla Siria i bombardamenti dei caccia francesi contro le posizioni di Daesh.
Quest’ultima è stata peraltro accompagnata dal rinnovo di un fermo monito rivolto al dittatore Asad a farsi da parte, allo scopo di facilitare la ricerca di una soluzione politica alla tremenda guerra civile che da oltre tre anni sta letteralmente distruggendo il Paese.
Si tratta anche di due modi diversi ma complementari di fronteggiare la crisi interna all’Unione stessa, manifestatasi con veemenza proprio intorno all’emergenza migratoria, con le accuse rivolte ai “grandi” d’Europa da parte dei Paesi più piccoli, di avere concorso a causare o alimentare direttamente (considerata l’improvvida decisione di abbattere il regime di Gheddafi) o indirettamente (per l’inazione dimostrata di fronte al macello siriano) il presente esodo biblico.
Ma l’annuncio del presidente francese comporta innanzitutto il riconoscimento implicito che, fino a quando non verranno meno le cause che spingono i siriani a fuggire a frotte dal loro Paese, i flussi di migranti continueranno a restare ai livelli attuali.
Comunque si voglia giudicare la decisione annunciata da Hollande, sarebbe sbagliato valutarne l’appropriatezza e la necessità alla luce dell’errore madornale commesso in Libia dal suo predecessore Sarkozy.
L’appropriatezza di un’azione militare conto Daesh non può essere contestata semplicemente perché quella contro Gheddafi ha costituito un clamoroso fiasco politico.
Se il colonnello non costituiva una minaccia per la stabilità del mondo arabo, e per la sicurezza dell’Europa e delll'Occidente, nei confronti del sedicente “califfo” al Baghadadi si può affermare esattamente l’opposto.
Certamente i raid dei jet di Parigi non basteranno a eliminare i tagliagole e i tombaroli arruolatisi sotto le bandiere nere dello “pseudo mahadi”. Ma se non altro ne rallenteranno i piani e ne intralceranno le azioni.
Bombe o non bombe, resta il fatto che il sistema degli Stati del Levante (Iraq, Siria, Libano, Giordania) è sull’orlo del collasso, insieme alla Libia e ai Paesi che si affacciano sullo stretto di Bab el Mandeb (Yemen, Somalia, Eritrea) e che come diretta conseguenza non solo il Mediterraneo meridionale e orientale, ma tutto il Mediterraneo e tutte le regioni che vi si affacciano sono coinvolti in un’unica, grande crisi.
Affinché questa possa essere affrontata, deve essere innanzitutto riempito il vuoto strategico lasciato dalla ritirata americana dal Medio Oriente decisa dall’amministrazione Obama.
È auspicabile che ciò avvenga prevalentemente grazie a una ridefinizione dell’equilibrio in cui gli attori locali giochino un ruolo maggiore e decisivo, assumendosi una quota più ampia della responsabilità del suo mantenimento.
Esattamente in questa direzione va l’accordo sul nucleare iraniano, stipulato dai 5+1 e dalla Repubblica islamica (pur nella consapevolezza delle preoccupazioni saudite e israeliane).
Ma se il Mediterraneo è un sistema unico e interdipendente che è composto da una “sponda Nord” tanto quanto dalla sua “sponda Sud”, ciò implica che anche i Paesi europei devono essere disponibili ad assumersi maggiori oneri e responsabilità che in passato: umanitarie, innanzitutto, ma anche economiche e politiche. E militari, ovviamente.
Lasciare che in Siria “se la sbrigassero i siriani” ha contribuito a produrre l’emergenza umanitaria che - finalmente - abbiamo anche noi sotto gli occhi.
Chiudere i rubinetti o accogliere generosamente i profughi in fuga dal conflitto siriano non servirà a nulla, però, se contemporaneamente non si interverrà sul serbatoio che ne alimenta il flusso.
Non si tratta di provare a esportare la democrazia o imporre il proprio ordine agli altri: si tratta di essere disponibili, insieme agli altri, a farsi carico dei problemi che sono comuni al di là dei nostri desideri, dei nostri timori e delle nostre speranze.
Se ciò dovesse sembrare troppo complicato, pericoloso o semplicemente oneroso, vale la pena ricordare che quando ipotizziamo di concorrere a rimuovere le cause politiche delle presenti massicce migrazioni, stiamo parlando della parte “facile” del compito.
Molto più complesso, lungo e costoso sarà affrontare e tentare di alleviare le ragioni economiche alla base dei flussi che dal Mediterraneo e dai Balcani si riversano sull’Europa.
Ma su questo nessuno ha in mente nessuna soluzione, nemmeno la cancelliera Merkel.
Eppure se domani, per incanto, in Siria dovesse “trionfare la democrazia”, qualcuno ritiene davvero che gli attuali richiedenti asilo tornerebbero tutti in un Paese devastato e dal futuro economico incerto? Evidentemente no.
E neanche cesserebbero di arrivare i disperati dall’Africa subsahariana o dall’Asia meridionale.
Provare a governare insieme il Mediterraneo e le sue coste è solo il primo passo necessario e ineludibile, dunque, di uno sforzo che richiederà una vera e propria rivoluzione del nostro modo di concepire i rapporti politici ed economici tra Nord e Sud di questo emisfero, e i confini della “nostra” regione ben più che quelli dell’Unione stessa, che ci piaccia o meno, che lo si desideri o che lo si tema.
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
il manifesto 8.9.15
Migranti o rifugiati: l’ipocrita dilemma d’Europa
di Guido Viale
Lungo l’autostrada Budapest-Vienna si è dissolto il futuro dell’Unione europea e ha fatto la sua comparsa una Europa nuova, fondata su una cittadinanza condivisa con profughi e migranti.
La mossa di Angela Merkel è stata abile — le ha restituito una popolarità che l’attacco alla Grecia aveva compromesso — e sacrosanta: ha permesso a migliaia di profughi di raggiungere la loro meta e a migliaia di cittadini europei — austriaci, tedeschi e soprattutto ungheresi — di dimostrare il loro vero sentire: rendendo felici milioni di europei.
Ma dopo la promessa di accogliere tutti, sono arrivati i distinguo tra paesi di provenienza sicuri e insicuri e tra profughi e migranti economici e l’assicurazione che si tratta di una misura temporanea.
Ma quella decisione unilaterale autorizza ogni governo ad andare per conto proprio: Cameron ha subito raccolto l’invito; i paesi del gruppo di Visegrad si sono opposti alle quote obbligatorie; i paesi baltici li seguiranno.
E già si parla di sostituire all’accoglienza un “contributo” in denaro: si pagheranno i respingimenti un tanto al chilo?
È stato fatto così un altro passo nel dissolvere l’identità dell’Unione europea: ci sono paesi dell’Unione fuori dall’area Schengen e paesi Schengen fuori dall’Unione; paesi dell’Unione fuori della Nato e paesi della Nato furi dall’Unione; paesi nell’Unione dall’euro; paesi virtuosi e paesi dissoluti, ecc.
Ora ci saranno paesi dell’Unione con le quote obbligatorie e paesi senza. E ciascuno si sceglierà la nazionalità che preferisce?
L’accoglienza divide tra loro gli Stati dell’Unione, impegnati a rimpallarsi le quote di profughi, e fomenta al loro interno lo scontro di cui si alimenta la xenofobia.
Ma l’Unione non avrà una politica comune su profughi e migranti perché ha adottato da anni politiche che negano l’accoglienza — casa, lavoro, reddito e sicurezza — a una quota crescente dei suoi cittadini.
Se la disoccupazione giovanile è al 20 per cento, e in alcuni paesi al 50, è a un’intera generazione che viene negata la cittadinanza.
In queste condizioni è difficile varare una politica di inclusione per centinaia di migliaia o milioni di migranti: quanti se ne possono realisticamente aspettare sia aprendo le porte, sia puntando su respingimenti inefficaci e spietati.
Il conflitto tra cittadini europei e profughi su cui ingrassa la destra xenofoba, ma a cui i governi non sanno offrire alternative, finendo per restarne succubi, non è un fatto “naturale”; è il prodotto dei tagli alla spesa pubblica e della restrizione di diritti, redditi e sicurezza di chi lavora.
Non si può cambiare politiche dell’immigrazione senza cambiare quelle di bilancio.
Ma la vera ragione della dissoluzione dell’Unione è un’altra: per anni i suoi governi hanno assistito ignavi, o hanno partecipato a massacri e guerre ai confini dell’Europa come se la cosa non li riguardasse, perché impegnati a perseguire politiche di bilancio sempre più prive di respiro, di prospettive, di futuro.
Per anni, a parte gli accordi commerciali per procurarsi petrolio e metano, nessuna forza politica europea ha mai formulato un disegno sensato sui rapporti con l’area mediorientale, mediterranea e nordafricana: che si andava avvitando in crisi e conflitti che non potevano che sfociare nella dissoluzione delle rispettive compagini sociali.
Il flusso di migranti in cerca di sopravvivenza in terra europea è la prima — ma non l’unica — conseguenza di questa politica tirchia e insipiente.
Ma ogni giorno che passa spegnere quegli incendi è più difficile.
È più facile attizzarli: Francia e Regno Unito già pensano a unirsi alla guerra in Siria, come se non fossero stati loro a scatenare quella in Libia, dove hanno creato un caos di cui nessuno riesce più a venire a capo.
Ora che a risolvere il problema di centinaia di migliaia di esseri umani alla ricerca della sopravvivenza siano i vertici dell’Unione e i suoi governi è del tutto irrealistico.
Vorrebbero respingerne la maggioranza, ma non riescono: troppo alto è il prezzo di sofferenze e di vite che stanno già facendo pagare alle loro vittime per potersene assumere la responsabilità.
Così cercano di nascondere il problema dietro la falsa distinzione tra profughi e migranti economici: come se una ragazza sfuggita alle bande di Boko Haram in Nigeria fosse diversa da un siriano che scappa dalle bombe dell’Isis, o di Assad, o di Erdogan, o degli Usa.
Ma le politiche di respingimento, oggi impersonate da Orban, ma anche da tante forze politiche non solo di destra, e programmate, solo in modo un po’ meno esplicito, da molti governi, sono state rovesciate e sconfitte, anche se solo per qualche giorno, dalla straordinaria mobilitazione di un popolo europeo solidale con i profughi in marcia sull’autostrada per Vienna o nelle stazioni austriache e tedesche; un popolo che da qualche giorno ha occupato la scena in un tutt’uno con quei profughi.
Papa Francesco ha aggiunto la sua voce, ma i protagonisti restano loro.
Accanto a quelle manifestazioni che hanno bucato lo schermo ci sono altre migliaia di volontari che cercano, senza distinguere tra profughi e migranti economici, di alleviare le sofferenze di una moltitudine immensa respinta o abbandonata a se stessa: a Calais, a Ventimiglia, a Kos, a Lampedusa, a Subotica, a Milano e in mille altri luoghi a cui i media non hanno dedicato un decimo dello spazio riservato ogni giorno alle infamie di Salvini.
Laici e cristiani, di destra (ci sono anche quelli) e di sinistra, giovani e anziani, occupati e disoccupati (senza timore che gli portino via un posto che non c’è più per nessuno), zingari perseguitati da Orban e musulmani già insediati in Europa hanno costruito con la loro mobilitazione le basi di una nuova cittadinanza europea che include, senza mediazioni, quei profughi in marcia dietro la bandiera europea.
Un unico popolo consapevole che l’accoglienza affettuosa di coloro che sono in fuga da guerre e fame è condizione irrinunciabile della convivenza civile nelle comunità e nei territori in cui vivono; e che lo sviluppo sociale dell’Europa non può prescindere dalla creazione di una cittadinanza europea comune a tutti coloro che ne condividono l’aspirazione.
In questo melting pot si possono creare anche le premesse di una riconquista alla pace e alla democrazia dei paesi da cui profughi e migranti sono fuggiti: con organizzazioni comuni che individuino le condizioni di una loro pacificazione e i programmi per la loro ricostruzione; che conquistino il diritto di sedere al tavolo delle trattative diplomatiche; che siano punto di riferimento per le comunità dei loro paesi di origine.
Nel gesto con cui migliaia di volontari hanno aiutato i profughi ad attraversare l’Ungheria c’è, senza ancora le parole per dirlo, il nuovo manifesto di Ventotene di un’Europa interamente da ricostruire.
Migranti o rifugiati: l’ipocrita dilemma d’Europa
di Guido Viale
Lungo l’autostrada Budapest-Vienna si è dissolto il futuro dell’Unione europea e ha fatto la sua comparsa una Europa nuova, fondata su una cittadinanza condivisa con profughi e migranti.
La mossa di Angela Merkel è stata abile — le ha restituito una popolarità che l’attacco alla Grecia aveva compromesso — e sacrosanta: ha permesso a migliaia di profughi di raggiungere la loro meta e a migliaia di cittadini europei — austriaci, tedeschi e soprattutto ungheresi — di dimostrare il loro vero sentire: rendendo felici milioni di europei.
Ma dopo la promessa di accogliere tutti, sono arrivati i distinguo tra paesi di provenienza sicuri e insicuri e tra profughi e migranti economici e l’assicurazione che si tratta di una misura temporanea.
Ma quella decisione unilaterale autorizza ogni governo ad andare per conto proprio: Cameron ha subito raccolto l’invito; i paesi del gruppo di Visegrad si sono opposti alle quote obbligatorie; i paesi baltici li seguiranno.
E già si parla di sostituire all’accoglienza un “contributo” in denaro: si pagheranno i respingimenti un tanto al chilo?
È stato fatto così un altro passo nel dissolvere l’identità dell’Unione europea: ci sono paesi dell’Unione fuori dall’area Schengen e paesi Schengen fuori dall’Unione; paesi dell’Unione fuori della Nato e paesi della Nato furi dall’Unione; paesi nell’Unione dall’euro; paesi virtuosi e paesi dissoluti, ecc.
Ora ci saranno paesi dell’Unione con le quote obbligatorie e paesi senza. E ciascuno si sceglierà la nazionalità che preferisce?
L’accoglienza divide tra loro gli Stati dell’Unione, impegnati a rimpallarsi le quote di profughi, e fomenta al loro interno lo scontro di cui si alimenta la xenofobia.
Ma l’Unione non avrà una politica comune su profughi e migranti perché ha adottato da anni politiche che negano l’accoglienza — casa, lavoro, reddito e sicurezza — a una quota crescente dei suoi cittadini.
Se la disoccupazione giovanile è al 20 per cento, e in alcuni paesi al 50, è a un’intera generazione che viene negata la cittadinanza.
In queste condizioni è difficile varare una politica di inclusione per centinaia di migliaia o milioni di migranti: quanti se ne possono realisticamente aspettare sia aprendo le porte, sia puntando su respingimenti inefficaci e spietati.
Il conflitto tra cittadini europei e profughi su cui ingrassa la destra xenofoba, ma a cui i governi non sanno offrire alternative, finendo per restarne succubi, non è un fatto “naturale”; è il prodotto dei tagli alla spesa pubblica e della restrizione di diritti, redditi e sicurezza di chi lavora.
Non si può cambiare politiche dell’immigrazione senza cambiare quelle di bilancio.
Ma la vera ragione della dissoluzione dell’Unione è un’altra: per anni i suoi governi hanno assistito ignavi, o hanno partecipato a massacri e guerre ai confini dell’Europa come se la cosa non li riguardasse, perché impegnati a perseguire politiche di bilancio sempre più prive di respiro, di prospettive, di futuro.
Per anni, a parte gli accordi commerciali per procurarsi petrolio e metano, nessuna forza politica europea ha mai formulato un disegno sensato sui rapporti con l’area mediorientale, mediterranea e nordafricana: che si andava avvitando in crisi e conflitti che non potevano che sfociare nella dissoluzione delle rispettive compagini sociali.
Il flusso di migranti in cerca di sopravvivenza in terra europea è la prima — ma non l’unica — conseguenza di questa politica tirchia e insipiente.
Ma ogni giorno che passa spegnere quegli incendi è più difficile.
È più facile attizzarli: Francia e Regno Unito già pensano a unirsi alla guerra in Siria, come se non fossero stati loro a scatenare quella in Libia, dove hanno creato un caos di cui nessuno riesce più a venire a capo.
Ora che a risolvere il problema di centinaia di migliaia di esseri umani alla ricerca della sopravvivenza siano i vertici dell’Unione e i suoi governi è del tutto irrealistico.
Vorrebbero respingerne la maggioranza, ma non riescono: troppo alto è il prezzo di sofferenze e di vite che stanno già facendo pagare alle loro vittime per potersene assumere la responsabilità.
Così cercano di nascondere il problema dietro la falsa distinzione tra profughi e migranti economici: come se una ragazza sfuggita alle bande di Boko Haram in Nigeria fosse diversa da un siriano che scappa dalle bombe dell’Isis, o di Assad, o di Erdogan, o degli Usa.
Ma le politiche di respingimento, oggi impersonate da Orban, ma anche da tante forze politiche non solo di destra, e programmate, solo in modo un po’ meno esplicito, da molti governi, sono state rovesciate e sconfitte, anche se solo per qualche giorno, dalla straordinaria mobilitazione di un popolo europeo solidale con i profughi in marcia sull’autostrada per Vienna o nelle stazioni austriache e tedesche; un popolo che da qualche giorno ha occupato la scena in un tutt’uno con quei profughi.
Papa Francesco ha aggiunto la sua voce, ma i protagonisti restano loro.
Accanto a quelle manifestazioni che hanno bucato lo schermo ci sono altre migliaia di volontari che cercano, senza distinguere tra profughi e migranti economici, di alleviare le sofferenze di una moltitudine immensa respinta o abbandonata a se stessa: a Calais, a Ventimiglia, a Kos, a Lampedusa, a Subotica, a Milano e in mille altri luoghi a cui i media non hanno dedicato un decimo dello spazio riservato ogni giorno alle infamie di Salvini.
Laici e cristiani, di destra (ci sono anche quelli) e di sinistra, giovani e anziani, occupati e disoccupati (senza timore che gli portino via un posto che non c’è più per nessuno), zingari perseguitati da Orban e musulmani già insediati in Europa hanno costruito con la loro mobilitazione le basi di una nuova cittadinanza europea che include, senza mediazioni, quei profughi in marcia dietro la bandiera europea.
Un unico popolo consapevole che l’accoglienza affettuosa di coloro che sono in fuga da guerre e fame è condizione irrinunciabile della convivenza civile nelle comunità e nei territori in cui vivono; e che lo sviluppo sociale dell’Europa non può prescindere dalla creazione di una cittadinanza europea comune a tutti coloro che ne condividono l’aspirazione.
In questo melting pot si possono creare anche le premesse di una riconquista alla pace e alla democrazia dei paesi da cui profughi e migranti sono fuggiti: con organizzazioni comuni che individuino le condizioni di una loro pacificazione e i programmi per la loro ricostruzione; che conquistino il diritto di sedere al tavolo delle trattative diplomatiche; che siano punto di riferimento per le comunità dei loro paesi di origine.
Nel gesto con cui migliaia di volontari hanno aiutato i profughi ad attraversare l’Ungheria c’è, senza ancora le parole per dirlo, il nuovo manifesto di Ventotene di un’Europa interamente da ricostruire.
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
Corriere 8.9.15
Dai bavaresi a Le Pen, il malumore si fa strada
di Maria Serena Natale
MONACO Fuori dal centro di prima accoglienza allestito alla Fiera di Monaco c’è una fila di taxi in attesa. Il prezzo si contratta. Hannover? Seicento chilometri, mille euro.
Rispetto ai pacchetti tutto incluso dei trafficanti di uomini, un viaggio in business.
Ci sono famiglie da riunire, storie da raccontare e troppo tempo da recuperare.
Chi tra i profughi può permetterselo, paga senza aspettare i trasferimenti organizzati né le quote della Ue.
Chi se la sente ancora sale su un treno e parte verso nuovi confini.
Danimarca, Svezia, Norvegia… biglietto di sola andata. Sull’onda dell’emozione, che non è per sempre.
Non solo l’Ungheria di Viktor Orbán, che torna all’attacco su invasione musulmana e debolezze occidentali.
Non solo la Polonia che fissa un tetto di duemila rifugiati, meno di quanti hanno passato la notte alla Fiera. Non solo Est.
Il malumore per la politica delle frontiere aperte si fa sentire pure all’Ovest.
Il britannico David Cameron stabilisce il suo limite agli ingressi, ventimila.
A Copenaghen il Partito del popolo chiede di reintrodurre i controlli pre-Schengen e il governo di minoranza liberale, legato a doppio filo all’appoggio dei populisti, deve almeno ascoltare: il Ministero dell’Immigrazione lancia una campagna per scoraggiare le partenze dal Libano, come faceva fino a qualche settimana fa la Germania con gli spot per i Balcani.
La stessa Germania dove oggi Angela Merkel vede la fronda degli alleati bavaresi della Csu che definiscono «una scelta sbagliata» azzerare i controlli.
E dalla Francia alza il tiro la leader del Front National. L’accoglienza tedesca?
Copertura umanitaria per regalare schiavi all’economia.
«L’immigrazione è solo un fardello» dice Marine Le Pen in perfetta sintonia con il premier ungherese Orbán, saldando un’alleanza tra destre anti-immigrati.
L’altra faccia della solidarietà è l’inquietudine.
Il 55% dei francesi è contro l’agevolazione delle procedure d’asilo.
Ora che anche l’Austria sta per richiudere le frontiere, si tenta il tutto per tutto.
Ieri in centinaia si sono messi in marcia dal confine serbo-ungherese.
Sfondano blocchi, aprono varchi nel filo spinato, corrono senza guardarsi indietro. Non è finita.
Dai bavaresi a Le Pen, il malumore si fa strada
di Maria Serena Natale
MONACO Fuori dal centro di prima accoglienza allestito alla Fiera di Monaco c’è una fila di taxi in attesa. Il prezzo si contratta. Hannover? Seicento chilometri, mille euro.
Rispetto ai pacchetti tutto incluso dei trafficanti di uomini, un viaggio in business.
Ci sono famiglie da riunire, storie da raccontare e troppo tempo da recuperare.
Chi tra i profughi può permetterselo, paga senza aspettare i trasferimenti organizzati né le quote della Ue.
Chi se la sente ancora sale su un treno e parte verso nuovi confini.
Danimarca, Svezia, Norvegia… biglietto di sola andata. Sull’onda dell’emozione, che non è per sempre.
Non solo l’Ungheria di Viktor Orbán, che torna all’attacco su invasione musulmana e debolezze occidentali.
Non solo la Polonia che fissa un tetto di duemila rifugiati, meno di quanti hanno passato la notte alla Fiera. Non solo Est.
Il malumore per la politica delle frontiere aperte si fa sentire pure all’Ovest.
Il britannico David Cameron stabilisce il suo limite agli ingressi, ventimila.
A Copenaghen il Partito del popolo chiede di reintrodurre i controlli pre-Schengen e il governo di minoranza liberale, legato a doppio filo all’appoggio dei populisti, deve almeno ascoltare: il Ministero dell’Immigrazione lancia una campagna per scoraggiare le partenze dal Libano, come faceva fino a qualche settimana fa la Germania con gli spot per i Balcani.
La stessa Germania dove oggi Angela Merkel vede la fronda degli alleati bavaresi della Csu che definiscono «una scelta sbagliata» azzerare i controlli.
E dalla Francia alza il tiro la leader del Front National. L’accoglienza tedesca?
Copertura umanitaria per regalare schiavi all’economia.
«L’immigrazione è solo un fardello» dice Marine Le Pen in perfetta sintonia con il premier ungherese Orbán, saldando un’alleanza tra destre anti-immigrati.
L’altra faccia della solidarietà è l’inquietudine.
Il 55% dei francesi è contro l’agevolazione delle procedure d’asilo.
Ora che anche l’Austria sta per richiudere le frontiere, si tenta il tutto per tutto.
Ieri in centinaia si sono messi in marcia dal confine serbo-ungherese.
Sfondano blocchi, aprono varchi nel filo spinato, corrono senza guardarsi indietro. Non è finita.
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
1,5 milioni di immigrati sono in arrivo dai Balcani
La rotta via mare non è più in cima alle preoccupazioni delle autorità europee. Ora il fronte caldo è la rotta balcanica. La procura di Palermo avverte: "Solo la minima parte degli immigrati in fuga raggiunge la Libia per poi tentare la traversata del Canale di Sicilia"
Franco Grilli - Mar, 08/09/2015 - 23:09
Una valanga di pronostici su quello che sarà il futuro dell'emergenza immigrazione stanno invadendo le segreterie dei governi europei. Numeri allarmanti.
Si parte da quello che è certo. Il 2015 e il 2015: due anni da incubo che hanno visto circa due milioni di persone muoversi dall'Africa e dal Medio Oriente all'Europa. Un fiume in piena che non è destinato a fermarsi.
Perché, se i dati acquisiti dal pm della procura di Palermo Calogero Ferrara durante una recente trasferta in Libano sono veri, c'è da mettersi le mani nei capelli. Ci sarebbero circa un milione e mezzo di profughi in territorio libanese in attesa di potere raggiungere l’Europa.
Nel 2015 l’Unhcr prevede che circa 400mila persone in fuga attraverso il Mediterraneo faranno richiesta d’asilo in Europa. Nel 2016 si potrebbe arrivare a 450mila nuove richieste o più. Ma la rotta via mare non è quella che più preoccupa le autorità europee. I migranti tentano l'arrivo nel Vecchio Continente sbarcando in Grecia o via terra, attraverso il percorso dei Balcani. In minima parte, dunque, raggiungono la Libia per poi tentare la "traversata" del Canale di Sicilia. Seconjdo fonti dell'intelligence italiana, il fronte delle partenze si sarebbe allargato alla rotta balcanica anche a causa dagli arresti che, su disposizione della procura di Palermo guidata da Francesco Lo Voi, hanno portato a sgominare numerosi scafisti. Gli investigatori sono in possesso di circa 30 mila telefonate intercettate - svariate le lingue utilizzate, in prevalenza arabo ma anche numerosi dialetti tra cui urdu, mandinga, bafana e tigrino - in cui i responsabili dell’organizzazione transnazionale manifestano i timori per l’arresto non appena giunti nel territorio italiano. E soprattutto per le condanne. Un timore confermato ai magistrati anche dal primo scafista "pentito", l’eritreo Nuredin Wehabrebi Atta, da giugno sotto protezione, che sta raccontando ai pm tutto quello che sa sul network di trafficanti capeggiato da Ghermay Hermias, un etiope residente in Libia, e da Jhon Mharay, un sudanese localizzato a Kartoon, entrambi latitanti su cui pende un mandato di cattura internazionale.
"Il punto di svolta per la Procura di Palermo è rappresentato dalla tragedia del 3 ottobre 2013 quando a Lampedusa morirono 366 persone", ha detto il magistrato intervenendo questo pomeriggio al workshop internazionale Connect - Rafforzare la cooperazione orizzontale tra Italia, Portogallo e Romania nella lotta alla tratta di esseri umani, realizzato da Ciss Cooperazione internazionale Sud Sud con l’associazione portoghese Umar e la romena Arad. "Da Quel momento - ha aggiunto il pm - abbiamo cambiato l’approccio a questo tipo di crimine, è stato istituito un team di magistrati che si occupa in maniera specifica di questi reati, contestando anche l’associazione a delinquere, attraverso l’intervento della direzione distrettuale antimafia. Utilizzando il sistema della condivisione delle indagini e non considerandoli più singoli eventi. Abbiamo arrestato diverse decine di scafisti, ottenendo anche condanne dai 18 ai 30 anni di carcere". Un "metodo" che la procura di Palermo ha anche messo a disposizione delle autorità di polizia e giudiziarie degli altri paesi europei, già da diversi mesi quando ancora l’emergenza immigrazione era una questione esclusivamente italiana, attraverso i periodici incontri ad Eurojust, nel corso dei quali "è stato messo a disposizione una grande quantità di materiale probatorio per consentire l’avvio delle indagini anche da parte di altre procure non italiane".
http://www.ilgiornale.it/news/mondo/15- ... 68360.html
La rotta via mare non è più in cima alle preoccupazioni delle autorità europee. Ora il fronte caldo è la rotta balcanica. La procura di Palermo avverte: "Solo la minima parte degli immigrati in fuga raggiunge la Libia per poi tentare la traversata del Canale di Sicilia"
Franco Grilli - Mar, 08/09/2015 - 23:09
Una valanga di pronostici su quello che sarà il futuro dell'emergenza immigrazione stanno invadendo le segreterie dei governi europei. Numeri allarmanti.
Si parte da quello che è certo. Il 2015 e il 2015: due anni da incubo che hanno visto circa due milioni di persone muoversi dall'Africa e dal Medio Oriente all'Europa. Un fiume in piena che non è destinato a fermarsi.
Perché, se i dati acquisiti dal pm della procura di Palermo Calogero Ferrara durante una recente trasferta in Libano sono veri, c'è da mettersi le mani nei capelli. Ci sarebbero circa un milione e mezzo di profughi in territorio libanese in attesa di potere raggiungere l’Europa.
Nel 2015 l’Unhcr prevede che circa 400mila persone in fuga attraverso il Mediterraneo faranno richiesta d’asilo in Europa. Nel 2016 si potrebbe arrivare a 450mila nuove richieste o più. Ma la rotta via mare non è quella che più preoccupa le autorità europee. I migranti tentano l'arrivo nel Vecchio Continente sbarcando in Grecia o via terra, attraverso il percorso dei Balcani. In minima parte, dunque, raggiungono la Libia per poi tentare la "traversata" del Canale di Sicilia. Seconjdo fonti dell'intelligence italiana, il fronte delle partenze si sarebbe allargato alla rotta balcanica anche a causa dagli arresti che, su disposizione della procura di Palermo guidata da Francesco Lo Voi, hanno portato a sgominare numerosi scafisti. Gli investigatori sono in possesso di circa 30 mila telefonate intercettate - svariate le lingue utilizzate, in prevalenza arabo ma anche numerosi dialetti tra cui urdu, mandinga, bafana e tigrino - in cui i responsabili dell’organizzazione transnazionale manifestano i timori per l’arresto non appena giunti nel territorio italiano. E soprattutto per le condanne. Un timore confermato ai magistrati anche dal primo scafista "pentito", l’eritreo Nuredin Wehabrebi Atta, da giugno sotto protezione, che sta raccontando ai pm tutto quello che sa sul network di trafficanti capeggiato da Ghermay Hermias, un etiope residente in Libia, e da Jhon Mharay, un sudanese localizzato a Kartoon, entrambi latitanti su cui pende un mandato di cattura internazionale.
"Il punto di svolta per la Procura di Palermo è rappresentato dalla tragedia del 3 ottobre 2013 quando a Lampedusa morirono 366 persone", ha detto il magistrato intervenendo questo pomeriggio al workshop internazionale Connect - Rafforzare la cooperazione orizzontale tra Italia, Portogallo e Romania nella lotta alla tratta di esseri umani, realizzato da Ciss Cooperazione internazionale Sud Sud con l’associazione portoghese Umar e la romena Arad. "Da Quel momento - ha aggiunto il pm - abbiamo cambiato l’approccio a questo tipo di crimine, è stato istituito un team di magistrati che si occupa in maniera specifica di questi reati, contestando anche l’associazione a delinquere, attraverso l’intervento della direzione distrettuale antimafia. Utilizzando il sistema della condivisione delle indagini e non considerandoli più singoli eventi. Abbiamo arrestato diverse decine di scafisti, ottenendo anche condanne dai 18 ai 30 anni di carcere". Un "metodo" che la procura di Palermo ha anche messo a disposizione delle autorità di polizia e giudiziarie degli altri paesi europei, già da diversi mesi quando ancora l’emergenza immigrazione era una questione esclusivamente italiana, attraverso i periodici incontri ad Eurojust, nel corso dei quali "è stato messo a disposizione una grande quantità di materiale probatorio per consentire l’avvio delle indagini anche da parte di altre procure non italiane".
http://www.ilgiornale.it/news/mondo/15- ... 68360.html
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
Guerre, violenze, stupri: da cosa scappano i migranti Videoscheda
Da dove vengono e da cosa fuggono gli uomini e le donne che partono per raggiungere l'Europa? Secondo i dati dell'Alto commissariato per i rifugiati dell'Onu, il 51 per cento delle persone sbarcate nel 2015 arriva dalla Siria. Il 14 per cento dall’Afghanistan, l’8 per cento dall’Eritrea, il 4 dalla Nigeria, il 3 dall’Iraq, il 2 dalla Somalia. Zone dilaniate da povertà, conflitti e violenze di ogni genere. Ecco, paese per paese, cosa hanno lasciato i migranti arrivati sulle coste dell'Italia e della Grecia.
Se vai a vedere da cosa scappano mi fa veramente pena un Salvini che distingue i clandestini dai rifugiati aventi diritto,
sono tutti dei poveri disgraziati a rischio della vita nel loro paese e per questo rischiano la vita fuggendo dal loro paese.
L'immigrazione è una delle piaghe dell'umanità ed è normale , direi che risponde perfettamente alla legge fisica dei vasi comunicanti, per cui in un mondo globalizzato ci si deve organizzare per essere pronti a trovare delle soluzioni che siano degne di un mondo civile in cui la vita delle persone viene comunque prima dei beni materiali che nel mondo occidentale straripano in modo disordinato e diseguale .
E' logico , normale un flusso dai paesi poveri (o impoveriti dal mondo occidentale) verso i paesi più ricchi,
si tratta di distribuire meglio le risorse.
Da dove vengono e da cosa fuggono gli uomini e le donne che partono per raggiungere l'Europa? Secondo i dati dell'Alto commissariato per i rifugiati dell'Onu, il 51 per cento delle persone sbarcate nel 2015 arriva dalla Siria. Il 14 per cento dall’Afghanistan, l’8 per cento dall’Eritrea, il 4 dalla Nigeria, il 3 dall’Iraq, il 2 dalla Somalia. Zone dilaniate da povertà, conflitti e violenze di ogni genere. Ecco, paese per paese, cosa hanno lasciato i migranti arrivati sulle coste dell'Italia e della Grecia.
Se vai a vedere da cosa scappano mi fa veramente pena un Salvini che distingue i clandestini dai rifugiati aventi diritto,
sono tutti dei poveri disgraziati a rischio della vita nel loro paese e per questo rischiano la vita fuggendo dal loro paese.
L'immigrazione è una delle piaghe dell'umanità ed è normale , direi che risponde perfettamente alla legge fisica dei vasi comunicanti, per cui in un mondo globalizzato ci si deve organizzare per essere pronti a trovare delle soluzioni che siano degne di un mondo civile in cui la vita delle persone viene comunque prima dei beni materiali che nel mondo occidentale straripano in modo disordinato e diseguale .
E' logico , normale un flusso dai paesi poveri (o impoveriti dal mondo occidentale) verso i paesi più ricchi,
si tratta di distribuire meglio le risorse.
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
La crisi nella crisi.
Emma Bonino è una dei pochissimi politici italiani ad avere le idee chiare in materia di emigranti.
9 settembre 2015 | di Irene Buscemi
Bonino: ‘Cambio di rotta Merkel? Europa in calo demografico ha bisogno di immigrati’
“Non c’era bisogno della palla di vetro per prevedere queste cifre, né di sparate alla Salvini. Non è un‘invasione o una catastrofe, il problema dei profughi va risolto con razionalità. Mi auguro ci sia un cambio di paradigma. La Commissione europea ha svolto il suo ruolo, ora tocca agli stati membri, ma finora la reazione è stata più che deludente”. Così Emma Bonino, leader radicale ed ex ministro degli Esteri, commenta l’approvazione del piano Junker sulla ripartizione dei richiedenti asilo nell’Ue. Lo fa a margine della manifestazione ‘Accogliamoci’ a Roma, l’iniziativa dei Radicali per raccogliere le firme a favore di due delibere su un nuovo sistema d’accoglienza e integrazione dei rom a Roma. La Bonino plaude al cambiamento di rotta di Angela Merkel e della sua Germania oggi pronta a collaborare con Grecia e Italia, ma ridimensiona la portata di tale inversione di marcia. “L’Europa vive un calo demografico importantissimo, per il 2050, cioè domani, avrà bisogno di 50 milioni di immigrati per sostenere il proprio sistema di welfare e pensionistico, l’Europa ha bisogno di queste gente, questa è una verità, una delle ragioni che avranno spinto Angela Merkel a cambiare posizione”. Ma l’Europa secondo la Bonino ancora non è pronta: “E’ cacofonica, c’è chi erige muri, chi mette fili spinati, chi vuole soltanto i siriani, altri gli eritrei, il vero problema è la mancanza di un’azione collettiva europea molto di più della crisi dei rifugiati” aggiunge. Sull’annuncio di Francois Hollande di un possibile raid contro l’Isis in Siria afferma: “Sono allergica a guerra spot come in Libia che si sa come si entra ma non come se ne esce, non ne capisco la strategia politica, bene ha fatto Renzi a defilarsi, avrei fatto lo stesso, anche qui facciamo finta che l’Isis nasca oggi quando nostri pregevoli alleanti l’hanno nutrito e finanziato fin dal 2006”
Emma Bonino è una dei pochissimi politici italiani ad avere le idee chiare in materia di emigranti.
9 settembre 2015 | di Irene Buscemi
Bonino: ‘Cambio di rotta Merkel? Europa in calo demografico ha bisogno di immigrati’
“Non c’era bisogno della palla di vetro per prevedere queste cifre, né di sparate alla Salvini. Non è un‘invasione o una catastrofe, il problema dei profughi va risolto con razionalità. Mi auguro ci sia un cambio di paradigma. La Commissione europea ha svolto il suo ruolo, ora tocca agli stati membri, ma finora la reazione è stata più che deludente”. Così Emma Bonino, leader radicale ed ex ministro degli Esteri, commenta l’approvazione del piano Junker sulla ripartizione dei richiedenti asilo nell’Ue. Lo fa a margine della manifestazione ‘Accogliamoci’ a Roma, l’iniziativa dei Radicali per raccogliere le firme a favore di due delibere su un nuovo sistema d’accoglienza e integrazione dei rom a Roma. La Bonino plaude al cambiamento di rotta di Angela Merkel e della sua Germania oggi pronta a collaborare con Grecia e Italia, ma ridimensiona la portata di tale inversione di marcia. “L’Europa vive un calo demografico importantissimo, per il 2050, cioè domani, avrà bisogno di 50 milioni di immigrati per sostenere il proprio sistema di welfare e pensionistico, l’Europa ha bisogno di queste gente, questa è una verità, una delle ragioni che avranno spinto Angela Merkel a cambiare posizione”. Ma l’Europa secondo la Bonino ancora non è pronta: “E’ cacofonica, c’è chi erige muri, chi mette fili spinati, chi vuole soltanto i siriani, altri gli eritrei, il vero problema è la mancanza di un’azione collettiva europea molto di più della crisi dei rifugiati” aggiunge. Sull’annuncio di Francois Hollande di un possibile raid contro l’Isis in Siria afferma: “Sono allergica a guerra spot come in Libia che si sa come si entra ma non come se ne esce, non ne capisco la strategia politica, bene ha fatto Renzi a defilarsi, avrei fatto lo stesso, anche qui facciamo finta che l’Isis nasca oggi quando nostri pregevoli alleanti l’hanno nutrito e finanziato fin dal 2006”
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
Piovono Rane
di Alessandro Gilioli
09 set
Se vedete altre strade, fatemele sapere
C'è un filo rosso che forse bisogna vedere, in questo casino che è l'Europa del 2015. Un filo che va dall'Ungheria di Orban alle profezie di Houellebecq. E attraversa anche l'Italia di oggi: la sua pancia, la sua politica.
Prendete Orban, appunto. Che va personalmente a controllare i lavori al confine, a verificare che il filo spinato sia bello alto. Che ha fatto passare una Costituzione piena di riferimenti al sacro cristiano, al nazionalismo magiaro, addirittura alla corona di Santo Stefano, stabilendo poi che il matrimonio è solo «unione di vita tra uomo e donna», «la vita del feto è protetta dal concepimento». È tuttavia lo stesso Orban che nella carta fondante ha imposto il divieto degli Ogm e nel suo governare si è opposto alla Troika, ha nazionalizzato le banche, ha tassato le multinazionali.
Incoerenze? Mah. A me sembra che invece ci sia continuità, in tutte queste scelte. Una continuità che consiste nel proteggere il popolo dalla paura. Dalla paura di mescolarsi, di perdere la propria identità, il proprio passato. Ma anche dalla paura di competere troppo, di finire nello schiacciasassi dell'iperliberismo globale. È come se al suo popolo Orban avesse messo una coperta di lana mentre fuori infuria la tempesta.
Nell'ultimo libro di Houellebecq, la Francia finisce più o meno così. Certo, lì a vincere è l'Islam, ma vince perché svolge la stessa opera di tranquillizzazione, rassicurazione, conforto. Il leader islamico che arriva all'Eliseo mette la museruola alla voracità della globalizzazione, alla spietatezza dell'agonismo sociale, all'eccesso di disparità economiche. I francesi si adeguano con piacere, collaborando con il nuovo regime. Che toglie un po' di libertà, certo, ma incrementa le sicurezze.
In Europa veniamo da trent'anni in cui ha stravinto il mantra secondo cui la società neppure esiste, esistono solo gli individui. E ogni individuo è così rimasto solo di fronte ai giganteschi e rapidissimi cambiamenti economici in corso: solo di fronte al precariato, all'insicurezza quotidiana, all'ipercompetizione. Spesso solo anche in senso affettivo: il tasso di matrimoni crolla e comunque la famiglia è sempre più liquida, provvisoria. Anche la religione - certezza antica a cui si è aggrappata per millenni ogni paura, ogni disperazione - è al tramonto. Non parliamo degli altri corpi intermedi: i partiti, i sindacati. Più che liquidi, proprio liquidati.
Di qui la reazione. Inevitabile. Che assume declinazioni diverse tra loro, ma ha la stessa causa: cioè la globalizzazione nella forma in cui è avvenuta. Velocissima, devastante, vincista. E sì, anche liberista. E sì, ancora, è la stessa globalizzazione che sta provocando spostamenti di massa di persone per ragioni economiche.
Quindi nella reazione c'è di tutto. Gli obiettivi dell'avversione si assommano e si mescolano: dalla Troika ai migranti, dalla robotica agli Ogm, dalle banche ai matrimoni gay. C'è dentro tutto quello che si pensa abbia frantumato per sempre le certezze del passato. Che poi alcune di queste cause siano in realtà a loro volta effetti, è questione troppo sottile per chi ha paura e nostalgia. Tanto più se queste paure e nostalgie a loro volta si mescolano con un peggioramento della propria condizione sociale: il ceto medio impoverito, insomma. Bel cocktail, mamma mia.
Ecco che allora, mentre questa tempesta infuria, si cerca appunto una coperta calda. Si chiami Orban o Salvini. Ma non avviene solo a destra. Anche Corbyn, in Gran Bretagna, basa molto del suo crescente consenso sulla nostalgia per la socialdemocrazia. Nella vittoria elettorale di Syriza, un anno fa, c'era un Paese passato in un attimo dalla preminenza rurale a quella finanziaria, con catastrofe annessa. E quanti ne conosco, nella sinistra italiana, che tradiscono nostalgia per un periodo in cui il conflitto di classe era lineare e la possibile risposta dello Stato altrettanto semplice. Per un periodo in cui la storia andava piano.
Di fronte a tutto questo, siamo nella fase della rabbia e della recriminazione: per un processo economico-sociale che è stato devastante per velocità e voracità.
Ma oltre le recriminazioni, credo che si possa partire solo da due consapevolezze.
La prima è che dal gigantesco cambiamento strutturale avvenuto e ancora in corso non è che si possa tornare indietro costruendo fili spinati, facendo le sentinelle in piedi o arroccandosi nelle convinzioni ideologiche del Novecento.
La seconda però è che il processo finora è stato pessimamente gestito ed è sempre rimasto nelle mani di pochi: i quali, nella loro imprudente bulimia, si sono largamente fottuti delle conseguenze di quanto stava avvenendo nella carne e nel cuore delle persone.
L'obiettivo, forse, non è quindi mettere una coperta ai popoli per proteggerli dal cambiamento, ma sottrarre la gestione del cambiamento a quei pochi - e bulimici, e sciagurati.
Non è che sia una sfida difficile: è immane, gigantesca, ciclopica.
Ma se vedete altre strade possibili, in questo casino, fatemele sapere.
di Alessandro Gilioli
09 set
Se vedete altre strade, fatemele sapere
C'è un filo rosso che forse bisogna vedere, in questo casino che è l'Europa del 2015. Un filo che va dall'Ungheria di Orban alle profezie di Houellebecq. E attraversa anche l'Italia di oggi: la sua pancia, la sua politica.
Prendete Orban, appunto. Che va personalmente a controllare i lavori al confine, a verificare che il filo spinato sia bello alto. Che ha fatto passare una Costituzione piena di riferimenti al sacro cristiano, al nazionalismo magiaro, addirittura alla corona di Santo Stefano, stabilendo poi che il matrimonio è solo «unione di vita tra uomo e donna», «la vita del feto è protetta dal concepimento». È tuttavia lo stesso Orban che nella carta fondante ha imposto il divieto degli Ogm e nel suo governare si è opposto alla Troika, ha nazionalizzato le banche, ha tassato le multinazionali.
Incoerenze? Mah. A me sembra che invece ci sia continuità, in tutte queste scelte. Una continuità che consiste nel proteggere il popolo dalla paura. Dalla paura di mescolarsi, di perdere la propria identità, il proprio passato. Ma anche dalla paura di competere troppo, di finire nello schiacciasassi dell'iperliberismo globale. È come se al suo popolo Orban avesse messo una coperta di lana mentre fuori infuria la tempesta.
Nell'ultimo libro di Houellebecq, la Francia finisce più o meno così. Certo, lì a vincere è l'Islam, ma vince perché svolge la stessa opera di tranquillizzazione, rassicurazione, conforto. Il leader islamico che arriva all'Eliseo mette la museruola alla voracità della globalizzazione, alla spietatezza dell'agonismo sociale, all'eccesso di disparità economiche. I francesi si adeguano con piacere, collaborando con il nuovo regime. Che toglie un po' di libertà, certo, ma incrementa le sicurezze.
In Europa veniamo da trent'anni in cui ha stravinto il mantra secondo cui la società neppure esiste, esistono solo gli individui. E ogni individuo è così rimasto solo di fronte ai giganteschi e rapidissimi cambiamenti economici in corso: solo di fronte al precariato, all'insicurezza quotidiana, all'ipercompetizione. Spesso solo anche in senso affettivo: il tasso di matrimoni crolla e comunque la famiglia è sempre più liquida, provvisoria. Anche la religione - certezza antica a cui si è aggrappata per millenni ogni paura, ogni disperazione - è al tramonto. Non parliamo degli altri corpi intermedi: i partiti, i sindacati. Più che liquidi, proprio liquidati.
Di qui la reazione. Inevitabile. Che assume declinazioni diverse tra loro, ma ha la stessa causa: cioè la globalizzazione nella forma in cui è avvenuta. Velocissima, devastante, vincista. E sì, anche liberista. E sì, ancora, è la stessa globalizzazione che sta provocando spostamenti di massa di persone per ragioni economiche.
Quindi nella reazione c'è di tutto. Gli obiettivi dell'avversione si assommano e si mescolano: dalla Troika ai migranti, dalla robotica agli Ogm, dalle banche ai matrimoni gay. C'è dentro tutto quello che si pensa abbia frantumato per sempre le certezze del passato. Che poi alcune di queste cause siano in realtà a loro volta effetti, è questione troppo sottile per chi ha paura e nostalgia. Tanto più se queste paure e nostalgie a loro volta si mescolano con un peggioramento della propria condizione sociale: il ceto medio impoverito, insomma. Bel cocktail, mamma mia.
Ecco che allora, mentre questa tempesta infuria, si cerca appunto una coperta calda. Si chiami Orban o Salvini. Ma non avviene solo a destra. Anche Corbyn, in Gran Bretagna, basa molto del suo crescente consenso sulla nostalgia per la socialdemocrazia. Nella vittoria elettorale di Syriza, un anno fa, c'era un Paese passato in un attimo dalla preminenza rurale a quella finanziaria, con catastrofe annessa. E quanti ne conosco, nella sinistra italiana, che tradiscono nostalgia per un periodo in cui il conflitto di classe era lineare e la possibile risposta dello Stato altrettanto semplice. Per un periodo in cui la storia andava piano.
Di fronte a tutto questo, siamo nella fase della rabbia e della recriminazione: per un processo economico-sociale che è stato devastante per velocità e voracità.
Ma oltre le recriminazioni, credo che si possa partire solo da due consapevolezze.
La prima è che dal gigantesco cambiamento strutturale avvenuto e ancora in corso non è che si possa tornare indietro costruendo fili spinati, facendo le sentinelle in piedi o arroccandosi nelle convinzioni ideologiche del Novecento.
La seconda però è che il processo finora è stato pessimamente gestito ed è sempre rimasto nelle mani di pochi: i quali, nella loro imprudente bulimia, si sono largamente fottuti delle conseguenze di quanto stava avvenendo nella carne e nel cuore delle persone.
L'obiettivo, forse, non è quindi mettere una coperta ai popoli per proteggerli dal cambiamento, ma sottrarre la gestione del cambiamento a quei pochi - e bulimici, e sciagurati.
Non è che sia una sfida difficile: è immane, gigantesca, ciclopica.
Ma se vedete altre strade possibili, in questo casino, fatemele sapere.
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
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Re: Immigrazione-La piaga del nuovo millennio.Quale soluzion
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