Top News
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Re: Top News
TG7 ore 14,00
Un servizio racconta la cattura nel Lazio di un latitante della camorra.
Uno dei 100 più pericolosi dello stivale.
La dichiarazione di Angelino è stata: "Ora lo Stato è più forte".
Questo Paese non uscirà mai più dalle crisi in cui è sprofondato.
Un servizio racconta la cattura nel Lazio di un latitante della camorra.
Uno dei 100 più pericolosi dello stivale.
La dichiarazione di Angelino è stata: "Ora lo Stato è più forte".
Questo Paese non uscirà mai più dalle crisi in cui è sprofondato.
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Re: Top News
il manifesto 8.10.15
Emergenza reati contro i minori
Terre des Hommes. Preoccupante l’esponenziale aumento delle vittime di pornografia e violenze
di Raffaele K. Salinari
Una crescita che sembra inarrestabile: i minori vittime di reato in Italia hanno raggiunto nell’ultimo anno la cifra record di 5.356, il 60% dei quali erano femmine. Preoccupante anche l’esponenziale aumento delle vittime di pornografia minorile, che dal 2004 al 2014 sono cresciute del 569,4% (+24% nell’ultimo anno). Per quasi l’80% dei casi riguardavano bambine e ragazze. I casi di violenza sessuale, compreso quella aggravata, denunciati l’anno scorso sono stati 962, per l’85% femmine.
Sono numeri che mettono i brividi quelli che emergono dal Dossier «Indifesa» di Terre des Hommes presentato ieri a Roma con i dati forniti dalle Forze dell’Ordine sui reati commessi e denunciati a danno di minori. I maltrattamenti in famiglia sono il reato con il maggior numero di vittime tra bambini e ragazzi: 1.479 nel solo 2014, confermando proprio l’unità familiare, che dovrebbe rappresentare il luogo più sicuro e protetto per i minori, come quello a maggior rischio. L’unico dato che cala visibilmente nel periodo 2004–2014, forse per il cambiamento delle modalità di questo sfruttamento, è quello della prostituzione minorile, che passa da 89 a 73 vittime (-18%), al 60% femmine. Non tutte le violenze vengono denunciate e perseguite come dovrebbero, né le vittime vengono assistite adeguatamente, ma queste esperienze lasciano una traccia indelebile nella loro vita. Secondo l’ultima indagine Istat, 6 milioni 788 mila donne hanno subìto nel corso della propria vita almeno una forma di violenza sessuale o fisica, pari al 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni. E tra le donne vittime di violenze sessuali prima dei 16 anni, l’incidenza di violenza fisica o sessuale da adulte raggiunge il 58,5%.
Il panorama mondiale non offre scenari migliori e l’inasprirsi dei conflitti ha dirette conseguenze sulla condizione delle bambine e delle ragazze, che vedono calpestati i loro diritti fondamentali. Nel mondo, circa 70 milioni, di ragazze di età compresa tra i 15 e i 19 anni, subiscono abusi e violenze fisiche che ogni anno provocano circa 60mila decessi. Ovvero una morte ogni 10 minuti. Dalle yazide rese schiave sessuali da Isis alle bambine kamikaze di Boko Haram, le giovani vittime delle guerre sono le più vulnerabili a fenomeni come matrimoni e gravidanze precoci, sfruttamento lavorativo, prostituzione, discriminazioni e abusi.
«All’indomani della nascita dei Sustainable Development Goals (Obiettivi di Sviluppo Sostenibile) che hanno molti riferimenti alla questione di genere, occorre ricordare che ci sono ancora 57 milioni di bambine e ragazze non vanno a scuola e oltre 68 milioni le bambine costrette a lavorare — afferma Donatella Vergari, Segretario Generale di Terre des Hommes — 15 milioni le baby spose che, senza volerlo e nel giro di poco tempo, diventano baby mamme e devono lasciare gli studi. Senza istruzione non potranno avere una vita migliore e dare il loro contributo al progresso dell’umanità».
«Nelle società democratiche come la nostra i diritti delle donne non sono sempre adeguatamente tutelati — sostiene Lia Quartapelle, segretario III Commissione Affari esteri e comunitari della Camera –ma è nelle aree di conflitto che si registrano le peggiori atrocità. Esse ci richiamano, come Paese e come comunità internazionale, a un maggiore impegno volto a una soluzione delle crisi e ad assicurare il rispetto del diritto internazionale umanitario e del diritto bellico». «Due settimane fa con i Garanti europei abbiamo ribadito che nessuna violenza sui minorenni è giustificabile, tutte le violenze devono essere prevenute — sottolinea Vincenzo Spadafora, Autorità garante per l’Infanzia e l’Adolescenza — Gli adolescenti intervistati vogliono essere formati al rispetto dell’identità di genere come strumento per prevenire la violenza sulle donne. Quasi ogni settimana la cronaca ci ricorda quanto subdolamente lavorino gli stereotipi e le non-culture della diversità. Occorre mettere in atto processi educativi permanenti per il superamento degli stereotipi e il rispetto delle differenze. Lo chiedono loro e lo impone la realtà dei fatti per arginare e prevenire violenze e discriminazioni». «Milioni di bambini siriani sono esclusi dalla scuola e vivono in condizioni orribili, rischiando la loro vita ad ogni passo — sostiene Maria Al Abdeh, Executive Director di Women Now For Development — Secondo una ricerca condotta dalla Women International League for Peace and Democracy, la causa diretta di morte del 74% delle bambine».
Emergenza reati contro i minori
Terre des Hommes. Preoccupante l’esponenziale aumento delle vittime di pornografia e violenze
di Raffaele K. Salinari
Una crescita che sembra inarrestabile: i minori vittime di reato in Italia hanno raggiunto nell’ultimo anno la cifra record di 5.356, il 60% dei quali erano femmine. Preoccupante anche l’esponenziale aumento delle vittime di pornografia minorile, che dal 2004 al 2014 sono cresciute del 569,4% (+24% nell’ultimo anno). Per quasi l’80% dei casi riguardavano bambine e ragazze. I casi di violenza sessuale, compreso quella aggravata, denunciati l’anno scorso sono stati 962, per l’85% femmine.
Sono numeri che mettono i brividi quelli che emergono dal Dossier «Indifesa» di Terre des Hommes presentato ieri a Roma con i dati forniti dalle Forze dell’Ordine sui reati commessi e denunciati a danno di minori. I maltrattamenti in famiglia sono il reato con il maggior numero di vittime tra bambini e ragazzi: 1.479 nel solo 2014, confermando proprio l’unità familiare, che dovrebbe rappresentare il luogo più sicuro e protetto per i minori, come quello a maggior rischio. L’unico dato che cala visibilmente nel periodo 2004–2014, forse per il cambiamento delle modalità di questo sfruttamento, è quello della prostituzione minorile, che passa da 89 a 73 vittime (-18%), al 60% femmine. Non tutte le violenze vengono denunciate e perseguite come dovrebbero, né le vittime vengono assistite adeguatamente, ma queste esperienze lasciano una traccia indelebile nella loro vita. Secondo l’ultima indagine Istat, 6 milioni 788 mila donne hanno subìto nel corso della propria vita almeno una forma di violenza sessuale o fisica, pari al 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni. E tra le donne vittime di violenze sessuali prima dei 16 anni, l’incidenza di violenza fisica o sessuale da adulte raggiunge il 58,5%.
Il panorama mondiale non offre scenari migliori e l’inasprirsi dei conflitti ha dirette conseguenze sulla condizione delle bambine e delle ragazze, che vedono calpestati i loro diritti fondamentali. Nel mondo, circa 70 milioni, di ragazze di età compresa tra i 15 e i 19 anni, subiscono abusi e violenze fisiche che ogni anno provocano circa 60mila decessi. Ovvero una morte ogni 10 minuti. Dalle yazide rese schiave sessuali da Isis alle bambine kamikaze di Boko Haram, le giovani vittime delle guerre sono le più vulnerabili a fenomeni come matrimoni e gravidanze precoci, sfruttamento lavorativo, prostituzione, discriminazioni e abusi.
«All’indomani della nascita dei Sustainable Development Goals (Obiettivi di Sviluppo Sostenibile) che hanno molti riferimenti alla questione di genere, occorre ricordare che ci sono ancora 57 milioni di bambine e ragazze non vanno a scuola e oltre 68 milioni le bambine costrette a lavorare — afferma Donatella Vergari, Segretario Generale di Terre des Hommes — 15 milioni le baby spose che, senza volerlo e nel giro di poco tempo, diventano baby mamme e devono lasciare gli studi. Senza istruzione non potranno avere una vita migliore e dare il loro contributo al progresso dell’umanità».
«Nelle società democratiche come la nostra i diritti delle donne non sono sempre adeguatamente tutelati — sostiene Lia Quartapelle, segretario III Commissione Affari esteri e comunitari della Camera –ma è nelle aree di conflitto che si registrano le peggiori atrocità. Esse ci richiamano, come Paese e come comunità internazionale, a un maggiore impegno volto a una soluzione delle crisi e ad assicurare il rispetto del diritto internazionale umanitario e del diritto bellico». «Due settimane fa con i Garanti europei abbiamo ribadito che nessuna violenza sui minorenni è giustificabile, tutte le violenze devono essere prevenute — sottolinea Vincenzo Spadafora, Autorità garante per l’Infanzia e l’Adolescenza — Gli adolescenti intervistati vogliono essere formati al rispetto dell’identità di genere come strumento per prevenire la violenza sulle donne. Quasi ogni settimana la cronaca ci ricorda quanto subdolamente lavorino gli stereotipi e le non-culture della diversità. Occorre mettere in atto processi educativi permanenti per il superamento degli stereotipi e il rispetto delle differenze. Lo chiedono loro e lo impone la realtà dei fatti per arginare e prevenire violenze e discriminazioni». «Milioni di bambini siriani sono esclusi dalla scuola e vivono in condizioni orribili, rischiando la loro vita ad ogni passo — sostiene Maria Al Abdeh, Executive Director di Women Now For Development — Secondo una ricerca condotta dalla Women International League for Peace and Democracy, la causa diretta di morte del 74% delle bambine».
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Re: Top News
RIPRESO DAL DIMENTICATOIO
‘La scelta. Giorgio Ambrosoli’, l’avvocato milanese ucciso su ordine di Sindona protagonista di una graphic novel a tinte forti
di Alessandro Trevisani | 16 ottobre 2015
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/10 ... i/2135357/
‘La scelta. Giorgio Ambrosoli’, l’avvocato milanese ucciso su ordine di Sindona protagonista di una graphic novel a tinte forti
di Alessandro Trevisani | 16 ottobre 2015
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Re: Top News
Il film del weekend: "Suburra"
Un gangster movie metropolitano, teso e magnetico, che regala un'esperienza visiva appagante grazie ad una regia di livello e ad un cast in stato di grazia
Serena Nannelli - Sab, 17/10/2015 - 16:26
Reduce dai successi delle serie tv "Romanzo Criminale" e "Gomorra", Stefano Sollima firma una pellicola, "Suburra", che non è solo un grande noir metropolitano ma l'incontro di eccellenze tecniche e artistiche del nostro panorama cinematografico.
Tratto dall’omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini, il film ritrae il mondo della politica e criminalità romana nel Novembre del 2011, nella settimana antecedente la caduta del governo.
Nella Roma Antica la Suburra era il quartiere malfamato in cui si incontravano in segreto potere e delinquenza.
Nella Roma di oggi, quella zona sembra essersi estesa oltre i confini della città. Il parlamentare Filippo Malgradi (Pierfrancesco Favino) viene corrotto dal Samurai (Claudio Amendola), il più temuto boss della capitale, in merito a un progetto, Waterfront, che punta a trasformare il litorale romano in una sorta di Las Vegas.
Nell'affare sono coinvolti anche esponenti del Vaticano e Numero 8 (Alessandro Borghi), giovane criminale che gestisce il territorio di Ostia, mentre Manfredi Anacleti (Adamo Dionisi), capo di un clan di zingari, vorrebbe farne parte. Quando in un albergo di lusso muore per overdose una prostituta minorenne, inizia una spirale di sangue e violenza che coinvolgerà il viscido e vigliacco faccendiere Sebastiano (Elio Germano), l'escort Sabrina (Giulia Elettra Gorietti) e la tossica fidanzata di Numero 8, Viola (Greta Scarano).
Non c'è traccia di personaggi positivi in questo crudo e spietato viaggio nella malavita capitolina. In mezzo agli affari loschi tra individui dalle personalità deviate e al susseguirsi di esecuzioni e sparatorie di un'inarrestabile serie di vendette, c'è spazio per corruzione, droga e prostituzione ma nessun appiglio per illusoria retorica buonista: un immaginario apocalittico, eppure realistico, in cui belve fameliche così ben caratterizzate sembrano mantenere qualche caratteristica di umanità che le rende ancora più inquietanti.
L'affresco criminale dipinto da Sollima si estende dalle periferie alle stanze delle alte istituzioni e racconta la sporcizia morale in maniera vivida, curata e incalzante.
La cupa fotografia di Paolo Carnera dà una connotazione quasi maligna alla pioggia che cade incessante per buona parte del girato e che investe tutti, nessuno escluso. Si capisce presto che non è acqua destinata a mondare la città dai suoi peccati, ma a far rigurgitare i tombini del marcio sottostante. Dopotutto, nell'antichità, il percorso della condotta della Cloaca Massima partiva dalla Suburra. Il film è pieno di scene simboliche e allegoriche, perciò ancorarlo alla cronaca politico-criminale dei giorni nostri significa limitarne il significato.
Il malaffare, come la pioggia, non è esclusivo di un luogo e di un periodo: l'ambientazione, qui, più che l'odierna città di Roma è la Roma intesa con gli appellativi di caput fidei, caput mundi, e urbs aeterna. Grazie ad un montaggio dal ritmo serrato, gli snodi narrativi si avvicendano in fretta e alcuni incastri causa-effetto quasi sfuggono. Questo potrebbe sembrare un limite ma, in realtà, il fatto che l'intreccio non si renda assimilabile in ogni suo passaggio, gioca a favore della sensazione di trovarsi in una giungla in cui si perde presto di vista il perché si uccide. Sono tutti vittime prima di se stessi e poi di altri, non importa chi ammazza chi, tanto nessuno è completamente innocente e nessuno completamente colpevole. Sono, semplicemente, tutti sotto quello stesso maledetto cielo. La soddisfazione visiva che deriva dall'attentissima regia di Sollima e dalla prova corale degli attori coinvolti è davvero notevole. Nulla è lasciato al caso. C'è chi lavora di sottrazione, regalando una performance pacata, centrata e indimenticabile come fa Amendola, chi mette in campo moltissima mimica come Alessandro Borghi, ma un plauso va davvero a ciascun membro del cast.
http://www.ilgiornale.it/news/spettacol ... 83893.html
Un gangster movie metropolitano, teso e magnetico, che regala un'esperienza visiva appagante grazie ad una regia di livello e ad un cast in stato di grazia
Serena Nannelli - Sab, 17/10/2015 - 16:26
Reduce dai successi delle serie tv "Romanzo Criminale" e "Gomorra", Stefano Sollima firma una pellicola, "Suburra", che non è solo un grande noir metropolitano ma l'incontro di eccellenze tecniche e artistiche del nostro panorama cinematografico.
Tratto dall’omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini, il film ritrae il mondo della politica e criminalità romana nel Novembre del 2011, nella settimana antecedente la caduta del governo.
Nella Roma Antica la Suburra era il quartiere malfamato in cui si incontravano in segreto potere e delinquenza.
Nella Roma di oggi, quella zona sembra essersi estesa oltre i confini della città. Il parlamentare Filippo Malgradi (Pierfrancesco Favino) viene corrotto dal Samurai (Claudio Amendola), il più temuto boss della capitale, in merito a un progetto, Waterfront, che punta a trasformare il litorale romano in una sorta di Las Vegas.
Nell'affare sono coinvolti anche esponenti del Vaticano e Numero 8 (Alessandro Borghi), giovane criminale che gestisce il territorio di Ostia, mentre Manfredi Anacleti (Adamo Dionisi), capo di un clan di zingari, vorrebbe farne parte. Quando in un albergo di lusso muore per overdose una prostituta minorenne, inizia una spirale di sangue e violenza che coinvolgerà il viscido e vigliacco faccendiere Sebastiano (Elio Germano), l'escort Sabrina (Giulia Elettra Gorietti) e la tossica fidanzata di Numero 8, Viola (Greta Scarano).
Non c'è traccia di personaggi positivi in questo crudo e spietato viaggio nella malavita capitolina. In mezzo agli affari loschi tra individui dalle personalità deviate e al susseguirsi di esecuzioni e sparatorie di un'inarrestabile serie di vendette, c'è spazio per corruzione, droga e prostituzione ma nessun appiglio per illusoria retorica buonista: un immaginario apocalittico, eppure realistico, in cui belve fameliche così ben caratterizzate sembrano mantenere qualche caratteristica di umanità che le rende ancora più inquietanti.
L'affresco criminale dipinto da Sollima si estende dalle periferie alle stanze delle alte istituzioni e racconta la sporcizia morale in maniera vivida, curata e incalzante.
La cupa fotografia di Paolo Carnera dà una connotazione quasi maligna alla pioggia che cade incessante per buona parte del girato e che investe tutti, nessuno escluso. Si capisce presto che non è acqua destinata a mondare la città dai suoi peccati, ma a far rigurgitare i tombini del marcio sottostante. Dopotutto, nell'antichità, il percorso della condotta della Cloaca Massima partiva dalla Suburra. Il film è pieno di scene simboliche e allegoriche, perciò ancorarlo alla cronaca politico-criminale dei giorni nostri significa limitarne il significato.
Il malaffare, come la pioggia, non è esclusivo di un luogo e di un periodo: l'ambientazione, qui, più che l'odierna città di Roma è la Roma intesa con gli appellativi di caput fidei, caput mundi, e urbs aeterna. Grazie ad un montaggio dal ritmo serrato, gli snodi narrativi si avvicendano in fretta e alcuni incastri causa-effetto quasi sfuggono. Questo potrebbe sembrare un limite ma, in realtà, il fatto che l'intreccio non si renda assimilabile in ogni suo passaggio, gioca a favore della sensazione di trovarsi in una giungla in cui si perde presto di vista il perché si uccide. Sono tutti vittime prima di se stessi e poi di altri, non importa chi ammazza chi, tanto nessuno è completamente innocente e nessuno completamente colpevole. Sono, semplicemente, tutti sotto quello stesso maledetto cielo. La soddisfazione visiva che deriva dall'attentissima regia di Sollima e dalla prova corale degli attori coinvolti è davvero notevole. Nulla è lasciato al caso. C'è chi lavora di sottrazione, regalando una performance pacata, centrata e indimenticabile come fa Amendola, chi mette in campo moltissima mimica come Alessandro Borghi, ma un plauso va davvero a ciascun membro del cast.
http://www.ilgiornale.it/news/spettacol ... 83893.html
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Re: Top News
Istanbul, giornalista impiccata in aeroporto. Polizia: “Suicida”. I colleghi: “Serve indagine internazionale”
Mondo
La cronista inglese, 50 anni e già collaboratrice di Bbc e Nazioni Unite, trovata in un bagno da tre passeggeri russi. Dirigeva il think tank Iwpr e stava conducendo alcune inchieste sulla condizione femminile nell’Isis. Il suo predecessore era stato ucciso a maggio a Baghdad
di F. Q. | 19 ottobre 2015
Sabato 17 ottobre è stata trovata morta nei bagni dell’aeroporto Ataturk di Istanbul, impiccata con dei lacci delle scarpe. Secondo le autorità turche si sarebbe suicidata dopo avere perso il volo che l’avrebbe portata a Erbil, in Iraq. Ma la versione ufficiale non convince i colleghi e chi conosceva bene Jacqueline Anne Sutton, 50 anni – ex reporter della Bbc , già collaboratrice delle Nazioni Unite – che in Iraq attualmente dirigeva il think tank Iwpr (Institute for War and Peace Reporting) e stava conducendo alcune inchieste sulla condizione femminile nell’Isis. A destare sospetti è anche il destino del suo predecessore all’Iwpr, Ammar Al Shahbander, ucciso con altre 17 persone in un’autobomba a maggio a Baghdad.
IWDA @iwda
Today, we are angry and grieving for Jacky Sutton. Tomorrow we’ll be seeking answers and calling for urgent action.
Retweet 22
Preferiti 6
21:31 - 18 ott 2015
Secondo quanto riporta l’agenzia di stampa statale Anadolu, alcuni testimoni hanno raccontato che la donna era molto nervosa, dopo avere perso un volo che avrebbe dovuto portarla a Erbil, in Iraq, previsto a mezzanotte e un quarto. In aeroporto le hanno risposto che l’unica possibilità era quella di comprare un nuovo biglietto ma lei, a quel punto, ha spiegato di non avere il denaro necessario ed è scoppiata in lacrime. Il corpo è stato ritrovato da tre passeggeri di nazionalità russa e i medici hanno soltanto potuto constatare il decesso della giornalista. Sutton, oltre all’attività in Iraq, parlava cinque lingue ed era dottoranda al Centre for Arab and Islamic Studies presso Australian National University.
Non credono però all’ipotesi del suicidio amici e colleghi di Sutton, che chiedono l’apertura di “un’indagine internazionale, non solo locale”. Una richiesta che si sta facendo sempre più insistente nelle ultime ore, specie sui social network, anche alla luce del ruolo della donna.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/10 ... o/2141051/
La vox populi.
Il contadino • 5 minuti fa
Che ad una giornalista responsabile di un Istituto che si trova in un aeroporto, e si appresta ad un viaggio, le possa mancare il denaro, è come dire manca l'acqua al mare. Io focalizzerei piuttosto l'attenzione nella ricerca di eventuali assassini sul suo lavoro "d'inchiesta sulla condizione femminile nell' ISIS", nota associazione caritatevole, di cui il presidente turco Erdogan, ne è uno dei massimi esponenti! Un altra bocca scomoda messa a tacere in vista del primo Novembre!
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karmine b • 24 minuti fa
mamma li turchi!
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Ivo Serenthà • 25 minuti fa
Certo come no,con tutto il rispetto per la povera vittima,la versione ufficiale equivale ad asserire che gli asini volano.
Incredibile!
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Mondo
La cronista inglese, 50 anni e già collaboratrice di Bbc e Nazioni Unite, trovata in un bagno da tre passeggeri russi. Dirigeva il think tank Iwpr e stava conducendo alcune inchieste sulla condizione femminile nell’Isis. Il suo predecessore era stato ucciso a maggio a Baghdad
di F. Q. | 19 ottobre 2015
Sabato 17 ottobre è stata trovata morta nei bagni dell’aeroporto Ataturk di Istanbul, impiccata con dei lacci delle scarpe. Secondo le autorità turche si sarebbe suicidata dopo avere perso il volo che l’avrebbe portata a Erbil, in Iraq. Ma la versione ufficiale non convince i colleghi e chi conosceva bene Jacqueline Anne Sutton, 50 anni – ex reporter della Bbc , già collaboratrice delle Nazioni Unite – che in Iraq attualmente dirigeva il think tank Iwpr (Institute for War and Peace Reporting) e stava conducendo alcune inchieste sulla condizione femminile nell’Isis. A destare sospetti è anche il destino del suo predecessore all’Iwpr, Ammar Al Shahbander, ucciso con altre 17 persone in un’autobomba a maggio a Baghdad.
IWDA @iwda
Today, we are angry and grieving for Jacky Sutton. Tomorrow we’ll be seeking answers and calling for urgent action.
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Secondo quanto riporta l’agenzia di stampa statale Anadolu, alcuni testimoni hanno raccontato che la donna era molto nervosa, dopo avere perso un volo che avrebbe dovuto portarla a Erbil, in Iraq, previsto a mezzanotte e un quarto. In aeroporto le hanno risposto che l’unica possibilità era quella di comprare un nuovo biglietto ma lei, a quel punto, ha spiegato di non avere il denaro necessario ed è scoppiata in lacrime. Il corpo è stato ritrovato da tre passeggeri di nazionalità russa e i medici hanno soltanto potuto constatare il decesso della giornalista. Sutton, oltre all’attività in Iraq, parlava cinque lingue ed era dottoranda al Centre for Arab and Islamic Studies presso Australian National University.
Non credono però all’ipotesi del suicidio amici e colleghi di Sutton, che chiedono l’apertura di “un’indagine internazionale, non solo locale”. Una richiesta che si sta facendo sempre più insistente nelle ultime ore, specie sui social network, anche alla luce del ruolo della donna.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/10 ... o/2141051/
La vox populi.
Il contadino • 5 minuti fa
Che ad una giornalista responsabile di un Istituto che si trova in un aeroporto, e si appresta ad un viaggio, le possa mancare il denaro, è come dire manca l'acqua al mare. Io focalizzerei piuttosto l'attenzione nella ricerca di eventuali assassini sul suo lavoro "d'inchiesta sulla condizione femminile nell' ISIS", nota associazione caritatevole, di cui il presidente turco Erdogan, ne è uno dei massimi esponenti! Un altra bocca scomoda messa a tacere in vista del primo Novembre!
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karmine b • 24 minuti fa
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Ivo Serenthà • 25 minuti fa
Certo come no,con tutto il rispetto per la povera vittima,la versione ufficiale equivale ad asserire che gli asini volano.
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Re: Top News
La truffa arriva in un click Occhio ai banner sul telefonino
( BARBARA LIVERZANI)
26/10/2015 di triskel182
telefoninoOroscopi, gossip, suonerie, giochi, chat e contenuti erotici: tutti servizi “succhiasoldi”.
Oroscopi, gossip, suonerie, giochi, chat e contenuti più o meno erotici: sono tutti i servizi “succhia soldi” che attiviamo involontariamente navigando con lo smartphone e che a colpi di 5/6 euro a settimana consumano la nostra ricarica (se abbiamo una prepagata) o fanno lievitare la nostra bolletta in caso di contratto, nascosti tra le altre voci di costo. Finire nel “tunnel” di abbonamenti non richiesti è facilissimo così come invece è complicatissimo riuscire a disattivarli e, ancora peggio, essere rimborsati di quanto speso: basta sfiorare accidentalmente un banner pubblicitario mentre stiamo navigando, oppure tentare di chiudere una finestra pop-up che compare sullo schermo mentre stiamo giocando.
BASTA UN CLICK , insomma, per sottoscrivere i servizi più disparati e trovarsi a ricevere sms di vario genere con contenuti a pagamento. Sarebbero circa 10 milioni, secondo l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), gli italiani che prima o dopo si sono ritrovati con addebiti non richiesti,per un giro di affari che il Politecnico di Milano ha stimato intorno agli 800 milioni di euro. Una piaga su cui quest’anno, sollecitata dalle segnalazioni di utenti esasperati, l’Autorità è intervenuta due volte sanzionando con multe pesanti i quattro maggiori operatori di telefonia mobile: Tim, Vodafone, Wind e H3G. Una prima stangata è arrivata a gennaio: l’Antitrust con l’accusa di pratiche commerciali scorrette ha sanzionato per un totale di oltre 5 milioni di euro le quatto aziende di tlc (1 milione 750 mila ciascuno per Telecom e H3G e 800 mila euro ciascuno per Wind e Vodafone) giudicate responsabili nell’attivazione dei servizi a sovrapprezzo non richiesti. E di nuovo pochi giorni fa l’Antitrust è intervenuta multando le “magnifiche quattro” con un totale di 1 milione 733 mila euro (Telecom 583 mila, Wind 350 mila, Vodafone e H3G 400 mila) “per non aver rispettato i provvedimenti del gennaio scorso, continuando a non acquisire un consenso pienamente consapevole del consumatore per l’acquisto dei servizi premium”. Diverse le colpe degli operatori mobili: innanzitutto non fornire adeguata informazione circa la possibilità di attivare preventivamente il “blocco selettivo” che impedirebbe all’origine la ricezione dei servizi a pagamento; poi non contrastare l’attivazione di questi abbonamenti col meccanismo del doppio click, cioè una seconda digitazione con cui l’utente deve confermare l’adesione al servizio dopo averne visionato termini e costi. Ma non è tutto. Per la prima volta l’Autorità ha scoperchiato il business che sta dietro a questi abbonamenti , così si legge nel provvedimento di sanzione: “L’operatore di telefonia trae uno specifico vantaggio economico dalla commercializzazione dei servizi premium. Dalle evidenze istruttorie emerge, infatti, che gli operatori non sono remunerati forfettariamente ma percepiscono in genere una elevata percentuale (in media circa il 30-60%) sui servizi commercializzati dai provider”. CADONO COSÌ le giustificazioni fornite dal Servizio clienti di questo o quell’operatore per negare il rimborso: “Non dipende da noi, il servizio è di altri”. Oppure: “I soldi non vanno a noi”. “Finalmente l’Antitrust ha svelato che esiste un accodo commerciale preciso e che operatori tlc e provider vanno a braccetto e si spartiscono gli introiti”, Pietro Giordano, presidente nazionale Adiconsum, Multa dopo multa alla fine qualcosa sembra smuoversi.Dal primo ottobre per esempio H3G ha introdotto il famoso meccanismo del doppio click per prevenire le attivazioni non richieste.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 26/10/2015.
( BARBARA LIVERZANI)
26/10/2015 di triskel182
telefoninoOroscopi, gossip, suonerie, giochi, chat e contenuti erotici: tutti servizi “succhiasoldi”.
Oroscopi, gossip, suonerie, giochi, chat e contenuti più o meno erotici: sono tutti i servizi “succhia soldi” che attiviamo involontariamente navigando con lo smartphone e che a colpi di 5/6 euro a settimana consumano la nostra ricarica (se abbiamo una prepagata) o fanno lievitare la nostra bolletta in caso di contratto, nascosti tra le altre voci di costo. Finire nel “tunnel” di abbonamenti non richiesti è facilissimo così come invece è complicatissimo riuscire a disattivarli e, ancora peggio, essere rimborsati di quanto speso: basta sfiorare accidentalmente un banner pubblicitario mentre stiamo navigando, oppure tentare di chiudere una finestra pop-up che compare sullo schermo mentre stiamo giocando.
BASTA UN CLICK , insomma, per sottoscrivere i servizi più disparati e trovarsi a ricevere sms di vario genere con contenuti a pagamento. Sarebbero circa 10 milioni, secondo l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), gli italiani che prima o dopo si sono ritrovati con addebiti non richiesti,per un giro di affari che il Politecnico di Milano ha stimato intorno agli 800 milioni di euro. Una piaga su cui quest’anno, sollecitata dalle segnalazioni di utenti esasperati, l’Autorità è intervenuta due volte sanzionando con multe pesanti i quattro maggiori operatori di telefonia mobile: Tim, Vodafone, Wind e H3G. Una prima stangata è arrivata a gennaio: l’Antitrust con l’accusa di pratiche commerciali scorrette ha sanzionato per un totale di oltre 5 milioni di euro le quatto aziende di tlc (1 milione 750 mila ciascuno per Telecom e H3G e 800 mila euro ciascuno per Wind e Vodafone) giudicate responsabili nell’attivazione dei servizi a sovrapprezzo non richiesti. E di nuovo pochi giorni fa l’Antitrust è intervenuta multando le “magnifiche quattro” con un totale di 1 milione 733 mila euro (Telecom 583 mila, Wind 350 mila, Vodafone e H3G 400 mila) “per non aver rispettato i provvedimenti del gennaio scorso, continuando a non acquisire un consenso pienamente consapevole del consumatore per l’acquisto dei servizi premium”. Diverse le colpe degli operatori mobili: innanzitutto non fornire adeguata informazione circa la possibilità di attivare preventivamente il “blocco selettivo” che impedirebbe all’origine la ricezione dei servizi a pagamento; poi non contrastare l’attivazione di questi abbonamenti col meccanismo del doppio click, cioè una seconda digitazione con cui l’utente deve confermare l’adesione al servizio dopo averne visionato termini e costi. Ma non è tutto. Per la prima volta l’Autorità ha scoperchiato il business che sta dietro a questi abbonamenti , così si legge nel provvedimento di sanzione: “L’operatore di telefonia trae uno specifico vantaggio economico dalla commercializzazione dei servizi premium. Dalle evidenze istruttorie emerge, infatti, che gli operatori non sono remunerati forfettariamente ma percepiscono in genere una elevata percentuale (in media circa il 30-60%) sui servizi commercializzati dai provider”. CADONO COSÌ le giustificazioni fornite dal Servizio clienti di questo o quell’operatore per negare il rimborso: “Non dipende da noi, il servizio è di altri”. Oppure: “I soldi non vanno a noi”. “Finalmente l’Antitrust ha svelato che esiste un accodo commerciale preciso e che operatori tlc e provider vanno a braccetto e si spartiscono gli introiti”, Pietro Giordano, presidente nazionale Adiconsum, Multa dopo multa alla fine qualcosa sembra smuoversi.Dal primo ottobre per esempio H3G ha introdotto il famoso meccanismo del doppio click per prevenire le attivazioni non richieste.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 26/10/2015.
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Re: Top News
La Stampa 2.11.15
“La nostra gente non arrivava ai seggi
Hanno fatto di tutto per fermare i curdi”
Huda Kaya, una dei leader dell’Hdp: “I conti non tornano”
di Marta Ottaviani
Un risultato inaspettato, la Turchia che rischia un punto di non ritorno, una lotta pacifica che va avanti, nonostante la sorpresa e la delusione. Huda Kaya, deputata dell’Hdp, il partito curdo, rieletta ieri a Istanbul commenta a caldo il risultato elettorale. Sul quale, secondo lei, pesa più di una nube.
Onorevole Kaya, lo spoglio è quasi finito. Qual è il suo primo commento del voto?
«Direi che sono come minimo sorpresa e mi sembra strano. I sondaggi di cui eravamo in possesso a livello del partito e condotti da società di ricerca importanti, dicevano che avremmo preso, nel peggiore dei casi il 13 per cento, ma che potevamo arrivare anche al 15-16. Invece siamo appena sotto il 10 e abbiamo anche rischiato di rimanere fuori dal Parlamento. C’è qualcosa che non torna».
Vuole dire che ci sono stati dei brogli?
«Ci sono cose che andranno chiarite. Temevamo già dalla vigilia che ci sarebbero state delle zone d’ombra ma questo risultato è veramente al di là di ogni immaginazione. Di certo si sa che molte persone nell’Est del Paese, dove tradizionalmente il partito curdo è molto forte, non sono riuscite non dico a votare, ma nemmeno ad andare ai seggi. Le scorse elezioni erano andate in maniera diversa, in queste sono arrivate più segnalazioni».
Avete rischiato di rimanere fuori dal Parlamento, i vostri voti nel Sud-Est del Paese se li è presi l’Akp, il bilancio politico vostro come Hdp cosa dice?
«Guardi, onestamente per la campagna elettorale che abbiamo scelto di fare, proprio per questo motivo, non riesco a credere che abbiamo perso tutti questi consensi. Abbiamo rinunciato ai comizi in primo luogo per motivi di sicurezza. Abbiamo scelto piccoli incontri in circoli, case private, associazioni. Si è trattato di una campagna elettorale di minore impatto, ma che ci ha fatto veramente capire quale fosse il polso della situazione e quante persone fossero serenamente disposte a votarci».
Che cosa succede adesso in Parlamento?
«Per noi non succede proprio niente. Continuiamo con la nostra attività politica, abbiamo un programma da rispettare e milioni di lettori che ci hanno votato».
Su cosa vi concentrerete?
«Sui diritti, assolutamente. Questo Paese ha bisogno di una ventata di pace e di diritti».
Cosa si aspetta dal presidente Erdogan e dal futuro partito?
«Non sono molto ottimista se devo dire. Recep Tayyip Erdogan ha come unico obiettivo quello del sistema presidenziale forte e non si fermerà finché non lo avrà ottenuto. Il suo partito è in Parlamento per garantirglielo».
Che cosa vorreste voi?
«Per prima cosa una legge elettorale diversa, che consenta ad altri partiti di entrare in parlamento, ma anche in questo frangente, l’Akp è al potere da anni nel Paese e non ha mai fatto nulla per cambiarla».
Siete preoccupati per la deriva conservatrice del Paese?
«Personalmente sono molto più preoccupata per la crescente mancanza di democrazia. Io sono religiosa e porto il velo. Ma in Turchia non solo la religione è entrata nella politica, si sta imponendo la volontà di uno a tutta la nazione».
“La nostra gente non arrivava ai seggi
Hanno fatto di tutto per fermare i curdi”
Huda Kaya, una dei leader dell’Hdp: “I conti non tornano”
di Marta Ottaviani
Un risultato inaspettato, la Turchia che rischia un punto di non ritorno, una lotta pacifica che va avanti, nonostante la sorpresa e la delusione. Huda Kaya, deputata dell’Hdp, il partito curdo, rieletta ieri a Istanbul commenta a caldo il risultato elettorale. Sul quale, secondo lei, pesa più di una nube.
Onorevole Kaya, lo spoglio è quasi finito. Qual è il suo primo commento del voto?
«Direi che sono come minimo sorpresa e mi sembra strano. I sondaggi di cui eravamo in possesso a livello del partito e condotti da società di ricerca importanti, dicevano che avremmo preso, nel peggiore dei casi il 13 per cento, ma che potevamo arrivare anche al 15-16. Invece siamo appena sotto il 10 e abbiamo anche rischiato di rimanere fuori dal Parlamento. C’è qualcosa che non torna».
Vuole dire che ci sono stati dei brogli?
«Ci sono cose che andranno chiarite. Temevamo già dalla vigilia che ci sarebbero state delle zone d’ombra ma questo risultato è veramente al di là di ogni immaginazione. Di certo si sa che molte persone nell’Est del Paese, dove tradizionalmente il partito curdo è molto forte, non sono riuscite non dico a votare, ma nemmeno ad andare ai seggi. Le scorse elezioni erano andate in maniera diversa, in queste sono arrivate più segnalazioni».
Avete rischiato di rimanere fuori dal Parlamento, i vostri voti nel Sud-Est del Paese se li è presi l’Akp, il bilancio politico vostro come Hdp cosa dice?
«Guardi, onestamente per la campagna elettorale che abbiamo scelto di fare, proprio per questo motivo, non riesco a credere che abbiamo perso tutti questi consensi. Abbiamo rinunciato ai comizi in primo luogo per motivi di sicurezza. Abbiamo scelto piccoli incontri in circoli, case private, associazioni. Si è trattato di una campagna elettorale di minore impatto, ma che ci ha fatto veramente capire quale fosse il polso della situazione e quante persone fossero serenamente disposte a votarci».
Che cosa succede adesso in Parlamento?
«Per noi non succede proprio niente. Continuiamo con la nostra attività politica, abbiamo un programma da rispettare e milioni di lettori che ci hanno votato».
Su cosa vi concentrerete?
«Sui diritti, assolutamente. Questo Paese ha bisogno di una ventata di pace e di diritti».
Cosa si aspetta dal presidente Erdogan e dal futuro partito?
«Non sono molto ottimista se devo dire. Recep Tayyip Erdogan ha come unico obiettivo quello del sistema presidenziale forte e non si fermerà finché non lo avrà ottenuto. Il suo partito è in Parlamento per garantirglielo».
Che cosa vorreste voi?
«Per prima cosa una legge elettorale diversa, che consenta ad altri partiti di entrare in parlamento, ma anche in questo frangente, l’Akp è al potere da anni nel Paese e non ha mai fatto nulla per cambiarla».
Siete preoccupati per la deriva conservatrice del Paese?
«Personalmente sono molto più preoccupata per la crescente mancanza di democrazia. Io sono religiosa e porto il velo. Ma in Turchia non solo la religione è entrata nella politica, si sta imponendo la volontà di uno a tutta la nazione».
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Re: Top News
Ci tocca aspettare il prossimo viaggio in aereo di Papa Francesco per avere una sua folle - mi correggo, ai lettori piace “rivoluzionaria” - dichiarazione sulla legge di Stabilità: “Io quella legge non l’ho firmata, capito?”.
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Re: Top News
Repubblica 24.11.15
Umberto Eco, Sandro Veronesi, Hanif Kureishi, Tahar Ben Jelloun: sono tra il meglio della scuderia Bompiani Non hanno accettato di pubblicare per il nuovo colosso controllato da Segrate. E hanno deciso, insieme ad altri autori, di seguire Elisabetta Sgarbi in una nuova avventura,“La nave di Teseo”. Perché? “Siamo pazzi”
Mondazzoli addio
di Francesco Merlo
MILANO Il punto della massima chiarezza è stato anche quello della massima oscurità, quando, racconta Umberto Eco, «si sono incontrate per non capirsi Elisabetta Sgarbi e Marina Berlusconi», non donne incompatibili e incomunicabili per ideologia, ma per antropologia. È da quell’incontro che è nata “La Nave di Teseo”, due legni arcuati e all’insù come simbolo, la nuova casa editrice finanziata dagli scrittori, a partire dai due milioni di Umberto Eco che a 83 anni fa progetti con l’entusiasmo e i rischi di un ragazzo: «Perché il progetto è l’unica alternativa alla
Settimana Enigmistica, il vero rimedio contro l’Alzheimer». Velleitari? «Peggio, siamo pazzi» .
Ci mettono soldi anche un finanziere- scrittore, il dottor Brera («sì, sono un parente alla lontana») e Jean Claude Fasquelle, un altro giovanotto di 85 anni, l’enigmatico “grande vecchio” dell’editoria francese, noto per i suoi interminabili silenzi e per l’abilità nello schivare le interviste: lo chiamano “l’homme de l’ombre”. E infatti anche adesso, qui in casa di Elisabetta Sgarbi non c’è né lui né sua moglie «perché stanno perfezionando l’uscita dal vecchio lavoro» dice Eco in tono protettivo. La casa di Elisabetta è ricca di cose belle ma non preziose, è il lusso che non luccica. E l’intervista è il contrario di una conferenza stampa: con un unico giornalista, povero e solo, e una bella folla di conferenzieri, colti e famosi.
Capitale totale della nuova casa editrice? «Dai cinque ai sei milioni». Dice Elisabetta: «Entro l’anno prevediamo 51 titoli». Precisa la direttrice amministrativa: «Il peggio è previsto fra tre anni». La sede sarà in via Jacini 6 «generosamente messa a disposizione da Francesco Micheli». La distribuzione e i servizi commerciali? «Gruppo Feltrinelli e Messaggerie, grazie a Carlo Feltrinelli e a Stefano Mauri».
Di fronte a Eco ci sono Sandro Veronesi ed Edoardo Nesi. Accanto a Eco, come sempre, c’è Furio Colombo, un altro vecchio con i calzoni corti: «È una vita che io e Umberto ci dimettiamo, sin dagli anni Cinquanta. Io per esempio quando arrivò Berlusconi al governo lasciai l’Istituto di cultura italiana di New York». E poi c’è Sergio Claudio Perroni, il Cellini degli editor, lo scrittore appartato che non è certo un magnate. Dice Veronesi: «Io lo faccio perché tengo famiglia. Ai miei cinque figli voglio lasciare un’eredità importante, una case editrice infatti è molto più dei miei libri e può davvero cambiare il paese. Rischio i soldi, certo, ma ne vale la pena». Interviene ancora Eco: «Mio nipotino mi ha chiesto: “Nonno, perché lo fai?”. Gli ho risposto: “Perché si deve”» .
Ma non temete “l’effetto cooperativa”, quell’angustia di orizzonti culturali da mensa dei poveri, da “alternativi” all’ultima cena? «Non siamo improvvisatori», dice Eugenio Lio, che è un altro azionista, il tecnico giovane, l’editore-talpa. Spiega: «Abbiamo una struttura professionale, mestieri, competenze, un presidente che è un commercialista, direttori e marketing. Siamo una società srl. Altro che cooperativa» .
Eco ammette che sanno di rischiare il magnifico fallimento. L’editoria infatti è il modo più elegante per dissipare i propri risparmi, magari in modo lento, ma sicuro. Inoltre in un’epoca non creativa, l’editore può essere destinato all’impotenza. Forse – osservo – un momento più brutto non potevate sceglierlo. Risponde Mario Andreose, che del catalogo della Bompiani è la storia, il Mendel di Zweig, l’artista che ha messo in opera le opere, da Brancati a Sciascia, da Campanile a Bufalino… Andreose crede nella catastrofe come risorsa e racconta che «Valentino Bompiani fondò la casa editrice nell’anno del crollo di Wall Street, nel terribile 1929». E viene fuori che “Zio Vale” era il nome alternativo a “La nave di Teseo”. Racconta Eco, che con Valentino ha lavorato: «Ci davamo del lei. Tutti lo chiamavano “il dottore”. Ma dottore ero anche io. Per ovvie ragioni non potevo chiamarlo “conte”, come faceva la sua segretaria. Dunque gli dissi: “Io, in tutti questi anni, non l’ho chiamata mai e ora che vuoi il tu, ti chiamerò come i tuoi nipoti: zio Vale». Tra i nomi bocciati ci sono anche Cyrano, Caratteri Mobili, Renzo e Lucia, Garamond… Vasa «che è il nome – spiega Eco – di un galeone svedese, ma non è stato accettato perché la casa editrice sarebbe diventata ”il Vasa da notte”» .
Azionisti sono anche Elisabetta Sgarbi, Mario Andreose ed Eugenio Lio, tre campioni di «un mestiere che non si impara» come spiegava bene Kurt Wolff ( Memorie di un Editore, Giometti& Antonello) al quale Kafka diceva: «La ringrazierò sempre di più per i libri che mi boccia che per quelli che mi pubblica». Dice Edoardo Nesi: «L’editore è una persona, non un’azienda. È un amico che ti segue e ti coccola, non un amministratore che firma contratti e stacca assegni. È il pastore delle tue opere: per 15 anni Elisabetta ha pubblicato libri miei che non avevano neppure l’ombra del successo, e senza mai rimproverarmelo. Non mi ha mai abbondonato. Come potrei non stare qui con lei, adesso? Come potrei non salire sulla Nave di Teseo?» .
Guardando Elisabetta, dico allora ad Eco: «Chi è Arianna?». E qui il semiologo prevale sul maestro di ironia: «Teseo è solo un pretesto, un nome come un altro. L’importante è la nave, non Teseo». Ed Elisabetta legge, come a teatro, il passo di Plutarco dove la nave di Teseo è quella che perde e sostituisce pezzi. Adesso nella bella stanza di casa Sgarbi è tutto un discutere di identità, che è il grande tema dell’architettura e delle città, è l’imbroglio delle religioni, e il rifugio delle migrazioni… A un tratto però Eugenio Lio dice pure che «Magris definisce Teseo “colui che si alza e se ne va”» . E a Eco piace: «C’è anche Magris tra gli autori Bompiani che sono pronti a seguire Elisabetta» . E Tahar Ben Jelloun racconta di un profumiere che aveva comprato la casa editrice che pubblicava i suoi libri: «Mi sono trovato senza un vero editore. Di che parlavo? Di fragranze, di nasi, di muschi? Elisabetta è un editore, la Mondadori–Rizzoli non è nemmeno un profumiere». Ma ecco che, in collegamento Skype, interviene in casa Sgarbi, nientemeno che… Michael Cunningham. Anche lui seguirà il filo di Arianna. E così Nuccio Ordine, con tutte le sue traduzioni di Giordano Bruno, il don Quijote e il Montaigne che ha venduto 15000 copie: «Un’enormità per un classico». E poi ci sono il triestino di Roma Mauro Covacich, la giovane e speciale neo-nevrotica Viola Di Grado, e Hanif Kureishi, che ha scoperto le periferie ben prima di Renzo Piano, e Lidia Ravera che sta volando ancora, e “l’abbandonologa” Carmen Pellegrino, la longseller Susanna Tamaro e, ça va sans dire, Vittorio Sgarbi, capra-capra-capra. Chiedo dei bestseller Paulo Coelho, Houellebecq e Piketty: «Mi sono dimessa stamattina, dammi il tempo di tessere il mio filo» . Ecco dunque che Teseo è anche un filo da seguire. Ed è labirinto la libreria, come insegna Borges. E in Teseo c’è l’idea dell’amicizia che è la vecchia Einaudi, la Sellerio di Sciascia… lo statuto morale di ogni casa editrice. Infine c’è il mare che è l’avventura, il pericolo ma anche il porto che mescola le identità. Domando: siete tutti di sinistra? Eco si gira e prende la mano di Pietrangelo Buttafuoco: «In questo momento, tu sei di destra o di sinistra?». E Buttafuoco: «Quando governa la destra sono di sinistra, quando governa la sinistra sono di destra». E racconta: «Il mio primo lavoro è stato il libraio. So dunque quanto fanno male le super concentrazioni alla diffusione dei libri».
Marina Berlusconi ha tentato di trattenervi? «Non ha capito – racconta Elisabetta – perché ce ne andiamo. E soprattutto non ha accettato la possibilità di una nostra autonomia editoriale e gestionale. Neppure comprende a cosa possa servirci. Eppure le abbiamo offerto in cambio l’opera omnia di Eco, di cui Mondadori vorrebbe fare il Meridiano». Eco racconta che rimarranno in mani nemiche Il nome della Rosa sino al 2020, e il Pendolo sino al 2018. Dice Veronesi: «Invece il mio Caos calmo è libero». E Buttafuoco: «Anche il mio Le uova del drago è libero». Dicono in coro Umberto Eco ed Elisabetta Sgarbi: «Non è contro Berlusconi che ce ne andiamo. Ed Elisabetta l’ha detto chiaro a Marina. Se il mega proprietario fosse Nichi Vendola o Fausto Bertinotti per noi non cambierebbe nulla». Elisabetta ha spiegato a Marina che cosa significa «l’appiattimento dell’identità per un editore» e perché «i libri dei grandi autori raramente sono usciti da imprese gigantesche e perché i movimenti letterari più importanti della storia sono stati sostenuti e sviluppati da piccole realtà editoriali…» . Dice Eco: «Qualsiasi cosa avesse detto, Marina non avrebbe capito».
E torna la contrapposizione dei tipi, che sono opposti per stile e per educazione, due donne- capitano che non possono stare sulla stessa barca, anzi sulla stessa nave, Elisabetta su quella di Teseo, il fragile e felice legno degli scrittori, e Marina sulla barca dell’industria culturale più grande e più decaduta d’Italia. E infatti l’una parlava di umanesimo cosmopolita e l’altra di azienda, l’una di autori da allevare e l’altra di vendite che non aumentano. Ed Elisabetta fa imbizzarrire Umberto Eco mentre Marina si consulta con Alfonso Signorini.
La libertà di Elisabetta significava l’autonomia della Bompiani, dalla quale non voleva proprio staccarsi, «perché sono monogamica, non mi separo se non quando sono abbandonata». Crede nell’editore come lingua di un’epoca: tradurre e ristampare ma soprattutto scovare e covare. Inizierete presto a litigare? «Abbiamo smesso solo per te. Speriamo di ricominciare presto».
Umberto Eco, Sandro Veronesi, Hanif Kureishi, Tahar Ben Jelloun: sono tra il meglio della scuderia Bompiani Non hanno accettato di pubblicare per il nuovo colosso controllato da Segrate. E hanno deciso, insieme ad altri autori, di seguire Elisabetta Sgarbi in una nuova avventura,“La nave di Teseo”. Perché? “Siamo pazzi”
Mondazzoli addio
di Francesco Merlo
MILANO Il punto della massima chiarezza è stato anche quello della massima oscurità, quando, racconta Umberto Eco, «si sono incontrate per non capirsi Elisabetta Sgarbi e Marina Berlusconi», non donne incompatibili e incomunicabili per ideologia, ma per antropologia. È da quell’incontro che è nata “La Nave di Teseo”, due legni arcuati e all’insù come simbolo, la nuova casa editrice finanziata dagli scrittori, a partire dai due milioni di Umberto Eco che a 83 anni fa progetti con l’entusiasmo e i rischi di un ragazzo: «Perché il progetto è l’unica alternativa alla
Settimana Enigmistica, il vero rimedio contro l’Alzheimer». Velleitari? «Peggio, siamo pazzi» .
Ci mettono soldi anche un finanziere- scrittore, il dottor Brera («sì, sono un parente alla lontana») e Jean Claude Fasquelle, un altro giovanotto di 85 anni, l’enigmatico “grande vecchio” dell’editoria francese, noto per i suoi interminabili silenzi e per l’abilità nello schivare le interviste: lo chiamano “l’homme de l’ombre”. E infatti anche adesso, qui in casa di Elisabetta Sgarbi non c’è né lui né sua moglie «perché stanno perfezionando l’uscita dal vecchio lavoro» dice Eco in tono protettivo. La casa di Elisabetta è ricca di cose belle ma non preziose, è il lusso che non luccica. E l’intervista è il contrario di una conferenza stampa: con un unico giornalista, povero e solo, e una bella folla di conferenzieri, colti e famosi.
Capitale totale della nuova casa editrice? «Dai cinque ai sei milioni». Dice Elisabetta: «Entro l’anno prevediamo 51 titoli». Precisa la direttrice amministrativa: «Il peggio è previsto fra tre anni». La sede sarà in via Jacini 6 «generosamente messa a disposizione da Francesco Micheli». La distribuzione e i servizi commerciali? «Gruppo Feltrinelli e Messaggerie, grazie a Carlo Feltrinelli e a Stefano Mauri».
Di fronte a Eco ci sono Sandro Veronesi ed Edoardo Nesi. Accanto a Eco, come sempre, c’è Furio Colombo, un altro vecchio con i calzoni corti: «È una vita che io e Umberto ci dimettiamo, sin dagli anni Cinquanta. Io per esempio quando arrivò Berlusconi al governo lasciai l’Istituto di cultura italiana di New York». E poi c’è Sergio Claudio Perroni, il Cellini degli editor, lo scrittore appartato che non è certo un magnate. Dice Veronesi: «Io lo faccio perché tengo famiglia. Ai miei cinque figli voglio lasciare un’eredità importante, una case editrice infatti è molto più dei miei libri e può davvero cambiare il paese. Rischio i soldi, certo, ma ne vale la pena». Interviene ancora Eco: «Mio nipotino mi ha chiesto: “Nonno, perché lo fai?”. Gli ho risposto: “Perché si deve”» .
Ma non temete “l’effetto cooperativa”, quell’angustia di orizzonti culturali da mensa dei poveri, da “alternativi” all’ultima cena? «Non siamo improvvisatori», dice Eugenio Lio, che è un altro azionista, il tecnico giovane, l’editore-talpa. Spiega: «Abbiamo una struttura professionale, mestieri, competenze, un presidente che è un commercialista, direttori e marketing. Siamo una società srl. Altro che cooperativa» .
Eco ammette che sanno di rischiare il magnifico fallimento. L’editoria infatti è il modo più elegante per dissipare i propri risparmi, magari in modo lento, ma sicuro. Inoltre in un’epoca non creativa, l’editore può essere destinato all’impotenza. Forse – osservo – un momento più brutto non potevate sceglierlo. Risponde Mario Andreose, che del catalogo della Bompiani è la storia, il Mendel di Zweig, l’artista che ha messo in opera le opere, da Brancati a Sciascia, da Campanile a Bufalino… Andreose crede nella catastrofe come risorsa e racconta che «Valentino Bompiani fondò la casa editrice nell’anno del crollo di Wall Street, nel terribile 1929». E viene fuori che “Zio Vale” era il nome alternativo a “La nave di Teseo”. Racconta Eco, che con Valentino ha lavorato: «Ci davamo del lei. Tutti lo chiamavano “il dottore”. Ma dottore ero anche io. Per ovvie ragioni non potevo chiamarlo “conte”, come faceva la sua segretaria. Dunque gli dissi: “Io, in tutti questi anni, non l’ho chiamata mai e ora che vuoi il tu, ti chiamerò come i tuoi nipoti: zio Vale». Tra i nomi bocciati ci sono anche Cyrano, Caratteri Mobili, Renzo e Lucia, Garamond… Vasa «che è il nome – spiega Eco – di un galeone svedese, ma non è stato accettato perché la casa editrice sarebbe diventata ”il Vasa da notte”» .
Azionisti sono anche Elisabetta Sgarbi, Mario Andreose ed Eugenio Lio, tre campioni di «un mestiere che non si impara» come spiegava bene Kurt Wolff ( Memorie di un Editore, Giometti& Antonello) al quale Kafka diceva: «La ringrazierò sempre di più per i libri che mi boccia che per quelli che mi pubblica». Dice Edoardo Nesi: «L’editore è una persona, non un’azienda. È un amico che ti segue e ti coccola, non un amministratore che firma contratti e stacca assegni. È il pastore delle tue opere: per 15 anni Elisabetta ha pubblicato libri miei che non avevano neppure l’ombra del successo, e senza mai rimproverarmelo. Non mi ha mai abbondonato. Come potrei non stare qui con lei, adesso? Come potrei non salire sulla Nave di Teseo?» .
Guardando Elisabetta, dico allora ad Eco: «Chi è Arianna?». E qui il semiologo prevale sul maestro di ironia: «Teseo è solo un pretesto, un nome come un altro. L’importante è la nave, non Teseo». Ed Elisabetta legge, come a teatro, il passo di Plutarco dove la nave di Teseo è quella che perde e sostituisce pezzi. Adesso nella bella stanza di casa Sgarbi è tutto un discutere di identità, che è il grande tema dell’architettura e delle città, è l’imbroglio delle religioni, e il rifugio delle migrazioni… A un tratto però Eugenio Lio dice pure che «Magris definisce Teseo “colui che si alza e se ne va”» . E a Eco piace: «C’è anche Magris tra gli autori Bompiani che sono pronti a seguire Elisabetta» . E Tahar Ben Jelloun racconta di un profumiere che aveva comprato la casa editrice che pubblicava i suoi libri: «Mi sono trovato senza un vero editore. Di che parlavo? Di fragranze, di nasi, di muschi? Elisabetta è un editore, la Mondadori–Rizzoli non è nemmeno un profumiere». Ma ecco che, in collegamento Skype, interviene in casa Sgarbi, nientemeno che… Michael Cunningham. Anche lui seguirà il filo di Arianna. E così Nuccio Ordine, con tutte le sue traduzioni di Giordano Bruno, il don Quijote e il Montaigne che ha venduto 15000 copie: «Un’enormità per un classico». E poi ci sono il triestino di Roma Mauro Covacich, la giovane e speciale neo-nevrotica Viola Di Grado, e Hanif Kureishi, che ha scoperto le periferie ben prima di Renzo Piano, e Lidia Ravera che sta volando ancora, e “l’abbandonologa” Carmen Pellegrino, la longseller Susanna Tamaro e, ça va sans dire, Vittorio Sgarbi, capra-capra-capra. Chiedo dei bestseller Paulo Coelho, Houellebecq e Piketty: «Mi sono dimessa stamattina, dammi il tempo di tessere il mio filo» . Ecco dunque che Teseo è anche un filo da seguire. Ed è labirinto la libreria, come insegna Borges. E in Teseo c’è l’idea dell’amicizia che è la vecchia Einaudi, la Sellerio di Sciascia… lo statuto morale di ogni casa editrice. Infine c’è il mare che è l’avventura, il pericolo ma anche il porto che mescola le identità. Domando: siete tutti di sinistra? Eco si gira e prende la mano di Pietrangelo Buttafuoco: «In questo momento, tu sei di destra o di sinistra?». E Buttafuoco: «Quando governa la destra sono di sinistra, quando governa la sinistra sono di destra». E racconta: «Il mio primo lavoro è stato il libraio. So dunque quanto fanno male le super concentrazioni alla diffusione dei libri».
Marina Berlusconi ha tentato di trattenervi? «Non ha capito – racconta Elisabetta – perché ce ne andiamo. E soprattutto non ha accettato la possibilità di una nostra autonomia editoriale e gestionale. Neppure comprende a cosa possa servirci. Eppure le abbiamo offerto in cambio l’opera omnia di Eco, di cui Mondadori vorrebbe fare il Meridiano». Eco racconta che rimarranno in mani nemiche Il nome della Rosa sino al 2020, e il Pendolo sino al 2018. Dice Veronesi: «Invece il mio Caos calmo è libero». E Buttafuoco: «Anche il mio Le uova del drago è libero». Dicono in coro Umberto Eco ed Elisabetta Sgarbi: «Non è contro Berlusconi che ce ne andiamo. Ed Elisabetta l’ha detto chiaro a Marina. Se il mega proprietario fosse Nichi Vendola o Fausto Bertinotti per noi non cambierebbe nulla». Elisabetta ha spiegato a Marina che cosa significa «l’appiattimento dell’identità per un editore» e perché «i libri dei grandi autori raramente sono usciti da imprese gigantesche e perché i movimenti letterari più importanti della storia sono stati sostenuti e sviluppati da piccole realtà editoriali…» . Dice Eco: «Qualsiasi cosa avesse detto, Marina non avrebbe capito».
E torna la contrapposizione dei tipi, che sono opposti per stile e per educazione, due donne- capitano che non possono stare sulla stessa barca, anzi sulla stessa nave, Elisabetta su quella di Teseo, il fragile e felice legno degli scrittori, e Marina sulla barca dell’industria culturale più grande e più decaduta d’Italia. E infatti l’una parlava di umanesimo cosmopolita e l’altra di azienda, l’una di autori da allevare e l’altra di vendite che non aumentano. Ed Elisabetta fa imbizzarrire Umberto Eco mentre Marina si consulta con Alfonso Signorini.
La libertà di Elisabetta significava l’autonomia della Bompiani, dalla quale non voleva proprio staccarsi, «perché sono monogamica, non mi separo se non quando sono abbandonata». Crede nell’editore come lingua di un’epoca: tradurre e ristampare ma soprattutto scovare e covare. Inizierete presto a litigare? «Abbiamo smesso solo per te. Speriamo di ricominciare presto».
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Re: Top News
Corriere 24.11.15
Restauro a Torino Copia ritrovata in una cantina, gli interpreti del Duce e di Claretta sono sempre di spalle Le ultime ore di Mussolini nel film mai visto in Italia
Partigiani attori in «Tragica alba a Dongo» censurato da Andreotti
di Paolo Mereghetti
Ci sono voluti sessantacinque anni, ma alla fine Tragica alba a Dongo ha trovato il suo primo pubblico, quello del Torino Film Festival dove ieri è stata proiettata la copia restaurata a cura del Museo Nazionale del Cinema. Perché questo strano «film-documentario» — come si autodefinisce nella lunga didascalia introduttiva — che dura solo 37 minuti si è conquistato un posto nella storia del cinema italiano per la sua invisibilità: non solo perché si considerava perduto (una copia è stata ritrovata fortunosamente in una cantina austriaca) ma perché Giulio Andreotti, ai tempi sottosegretario del governo De Gasperi con delega allo spettacolo, gli negò il visto di censura «in quanto si ritiene che possa ingenerare all’estero errati e dannosi apprezzamenti sul nostro Paese».
Quella nota, che porta la data del 24 gennaio 1951, fu la pietra tombale sul film che due ex partigiani, Emilio Maschera e Ugo Zanolla, avevano deciso di produrre, per ricostruire — sempre come dice la didascalia all’inizio del film — «la più misteriosa tragedia politica del secolo». Sicuramente di misteri nel Novecento ce ne sono stati altri, ma nell’Italia dell’immediato dopoguerra (le riprese, durate quattro mesi e mezzo, iniziarono nel 1949) la Resistenza armata e le sue gesta era qualcosa su cui in molti volevano stendere un velo di silenzio, soprattutto dopo le elezioni del 1948.
Nasce probabilmente da qui, dalla voglia di ricostruire l’episodio della cattura del Duce in fuga verso la Svizzera su cui già si accavallavano versioni contrastanti, l’idea del film, la cui realizzazione fu affidata ai giornalisti Vittorio Crucillà e, per la sceneggiatura, Ettore Camesasca.
Cinematograficamente il risultato lascia molto a desiderare: gli interpreti erano tutti dilettanti, o peggio, e solo il direttore della fotografia, Duilio Chiaradia poteva vantare un vero curriculum. Ma non era certo la drammaturgia o la recitazione le qualità che stavano più a cuore ai promotori del film. A loro interessava la verità dei fatti: «La macchina da presa — si legge ancora all’inizio del film — ha ricostruito e ripete fedelmente fatti, cose, ambienti e uomini così come apparvero e agirono in quelle tragiche giornate d’aprile».
Gli interpreti erano gli stessi partigiani che avevano catturato Benito Mussolini (impersonato da un attore che si vede poco e solo di spalle, così come Claretta Petacci); i due contadini che ospitano il Duce nella sua ultima notte sono gli autentici coniugi De Maria e la camera da letto è quella vera di casa loro; i discorsi che si sentono, le accuse che rivolgono al prigioniero sono certamente quelle che furono davvero pronunciate in quelle ore. Proprio quella «verità» che faceva paura a chi era al potere.
Qualche cosa oggi può far sorridere: l’uccisione del partigiano Mirko nello scontro con l’autoblindo (che il montaggio mette dopo la prima trattativa con l’ufficiale tedesco a capo dell’autocolonna che risaliva il lago di Como mentre invece avvenne prima), qualche eccesso di retorica nel commento fuori campo, la voglia di leggere nelle condizioni meteorologiche un contrappunto alla drammaticità di quelle ore.
Ma è il senso dell’operazione che non può sfuggire: quello di un cinema che cercava, con molta fatica, di aprire gli occhi agli italiani mentre altri volevano farli chiudere.
Restauro a Torino Copia ritrovata in una cantina, gli interpreti del Duce e di Claretta sono sempre di spalle Le ultime ore di Mussolini nel film mai visto in Italia
Partigiani attori in «Tragica alba a Dongo» censurato da Andreotti
di Paolo Mereghetti
Ci sono voluti sessantacinque anni, ma alla fine Tragica alba a Dongo ha trovato il suo primo pubblico, quello del Torino Film Festival dove ieri è stata proiettata la copia restaurata a cura del Museo Nazionale del Cinema. Perché questo strano «film-documentario» — come si autodefinisce nella lunga didascalia introduttiva — che dura solo 37 minuti si è conquistato un posto nella storia del cinema italiano per la sua invisibilità: non solo perché si considerava perduto (una copia è stata ritrovata fortunosamente in una cantina austriaca) ma perché Giulio Andreotti, ai tempi sottosegretario del governo De Gasperi con delega allo spettacolo, gli negò il visto di censura «in quanto si ritiene che possa ingenerare all’estero errati e dannosi apprezzamenti sul nostro Paese».
Quella nota, che porta la data del 24 gennaio 1951, fu la pietra tombale sul film che due ex partigiani, Emilio Maschera e Ugo Zanolla, avevano deciso di produrre, per ricostruire — sempre come dice la didascalia all’inizio del film — «la più misteriosa tragedia politica del secolo». Sicuramente di misteri nel Novecento ce ne sono stati altri, ma nell’Italia dell’immediato dopoguerra (le riprese, durate quattro mesi e mezzo, iniziarono nel 1949) la Resistenza armata e le sue gesta era qualcosa su cui in molti volevano stendere un velo di silenzio, soprattutto dopo le elezioni del 1948.
Nasce probabilmente da qui, dalla voglia di ricostruire l’episodio della cattura del Duce in fuga verso la Svizzera su cui già si accavallavano versioni contrastanti, l’idea del film, la cui realizzazione fu affidata ai giornalisti Vittorio Crucillà e, per la sceneggiatura, Ettore Camesasca.
Cinematograficamente il risultato lascia molto a desiderare: gli interpreti erano tutti dilettanti, o peggio, e solo il direttore della fotografia, Duilio Chiaradia poteva vantare un vero curriculum. Ma non era certo la drammaturgia o la recitazione le qualità che stavano più a cuore ai promotori del film. A loro interessava la verità dei fatti: «La macchina da presa — si legge ancora all’inizio del film — ha ricostruito e ripete fedelmente fatti, cose, ambienti e uomini così come apparvero e agirono in quelle tragiche giornate d’aprile».
Gli interpreti erano gli stessi partigiani che avevano catturato Benito Mussolini (impersonato da un attore che si vede poco e solo di spalle, così come Claretta Petacci); i due contadini che ospitano il Duce nella sua ultima notte sono gli autentici coniugi De Maria e la camera da letto è quella vera di casa loro; i discorsi che si sentono, le accuse che rivolgono al prigioniero sono certamente quelle che furono davvero pronunciate in quelle ore. Proprio quella «verità» che faceva paura a chi era al potere.
Qualche cosa oggi può far sorridere: l’uccisione del partigiano Mirko nello scontro con l’autoblindo (che il montaggio mette dopo la prima trattativa con l’ufficiale tedesco a capo dell’autocolonna che risaliva il lago di Como mentre invece avvenne prima), qualche eccesso di retorica nel commento fuori campo, la voglia di leggere nelle condizioni meteorologiche un contrappunto alla drammaticità di quelle ore.
Ma è il senso dell’operazione che non può sfuggire: quello di un cinema che cercava, con molta fatica, di aprire gli occhi agli italiani mentre altri volevano farli chiudere.
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