SSSSSSSSINDACATO
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SSSSSSSSINDACATO
Cgil, perse 700 mila tessere: sindacato abbandonato da giovani e precari
Un rapporto interno della confederazione conferma il crollo degli iscritti rispetto alla fine del 2014. Soffre in tutte le categorie e aumenta il peso dei pensionati
di MATTEO PUCCIARELLI
MILANO. Sono sei pagine di tabelle fitte, suddivise per categorie e territori, a cura della Cgil nazionale, "area organizzazione". Ma in prima pagina, in fondo, c'è il numero che ha fatto venire un brivido lungo la schiena ai dirigenti che hanno ricevuto il documento: rispetto alla fine del 2014, ad oggi, il sindacato "rosso" ha 723.969 iscritti di meno.
E va bene che la Confederazione di Corso Italia poteva comunque contare su 5,6 milioni di tessere - quindi si tratta di una perdita del 13 per cento - ma quel numero, per rendere l'idea, è quasi quanto gli abitanti della provincia di Genova. Che ieri c'erano e oggi non più. Un'emorragia che preoccupa e non poco i piani alti della Cgil, nonostante ci sia davanti tutto l'autunno per recuperare e nonostante il raffronto con lo stesso periodo del 2014 parli di un -110.917 iscritti. Che però sono il doppio (220.891) se si confronta giugno 2013 con giugno 2015.
Il primo grande male che affligge non solo la Cgil, ma il sindacato in generale, è lo strapotere delle categorie dei pensionati. I numeri della Confederazione lo confermano: al 1° luglio gli iscritti attivi, cioè i lavoratori, sono 2.185.099. A fronte di 2.644.835 di tesserati allo Spi. Ovvio che nel complicatissimo gioco di equilibri interni finisca per prevalere una visione ancorata più al passato, e questo per semplici ragioni anagrafiche. Ma il bacino finora sicuro dei pensionati si sta assottigliando pure quello: nel giugno 2013 i tesserati over erano 2.728.376, e qui - dicono dalla Cgil - c'entrerebbe molto la riforma Fornero che ha rimandato la pensione a centinaia di migliaia di persone. Va anche aggiunto che tra il dichiarato di Cgil, Cisl e Uil e il dato reale dell'Inps sui pensionati nel 2015 c'è una differenza di quasi un milione di iscritti. In meno.
Altro capitolo, le varie categorie prese singolarmente. Il Nidil, che in teoria dovrebbe rappresentare tutti gli atipici, quindi il fronte più ampio di possibile espansione, per ora ha il 48,8 per cento in meno di iscritti. Il commercio, la Filcams: -24 per cento. Gli edili, la Fillea: -21,4 per cento. Il ramo dell'agricoltura, la Flai: -20,6 per cento. Le tute blu della Fiom: -12,5 per cento, con le battaglie a viso aperto di questi ultimi anni che, controindicazione, hanno portato i 12mila iscritti del gruppo Fiat a poco più di 2mila.
E poi, i disoccupati: sugli oltre 5 milioni di iscritti, nel 2014 solo 15.362 erano i senza lavoro (e sono 8mila oggi). Insomma, ne esce fuori un quadro a tinte fosche: incapacità di entrare in contatto con i più giovani, gli stessi piagati dalla miriade di contratti precari; irrilevanza nel mondo di chi il lavoro per ora se lo sogna. Sono anni difficili per il sindacato, sotto ogni punto di vista. L'indice gradimento dell'istituzione in sé è ai minimi storici e l'attacco più forte in questi ultimi mesi è arrivato da dove uno meno se l'aspetta, cioè la nuova dirigenza del Pd. È anche per questo motivo che dopo ben sette anni la Cgil ha deciso di indire per il 17 e 18 settembre prossimi una "Conferenza di organizzazione" a Roma. Una sorta di check-up del sindacato, quattro temi fondamentali da prendere in esame: "contrattazione inclusiva", " democrazia e partecipazione", "territorio e strutture", "profilo identitario e formazione sindacale".
Nino Baseotto è il membro della segreteria che ha in mano le chiavi della macchina organizzativa. Spiega che "sono numeri parziali, è troppo presto per commentare, il quadro sarà più chiaro ad ottobre. Facciamo questi conteggi più per motivi tecnici che altro". Ma non si nasconde nemmeno dietro a un dito: "Stiamo vivendo dei profondissimi mutamenti nella società e non possiamo rimanere quelli di sempre. Le persone tutelate dal contratto nazionale sono sempre di meno e diventa vitale rivolgerci a tutti gli altri ".
I luoghi di lavoro - ragiona - non sono più le aziende di una volta, la frammentazione e l'atomizzazione non aiutano a fare rete. La crisi poi ha ridotto del 20 per cento la capacità produttiva. "La sfida vera - continua Baseotto - è cambiare paradigma: da 20 anni si parla di flessibilità e deregolamentazione per creare lavoro. È vero il contrario. Servono investimenti pubblici, semmai". Per rinnovarsi, la Cgil ha sul piatto l'accorpamento di alcune categorie e il maggior coinvolgimento dei delegati nella vita stessa dell'organizzazione. Tradotto, più lavoratori e meno apparato.
Bisogna capire, ancora, quando entrerà in vigore l'accordo sulla rappresentanza firmato da Cgil, Cisl e Uil e Confindustria. L'Inps entro giugno doveva inviare ai sindacati il numero esatto delle trattenute in busta paga, metodo infallibile per pesare le varie sigle in sede di contrattazione. Il problema è che le aziende non hanno comunicato il dato all'Inps, non essendo obbligate a farlo. Solo poco più di 5mila imprese hanno risposto alla sollecitazione.
"Di sfondo c'è anche un problema economico legato al tesseramento - sottolinea un altro dirigente
della Cgil - e basti pensare che metà dei servizi, dal patronato Inca al servizio fiscale, non pareggiano i conti e sono in perdita. Lo stesso per le categorie del sud". Meno tessere uguale meno fondi. Uguale meno sindacato. E chissà, alla fine uguale meno diritti.
da repubblica.it
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Fatto molto preoccupante considerato anche il movimento di Landini , non parliamo poi di ciò che succede nella CISL con i superstipendi dei capoccioni !
Un rapporto interno della confederazione conferma il crollo degli iscritti rispetto alla fine del 2014. Soffre in tutte le categorie e aumenta il peso dei pensionati
di MATTEO PUCCIARELLI
MILANO. Sono sei pagine di tabelle fitte, suddivise per categorie e territori, a cura della Cgil nazionale, "area organizzazione". Ma in prima pagina, in fondo, c'è il numero che ha fatto venire un brivido lungo la schiena ai dirigenti che hanno ricevuto il documento: rispetto alla fine del 2014, ad oggi, il sindacato "rosso" ha 723.969 iscritti di meno.
E va bene che la Confederazione di Corso Italia poteva comunque contare su 5,6 milioni di tessere - quindi si tratta di una perdita del 13 per cento - ma quel numero, per rendere l'idea, è quasi quanto gli abitanti della provincia di Genova. Che ieri c'erano e oggi non più. Un'emorragia che preoccupa e non poco i piani alti della Cgil, nonostante ci sia davanti tutto l'autunno per recuperare e nonostante il raffronto con lo stesso periodo del 2014 parli di un -110.917 iscritti. Che però sono il doppio (220.891) se si confronta giugno 2013 con giugno 2015.
Il primo grande male che affligge non solo la Cgil, ma il sindacato in generale, è lo strapotere delle categorie dei pensionati. I numeri della Confederazione lo confermano: al 1° luglio gli iscritti attivi, cioè i lavoratori, sono 2.185.099. A fronte di 2.644.835 di tesserati allo Spi. Ovvio che nel complicatissimo gioco di equilibri interni finisca per prevalere una visione ancorata più al passato, e questo per semplici ragioni anagrafiche. Ma il bacino finora sicuro dei pensionati si sta assottigliando pure quello: nel giugno 2013 i tesserati over erano 2.728.376, e qui - dicono dalla Cgil - c'entrerebbe molto la riforma Fornero che ha rimandato la pensione a centinaia di migliaia di persone. Va anche aggiunto che tra il dichiarato di Cgil, Cisl e Uil e il dato reale dell'Inps sui pensionati nel 2015 c'è una differenza di quasi un milione di iscritti. In meno.
Altro capitolo, le varie categorie prese singolarmente. Il Nidil, che in teoria dovrebbe rappresentare tutti gli atipici, quindi il fronte più ampio di possibile espansione, per ora ha il 48,8 per cento in meno di iscritti. Il commercio, la Filcams: -24 per cento. Gli edili, la Fillea: -21,4 per cento. Il ramo dell'agricoltura, la Flai: -20,6 per cento. Le tute blu della Fiom: -12,5 per cento, con le battaglie a viso aperto di questi ultimi anni che, controindicazione, hanno portato i 12mila iscritti del gruppo Fiat a poco più di 2mila.
E poi, i disoccupati: sugli oltre 5 milioni di iscritti, nel 2014 solo 15.362 erano i senza lavoro (e sono 8mila oggi). Insomma, ne esce fuori un quadro a tinte fosche: incapacità di entrare in contatto con i più giovani, gli stessi piagati dalla miriade di contratti precari; irrilevanza nel mondo di chi il lavoro per ora se lo sogna. Sono anni difficili per il sindacato, sotto ogni punto di vista. L'indice gradimento dell'istituzione in sé è ai minimi storici e l'attacco più forte in questi ultimi mesi è arrivato da dove uno meno se l'aspetta, cioè la nuova dirigenza del Pd. È anche per questo motivo che dopo ben sette anni la Cgil ha deciso di indire per il 17 e 18 settembre prossimi una "Conferenza di organizzazione" a Roma. Una sorta di check-up del sindacato, quattro temi fondamentali da prendere in esame: "contrattazione inclusiva", " democrazia e partecipazione", "territorio e strutture", "profilo identitario e formazione sindacale".
Nino Baseotto è il membro della segreteria che ha in mano le chiavi della macchina organizzativa. Spiega che "sono numeri parziali, è troppo presto per commentare, il quadro sarà più chiaro ad ottobre. Facciamo questi conteggi più per motivi tecnici che altro". Ma non si nasconde nemmeno dietro a un dito: "Stiamo vivendo dei profondissimi mutamenti nella società e non possiamo rimanere quelli di sempre. Le persone tutelate dal contratto nazionale sono sempre di meno e diventa vitale rivolgerci a tutti gli altri ".
I luoghi di lavoro - ragiona - non sono più le aziende di una volta, la frammentazione e l'atomizzazione non aiutano a fare rete. La crisi poi ha ridotto del 20 per cento la capacità produttiva. "La sfida vera - continua Baseotto - è cambiare paradigma: da 20 anni si parla di flessibilità e deregolamentazione per creare lavoro. È vero il contrario. Servono investimenti pubblici, semmai". Per rinnovarsi, la Cgil ha sul piatto l'accorpamento di alcune categorie e il maggior coinvolgimento dei delegati nella vita stessa dell'organizzazione. Tradotto, più lavoratori e meno apparato.
Bisogna capire, ancora, quando entrerà in vigore l'accordo sulla rappresentanza firmato da Cgil, Cisl e Uil e Confindustria. L'Inps entro giugno doveva inviare ai sindacati il numero esatto delle trattenute in busta paga, metodo infallibile per pesare le varie sigle in sede di contrattazione. Il problema è che le aziende non hanno comunicato il dato all'Inps, non essendo obbligate a farlo. Solo poco più di 5mila imprese hanno risposto alla sollecitazione.
"Di sfondo c'è anche un problema economico legato al tesseramento - sottolinea un altro dirigente
della Cgil - e basti pensare che metà dei servizi, dal patronato Inca al servizio fiscale, non pareggiano i conti e sono in perdita. Lo stesso per le categorie del sud". Meno tessere uguale meno fondi. Uguale meno sindacato. E chissà, alla fine uguale meno diritti.
da repubblica.it
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Fatto molto preoccupante considerato anche il movimento di Landini , non parliamo poi di ciò che succede nella CISL con i superstipendi dei capoccioni !
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- Iscritto il: 21/02/2012, 19:25
Re: SSSSSSSSINDACATO
Come nei partiti anche nel sindacato quando si perde la fiducia e' finita. Bastano poche azioni sbagliate e tutto e' finito.
Sta' diventando un sindacato non piu all'altezza di questo mondo in trasformazione e i suiu dirigenti non sono all'altezza di questa situazione e come nelle politica si stanno costruendo una casta.
Bastano pochi esempi per dire che se questi sindacati non cambiano strada in fretta anche la loro fine seguira quella dei politici.
Occorreva la denuncia di una singola persona per far capire a questi governi che l'adeguamento delle pensioni non poteva essere toccato ?
Bisognava aspettare che fossero gli stessi autori della legge Fornero a dire che probabilmente questo e' stato uno sbaglio?
Potrei andare avanti ancora ma non vale la pena poiche di queste situazioni ne siete gia' al corrente tutti voi.
Poi a tutto quersto vanno aggiunte le marachelle dei vari Bonanni che poi si riversano su tutto il sindacato anche per il semplice fatto che non sappiamo se questo andazzo si sia propagato in tutto il movimento sindacale. Certo il dubbio persiste e questo va a discapito del movimento stesso.
Arrivati a questo punto, credo che la situazione sia difficile invertirla. Solo la speranza ci puo aiutare a non entrare nella piu profonda delusione.
IO stesso sono piu volte tentato di stracciare la tessera e non iscrivermi piu dopo quanto sopra descritto.
Sperem ben vah.
Landini? E' poca cosa quando si presentano queste situazione. Viene messo in dubbio pure lui.
un salutone
Sta' diventando un sindacato non piu all'altezza di questo mondo in trasformazione e i suiu dirigenti non sono all'altezza di questa situazione e come nelle politica si stanno costruendo una casta.
Bastano pochi esempi per dire che se questi sindacati non cambiano strada in fretta anche la loro fine seguira quella dei politici.
Occorreva la denuncia di una singola persona per far capire a questi governi che l'adeguamento delle pensioni non poteva essere toccato ?
Bisognava aspettare che fossero gli stessi autori della legge Fornero a dire che probabilmente questo e' stato uno sbaglio?
Potrei andare avanti ancora ma non vale la pena poiche di queste situazioni ne siete gia' al corrente tutti voi.
Poi a tutto quersto vanno aggiunte le marachelle dei vari Bonanni che poi si riversano su tutto il sindacato anche per il semplice fatto che non sappiamo se questo andazzo si sia propagato in tutto il movimento sindacale. Certo il dubbio persiste e questo va a discapito del movimento stesso.
Arrivati a questo punto, credo che la situazione sia difficile invertirla. Solo la speranza ci puo aiutare a non entrare nella piu profonda delusione.
IO stesso sono piu volte tentato di stracciare la tessera e non iscrivermi piu dopo quanto sopra descritto.
Sperem ben vah.
Landini? E' poca cosa quando si presentano queste situazione. Viene messo in dubbio pure lui.
un salutone
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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Re: SSSSSSSSINDACATO
LA SOLITUDINE DEL SINDACATO
(ILVO DIAMANTI)
31/08/2015 di triskel182
MA a cosa, e a chi, serve ancora il sindacato? Il dubbio si giustifica leggendo le cronache degli ultimi mesi.
DELLE ultime settimane. Degli ultimi giorni. Dove i sindacati (confederali) ricorrono, con frequenza, come bersaglio polemico. Da ultimo, il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi alla festa del Pd, a Milano. Dove ha sostenuto: «Il sindacato in Italia è stato mediamente un fattore di ritardo» che ha ostacolato «l’efficienza e la competitività complessiva del Paese». Motivo della critica: la vicenda dell’Electrolux, dove i dipendenti hanno lavorato a Ferragosto, accogliendo la richiesta dell’azienda, nonostante il rifiuto dei rappresentanti di categoria. Squinzi è il capo degli industriali.
La sua polemica con il sindacato è nella logica del gioco (delle parti. La sua, in particolare). Ma arriva dopo altri leader, più “rappresentativi” di lui. Per primo, Matteo Renzi. Il quale, lo scorso autunno, in conflitto con la Fiom, ha dichiarato che «il posto fisso non esiste più». E, implicitamente, hanno poco senso anche le organizzazioni sindacali. Ma le occasioni di polemica hanno, spesso, origine tutta interna al sindacato. Come dimenticare le perplessità (per non dir di peggio) sollevate dalla pensione percepita dal precedente segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni? Oltre 8 mila euro lordi al mese. Conseguenti a uno stipendio salito, negli ultimi anni (non per caso), da 118mila a 336mila euro. Ma anche le retribuzioni di altri dirigenti nazionali della Cisl sembrano (un poco…) “esagerate”. Il segretario nazionale dei pensionati, per esempio, incassa più di 200mila euro lordi l’anno. Tutto regolare, sicuramente. Ma parecchio, se pensiamo a questi tempi “magri” per i lavoratori. E i pensionati. Unico a pagare, in questa vicenda penosa: Fausto Scandola, il sindacalista veronese “colpevole” di aver denunciato i (mis)fatti. Espulso per aver leso – lui, non i dirigenti ultra pagati la reputazione della Cisl. Così si spiega la reazione di Gigi Manza, vicentino, dirigente della Cisl Scuola, oggi in pensione. Il quale, dopo oltre 50 anni di militanza, comunica, pubblicamente: «Ho deciso con amarezza di ritirare la mia adesione alla Cisl, sperando di ritornarvi quando rinascerà il sindacato dei lavoratori che ho conosciuto, perché ce n’è bisogno». Non credo, peraltro, che si tratti di un caso isolato.
Il clima nella Cgil appare meno teso. Ma le tensioni non mancano. La segretaria nazionale, Susanna Camusso, di recente, ha preso apertamente le distanze dalla Coalizione Sociale promossa da Landini, ove divenisse un nuovo soggetto politico. Anche se, almeno per ora, Maurizio Landini appare piuttosto un soggetto “mediatico”. Di successo.
Tuttavia, la questione del sindacato va oltre le polemiche e le divisioni che scuotono il gruppo dirigente e i suoi rapporti con gli iscritti. Riflette e riproduce, anzitutto, il declino di credibilità e fiducia che coinvolge tutte le sigle maggiori. Dal 2009 al 2015, infatti, la quota di popolazione che esprime (molta o moltissima) fiducia nella Cgil è scesa di circa 13 punti. (Da qui in poi: dati di sondaggi Demos-Coop). Dal 37% al 24%. Mentre la Cisl è passata dal 28% al 20%. È interessante osservare, inoltre come il clima d’opinione peggiori proprio nella base naturale del sindacato. Gli operai. Fra i quali il grado di fiducia verso la Cgil è ridotto al 21,3%. Verso la Cisl e Uil: al 18,7%.
D’altra parte è da anni che il sindacato sta perdendo adesioni. Soprattutto nell’impiego privato. Per contro, “rappresenta”, sempre di più, i pensionati: circa metà degli iscritti. Mentre è cresciuto nel pubblico impiego. D’altronde, le adesioni sindacali nell’impiego privato non sono facilmente verificabili. Tuttavia, ciò non dipende solo dall’in-capacità del sindacato e del suo gruppo dirigente. Rispecchia, invece, il cambiamento della società. Sempre più vecchia. Dove i posti di lavoro sono sempre meno e sempre più frammentati. Circa il 60% della popolazione definisce il proprio lavoro: precario, temporaneo, flessibile. Insomma, non c’è più “un” tipo di lavoro a cui fare riferimento. Semmai, lavori e lavoratori “atipici”. E “atopici”. Senza un “posto” fisso. Presso i quali il sindacato “attecchisce” a fatica. Per difficoltà ambientali. Ma anche culturali. Proprie. Perché sembra aver perduto il ruolo sociale che, ancora pochi anni fa, occupava. Nel 2004, il 30% della popolazione lo indicava come il primo elemento di difesa dei lavoratori. Oggi appena più della metà: il 16%. Mentre, parallelamente, è cresciuto, anche su questo piano, il ruolo della famiglia: dal 10% al 36%.
Il fatto è che tra i cittadini e i lavoratori si è fatta largo la convinzione che il sindacato serva soprattutto a chi ci opera. Ai sindacalisti. In primo luogo: ai gruppi dirigenti.
Tuttavia, non credo vi sia di che rallegrarsi.
Perché il sindacato è “servito” a tutelare gli ultimi e i penultimi. Quelli che da soli non ce la possono fare. E, per difendersi, hanno bisogno di unirsi agli altri, che condividono la loro condizione. Ormai non è più così. Il sindacato rappresenta i garantiti. Mentre la questione dei “diritti”, posta da un grande leader sindacale come Bruno Trentin, – ha osservato Bruno Manghi – è «brandita per la difesa della rivendicazione specifica, mai per quelle altrui».
Ma a quel punto “i diritti” perdono valore. E ciò costituisce un problema. Per i lavoratori, per gli “esclusi”, ma anche per il sindacato.
Tuttavia, non hanno di che rallegrarsi nemmeno Squinzi e Confindustria. Il “sindacato degli imprenditori” ha perduto a sua volta credito. Dal 32,9% nel 2009 al 25,2% registrato alcuni mesi fa. (E quando si utilizza esplicitamente la denominazione “Confindustria” i valori scendono ulteriormente.) Le polemiche e le tensioni, comunque, si sono allargate anche all’interno.
Articolo intero su La Repubblica del 31/08/2015.
(ILVO DIAMANTI)
31/08/2015 di triskel182
MA a cosa, e a chi, serve ancora il sindacato? Il dubbio si giustifica leggendo le cronache degli ultimi mesi.
DELLE ultime settimane. Degli ultimi giorni. Dove i sindacati (confederali) ricorrono, con frequenza, come bersaglio polemico. Da ultimo, il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi alla festa del Pd, a Milano. Dove ha sostenuto: «Il sindacato in Italia è stato mediamente un fattore di ritardo» che ha ostacolato «l’efficienza e la competitività complessiva del Paese». Motivo della critica: la vicenda dell’Electrolux, dove i dipendenti hanno lavorato a Ferragosto, accogliendo la richiesta dell’azienda, nonostante il rifiuto dei rappresentanti di categoria. Squinzi è il capo degli industriali.
La sua polemica con il sindacato è nella logica del gioco (delle parti. La sua, in particolare). Ma arriva dopo altri leader, più “rappresentativi” di lui. Per primo, Matteo Renzi. Il quale, lo scorso autunno, in conflitto con la Fiom, ha dichiarato che «il posto fisso non esiste più». E, implicitamente, hanno poco senso anche le organizzazioni sindacali. Ma le occasioni di polemica hanno, spesso, origine tutta interna al sindacato. Come dimenticare le perplessità (per non dir di peggio) sollevate dalla pensione percepita dal precedente segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni? Oltre 8 mila euro lordi al mese. Conseguenti a uno stipendio salito, negli ultimi anni (non per caso), da 118mila a 336mila euro. Ma anche le retribuzioni di altri dirigenti nazionali della Cisl sembrano (un poco…) “esagerate”. Il segretario nazionale dei pensionati, per esempio, incassa più di 200mila euro lordi l’anno. Tutto regolare, sicuramente. Ma parecchio, se pensiamo a questi tempi “magri” per i lavoratori. E i pensionati. Unico a pagare, in questa vicenda penosa: Fausto Scandola, il sindacalista veronese “colpevole” di aver denunciato i (mis)fatti. Espulso per aver leso – lui, non i dirigenti ultra pagati la reputazione della Cisl. Così si spiega la reazione di Gigi Manza, vicentino, dirigente della Cisl Scuola, oggi in pensione. Il quale, dopo oltre 50 anni di militanza, comunica, pubblicamente: «Ho deciso con amarezza di ritirare la mia adesione alla Cisl, sperando di ritornarvi quando rinascerà il sindacato dei lavoratori che ho conosciuto, perché ce n’è bisogno». Non credo, peraltro, che si tratti di un caso isolato.
Il clima nella Cgil appare meno teso. Ma le tensioni non mancano. La segretaria nazionale, Susanna Camusso, di recente, ha preso apertamente le distanze dalla Coalizione Sociale promossa da Landini, ove divenisse un nuovo soggetto politico. Anche se, almeno per ora, Maurizio Landini appare piuttosto un soggetto “mediatico”. Di successo.
Tuttavia, la questione del sindacato va oltre le polemiche e le divisioni che scuotono il gruppo dirigente e i suoi rapporti con gli iscritti. Riflette e riproduce, anzitutto, il declino di credibilità e fiducia che coinvolge tutte le sigle maggiori. Dal 2009 al 2015, infatti, la quota di popolazione che esprime (molta o moltissima) fiducia nella Cgil è scesa di circa 13 punti. (Da qui in poi: dati di sondaggi Demos-Coop). Dal 37% al 24%. Mentre la Cisl è passata dal 28% al 20%. È interessante osservare, inoltre come il clima d’opinione peggiori proprio nella base naturale del sindacato. Gli operai. Fra i quali il grado di fiducia verso la Cgil è ridotto al 21,3%. Verso la Cisl e Uil: al 18,7%.
D’altra parte è da anni che il sindacato sta perdendo adesioni. Soprattutto nell’impiego privato. Per contro, “rappresenta”, sempre di più, i pensionati: circa metà degli iscritti. Mentre è cresciuto nel pubblico impiego. D’altronde, le adesioni sindacali nell’impiego privato non sono facilmente verificabili. Tuttavia, ciò non dipende solo dall’in-capacità del sindacato e del suo gruppo dirigente. Rispecchia, invece, il cambiamento della società. Sempre più vecchia. Dove i posti di lavoro sono sempre meno e sempre più frammentati. Circa il 60% della popolazione definisce il proprio lavoro: precario, temporaneo, flessibile. Insomma, non c’è più “un” tipo di lavoro a cui fare riferimento. Semmai, lavori e lavoratori “atipici”. E “atopici”. Senza un “posto” fisso. Presso i quali il sindacato “attecchisce” a fatica. Per difficoltà ambientali. Ma anche culturali. Proprie. Perché sembra aver perduto il ruolo sociale che, ancora pochi anni fa, occupava. Nel 2004, il 30% della popolazione lo indicava come il primo elemento di difesa dei lavoratori. Oggi appena più della metà: il 16%. Mentre, parallelamente, è cresciuto, anche su questo piano, il ruolo della famiglia: dal 10% al 36%.
Il fatto è che tra i cittadini e i lavoratori si è fatta largo la convinzione che il sindacato serva soprattutto a chi ci opera. Ai sindacalisti. In primo luogo: ai gruppi dirigenti.
Tuttavia, non credo vi sia di che rallegrarsi.
Perché il sindacato è “servito” a tutelare gli ultimi e i penultimi. Quelli che da soli non ce la possono fare. E, per difendersi, hanno bisogno di unirsi agli altri, che condividono la loro condizione. Ormai non è più così. Il sindacato rappresenta i garantiti. Mentre la questione dei “diritti”, posta da un grande leader sindacale come Bruno Trentin, – ha osservato Bruno Manghi – è «brandita per la difesa della rivendicazione specifica, mai per quelle altrui».
Ma a quel punto “i diritti” perdono valore. E ciò costituisce un problema. Per i lavoratori, per gli “esclusi”, ma anche per il sindacato.
Tuttavia, non hanno di che rallegrarsi nemmeno Squinzi e Confindustria. Il “sindacato degli imprenditori” ha perduto a sua volta credito. Dal 32,9% nel 2009 al 25,2% registrato alcuni mesi fa. (E quando si utilizza esplicitamente la denominazione “Confindustria” i valori scendono ulteriormente.) Le polemiche e le tensioni, comunque, si sono allargate anche all’interno.
Articolo intero su La Repubblica del 31/08/2015.
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Re: SSSSSSSSINDACATO
il manifesto 13.9.15
Intervista al segretario generale della Fiom Maurizio Landini
“Contratto alla Squinzi? No, modello Landini”
Intervista . Il segretario delle tute blu Cgil: «Noi proponiamo rinnovi ogni anno, come avviene in Germania». Gli aumenti non possono diventare una variabile pura: non solo inflazione, ma anche andamento del settore e del Pil. Le imprese investano e chiudano le vertenze già aperte, «altrimenti il Paese non può mai ripartire»
di Antonio Sciotto
No, il nuovo modello contrattuale che ha in mente il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, a Maurizio Landini non piace proprio. «Di fatto — ci spiega il segretario generale della Fiom Cgil — riduce il ruolo del contratto nazionale e sottrae autonomia a quello aziendale». Troppo spazio alla variabile della produttività, insomma, che soprattutto, per stessa ammissione di Squinzi, è verificabile solo a posteriori. Le tute blu Cgil però non dicono solo “no”: hanno in mente un contratto alternativo, e Landini lo descrive in questa intervista.
Squinzi propone uno scambio tra maggiore salario e più flessibilità nelle mansioni, legando gli aumenti del contratto nazionale alla produttività. Per questo Confindustria, Cgil, Cisl e Uil hanno già aperto un tavolo “tecnico”.
Sinceramente in quel tavolo io non ci vedo nulla di “tecnico”. Di fatto Squinzi propone una riduzione del ruolo del contratto nazionale, peggiorando le condizioni di lavoro con un aumento delle flessibilità a cui dovrebbe corrispondere qualche soldo. Inoltre, se sarà il contratto nazionale a stabilire a priori quello che dovranno fare gli accordi aziendali, si toglie autonomia alla contrattazione nei luoghi di lavoro. Non è quello di cui i lavoratori e il Paese hanno bisogno in questa fase così difficile.
Che modello proponete voi?
Come metalmeccanici, nella piattaforma Fiom, abbiamo avanzato una contrattazione annua del salario, modello peraltro già vigente in Germania. Il riferimento non può essere più solo l’inflazione, ma deve essere anche l’andamento del settore e quello del del Paese, e il rapporto tra salario e prestazione del lavoro. Questi ultimi sono due elementi che non puoi scollegare l’uno dall’altro: la produttività è fatta di diversi fattori, dagli investimenti all’innovazione dei processi, delle tecnologie e del prodotto, fino alla formazione e alla qualità del lavoro. E il contratto nazionale non si deve porre solo l’obiettivo di tutelare il potere di acquisto, ma anche di aumentarlo, quando le condizioni lo permettono.
Con l’inflazione ferma o in calo le imprese addirittura richiedono i soldi indietro ai lavoratori.
Sì ma i soldi indietro non li richiedano alla Cgil, che non ha mai firmato l’accordo del 2009 che basava gli aumenti solo sull’inflazione e sull’Ipca. Leggo che Squinzi giustifica gli investimenti degli industriali solo sulle imprese che esportano, per il fatto che solo quelle vanno bene, perché il mercato interno non riparte. Forse non ha pensato che sarebbero proprio gli aumenti contrattuali ai lavoratori che potrebbero far ripartire la domanda interna? Da sommare, aggiungiamo noi, a robusti investimenti pubblici che rilancino più in generale il Paese.
Quindi non accettate moratorie sui rinnovi oggi in discussione? Confindustria chiede che prima si concordi un nuovo modello.
Nello schema attuale non c’è alcun modello. Ci sono però piattaforme già presentate, percorsi di consultazione aperti con i lavoratori, su questo le imprese ci devono dare risposte. Io sto a quello che si è votato finora nei direttivi della Cgil: la nostra confederazione ha deciso che non si discute di nessun nuovo modello se prima non si rinnovano i contratti in corso. Questo ovviamente non ci impedisce di concordare già adesso, in sede dei contratti da rinnovare per le singole categorie, delle innovazioni importanti.
Per esempio?
Intanto, come ho già detto, proponiamo la sperimentazione di rinnovi salariali annuali. Poi noi stiamo chiedendo che si misuri subito, applicandolo fin dal nuovo contratto con Federmeccanica, la rappresentanza sul piano degli iscritti e dei voti. Ma Fim e Uilm su questo punto ci hanno detto di no, e adesso procedono con una propria piattaforma. Inoltre, ed è un discorso già avviato ad esempio in Emilia Romagna, chiediamo alle imprese di non applicare il Jobs Act, perché è una legge che a nostro parere ha svalutato il lavoro.
Questo nel rinnovo attuale. E per un prossimo, eventuale, modello?
Siamo per ridurre e unificare i contratti: nell’industria ce ne sono troppi. Il contratto nazionale deve mantenere il ruolo di autorità salariale, diventando il riferimento per un minimo legale di categoria. Inoltre, deve tutelare tutte le forme di lavoro: anche i precari, anche i lavoratori degli appalti e dei subappalti. In questo periodo ci sono state tante polemiche sulle statistiche, ma se ne è taciuta una: nei primi sette mesi dell’anno sono aumentati del 10% i morti sul lavoro. Allora, io dico che i più deboli non riesci a tutelarli nel secondo livello — che peraltro riguarda solo il 20% delle imprese italiane — ma puoi tenerli dentro, includerli, solo se parli di loro nei contratti nazionali. A parità di mansioni io devo avere parità di salario e di diritti: ferie, malattia, riposi, infortuni. Infine, sulla rappresentanza, ok a delle regole condivise tra le parti, ma la Fiom continua a ritenere che per tutelare pienamente il diritto dei lavoratori a scegliersi il sindacato che vogliono e a votare tutti gli accordi che li riguardano, sia necessaria una legge.
Papa Francesco ha chiesto alle parrocchie di accogliere i profughi. Tante famiglie stanno offrendo la propria casa. La Fiom metterà a disposizione le sue sedi?
Da tempo noi diciamo che non è più solo il momento del parlare, ma che si deve agire, accogliere concretamente. Da un lato non dobbiamo mai dimenticare l’importanza di rivendicare nuove politiche, sull’accoglienza e l’asilo, da parte del governo italiano e dai governi europei. Dall’altro, però, noi stessi stiamo cercando di intervenire. Io penso ad esempio che i famosi 35 euro messi a disposizione dalla Ue, ogni giorno per un migrante, potrebbero essere dati anche alle singole famiglie che scelgono di mettere a disposizione la propria casa. La Fiom sta ipotizzando nei territori, dove possibile, di mettere a disposizione mense, uffici, sedi, e so che lo stesso accade in tante camere del lavoro italiane.
Dopo la tempesta vissuta da Tsipras e Syriza, e le difficoltà di Podemos, l’inglese Corbyn sembra riscattare le possibilità di una sinistra europea. Voi vedete spazi?
Io mi sono stancato di ragionare per vecchie etichette, destra e sinistra. I fatti greci non sono una sconfitta di Tsipras, ma la sconfitta e l’assenza di una socialdemocrazia europea, che ha permesso la vittoria del pensiero unico liberista e di Merkel. Assolutamente sì, io penso che ci siano spazi per chi crede nella democrazia, nella partecipazione, nel lavoro, nel welfare, nei diritti civili. E lo dimostra il fatto che tantissima gente non va a votare e non si sente rappresentata da questa politica. A maggior ragione ritengo importante la battaglia del sindacato per il contratto nazionale e la democrazia nei luoghi di lavoro: perché è un ambito in cui si gioca la possibilità di partecipare per tutti e di unificare i diritti.
Intervista al segretario generale della Fiom Maurizio Landini
“Contratto alla Squinzi? No, modello Landini”
Intervista . Il segretario delle tute blu Cgil: «Noi proponiamo rinnovi ogni anno, come avviene in Germania». Gli aumenti non possono diventare una variabile pura: non solo inflazione, ma anche andamento del settore e del Pil. Le imprese investano e chiudano le vertenze già aperte, «altrimenti il Paese non può mai ripartire»
di Antonio Sciotto
No, il nuovo modello contrattuale che ha in mente il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, a Maurizio Landini non piace proprio. «Di fatto — ci spiega il segretario generale della Fiom Cgil — riduce il ruolo del contratto nazionale e sottrae autonomia a quello aziendale». Troppo spazio alla variabile della produttività, insomma, che soprattutto, per stessa ammissione di Squinzi, è verificabile solo a posteriori. Le tute blu Cgil però non dicono solo “no”: hanno in mente un contratto alternativo, e Landini lo descrive in questa intervista.
Squinzi propone uno scambio tra maggiore salario e più flessibilità nelle mansioni, legando gli aumenti del contratto nazionale alla produttività. Per questo Confindustria, Cgil, Cisl e Uil hanno già aperto un tavolo “tecnico”.
Sinceramente in quel tavolo io non ci vedo nulla di “tecnico”. Di fatto Squinzi propone una riduzione del ruolo del contratto nazionale, peggiorando le condizioni di lavoro con un aumento delle flessibilità a cui dovrebbe corrispondere qualche soldo. Inoltre, se sarà il contratto nazionale a stabilire a priori quello che dovranno fare gli accordi aziendali, si toglie autonomia alla contrattazione nei luoghi di lavoro. Non è quello di cui i lavoratori e il Paese hanno bisogno in questa fase così difficile.
Che modello proponete voi?
Come metalmeccanici, nella piattaforma Fiom, abbiamo avanzato una contrattazione annua del salario, modello peraltro già vigente in Germania. Il riferimento non può essere più solo l’inflazione, ma deve essere anche l’andamento del settore e quello del del Paese, e il rapporto tra salario e prestazione del lavoro. Questi ultimi sono due elementi che non puoi scollegare l’uno dall’altro: la produttività è fatta di diversi fattori, dagli investimenti all’innovazione dei processi, delle tecnologie e del prodotto, fino alla formazione e alla qualità del lavoro. E il contratto nazionale non si deve porre solo l’obiettivo di tutelare il potere di acquisto, ma anche di aumentarlo, quando le condizioni lo permettono.
Con l’inflazione ferma o in calo le imprese addirittura richiedono i soldi indietro ai lavoratori.
Sì ma i soldi indietro non li richiedano alla Cgil, che non ha mai firmato l’accordo del 2009 che basava gli aumenti solo sull’inflazione e sull’Ipca. Leggo che Squinzi giustifica gli investimenti degli industriali solo sulle imprese che esportano, per il fatto che solo quelle vanno bene, perché il mercato interno non riparte. Forse non ha pensato che sarebbero proprio gli aumenti contrattuali ai lavoratori che potrebbero far ripartire la domanda interna? Da sommare, aggiungiamo noi, a robusti investimenti pubblici che rilancino più in generale il Paese.
Quindi non accettate moratorie sui rinnovi oggi in discussione? Confindustria chiede che prima si concordi un nuovo modello.
Nello schema attuale non c’è alcun modello. Ci sono però piattaforme già presentate, percorsi di consultazione aperti con i lavoratori, su questo le imprese ci devono dare risposte. Io sto a quello che si è votato finora nei direttivi della Cgil: la nostra confederazione ha deciso che non si discute di nessun nuovo modello se prima non si rinnovano i contratti in corso. Questo ovviamente non ci impedisce di concordare già adesso, in sede dei contratti da rinnovare per le singole categorie, delle innovazioni importanti.
Per esempio?
Intanto, come ho già detto, proponiamo la sperimentazione di rinnovi salariali annuali. Poi noi stiamo chiedendo che si misuri subito, applicandolo fin dal nuovo contratto con Federmeccanica, la rappresentanza sul piano degli iscritti e dei voti. Ma Fim e Uilm su questo punto ci hanno detto di no, e adesso procedono con una propria piattaforma. Inoltre, ed è un discorso già avviato ad esempio in Emilia Romagna, chiediamo alle imprese di non applicare il Jobs Act, perché è una legge che a nostro parere ha svalutato il lavoro.
Questo nel rinnovo attuale. E per un prossimo, eventuale, modello?
Siamo per ridurre e unificare i contratti: nell’industria ce ne sono troppi. Il contratto nazionale deve mantenere il ruolo di autorità salariale, diventando il riferimento per un minimo legale di categoria. Inoltre, deve tutelare tutte le forme di lavoro: anche i precari, anche i lavoratori degli appalti e dei subappalti. In questo periodo ci sono state tante polemiche sulle statistiche, ma se ne è taciuta una: nei primi sette mesi dell’anno sono aumentati del 10% i morti sul lavoro. Allora, io dico che i più deboli non riesci a tutelarli nel secondo livello — che peraltro riguarda solo il 20% delle imprese italiane — ma puoi tenerli dentro, includerli, solo se parli di loro nei contratti nazionali. A parità di mansioni io devo avere parità di salario e di diritti: ferie, malattia, riposi, infortuni. Infine, sulla rappresentanza, ok a delle regole condivise tra le parti, ma la Fiom continua a ritenere che per tutelare pienamente il diritto dei lavoratori a scegliersi il sindacato che vogliono e a votare tutti gli accordi che li riguardano, sia necessaria una legge.
Papa Francesco ha chiesto alle parrocchie di accogliere i profughi. Tante famiglie stanno offrendo la propria casa. La Fiom metterà a disposizione le sue sedi?
Da tempo noi diciamo che non è più solo il momento del parlare, ma che si deve agire, accogliere concretamente. Da un lato non dobbiamo mai dimenticare l’importanza di rivendicare nuove politiche, sull’accoglienza e l’asilo, da parte del governo italiano e dai governi europei. Dall’altro, però, noi stessi stiamo cercando di intervenire. Io penso ad esempio che i famosi 35 euro messi a disposizione dalla Ue, ogni giorno per un migrante, potrebbero essere dati anche alle singole famiglie che scelgono di mettere a disposizione la propria casa. La Fiom sta ipotizzando nei territori, dove possibile, di mettere a disposizione mense, uffici, sedi, e so che lo stesso accade in tante camere del lavoro italiane.
Dopo la tempesta vissuta da Tsipras e Syriza, e le difficoltà di Podemos, l’inglese Corbyn sembra riscattare le possibilità di una sinistra europea. Voi vedete spazi?
Io mi sono stancato di ragionare per vecchie etichette, destra e sinistra. I fatti greci non sono una sconfitta di Tsipras, ma la sconfitta e l’assenza di una socialdemocrazia europea, che ha permesso la vittoria del pensiero unico liberista e di Merkel. Assolutamente sì, io penso che ci siano spazi per chi crede nella democrazia, nella partecipazione, nel lavoro, nel welfare, nei diritti civili. E lo dimostra il fatto che tantissima gente non va a votare e non si sente rappresentata da questa politica. A maggior ragione ritengo importante la battaglia del sindacato per il contratto nazionale e la democrazia nei luoghi di lavoro: perché è un ambito in cui si gioca la possibilità di partecipare per tutti e di unificare i diritti.
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Re: SSSSSSSSINDACATO
PRO O CONTRO?
Colosseo, l’assemblea sindacale era stata chiesta e autorizzata per tempo. Ecco cosa non ha funzionato
Colosseo, l’assemblea sindacale era stata chiesta e autorizzata per tempo. Ecco cosa non ha funzionato
Lavoro & Precari
La politica inveisce contro l'ennesimo "sciopero selvaggio". Così l'equivoco alimenta l'attacco frontale alla rappresentanza sindacale. Ma è la soprintendenza stessa a rivendicare di aver avvertito (riconoscendo che non c'era nulla di selvaggio). Forse i fax e le affissioni in loco non bastano più
di Thomas Mackinson | 18 settembre 2015
La manifestazione di oggi era autorizzata e regolare. Eppure i turisti sono rimasti spiazzati. Che cosa non ha funzionato? Perché i politici hanno gridato allo scandalo facendo passare per sciopero selvaggio una normale riunione sindacale? Dopo la vicenda di Pompei si alza un nuovo polverone attorno alle assemblee sindacali nei luoghi turistici più in vista d’Italia. A partire dal Colosseo, la vetrina nazionale sul mondo, che oggi ha lasciato una fila di turisti allibiti davanti a un cartello di chiusura dalle 8.30 alle 11.30.
Alla politica basta però questa immagine per lanciare accuse furenti all’indirizzo dei lavoratori. Come accaduto per quella di luglio a Pompei, spacciata come “selvaggia” quando non lo era affatto, tocca capire come siano andate davvero le cose. Perché basta l’equivoco a prestare il fianco al “licenziamoli tutti” (pronunciato dalle fila di un partito che di nome fa Scelta Civica) al “la misura è colma”, detto dal ministro Franceschini che è poi il primo destinatario della protesta dei suoi dipendenti, cui non viene versato il salario accessorio da gennaio. Per arrivare a Quagliarello, che inneggia contro l’ennesimo “sciopero selvaggio”, non avendo forse chiaro che l’assemblea non è uno sciopero e che non c’era nulla di selvaggio, perché la riunione dei lavoratori era stata annunciata e autorizzata per tempo. Fino a Renzi, che ha sferrato un attacco frontale ai “sindacalisti contro l’Italia”. Ecco, allora, come sono andate le cose.
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1) L’assemblea improvvisa e selvaggia? Era autorizzata e il Ministero sapeva (da una settimana)
“Le Rappresentanze Sindacali Unitarie della SS-COL comunicano che in data 18 settembre p.v. dalle ore 8.30 alle 11, nella sala conferenze di Palazzo Massimo è stata indetta (secondo le norme contrattuali e regolarmente comunicata all’Amministrazione in data 11/09 u.s.)”. Questa la comunicazione che taglia la testa al toro sulla bufala della “protesta selvaggia”. Il ministero sapeva e da una settimana, non lo ha scoperto all’ultimo. “Si certamente”, spiega il coordinatore nazionale della Uil Beni Culturali Enzo Feliciani, sigla che appoggia la giornata assembleare che non si è svolta solo al Colosseo. Ad autorizzare quella romana è stato proprio il funzionario della Soprintendenza speciale per il Colosseo e l’area Archeologica, che non poteva fare altrimenti. Non a caso egli stesso ha poi tentato di ridimensionare la polemica, ormai fuori controllo: “Non si è trattato di chiusure ma di aperture ritardate”, precisano dagli uffici romani, “come previsto alle 11.30 hanno riaperto”. Di più. Lo stesso soprintendente di Roma, Francesco Prosperetti, precisa che “tutto si è svolto regolarmente l’assemblea non aveva come oggetto il Colosseo, il problema è nazionale e riguarda il mancato rinnovo del contratto e il mancato pagamento del salario accessorio: non ci sono rivendicazioni nei confronti della soprintendenza, ma del datore di lavoro generale che è Mibact”.
2) Perché farla proprio oggi e non in un’altra data?
“Ci era stato chiesto – spiega ancora Feliciani – di non fare assemblee nel periodo di luglio e agosto perché a maggior afflusso di turisti e così abbiamo fatto. Una volta terminato questo periodo e non ricevendo risposte ai problemi che abbiamo rappresentato in ogni sede l’abbiamo convocata, rispettando tutti i termini di legge”. Insomma, le due parti in causa concordano: nulla di illecito o di improvvisato. E’ solo la politica a parlare di “protesta scandalo” e di “danno irreparabile”.
3) Non si poteva svolgere in un orario extralavorativo
“No – risponde Feliciani – le norme stabiliscono che si possano fare massimo 12 ore di assemblea ma sempre in orario di lavoro. Al mattino o al pomeriggio, quindi a inizio o fine turno. Abbiamo optato per l’inizio perché era la soluzione più indolore, altrimenti avremmo dovuto far entrare i visitatori e farli uscire e sarebbe stato molto peggio”. Lo conferma il soprintendente: “Tutto si è svolto regolarmente”.
4) Chi ha l’obbligo di dar comunicazione della chisura?
“Sempre i funzionari della Soprintendenza. Non le rappresentanze sindacali che comunque lo fanno, coi loro mezzi e cioè cartelli e affissioni. Ma se i canali di comunicazione istituzionale delle Soprintendenze non sono efficaci nel raggiungere turisti e cittadini non è certo da imputare ai lavoratori che non possono farsi carico anche di questo”.
5) E allora, cosa non ha funzionato? Cosa bisognerebbe cambiare?
Tocca capire perché ci si stupisce. Perché quei turisti stavano in coda apprendendo solo da un cartello, ormai giunti ai piedi dell’anfiteatro, della chiusura in corso. Il soprintendente dice di aver diffuso la comunicazione, come prevede la legge, 24 ore prima che l’assemblea si svolgesse, perché l’informazione viaggiasse sugli organi di stampa. Farlo prima del resto non si può, perché l’assemblea comunicata con largo anticipo potrebbe essere anche sconvocata, innescando un falso allarme che manda deserti i musei. Nello specifico, su Repubblica Roma e altri quotidiani la notizia è stata riportata. E tuttavia si vede che non basta, perché va da sé che un turista tedesco non legga le pagine locali di un quotidiano. I cartelli non sono stati posizionati con giorni di anticipo, non sono stati attrezzati info-point, non c’è stato alcun avvertimento sui siti ufficiali, se non a ridosso dell’assemblea. Tutto affidato a un servizio di informazione in loco il giorno prima dell’assemblea.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/09 ... o/2047121/
Colosseo, l’assemblea sindacale era stata chiesta e autorizzata per tempo. Ecco cosa non ha funzionato
Colosseo, l’assemblea sindacale era stata chiesta e autorizzata per tempo. Ecco cosa non ha funzionato
Lavoro & Precari
La politica inveisce contro l'ennesimo "sciopero selvaggio". Così l'equivoco alimenta l'attacco frontale alla rappresentanza sindacale. Ma è la soprintendenza stessa a rivendicare di aver avvertito (riconoscendo che non c'era nulla di selvaggio). Forse i fax e le affissioni in loco non bastano più
di Thomas Mackinson | 18 settembre 2015
La manifestazione di oggi era autorizzata e regolare. Eppure i turisti sono rimasti spiazzati. Che cosa non ha funzionato? Perché i politici hanno gridato allo scandalo facendo passare per sciopero selvaggio una normale riunione sindacale? Dopo la vicenda di Pompei si alza un nuovo polverone attorno alle assemblee sindacali nei luoghi turistici più in vista d’Italia. A partire dal Colosseo, la vetrina nazionale sul mondo, che oggi ha lasciato una fila di turisti allibiti davanti a un cartello di chiusura dalle 8.30 alle 11.30.
Alla politica basta però questa immagine per lanciare accuse furenti all’indirizzo dei lavoratori. Come accaduto per quella di luglio a Pompei, spacciata come “selvaggia” quando non lo era affatto, tocca capire come siano andate davvero le cose. Perché basta l’equivoco a prestare il fianco al “licenziamoli tutti” (pronunciato dalle fila di un partito che di nome fa Scelta Civica) al “la misura è colma”, detto dal ministro Franceschini che è poi il primo destinatario della protesta dei suoi dipendenti, cui non viene versato il salario accessorio da gennaio. Per arrivare a Quagliarello, che inneggia contro l’ennesimo “sciopero selvaggio”, non avendo forse chiaro che l’assemblea non è uno sciopero e che non c’era nulla di selvaggio, perché la riunione dei lavoratori era stata annunciata e autorizzata per tempo. Fino a Renzi, che ha sferrato un attacco frontale ai “sindacalisti contro l’Italia”. Ecco, allora, come sono andate le cose.
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1) L’assemblea improvvisa e selvaggia? Era autorizzata e il Ministero sapeva (da una settimana)
“Le Rappresentanze Sindacali Unitarie della SS-COL comunicano che in data 18 settembre p.v. dalle ore 8.30 alle 11, nella sala conferenze di Palazzo Massimo è stata indetta (secondo le norme contrattuali e regolarmente comunicata all’Amministrazione in data 11/09 u.s.)”. Questa la comunicazione che taglia la testa al toro sulla bufala della “protesta selvaggia”. Il ministero sapeva e da una settimana, non lo ha scoperto all’ultimo. “Si certamente”, spiega il coordinatore nazionale della Uil Beni Culturali Enzo Feliciani, sigla che appoggia la giornata assembleare che non si è svolta solo al Colosseo. Ad autorizzare quella romana è stato proprio il funzionario della Soprintendenza speciale per il Colosseo e l’area Archeologica, che non poteva fare altrimenti. Non a caso egli stesso ha poi tentato di ridimensionare la polemica, ormai fuori controllo: “Non si è trattato di chiusure ma di aperture ritardate”, precisano dagli uffici romani, “come previsto alle 11.30 hanno riaperto”. Di più. Lo stesso soprintendente di Roma, Francesco Prosperetti, precisa che “tutto si è svolto regolarmente l’assemblea non aveva come oggetto il Colosseo, il problema è nazionale e riguarda il mancato rinnovo del contratto e il mancato pagamento del salario accessorio: non ci sono rivendicazioni nei confronti della soprintendenza, ma del datore di lavoro generale che è Mibact”.
2) Perché farla proprio oggi e non in un’altra data?
“Ci era stato chiesto – spiega ancora Feliciani – di non fare assemblee nel periodo di luglio e agosto perché a maggior afflusso di turisti e così abbiamo fatto. Una volta terminato questo periodo e non ricevendo risposte ai problemi che abbiamo rappresentato in ogni sede l’abbiamo convocata, rispettando tutti i termini di legge”. Insomma, le due parti in causa concordano: nulla di illecito o di improvvisato. E’ solo la politica a parlare di “protesta scandalo” e di “danno irreparabile”.
3) Non si poteva svolgere in un orario extralavorativo
“No – risponde Feliciani – le norme stabiliscono che si possano fare massimo 12 ore di assemblea ma sempre in orario di lavoro. Al mattino o al pomeriggio, quindi a inizio o fine turno. Abbiamo optato per l’inizio perché era la soluzione più indolore, altrimenti avremmo dovuto far entrare i visitatori e farli uscire e sarebbe stato molto peggio”. Lo conferma il soprintendente: “Tutto si è svolto regolarmente”.
4) Chi ha l’obbligo di dar comunicazione della chisura?
“Sempre i funzionari della Soprintendenza. Non le rappresentanze sindacali che comunque lo fanno, coi loro mezzi e cioè cartelli e affissioni. Ma se i canali di comunicazione istituzionale delle Soprintendenze non sono efficaci nel raggiungere turisti e cittadini non è certo da imputare ai lavoratori che non possono farsi carico anche di questo”.
5) E allora, cosa non ha funzionato? Cosa bisognerebbe cambiare?
Tocca capire perché ci si stupisce. Perché quei turisti stavano in coda apprendendo solo da un cartello, ormai giunti ai piedi dell’anfiteatro, della chiusura in corso. Il soprintendente dice di aver diffuso la comunicazione, come prevede la legge, 24 ore prima che l’assemblea si svolgesse, perché l’informazione viaggiasse sugli organi di stampa. Farlo prima del resto non si può, perché l’assemblea comunicata con largo anticipo potrebbe essere anche sconvocata, innescando un falso allarme che manda deserti i musei. Nello specifico, su Repubblica Roma e altri quotidiani la notizia è stata riportata. E tuttavia si vede che non basta, perché va da sé che un turista tedesco non legga le pagine locali di un quotidiano. I cartelli non sono stati posizionati con giorni di anticipo, non sono stati attrezzati info-point, non c’è stato alcun avvertimento sui siti ufficiali, se non a ridosso dell’assemblea. Tutto affidato a un servizio di informazione in loco il giorno prima dell’assemblea.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/09 ... o/2047121/
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Re: SSSSSSSSINDACATO
Colosseo: come si costruisce una realtà di comodo
di Antonello Caporale | 19 settembre 2015
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/09 ... o/2049377/
È sempre più difficile discernere il vero dal falso quando abbiamo un governo di mistificatori,
con una stampa asservita e pennivendoli senza scrupoli, attenti solo a compiacere il principe di turno!
di Antonello Caporale | 19 settembre 2015
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Re: SSSSSSSSINDACATO
erding ha scritto:Colosseo: come si costruisce una realtà di comodo
di Antonello Caporale | 19 settembre 2015
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/09 ... o/2049377/
È sempre più difficile discernere il vero dal falso quando abbiamo un governo di mistificatori,
con una stampa asservita e pennivendoli senza scrupoli, attenti solo a compiacere il principe di turno!
CINEGIORNALE Luce
https://www.youtube.com/watch?v=rCm_72ThMjY
Scrive Antonello Caporale:
La quantità di bugie immesse in un solo pomeriggio per costruire una realtà di comodo non ha paragoni. Il sindaco di Roma è riuscito a parlare di sfregio alla democrazia, il premier di sentimento anti italiano, il ministro della Cultura di una disgrazia.
Il comportamento dei due masnadieri quarantenni, che in privato sono stato costretto a definirli con un termine arcinoto che comincia per “B” e finisce per “i”, é copiato paro paro da quello tenuto tra il 1919 ed il 1922 a MILANO da Amilcare, Andrea, Benito Mussolini l’aspirante futuro Duce del fascismo.
Quella di ieri è stata solo una grande montatura in stile fascista.
Riprendendo cosa ha scritto Marco Della Luna su LIBRE:
Renzi mente indisturbato, sa di parlare a una platea di idioti
Tutta l’operazione di ieri non può stupire affatto.
Il messaggio spedito non era finalizzato a quanto è successo a Roma, ma al sistema sindacale italiano che deve essere messo alle corde. Bisogna mettergli la sordina.
Per far questo si monta un caso.
Scrive ancora Caporale:
Un governo decente, serio, responsabile e un ministro decente, serio e responsabile avrebbero dovuto spiegare e però dimostrare coi fatti, prima di attivare la grancassa mediatica, che quei lavoratori sono in realtà dei fannulloni, che l’assemblea sindacale è uno schermo dietro cui si nascondono migliaia di corpi vuoti, di gente che ruba lo stipendio.
In un mondo di persone “normali”, con un’intelligenza “normale”, come avveniva nel primo dopoguerra, quando il premier era un vero premier, di nome De Gasperi, e non uno fasullo come La Qualunque, i problemi si cercavano di risolvere e non approfittarne per il proprio tornaconto.
Era già successo il caso similare di Pompei.
Senza essere geni da premio Nobel, Franceschini avrebbe dovuto convocare i sindacati, e dipanare i diverbi.
Nel caso di Roma, la responsabilità è anche del ministro, che non ha saputo e voluto intervenire in modo debito.
Invece era preferibile creare un secondo caso al fine di creare un caso nazionale.
La Qualunque ha twittato: SINDACATI CONTRO L’ITALIA.
Era questo l’obiettivo.
E gli italiani, anche opportunamente pilotati dai media, vedi anche Severgnini a Otto e mezzo ieri sera si sono allineati. Hanno bevuto l’inganno.
Ieri nella prima tornata di notizie in rete, anche il Fatto riportava il misfatto del Colosseo, ma in seguito, più tardi approfondendo riportava:
Colosseo, l’assemblea era stata chiesta per tempo e autorizzata. Ecco la prova
Lavoro & Precari
La politica inveisce contro l'ennesimo "sciopero selvaggio". Un documento dimostra che in realtà l'assemblea era stata comunicata da una settimana e poi regolarmente autorizzata. Ma l'equivoco alimenta l'attacco frontale alla rappresentanza sindacale, anche se è la soprintendenza stessa a rivendicare la piena regolarità della riunione. Forse i fax e le affissioni in loco non bastano più
di Thomas Mackinson | 18 settembre 2015
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/09 ... o/2047121/
Ma come sostiene erding:
È sempre più difficile discernere il vero dal falso quando abbiamo un governo di mistificatori,
con una stampa asservita e pennivendoli senza scrupoli, attenti solo a compiacere il principe di turno!
la truffa di stampo mussoliniano con il sostegno dei media è partito alla grande.
L’odio verso i sindacati era stato sparso ad hoc.
Non che i sindacati siano esenti da errori, ma bisogna giudicare punto per punto e non fare di tutta l’erba un fascio. E mettere ordine nella situazione attuale.
Ma il Duce La Qualunque ha sempre fatto sapere che lui non tratta: ORDINA. (Quello che i suoi padrini/padroni gli ordinano, se vuole rimanere al potere)
Ultima modifica di camillobenso il 20/09/2015, 4:41, modificato 3 volte in totale.
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Re: SSSSSSSSINDACATO
L'assemblea era fatta tutta secondo le regole per cui prendersela con il sindacato è sbagliato casomai se sono le regole che non funzionano si cambiano cercando di tenere insieme il diritto di assemblea con i servizi erogati.Le belle arti non sono servizi essenziali come la sanità e i trasporti ,ma è anche vero che l'assemblea poteva essere organizzata in modo da limitare i disagi anche perche l'Italia è un paese con grande afflusso di turisti.Al fondo però bisogna capire perche i dipendenti delle bellezze artistiche scioperano.Lo sciopero dipende dalla mancanza di personale e quindi a orari estenuanti e dalla mancata erogazione del salario accessorio però qui c'è il punto interrogativo che il salario accessorio non si può dare indistintamente a tutti ma solo secondo parametri di valutazione ben definiti.Mi pare però che secondo lo statuto dei lavoratori l'assemblea è possibile anche al di fuori dell'orario di lavoro.La propaganda contro i sindacati per avere consenso e suggerita dallo spin doctor indebolisce il sindacato e indebolisce la dignità del lavoro ,ma stà anche al sindacato l'intelligenza di sapersi modernizzare
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Re: SSSSSSSSINDACATO
Concordo con quanto detto da te Lilly, però quando si fa di tutto per rendere "inoffensiva" già in partenza qualsiasi contrattazione e' chiaro che poi si arrivi a queste situazioni che possono sembrare contradittorie per un sindacato.lilly ha scritto:L'assemblea era fatta tutta secondo le regole per cui prendersela con il sindacato è sbagliato casomai se sono le regole che non funzionano si cambiano cercando di tenere insieme il diritto di assemblea con i servizi erogati.Le belle arti non sono servizi essenziali come la sanità e i trasporti ,ma è anche vero che l'assemblea poteva essere organizzata in modo da limitare i disagi anche perche l'Italia è un paese con grande afflusso di turisti.Al fondo però bisogna capire perche i dipendenti delle bellezze artistiche scioperano.Lo sciopero dipende dalla mancanza di personale e quindi a orari estenuanti e dalla mancata erogazione del salario accessorio però qui c'è il punto interrogativo che il salario accessorio non si può dare indistintamente a tutti ma solo secondo parametri di valutazione ben definiti.Mi pare però che secondo lo statuto dei lavoratori l'assemblea è possibile anche al di fuori dell'orario di lavoro.La propaganda contro i sindacati per avere consenso e suggerita dallo spin doctor indebolisce il sindacato e indebolisce la dignità del lavoro ,ma stà anche al sindacato l'intelligenza di sapersi modernizzare
Se l'obiettivo di loro signori sembra essere quello di rendere il sindacato uno strumento senza alcun potere contrattuale e quindi fare in modo che siano gli stessi dipendenti a disfarcene, beh allora costoro e la confindustria stanno lavorando bene. Sanno far bene il loro lavoro.
Ora basta che ci dicano come fare e quando fare lo sciopero e hanno fatto bingo. Magari, se possibile, fare le assemblee e anche gli scioperi dalle 24 in poi quando non esiste alcuna affluenza di visitatori e perdi qualsiasi potere contrattuale per farti valere.
Ho detto sopra che si stanno dando da fare in modo egregio per rendere il sindacato inutile e lo dimostrano I sondaggi rilevati si in Trentino che in Friuli: 75-80 hanno risposto che non serve mentre nel mio veneto è successo l'opposto.
Di questo passo, non mancheranno anni per disfarsene completamente anche di quei sindacati che non si allineano al potere.
Certo, il sindacato deve sapersi rinnovare per non cadere in queste trappole mortale e il rinnovarsi vuol dire ricambi continui in modo che non diventino anche loro stessi delle caste.
quindi, riferendomi a quanto da te scritto
tutto avrebbe potuto risolversi in modo corretto qualora ci fossero state le condizioni fra le parti ma visto che non esitono e non lo si vuol far esistere poiche l'obiettivo non e' quello a cui tutti noi aspiriamo, non si puo dare la colpa al sindacato di tutto questo. soprattutto dopo aver letto l'articolo a riguardo sul Fatto Quotidiano-...ma è anche vero che l'assemblea poteva essere organizzata in modo da limitare i disagi anche perche l'Italia è un paese con grande afflusso di turisti
Un salutone
Cercando l'impossibile, l'uomo ha sempre realizzato e conosciuto il possibile, e coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che sembrava possibile non sono mai avanzati di un sol passo.(M.A.Bakunin)
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Re: SSSSSSSSINDACATO
Un pò di storia per chi se ne fosse dimenticato.
Il biennio "rosso"
(1919-1920)
(quasi cento anni fa-ndt)
Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, anche l'Italia soffrì di gravi difficoltà economiche. La disoccupazione, la riconversione industriale da militare a civile, il ritorno dei reduci furono problemi giganteschi per il nostro paese. I ceti medi e le classi a reddito fisso furono particolarmente colpite dalla crisi economica, anche perché danneggiate più delle altre dall'inflazione causata dalle enormi spese militari) e deluse a causa del mancato aumento degli stipendi.
Nel gennaio 1919, i Cattolici diedero vita al Partito Popolare Italiano, il primo vero partito di ispirazione cattolica. Fondatore e ispiratore della nuova formazione fu Don Luigi Sturzo. Intanto il 23 marzo del 1919 Mussolini fondava i fasci di combattimento, a Milano.
Le elezioni politiche del '19 dimostrarono la voglia di novità del popolo italiano, facendo registrare:
il netto declino dei liberali;
la crescita del partito popolare di don Sturzo;
l'enorme forza del partito socialista.
Il Partito socialista ottenne 156 deputati in confronto ai 48 del 1913, il Partito popolare ne ebbe 100 in confronto ai 33 cattolici eletti nel 1913. I liberali persero la maggioranza. Ottennero infatti poco più di 200 deputati rispetto agli oltre 300 eletti nel 1913.
Nel periodo successivo, tra il 1919 e il 1920, la classe operaia esplose con scioperi, dimostrazioni ed agitazioni a livelli impressionanti nelle fabbriche italiane, contro il taglio degli stipendi e le serrate. Tra le cause di questa ondata di scioperi ci furono la crisi economica conseguente alla guerra appena terminata, ma ebbe un ruolo importante anche il mito della rivoluzione russa e il sogno di fare come in Russia. Agli scioperi causati dalle difficoltà economiche e volti a ottenere migliori condizioni di lavoro e salari più alti, si aggiunsero manifestazioni di contenuto dichiaratamente politico.
Così i due motivi, le richieste economiche e la pressione rivoluzionaria, finirono col mescolarsi e confondersi. Si diffusero parole d’ordine come le fabbriche agli operai e la terra ai contadini. Nel mezzogiorno gruppi di braccianti tentarono di occupare le terre incolte.
Intanto cresceva il partito dei nazionalisti e dei reduci della guerra. La "vittoria mutilata", ovvero il sentimento di scontentezza per l’esito degli accordi di pace di Versailles (l’Italia ottenne il Trentino, l’Alto Adige, la Venezia Giulia, Trieste e l’Istria; restarono invece aperte la questione della città di Fiume e quella della Dalmazia) trovò un ottimo portavoce in Gabriele D’Annunzio. I reduci della Prima Guerra mondiale videro che il loro ruolo non era valorizzato dallo Stato.
Le preoccupazioni della classe politica liberale allora dominante erano sostanzialmente due: fermare il revanscismo dei dannunziani e prevenire in ogni modo la possibilità di una rivoluzione comunista, del tipo di quella avvenuta in Russia pochi anni prima. La seconda preoccupazione era particolarmente sentita anche dagli industriali e dai possidenti agricoli, che detenevano gran parte delle ricchezze del paese. La cronica indecisione dei governanti italiani fece il resto.
L’Italia si trovò di fronte ad un bivio, e scelse la tragica strada del fascismo credendo portasse lontano, verso un futuro migliore.
Come iniziò il biennio
La storia del Biennio Rosso iniziò a Torino il 13 settembre 1919 con la pubblicazione sulla rivista Ordine Nuovo del manifesto Ai commissari di reparto delle officine Fiat Centro e Brevetti, nel quale si ufficializzava l’esistenza e il ruolo dei Consigli di fabbrica quali nuclei di gestione autonoma delle industrie da parte degli operai. Già tre mesi prima Gramsci e Togliatti avevano affrontato il problema, sempre sulla stessa rivista, in un articolo chiamato Democrazia operaia.
Torino, culla dell’industrializzazione italiana, si prefigurava così come il centro propulsore del bolscevismo, in quanto la struttura dei Consigli proposta dagli ordinovisti ricalcava, seppur con peculiarità proprie, quella dei Soviet russi. Le proteste iniziarono nelle fabbriche di meccanica, per poi continuare nelle ferrovie, trasporti e in altre industrie, mentre i contadini occupavano le terre. Le agitazioni si diffusero anche nelle campagne della pianura padana, innescando duri scontri fra proprietari e braccianti, con violenza da una parte e dall’altra, soprattutto in Emilia e Romagna. Gli scioperanti, però, fecero molto più che un’occupazione, sperimentando per la prima volta forme di autogestione operaia: 500.000 scioperanti lavoravano, producendo per se stessi. Durante questo periodo, l'Unione Sindacale Italiano (USI) raggiunse quasi un milione di membri.
Il fenomeno si estese rapidamente ad altre fabbriche del Nord, coinvolse il movimento anarchico ma venne solo in parte appoggiato dal P.S.I., che in quel momento era diviso tra riformisti e massimalisti. Gramsci avvertì l’incapacità dei politici socialisti di fronte a queste manifestazioni di autogoverno proletario, e cercò di dare sistemazione, teorica prima, e pratica poi, al movimento operaio. Nulla potè, però, contro la reazione degli industriali, appoggiati dal governo e da questo aiutati con migliaia di militari in assetto di guerra.
Dal 28 marzo 1920 si delinearono i due blocchi, da una parte gli operai con lo sciopero ad oltranza, dall’altra i proprietari, che adottarono la serrata come reazione alle richieste operaie. Dopo alcuni mesi di trattative sugli aumenti salariali, sempre respinti dalla Confederazione Generale dell’Industria, si ritornò all’inasprimento dei contrasti, con l’occupazione armata delle fabbriche da parte degli operai, il 30 agosto del 1920.
Guardie rosse armate all'interno di una fabbrica occupata (1920)
Mentre il Partito Socialista tentava la trattativa con il governo presieduto da Giolitti, gli industriali e i latifondisti, più pragmatici, cominciarono a garantire il loro appoggio economico alle squadre dei "ras" fascisti.
E così agli scioperi agrari nella Pianura Padana, allo sciopero generale dei metallurgici in Piemonte e all'occupazione delle fabbriche in molte città italiane il fascismo rispose con la violenza. Squadre fasciste intervennero per spezzare gli scioperi aggredendo i partecipanti, pestando deputati e simpatizzanti socialisti. A novembre, in occasione dell'insediamento del nuovo sindaco di Bologna, un socialista di estrema sinistra, partirono pistolettate e bombe a mano che provocarono la morte di nove persone nella piazza, mentre un consigliere nazionalista venne ucciso in pieno Consiglio comunale. Le spedizioni punitive estesero il loro raggio d'azione alla Toscana, al Veneto, alla Lombardia e all'Umbria. Vennero assaltate le Case del Popolo, le sedi delle amministrazioni comunali socialiste e le leghe cattoliche. In Venezia Giulia giovani squadristi assalirono e incendiarono le sedi di associazioni e giornali sloveni. In Alto Adige simili attenzioni vennero rivolte alla popolazione tedesca, di cui i fascisti auspicavano una forzata italianizzazione ("dobbiamo estirpare il nido di vipere tedesco", disse Mussolini). Prefetti, commissari di polizia e comandanti militari tolleravano e in alcuni casi agevolavano le "operazioni" della squadre fasciste contro il 'sovversivismo rosso'. "Sono dei fuochi d'artificio, che fanno molto rumore ma si spengono rapidamente", disse Giolitti minimizzando il problema.
La sconfitta del movimento operaio
Giolitti rifiutò di far intervenire la polizia e l'esercito nelle fabbriche e aspettò che il movimento si esaurisse da sé, che terminassero le scorte di materie prime nei magazzini delle aziende occupate, che gli stessi operai si rendessero conto che l'occupazione non portava a nulla. Nello stesso tempo favorì le trattative fra gli industriali e sindacati e, praticamente, obbligò gli industriali a concedere ai lavoratori i miglioramenti di salario richiesti. Così all’inizio di ottobre del 1920 Giolitti riuscì a far accettare un compromesso tra le parti sociali. A tal uopo presentò anche un progetto di legge per controllo operaio su fabbriche, mai attuato.
Le agitazioni operaie ebbero in conclusione risultati economici positivi: i lavoratori ottennero miglioramenti nel salario e nelle condizioni di lavoro; la durata massima della giornata lavorativa passò da 10-11 ore a 8 ore.
Ebbero tuttavia anche degli effetti politici negativi, perché spaventarono fortemente la borghesia: non solo i grandi proprietari di industrie o di terre ma, ancora di più, il ceto medio, i piccoli borghesi che cominciavano a costituire una classe sociale decisamente numerosa. Il timore di una possibile rivoluzione li avrebbe presto spinti ad appoggiare il fascismo di Benito Mussolini. Così come fece la classe politica liberale. Fu lo stesso Giolitti a favorire l'ascesa del fascismo quando, in occasione delle elezioni del maggio 1921, cercando di assorbire i fascisti nella normale prassi parlamentare, li inserì nei Blocchi nazionali da opporre ai partiti di massa (popolare, socialista, comunista): ne furono eletti 35, con alla testa Mussolini.
Gli industriali e le squadre fasciste
La violenza fascista continuò anche dopo il biennio rosso, anzi si intensificò. Nella sola pianura padana, nei primi sei mesi del 1921, gli attacchi operati dalle squadre fasciste furono 726. Gli obiettivi di questa violenza mostrano chiaramente che le squadre fasciste volevano colpire e da quali interessi erano sostenute: 59 case del popolo, 119 camere del lavoro, 107 cooperative, 83 leghe contadine, 141 sezioni socialiste, 100 circoli culturali, 28 sindacati operai, 53 circoli ricreativi operai. Gli organi dello Stato che avrebbero dovuto mantenere l'ordine, non intervennero per reprimere le illegalità. In alcuni casi, le forze di polizia si affiancarono alle squadre fasciste. Comunisti e anarchici reagirono con la creazione delle squadre degli Arditi del Popolo (epica fu, ad esempio, la difesa di Parma, assalita da migliaia di fascisti nell'agosto del 1922).
Conclusioni
Il Biennio Rosso rappresentò quindi l’incubatrice di due tendenze opposte, entrambe nate da una scissione del partito socialista: il rivoluzionarismo di stampo bolscevico, che poi si concretizzerà nella fondazione, avvenuta nel gennaio del 1921, al Congresso di Livorno, del P.C.I., un soggetto politico destinato a lasciare un’indelebile impronta nella vita italiana, e contemporaneamente il fascismo reazionario e violento, altrettanto determinante per la storia d’Italia nel XX secolo.
Il biennio "rosso"
(1919-1920)
(quasi cento anni fa-ndt)
Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, anche l'Italia soffrì di gravi difficoltà economiche. La disoccupazione, la riconversione industriale da militare a civile, il ritorno dei reduci furono problemi giganteschi per il nostro paese. I ceti medi e le classi a reddito fisso furono particolarmente colpite dalla crisi economica, anche perché danneggiate più delle altre dall'inflazione causata dalle enormi spese militari) e deluse a causa del mancato aumento degli stipendi.
Nel gennaio 1919, i Cattolici diedero vita al Partito Popolare Italiano, il primo vero partito di ispirazione cattolica. Fondatore e ispiratore della nuova formazione fu Don Luigi Sturzo. Intanto il 23 marzo del 1919 Mussolini fondava i fasci di combattimento, a Milano.
Le elezioni politiche del '19 dimostrarono la voglia di novità del popolo italiano, facendo registrare:
il netto declino dei liberali;
la crescita del partito popolare di don Sturzo;
l'enorme forza del partito socialista.
Il Partito socialista ottenne 156 deputati in confronto ai 48 del 1913, il Partito popolare ne ebbe 100 in confronto ai 33 cattolici eletti nel 1913. I liberali persero la maggioranza. Ottennero infatti poco più di 200 deputati rispetto agli oltre 300 eletti nel 1913.
Nel periodo successivo, tra il 1919 e il 1920, la classe operaia esplose con scioperi, dimostrazioni ed agitazioni a livelli impressionanti nelle fabbriche italiane, contro il taglio degli stipendi e le serrate. Tra le cause di questa ondata di scioperi ci furono la crisi economica conseguente alla guerra appena terminata, ma ebbe un ruolo importante anche il mito della rivoluzione russa e il sogno di fare come in Russia. Agli scioperi causati dalle difficoltà economiche e volti a ottenere migliori condizioni di lavoro e salari più alti, si aggiunsero manifestazioni di contenuto dichiaratamente politico.
Così i due motivi, le richieste economiche e la pressione rivoluzionaria, finirono col mescolarsi e confondersi. Si diffusero parole d’ordine come le fabbriche agli operai e la terra ai contadini. Nel mezzogiorno gruppi di braccianti tentarono di occupare le terre incolte.
Intanto cresceva il partito dei nazionalisti e dei reduci della guerra. La "vittoria mutilata", ovvero il sentimento di scontentezza per l’esito degli accordi di pace di Versailles (l’Italia ottenne il Trentino, l’Alto Adige, la Venezia Giulia, Trieste e l’Istria; restarono invece aperte la questione della città di Fiume e quella della Dalmazia) trovò un ottimo portavoce in Gabriele D’Annunzio. I reduci della Prima Guerra mondiale videro che il loro ruolo non era valorizzato dallo Stato.
Le preoccupazioni della classe politica liberale allora dominante erano sostanzialmente due: fermare il revanscismo dei dannunziani e prevenire in ogni modo la possibilità di una rivoluzione comunista, del tipo di quella avvenuta in Russia pochi anni prima. La seconda preoccupazione era particolarmente sentita anche dagli industriali e dai possidenti agricoli, che detenevano gran parte delle ricchezze del paese. La cronica indecisione dei governanti italiani fece il resto.
L’Italia si trovò di fronte ad un bivio, e scelse la tragica strada del fascismo credendo portasse lontano, verso un futuro migliore.
Come iniziò il biennio
La storia del Biennio Rosso iniziò a Torino il 13 settembre 1919 con la pubblicazione sulla rivista Ordine Nuovo del manifesto Ai commissari di reparto delle officine Fiat Centro e Brevetti, nel quale si ufficializzava l’esistenza e il ruolo dei Consigli di fabbrica quali nuclei di gestione autonoma delle industrie da parte degli operai. Già tre mesi prima Gramsci e Togliatti avevano affrontato il problema, sempre sulla stessa rivista, in un articolo chiamato Democrazia operaia.
Torino, culla dell’industrializzazione italiana, si prefigurava così come il centro propulsore del bolscevismo, in quanto la struttura dei Consigli proposta dagli ordinovisti ricalcava, seppur con peculiarità proprie, quella dei Soviet russi. Le proteste iniziarono nelle fabbriche di meccanica, per poi continuare nelle ferrovie, trasporti e in altre industrie, mentre i contadini occupavano le terre. Le agitazioni si diffusero anche nelle campagne della pianura padana, innescando duri scontri fra proprietari e braccianti, con violenza da una parte e dall’altra, soprattutto in Emilia e Romagna. Gli scioperanti, però, fecero molto più che un’occupazione, sperimentando per la prima volta forme di autogestione operaia: 500.000 scioperanti lavoravano, producendo per se stessi. Durante questo periodo, l'Unione Sindacale Italiano (USI) raggiunse quasi un milione di membri.
Il fenomeno si estese rapidamente ad altre fabbriche del Nord, coinvolse il movimento anarchico ma venne solo in parte appoggiato dal P.S.I., che in quel momento era diviso tra riformisti e massimalisti. Gramsci avvertì l’incapacità dei politici socialisti di fronte a queste manifestazioni di autogoverno proletario, e cercò di dare sistemazione, teorica prima, e pratica poi, al movimento operaio. Nulla potè, però, contro la reazione degli industriali, appoggiati dal governo e da questo aiutati con migliaia di militari in assetto di guerra.
Dal 28 marzo 1920 si delinearono i due blocchi, da una parte gli operai con lo sciopero ad oltranza, dall’altra i proprietari, che adottarono la serrata come reazione alle richieste operaie. Dopo alcuni mesi di trattative sugli aumenti salariali, sempre respinti dalla Confederazione Generale dell’Industria, si ritornò all’inasprimento dei contrasti, con l’occupazione armata delle fabbriche da parte degli operai, il 30 agosto del 1920.
Guardie rosse armate all'interno di una fabbrica occupata (1920)
Mentre il Partito Socialista tentava la trattativa con il governo presieduto da Giolitti, gli industriali e i latifondisti, più pragmatici, cominciarono a garantire il loro appoggio economico alle squadre dei "ras" fascisti.
E così agli scioperi agrari nella Pianura Padana, allo sciopero generale dei metallurgici in Piemonte e all'occupazione delle fabbriche in molte città italiane il fascismo rispose con la violenza. Squadre fasciste intervennero per spezzare gli scioperi aggredendo i partecipanti, pestando deputati e simpatizzanti socialisti. A novembre, in occasione dell'insediamento del nuovo sindaco di Bologna, un socialista di estrema sinistra, partirono pistolettate e bombe a mano che provocarono la morte di nove persone nella piazza, mentre un consigliere nazionalista venne ucciso in pieno Consiglio comunale. Le spedizioni punitive estesero il loro raggio d'azione alla Toscana, al Veneto, alla Lombardia e all'Umbria. Vennero assaltate le Case del Popolo, le sedi delle amministrazioni comunali socialiste e le leghe cattoliche. In Venezia Giulia giovani squadristi assalirono e incendiarono le sedi di associazioni e giornali sloveni. In Alto Adige simili attenzioni vennero rivolte alla popolazione tedesca, di cui i fascisti auspicavano una forzata italianizzazione ("dobbiamo estirpare il nido di vipere tedesco", disse Mussolini). Prefetti, commissari di polizia e comandanti militari tolleravano e in alcuni casi agevolavano le "operazioni" della squadre fasciste contro il 'sovversivismo rosso'. "Sono dei fuochi d'artificio, che fanno molto rumore ma si spengono rapidamente", disse Giolitti minimizzando il problema.
La sconfitta del movimento operaio
Giolitti rifiutò di far intervenire la polizia e l'esercito nelle fabbriche e aspettò che il movimento si esaurisse da sé, che terminassero le scorte di materie prime nei magazzini delle aziende occupate, che gli stessi operai si rendessero conto che l'occupazione non portava a nulla. Nello stesso tempo favorì le trattative fra gli industriali e sindacati e, praticamente, obbligò gli industriali a concedere ai lavoratori i miglioramenti di salario richiesti. Così all’inizio di ottobre del 1920 Giolitti riuscì a far accettare un compromesso tra le parti sociali. A tal uopo presentò anche un progetto di legge per controllo operaio su fabbriche, mai attuato.
Le agitazioni operaie ebbero in conclusione risultati economici positivi: i lavoratori ottennero miglioramenti nel salario e nelle condizioni di lavoro; la durata massima della giornata lavorativa passò da 10-11 ore a 8 ore.
Ebbero tuttavia anche degli effetti politici negativi, perché spaventarono fortemente la borghesia: non solo i grandi proprietari di industrie o di terre ma, ancora di più, il ceto medio, i piccoli borghesi che cominciavano a costituire una classe sociale decisamente numerosa. Il timore di una possibile rivoluzione li avrebbe presto spinti ad appoggiare il fascismo di Benito Mussolini. Così come fece la classe politica liberale. Fu lo stesso Giolitti a favorire l'ascesa del fascismo quando, in occasione delle elezioni del maggio 1921, cercando di assorbire i fascisti nella normale prassi parlamentare, li inserì nei Blocchi nazionali da opporre ai partiti di massa (popolare, socialista, comunista): ne furono eletti 35, con alla testa Mussolini.
Gli industriali e le squadre fasciste
La violenza fascista continuò anche dopo il biennio rosso, anzi si intensificò. Nella sola pianura padana, nei primi sei mesi del 1921, gli attacchi operati dalle squadre fasciste furono 726. Gli obiettivi di questa violenza mostrano chiaramente che le squadre fasciste volevano colpire e da quali interessi erano sostenute: 59 case del popolo, 119 camere del lavoro, 107 cooperative, 83 leghe contadine, 141 sezioni socialiste, 100 circoli culturali, 28 sindacati operai, 53 circoli ricreativi operai. Gli organi dello Stato che avrebbero dovuto mantenere l'ordine, non intervennero per reprimere le illegalità. In alcuni casi, le forze di polizia si affiancarono alle squadre fasciste. Comunisti e anarchici reagirono con la creazione delle squadre degli Arditi del Popolo (epica fu, ad esempio, la difesa di Parma, assalita da migliaia di fascisti nell'agosto del 1922).
Conclusioni
Il Biennio Rosso rappresentò quindi l’incubatrice di due tendenze opposte, entrambe nate da una scissione del partito socialista: il rivoluzionarismo di stampo bolscevico, che poi si concretizzerà nella fondazione, avvenuta nel gennaio del 1921, al Congresso di Livorno, del P.C.I., un soggetto politico destinato a lasciare un’indelebile impronta nella vita italiana, e contemporaneamente il fascismo reazionario e violento, altrettanto determinante per la storia d’Italia nel XX secolo.
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