Ma che EUROPA UNITA è questa?
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Re: Ma che EUROPA UNITA è questa?
dei primi eletti del movimento anti-europeo inglese: nei
comizi urlava contro il malaffare di Bruxelles, poi falsi-
cava le note spese. Janice Atkinson, sempre dell’Ukip, a
marzo si è fatta triplicare la ricevuta dopo il cocktail con
la moglie del leader Nigel Farage - 4350 euro invece di
1350 - mentre la sua assistente si vantava: «È un modo di
riportare a casa i nostri soldi». E quando nel 2011 un
reporter del “Sunday Times” si è nto lobbista, offrendo
denaro in cambio di emendamenti a sostegno della sua
società, tre deputati hanno abboccato
subito. Due - un austriaco e uno
sloveno - si sono dimessi e sono stati
condannati in patria. Il terzo, l’ex
ministro degli Esteri romeno Severin,
è ancora al suo posto mentre l’istruttoria
a Bucarest langue.
Distinguere tra lobbisti veri e falsi
non è facile. A Bruxelles è stato istituito
un registro per queste gure, senza
vincoli né sanzioni: chi vuole si accredita.
L’attivissima sezione europea di
Transparency International un mese fa
ha dimostrato che metà delle 7821
dichiarazioni ufciali delle lobby erano
«incomplete o addirittura insensate
». E in tanti si sottraggono al censimento,
a partire dagli studi legali:
un’armata che esercita un’inuenza
nascosta. La soluzione? «Rendere obbligatoria
l’iscrizione al registro», spiega
Carl Dolan di Transparency. «E bisogna
vietare ogni contatto con chi non
è iscritto», aggiunge Staes: «Devo ammettere
però che in Parlamento non
esiste una maggioranza favorevole al
registro obbligatorio. Noi verdi, come
i 5stelle italiani e alcuni
esponenti socialdemocratici,
ci stiamo battendo,
molti invece sono
contrari».
PORTE GIREVOLI
Tra i palazzi delle istituzioni
e quelli dei potentati
economici ci sono tante
porte girevoli. Si passa dagli
ufci della Commissione
a quelli delle corporation
e viceversa. Figure
come Lord Jonathan Hill, con trascorsi in società di lobby
della City, imposto dal governo Cameron al vertice della struttura
Ue che si occupa di mercati nanziari. O il caso sensazionale
di Michele Petite, il direttore europeo degli affari legali che
si tramuta in consigliere della Philip Morris e poi rientra come
presidente del comitato etico che dirime i conitti d’interesse
nella Ue. Ma queste sono le pedine sullo scacchiere di una
partita più complessa. Le manovre dei lobbisti intrecciano
network che possono seguire la geopolitica dei governi, dei
partiti o semplici reti di conoscenze trasversali adeguatamente
retribuite. Il terreno di caccia favorito è la zona grigia in cui i
grandi propositi dei legislatori europei si trasformano in regolamenti,
spesso modesti. Uno dei passaggi più opachi avviene
nei “gruppi di esperti” che studiano i dossier caldi. Una ong ha
appena svelato che il 70 per cento degli esperti incaricati di
valutare la questione del fracking, la discussa tecnica di estrazione
petrolifera, hanno relazioni con le compagnie del settore.
Non si tratta di un’eccezione, ma di un andazzo molto diffuso.
L’Ombudsman europeo, l’autorità etica
più piccola e dinamica, apre un’istruttoria
dietro l’altra. Senza spezzare la cortina
di ferro che protegge gli intrallazzi.
«Bisogna incrementare al massimo la
trasparenza, deve esserci sempre una
traccia scritta di chi interviene nelle discussioni
interne», sintetizza Carl Dolan.
I conitti di interessi pullulano: nel
2012 sono stati segnalati 1078 dipendenti
europei con incarichi extra. Quelli
sanzionati sono una ventina, quasi
sempre con reprimende scritte o verbali.
L’impunità è pressoché certa. Per
anni il funzionario Karel Brus ha fatto
sapere in anticipo agli emissari di due
colossi dei cereali, l’olandese Glencore
e la francese Univivo, i prezzi stabiliti
dall’Europa per gli aiuti agricoli: notizie
d’oro, che permettevano di investire
a colpo sicuro. In cambio si ipotizza che
abbia incassato almeno 700 mila euro.
Prima della condanna penale però sono
passati dieci anni e il travet è sparito in
Sudamerica. E per le due società c’è
stata solo una multa: mezzo milione,
un’inezie rispetto ai protti.
LA NUOVA CORRUZIONE
La Commissione ha in mano un’arma
micidiale: può bandire le aziende corruttrici
da tutti i contratti europei. Misura
applicata solo due volte negli ultimi
anni. Perché la volontà di fare pulizia
sembra labile. Prendiamo il dieselgate di
Volskwagen: gli ufci tecnici dell’Unione
avevano segnalato i trucchi della casa
tedesca da parecchi mesi, ma la denuncia
è rimasta lettera morta no all’intervento
delle autorità statunitensi. «Questa è
la nuova corruzione. Ed è il nuovo mondo,
in cui si agisce tramite logaritmi che
falsicano i dati dei computer: la realtà
si riduce a schermate digitali, mentre
Volskwagen otteneva fondi per produrpartiti o semplici reti di conoscenze trasversali adeguatamente
retribuite. Il terreno di caccia favorito è la zona grigia in cui i
grandi propositi dei legislatori europei si trasformano in regolamenti,
spesso modesti. Uno dei passaggi più opachi avviene
nei “gruppi di esperti” che studiano i dossier caldi. Una ong ha
appena svelato che il 70 per cento degli esperti incaricati di
valutare la questione del fracking, la discussa tecnica di estrazione
petrolifera, hanno relazioni con le compagnie del settore.
Non si tratta di un’eccezione, ma di un andazzo molto diffuso.
L’Ombudsman europeo, l’autorità etica
più piccola e dinamica, apre un’istruttoria
dietro l’altra. Senza spezzare la cortina
di ferro che protegge gli intrallazzi.
«Bisogna incrementare al massimo la
trasparenza, deve esserci sempre una
traccia scritta di chi interviene nelle discussioni
interne», sintetizza Carl Dolan.
I conitti di interessi pullulano: nel
2012 sono stati segnalati 1078 dipendenti
europei con incarichi extra. Quelli
sanzionati sono una ventina, quasi
sempre con reprimende scritte o verbali.
L’impunità è pressoché certa. Per
anni il funzionario Karel Brus ha fatto
sapere in anticipo agli emissari di due
colossi dei cereali, l’olandese Glencore
e la francese Univivo, i prezzi stabiliti
dall’Europa per gli aiuti agricoli: notizie
d’oro, che permettevano di investire
a colpo sicuro. In cambio si ipotizza che
abbia incassato almeno 700 mila euro.
Prima della condanna penale però sono
passati dieci anni e il travet è sparito in
Sudamerica. E per le due società c’è
stata solo una multa: mezzo milione,
un’inezie rispetto ai protti.
LA NUOVA CORRUZIONE
La Commissione ha in mano un’arma
micidiale: può bandire le aziende corruttrici
da tutti i contratti europei. Misura
applicata solo due volte negli ultimi
anni. Perché la volontà di fare pulizia
sembra labile. Prendiamo il dieselgate di
Volskwagen: gli ufci tecnici dell’Unione
avevano segnalato i trucchi della casa
tedesca da parecchi mesi, ma la denuncia
è rimasta lettera morta no all’intervento
delle autorità statunitensi. «Questa è
la nuova corruzione. Ed è il nuovo mondo,
in cui si agisce tramite logaritmi che
falsicano i dati dei computer: la realtà
si riduce a schermate digitali, mentre
Volskwagen otteneva fondi per produrre
auto ecologiche e contribuiva ad aumentare l’inquinamento
che uccide migliaia di persone», tuona Eva Joly: «Ma la portata
dello scandalo è ancora più grave, perché dimostra che il
rispetto delle regole non è più un valore. La Germania, il Paese
della legge e dell’ordine, ha ingannato tutti; la loro azienda
simbolo ha mentito per anni. Le nazioni che hanno costruito
questa Unione stanno perdendo credibilità e non capiscono
quanto ciò peserà sul futuro delle nostre istituzioni».
In quello choccante 70 per cento di cittadini che percepisce
un’Europa corrotta si proietta
una sducia più vasta. «È
un dato che nasce dallo sconcerto
per la debolezza della
reazione davanti ai problemi:
la crisi economica, il tracollo
greco e adesso l’esodo dei migranti
», commenta Bart Staes:
«La gente sente i racconti
sulle pressioni delle lobby, si
diffonde il sospetto che l’Unione
serva più per tutelare
gli interessi economici che i
cittadini. C’è la necessità di riforme profonde, che non sono
nell’agenda di Juncker. Ma soprattutto bisogna dare risposte
concrete: fatti, non storytelling. Partiamo dalla Volskwagen:
quasi tutti i produttori di auto sfruttano i buchi nella legislazione
per alterare i test, noi verdi abbiamo proposto di cambiare
le regole e punire chi mente. Se agisci e la gente vede che i guasti
vengono risolti, allora avrà di nuovo ducia».
CORSI E RICORSI STORICI
Un professore dal cognome altisonante, David Engels, in un
saggio ha paragonato il declino dell’Unione al crollo della repubblica
nella Roma antica. Oggi come allora, l’allargamento
troppo rapido dei conni, il
confronto con un’economia
globalizzata, la crisi dei modelli
religiosi - all’epoca i nuovi
culti importati nell’Urbe,
adesso l’Europa cristiana alle
prese con l’Islam - e il contrasto
tra i privilegi dei patrizi e
l’impoverimento dei ceti popolari,
logorano le istituzioni
democratiche. Un’analisi che
riecheggia le parole scritte da
Altiero Spinelli nel 1941, in
quel manifesto di Ventotene che ha partorito l’idea di Europa
unita. «La formazione di giganteschi complessi industriali e
bancari... che premevano sul governo per ottenere la politica
più rispondente ai loro particolari interessi, minacciava di dissolvere
lo Stato stesso. Gli ordinamenti democratico liberali,
divenendo lo strumento di cui questi gruppi si valevano per
meglio sfruttare l’intera collettività, perdevano sempre più il
loro prestigio, e così si diffondeva la convinzione che solamente
lo stato totalitario, potesse in qualche modo risolvere i con-
itti di interessi». Era la situazione che ha fatto trionfare le
dittature e spinto il continente nel baratro della guerra. L’Europa
unita è nata da questa lezione, che ora sta dimenticando.
comizi urlava contro il malaffare di Bruxelles, poi falsi-
cava le note spese. Janice Atkinson, sempre dell’Ukip, a
marzo si è fatta triplicare la ricevuta dopo il cocktail con
la moglie del leader Nigel Farage - 4350 euro invece di
1350 - mentre la sua assistente si vantava: «È un modo di
riportare a casa i nostri soldi». E quando nel 2011 un
reporter del “Sunday Times” si è nto lobbista, offrendo
denaro in cambio di emendamenti a sostegno della sua
società, tre deputati hanno abboccato
subito. Due - un austriaco e uno
sloveno - si sono dimessi e sono stati
condannati in patria. Il terzo, l’ex
ministro degli Esteri romeno Severin,
è ancora al suo posto mentre l’istruttoria
a Bucarest langue.
Distinguere tra lobbisti veri e falsi
non è facile. A Bruxelles è stato istituito
un registro per queste gure, senza
vincoli né sanzioni: chi vuole si accredita.
L’attivissima sezione europea di
Transparency International un mese fa
ha dimostrato che metà delle 7821
dichiarazioni ufciali delle lobby erano
«incomplete o addirittura insensate
». E in tanti si sottraggono al censimento,
a partire dagli studi legali:
un’armata che esercita un’inuenza
nascosta. La soluzione? «Rendere obbligatoria
l’iscrizione al registro», spiega
Carl Dolan di Transparency. «E bisogna
vietare ogni contatto con chi non
è iscritto», aggiunge Staes: «Devo ammettere
però che in Parlamento non
esiste una maggioranza favorevole al
registro obbligatorio. Noi verdi, come
i 5stelle italiani e alcuni
esponenti socialdemocratici,
ci stiamo battendo,
molti invece sono
contrari».
PORTE GIREVOLI
Tra i palazzi delle istituzioni
e quelli dei potentati
economici ci sono tante
porte girevoli. Si passa dagli
ufci della Commissione
a quelli delle corporation
e viceversa. Figure
come Lord Jonathan Hill, con trascorsi in società di lobby
della City, imposto dal governo Cameron al vertice della struttura
Ue che si occupa di mercati nanziari. O il caso sensazionale
di Michele Petite, il direttore europeo degli affari legali che
si tramuta in consigliere della Philip Morris e poi rientra come
presidente del comitato etico che dirime i conitti d’interesse
nella Ue. Ma queste sono le pedine sullo scacchiere di una
partita più complessa. Le manovre dei lobbisti intrecciano
network che possono seguire la geopolitica dei governi, dei
partiti o semplici reti di conoscenze trasversali adeguatamente
retribuite. Il terreno di caccia favorito è la zona grigia in cui i
grandi propositi dei legislatori europei si trasformano in regolamenti,
spesso modesti. Uno dei passaggi più opachi avviene
nei “gruppi di esperti” che studiano i dossier caldi. Una ong ha
appena svelato che il 70 per cento degli esperti incaricati di
valutare la questione del fracking, la discussa tecnica di estrazione
petrolifera, hanno relazioni con le compagnie del settore.
Non si tratta di un’eccezione, ma di un andazzo molto diffuso.
L’Ombudsman europeo, l’autorità etica
più piccola e dinamica, apre un’istruttoria
dietro l’altra. Senza spezzare la cortina
di ferro che protegge gli intrallazzi.
«Bisogna incrementare al massimo la
trasparenza, deve esserci sempre una
traccia scritta di chi interviene nelle discussioni
interne», sintetizza Carl Dolan.
I conitti di interessi pullulano: nel
2012 sono stati segnalati 1078 dipendenti
europei con incarichi extra. Quelli
sanzionati sono una ventina, quasi
sempre con reprimende scritte o verbali.
L’impunità è pressoché certa. Per
anni il funzionario Karel Brus ha fatto
sapere in anticipo agli emissari di due
colossi dei cereali, l’olandese Glencore
e la francese Univivo, i prezzi stabiliti
dall’Europa per gli aiuti agricoli: notizie
d’oro, che permettevano di investire
a colpo sicuro. In cambio si ipotizza che
abbia incassato almeno 700 mila euro.
Prima della condanna penale però sono
passati dieci anni e il travet è sparito in
Sudamerica. E per le due società c’è
stata solo una multa: mezzo milione,
un’inezie rispetto ai protti.
LA NUOVA CORRUZIONE
La Commissione ha in mano un’arma
micidiale: può bandire le aziende corruttrici
da tutti i contratti europei. Misura
applicata solo due volte negli ultimi
anni. Perché la volontà di fare pulizia
sembra labile. Prendiamo il dieselgate di
Volskwagen: gli ufci tecnici dell’Unione
avevano segnalato i trucchi della casa
tedesca da parecchi mesi, ma la denuncia
è rimasta lettera morta no all’intervento
delle autorità statunitensi. «Questa è
la nuova corruzione. Ed è il nuovo mondo,
in cui si agisce tramite logaritmi che
falsicano i dati dei computer: la realtà
si riduce a schermate digitali, mentre
Volskwagen otteneva fondi per produrpartiti o semplici reti di conoscenze trasversali adeguatamente
retribuite. Il terreno di caccia favorito è la zona grigia in cui i
grandi propositi dei legislatori europei si trasformano in regolamenti,
spesso modesti. Uno dei passaggi più opachi avviene
nei “gruppi di esperti” che studiano i dossier caldi. Una ong ha
appena svelato che il 70 per cento degli esperti incaricati di
valutare la questione del fracking, la discussa tecnica di estrazione
petrolifera, hanno relazioni con le compagnie del settore.
Non si tratta di un’eccezione, ma di un andazzo molto diffuso.
L’Ombudsman europeo, l’autorità etica
più piccola e dinamica, apre un’istruttoria
dietro l’altra. Senza spezzare la cortina
di ferro che protegge gli intrallazzi.
«Bisogna incrementare al massimo la
trasparenza, deve esserci sempre una
traccia scritta di chi interviene nelle discussioni
interne», sintetizza Carl Dolan.
I conitti di interessi pullulano: nel
2012 sono stati segnalati 1078 dipendenti
europei con incarichi extra. Quelli
sanzionati sono una ventina, quasi
sempre con reprimende scritte o verbali.
L’impunità è pressoché certa. Per
anni il funzionario Karel Brus ha fatto
sapere in anticipo agli emissari di due
colossi dei cereali, l’olandese Glencore
e la francese Univivo, i prezzi stabiliti
dall’Europa per gli aiuti agricoli: notizie
d’oro, che permettevano di investire
a colpo sicuro. In cambio si ipotizza che
abbia incassato almeno 700 mila euro.
Prima della condanna penale però sono
passati dieci anni e il travet è sparito in
Sudamerica. E per le due società c’è
stata solo una multa: mezzo milione,
un’inezie rispetto ai protti.
LA NUOVA CORRUZIONE
La Commissione ha in mano un’arma
micidiale: può bandire le aziende corruttrici
da tutti i contratti europei. Misura
applicata solo due volte negli ultimi
anni. Perché la volontà di fare pulizia
sembra labile. Prendiamo il dieselgate di
Volskwagen: gli ufci tecnici dell’Unione
avevano segnalato i trucchi della casa
tedesca da parecchi mesi, ma la denuncia
è rimasta lettera morta no all’intervento
delle autorità statunitensi. «Questa è
la nuova corruzione. Ed è il nuovo mondo,
in cui si agisce tramite logaritmi che
falsicano i dati dei computer: la realtà
si riduce a schermate digitali, mentre
Volskwagen otteneva fondi per produrre
auto ecologiche e contribuiva ad aumentare l’inquinamento
che uccide migliaia di persone», tuona Eva Joly: «Ma la portata
dello scandalo è ancora più grave, perché dimostra che il
rispetto delle regole non è più un valore. La Germania, il Paese
della legge e dell’ordine, ha ingannato tutti; la loro azienda
simbolo ha mentito per anni. Le nazioni che hanno costruito
questa Unione stanno perdendo credibilità e non capiscono
quanto ciò peserà sul futuro delle nostre istituzioni».
In quello choccante 70 per cento di cittadini che percepisce
un’Europa corrotta si proietta
una sducia più vasta. «È
un dato che nasce dallo sconcerto
per la debolezza della
reazione davanti ai problemi:
la crisi economica, il tracollo
greco e adesso l’esodo dei migranti
», commenta Bart Staes:
«La gente sente i racconti
sulle pressioni delle lobby, si
diffonde il sospetto che l’Unione
serva più per tutelare
gli interessi economici che i
cittadini. C’è la necessità di riforme profonde, che non sono
nell’agenda di Juncker. Ma soprattutto bisogna dare risposte
concrete: fatti, non storytelling. Partiamo dalla Volskwagen:
quasi tutti i produttori di auto sfruttano i buchi nella legislazione
per alterare i test, noi verdi abbiamo proposto di cambiare
le regole e punire chi mente. Se agisci e la gente vede che i guasti
vengono risolti, allora avrà di nuovo ducia».
CORSI E RICORSI STORICI
Un professore dal cognome altisonante, David Engels, in un
saggio ha paragonato il declino dell’Unione al crollo della repubblica
nella Roma antica. Oggi come allora, l’allargamento
troppo rapido dei conni, il
confronto con un’economia
globalizzata, la crisi dei modelli
religiosi - all’epoca i nuovi
culti importati nell’Urbe,
adesso l’Europa cristiana alle
prese con l’Islam - e il contrasto
tra i privilegi dei patrizi e
l’impoverimento dei ceti popolari,
logorano le istituzioni
democratiche. Un’analisi che
riecheggia le parole scritte da
Altiero Spinelli nel 1941, in
quel manifesto di Ventotene che ha partorito l’idea di Europa
unita. «La formazione di giganteschi complessi industriali e
bancari... che premevano sul governo per ottenere la politica
più rispondente ai loro particolari interessi, minacciava di dissolvere
lo Stato stesso. Gli ordinamenti democratico liberali,
divenendo lo strumento di cui questi gruppi si valevano per
meglio sfruttare l’intera collettività, perdevano sempre più il
loro prestigio, e così si diffondeva la convinzione che solamente
lo stato totalitario, potesse in qualche modo risolvere i con-
itti di interessi». Era la situazione che ha fatto trionfare le
dittature e spinto il continente nel baratro della guerra. L’Europa
unita è nata da questa lezione, che ora sta dimenticando.
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Re: Ma che EUROPA UNITA è questa?
Corriere 31.10,15
Il destino di Angela
Gli alleati l’hanno stretta nell’angolo: ha un piano? Merkel rischia la leadership
di Danilo Taino
BERLINO Di tanto in tanto capita che Angela Merkel si presenti al mondo con il sorriso di una bambina contenta. È successo anche durante il viaggio in Cina dei giorni scorsi, quando ha fatto sapere che Pechino invierà due panda giganti allo zoo di Berlino. È questo che molti tedeschi vorrebbero sempre dalla cancelliera: una tranquilla diplomazia del panda. Invece, da un paio di mesi si trovano una leader che li agita, che apre le porte ai profughi e ricorda che la Germania non può starsene, come se fosse una Svizzera, ai margini della politica internazionale, anzi deve sapere sporcarsi le mani.
Quando, lo scorso 4 settembre, per la prima volta ha pronunciato la frase che poi è diventata il suo mantra — Wir können das schaffen , Possiamo farcela — Frau Merkel ha inaugurato una nuova fase per la Germania e per l’Europa: garantire asilo a tutti coloro che fuggono dalle guerre è un dovere morale, ma che un capo di governo lo dicesse in modo così esplicito non era mai successo. In quel momento, la cancelliera ha disegnato davanti a sé due strade: quella del trionfo, se riuscirà a gestire e integrare l’enorme flusso, e quella del fallimento.
Oggi, due mesi dopo, la gran parte degli osservatori scommette sulla seconda: le pressioni interne e quelle esterne sono diventate formidabili e fanno dire che forse non ce la farà. Non è detto che finisca così: lei dice di avere un piano, in parte lo sta attuando. Ma è un piano da acrobata. Al momento, di certo c’è che il destino di Angela Merkel è cambiato quel 4 settembre: e con esso le prospettive della Germania e dell’Europa.
Durante il weekend, la cancelliera incontrerà i partner di governo, cioè la sua Cdu, la Csu di Horst Seehofer, la Spd di Sigmar Gabriel. I colloqui di emergenza nascono dall’ultimatum lanciato da Seehofer, ministro presidente della Baviera, il Land di confine con l’Austria in cui stanno arrivando migliaia di profughi al giorno. La minaccia del leader conservatore è di ricorrere alla corte costituzionale chiedendo di potere imporre lui misure straordinarie di controllo alle frontiere in quanto il governo di Berlino non avrebbe difeso i confini. In alternativa, circola l’ipotesi (finora smentita) che la Csu ritiri i suoi tre ministri dal governo di Grosse Koalition. In ambedue i casi, gravi crisi istituzionali e di governo e anche una rottura politica tra gli alleati storici Cdu e Csu.
Un compromesso sembra possibile. Nessuno vuole davvero rompere nel pieno dell’emergenza e, in genere, in Germania chi crea instabilità viene punito dagli elettori. In qualche modo, la signora Merkel dovrà però trovare un punto di accordo. In parte per aiutare la Baviera che è in una situazione molto difficile: lo potrà fare mandando aiuti e magari denaro. Ma dovrà anche dare l’idea di fare qualcosa per rallentare il flusso di rifugiati: l’opinione pubblica dà segni di nervosismo; il problema è che i partner socialdemocratici della Spd sono contrari a creare zone speciali. Un compromesso almeno momentaneo probabilmente si troverà. Il piano Merkel, se c’è, sarà però bene che dia risultati organizzativi in fretta. Il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, un peso massimo della Cdu, appoggia l’apertura della cancelliera: «Abbiamo salvato un pezzo dell’onore dell’Europa — ha detto —. Abbiamo evitato il caos». Ma sottolinea che sul piano organizzativo la situazione è drammatica.
Sul versante internazionale tutto è ancora più complicato, per Frau Merkel. «Per risolvere l’emergenza — diceva due sere fa un diplomatico, a Berlino — la cancelliera sta andando a letto con i dittatori». Cioè chiede l’aiuto di Putin, che tre giorni fa ha ricevuto il vicecancelliere Gabriel; apre a una soluzione in Siria che non esclude la permanenza al potere di Assad; concede a Erdogan tutto ciò che finora aveva negato alla Turchia; chiede ai cinesi di far pressioni su Mosca affinché aiuti a risolvere la crisi siriana. Con l’obiettivo di rallentare il fiume dei profughi che arriva dal Medio Oriente. Secondo il diplomatico, non può fare altro. Questa politica estera dettata dall’emergenza e da una certa disperazione è però destinata a cambiare il quadro delle relazioni internazionali della Germania e dell’Europa, dove le critiche all’apertura di fine estate, inoltre, sono sempre più forti. E dove — bisogna dire — pochi leader stanno dando sostegno a Berlino.
Trionfo o fallimento. E un po’ di Panda-Diplomatie .
Il destino di Angela
Gli alleati l’hanno stretta nell’angolo: ha un piano? Merkel rischia la leadership
di Danilo Taino
BERLINO Di tanto in tanto capita che Angela Merkel si presenti al mondo con il sorriso di una bambina contenta. È successo anche durante il viaggio in Cina dei giorni scorsi, quando ha fatto sapere che Pechino invierà due panda giganti allo zoo di Berlino. È questo che molti tedeschi vorrebbero sempre dalla cancelliera: una tranquilla diplomazia del panda. Invece, da un paio di mesi si trovano una leader che li agita, che apre le porte ai profughi e ricorda che la Germania non può starsene, come se fosse una Svizzera, ai margini della politica internazionale, anzi deve sapere sporcarsi le mani.
Quando, lo scorso 4 settembre, per la prima volta ha pronunciato la frase che poi è diventata il suo mantra — Wir können das schaffen , Possiamo farcela — Frau Merkel ha inaugurato una nuova fase per la Germania e per l’Europa: garantire asilo a tutti coloro che fuggono dalle guerre è un dovere morale, ma che un capo di governo lo dicesse in modo così esplicito non era mai successo. In quel momento, la cancelliera ha disegnato davanti a sé due strade: quella del trionfo, se riuscirà a gestire e integrare l’enorme flusso, e quella del fallimento.
Oggi, due mesi dopo, la gran parte degli osservatori scommette sulla seconda: le pressioni interne e quelle esterne sono diventate formidabili e fanno dire che forse non ce la farà. Non è detto che finisca così: lei dice di avere un piano, in parte lo sta attuando. Ma è un piano da acrobata. Al momento, di certo c’è che il destino di Angela Merkel è cambiato quel 4 settembre: e con esso le prospettive della Germania e dell’Europa.
Durante il weekend, la cancelliera incontrerà i partner di governo, cioè la sua Cdu, la Csu di Horst Seehofer, la Spd di Sigmar Gabriel. I colloqui di emergenza nascono dall’ultimatum lanciato da Seehofer, ministro presidente della Baviera, il Land di confine con l’Austria in cui stanno arrivando migliaia di profughi al giorno. La minaccia del leader conservatore è di ricorrere alla corte costituzionale chiedendo di potere imporre lui misure straordinarie di controllo alle frontiere in quanto il governo di Berlino non avrebbe difeso i confini. In alternativa, circola l’ipotesi (finora smentita) che la Csu ritiri i suoi tre ministri dal governo di Grosse Koalition. In ambedue i casi, gravi crisi istituzionali e di governo e anche una rottura politica tra gli alleati storici Cdu e Csu.
Un compromesso sembra possibile. Nessuno vuole davvero rompere nel pieno dell’emergenza e, in genere, in Germania chi crea instabilità viene punito dagli elettori. In qualche modo, la signora Merkel dovrà però trovare un punto di accordo. In parte per aiutare la Baviera che è in una situazione molto difficile: lo potrà fare mandando aiuti e magari denaro. Ma dovrà anche dare l’idea di fare qualcosa per rallentare il flusso di rifugiati: l’opinione pubblica dà segni di nervosismo; il problema è che i partner socialdemocratici della Spd sono contrari a creare zone speciali. Un compromesso almeno momentaneo probabilmente si troverà. Il piano Merkel, se c’è, sarà però bene che dia risultati organizzativi in fretta. Il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, un peso massimo della Cdu, appoggia l’apertura della cancelliera: «Abbiamo salvato un pezzo dell’onore dell’Europa — ha detto —. Abbiamo evitato il caos». Ma sottolinea che sul piano organizzativo la situazione è drammatica.
Sul versante internazionale tutto è ancora più complicato, per Frau Merkel. «Per risolvere l’emergenza — diceva due sere fa un diplomatico, a Berlino — la cancelliera sta andando a letto con i dittatori». Cioè chiede l’aiuto di Putin, che tre giorni fa ha ricevuto il vicecancelliere Gabriel; apre a una soluzione in Siria che non esclude la permanenza al potere di Assad; concede a Erdogan tutto ciò che finora aveva negato alla Turchia; chiede ai cinesi di far pressioni su Mosca affinché aiuti a risolvere la crisi siriana. Con l’obiettivo di rallentare il fiume dei profughi che arriva dal Medio Oriente. Secondo il diplomatico, non può fare altro. Questa politica estera dettata dall’emergenza e da una certa disperazione è però destinata a cambiare il quadro delle relazioni internazionali della Germania e dell’Europa, dove le critiche all’apertura di fine estate, inoltre, sono sempre più forti. E dove — bisogna dire — pochi leader stanno dando sostegno a Berlino.
Trionfo o fallimento. E un po’ di Panda-Diplomatie .
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