IL LAVORO

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erding
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Re: IL LAVORO

Messaggio da erding »

Tagli ai dipendenti, bonus ai capi

Dal 2010 a oggi la StMicroelectronics è stata quasi sempre in perdita ed è passata
dal terzo all'undicesimo posto nella classifica mondiale di produttori di semiconduttori.
I suoi investimenti in ricerca e sviluppo sono scesi del 35,3 per cento.

Per 2.024 lavoratori dello stabilimento di Catania è stata chiesta la cassa integrazione;
a quelli di Agrate Brianza è stato imposto per ora solo di smaltire le ferie arretrate;
alla fabbrica di Grenoble si profilano tagli di personale.

Dal 2010 il compenso l'amministratore delegato di StMicroelectronics è invece salito
del 21,1 per cento, partendo da una base iniziale di 2,4 milioni di dollari l'anno.

StMicroelectronics è quotata in Borsa a Milano, Parigi e New York.
Lo Stato italiano è uno dei due maggiori azionisti singoli.

(grazie a Gloria Ghisi)

Alessandro Gilioli

http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/
camillobenso
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Re: IL LAVORO

Messaggio da camillobenso »

la ristrutturazione
Michelin chiude 3 impianti in Europa
Addio a 578 posti in Italia entro 2017

Il gruppo ha deciso di riorganizzarsi in Gran Bretagna, Germania e Italia
A Fossano (Cuneo) 400 tagli: «Flessione dei volumi del 45% e costi troppo alti»
di Redazione Economia

http://www.corriere.it/economia/15_nove ... b136.shtml
camillobenso
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Re: IL LAVORO

Messaggio da camillobenso »

Corriere 6.11.15
Draghi: disoccupazione a livelli inaccettabili
Il presidente della Bce a Milano: serve un nuovo patto per rafforzare l’architettura dell’euro «Il quadro è ancora incerto, a dicembre valuteremo se intensificare l’accomodamento monetario»

di Francesca Basso

MILANO «Abbiamo bisogno di un nuovo patto che impedisca il riemergere delle sfide appena affrontate e che, soprattutto, rafforzi l’architettura costituzionale dell’area dell’euro». Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, parla all’apertura dell’anno accademico all’Università Cattolica e la sua prolusione è l’occasione per spiegare ai giovani (ovviamente non solo) «la risposta che la Bce ha dato alle sfide eccezionali emerse durante la crisi», e nello stesso tempo per indicare gli obiettivi futuri: «Dobbiamo guardare avanti muovendo dalla stabilità per avanzare verso la prosperità».
Dalla crisi economica, «durata troppo», stiamo «gradualmente emergendo», il lascito è il numero dei disoccupati «inaccettabile»: «Le generazioni più giovani hanno pagato un prezzo molto elevato». Draghi indica le cause degli squilibri che la crisi ha reso evidenti: i «gravi errori nelle politiche economiche degli Stati nazionali» e le «manchevolezze nell’architettura istituzionale europea». In questa situazione si è dovuta muovere la Bce «per ricostruire la fiducia, riportare la prosperità, ripristinare la stabilità dei prezzi» e lo ha fatto nel rispetto del suo mandato, che «poggia su un consenso radicato nella società»: «I politici ricevono il loro mandato nell’ambito di elezioni che riflettono voto dopo voto le preferenze degli elettori. Il mandato delle Bce è invece inscritto in un testo che ha valenza costituzionale: il Trattato». Da qui deriva «l’elevato grado di indipendenza nelle nostre decisioni di politica monetaria», che Draghi ha sempre rivendicato. E ieri ha ricordato la conferma della Corte europea di Giustizia.
Se due giorni fa a Francoforte, per il primo anniversario del Meccanismo unico di supervisione bancaria, il presidente della Bce si è concentrato sulle prossime tappe che deve percorrere la Ue per completare il mercato comune dei capitali e realizzare l’assicurazione europea per i depositi, la prolusione alla Cattolica è stata una sorta di bilancio: «Siamo stati costretti a sventare i rischi che corrodevano sia l’integrità della moneta nel tempo (la stabilità dei prezzi), sia quella nello spazio, riferita alle varie parti dell’area, specialmente quando sono emersi dubbi sulla permanenza di alcuni Paesi membri nell’eurozona». Draghi ha spiegato le mosse per evitare la Grexit e i finanziamenti mirati e condizionati avviati nell’estate dello scorso anno, che hanno consentito alle banche di prendere a prestito quasi 400 miliardi da destinare a imprese e famiglie. Il programma finora attuato, il cui cuore è il quantitative easing che prevede il riacquisto di titoli di Stato, «è stato senza dubbio efficace». Ma la dinamica dei prezzi è «molto debole», il quadro macroeconomico «ancora incerto» e in più c’è «l’indebolirsi dell’economia mondiale». Dunque nella riunione del 2 dicembre il consiglio direttivo valuterà «il grado di accomodamento monetario» e se fosse necessario esaminerà «le modalità con cui intensificarlo».
Il Bollettino economico della Bce conferma che l’inflazione nel breve rimarrà molto bassa. I mercati hanno registrato «una certa volatilità» ora in «graduale calo». Quanto alle politiche degli Stati, il Bollettino raccomanda che la flessibilità dei conti pubblici, concessa dalla Commissione Ue, sia «usata con cautela per preservare la sostenibilità di bilancio e applicare in modo credibile le disposizioni del patto di Stabilità».
camillobenso
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Re: IL LAVORO

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Gallino ha smascherato questo regime estremista e bugiardo

Scritto il 16/11/15 • LIBRE nella Categoria: segnalazioni


Ho conosciuto personalmente Luciano Gallino in un dibattito a Torino nei primi anni ‘90 del secolo scorso. Avevo letto molti suoi scritti, ma non lo avevo mai incontrato. Ero da poco diventato segretario della Fiom regionale e fui invitato ad un confronto con lui ed altri sul lavoro. Mi lasciai andare ad una filippica contro quegli intellettuali, in particolare gli studiosi di scienze sociali, che – usai questa metafora – non guardavano mai l’altra faccia della luna, cioè descrivevano i cambiamenti in atto nel lavoro solo dal punto di vista delle direzioni d’impresa. Erano gli anni del trionfo del toyotismo all’italiana lanciato dalla Fiat di Cesare Romiti, che trovava il suo magnificato modello nel nuovo stabilimento di Melfi. In realtà nasceva un nuovo sistema di comando autoritario sul lavoro, che faceva passare per partecipazione quella che in realtà era solo la ricerca della sottomissione totale del lavoratore all’impresa.
Gallino si offese molto per quella mia frase impertinente, anche se, come era suo costume, nel dibattito usò solo analisi sociale e cortesia torinese. Pochi giorni dopo mi arrivò in ufficio un pacco di libri e riviste di sociologia. Era una piccola antologia di testi di Luciano Gallino, accompagnati da una sua lettera molto gentile, ma che nella sostanza mi invitava a documentarmi meglio prima di esprimere giudizi. Aveva ragione. L’intellettuale ed il ricercatore olivettiano è diventato il primo critico in Italia del modello liberista, sia per il lavoro, sia per tutta la società. E questo suo percorso non è nato da una improvvisa folgorazione sulla via di Damasco, ma dal rigore con il quale sin dall’inizio della sua opera si è misurato con la realtà del lavoro, con l’altra faccia della luna.
Gallino era uno scienziato sociale che credeva nel processo riformatore. Non uso la parola riformista, perché essa oggi è diventata sinonimo di trasformismo e di politiche liberiste. Luciano Gallino provava un rigetto culturale morale per il riformismo attuale. Lui che era stato formato dalla stagione delle riforme dei primi anni ‘60 e dall’organizzazione del lavoro veramente partecipativa della Olivetti di Ivrea, sentiva sempre di più la necessità di smascherare l’imbroglio politico ed intellettuale di chi oggi adopera quegli stessi termini, riforme e partecipazione, per fare l’esatto contrario. Per questo Gallino aveva sempre più radicalizzato la sua collocazione politica. Non perché avesse cambiato il suo punto di vista riformatore, ma perché non era disposto a farlo assorbire da un sistema di potere che andava nella direzione opposta a ciò che riteneva giusto.
Fernando Santi, il leader storico dei socialisti della Cgil, quando il Psi di Nenni si orientò su posizioni che cominciò a criticare come troppo moderate, fu accusato di scivolare verso il massimalismo. Con una fulminate battuta allora il sindacalista rispose: non è vero che io sono diventato un estremista, io sono il riformista di sempre, sono gli altri che mi hanno scavalcato a destra. È una risposta che vale anche per Luciano Gallino. Mentre una generazione di intellettuali e politici di origine comunista, operaista, radicale, si innamorava della flessibilità del lavoro e della globalizzazione e ne diventava apologeta, egli si faceva rigoroso e implacabile contestatore dei “tempi moderni”. Il sociologo olivettiano diventava no global senza cambiare di un millimetro il suo impianto culturale originale. E così ha condotto una dura, infaticabile lotta culturale contro l’egemonia del pensiero unico liberista, un impegno che lo ha collocato controcorrente rispetto al dogmatismo trionfante, ma che ne ha fatto il riferimento culturale di tutte le lotte contro le precarietà e il dominio autoritario del lavoro, contro la diseguaglianza sociale e le privatizzazioni.
Con i suoi scritti Gallino faceva lotta di classe, quella lotta di classe che denunciava essere diventata lo strumento dei ricchi contro i poveri, di chi ha il potere contro chi lo subisce. Ma nel suo impegno Gallino manteneva sempre il rigore dello scienziato sociale, le conclusioni giungevano sempre alla fine di rigorose e dimostratissime analisi dei fatti. Per questo erano così fastidiose per un potere che vende senso e ideologia per cancellare i fatti, che vuol convincere che la ripresa economica è dietro l’angolo non perché sia vero, ma perché l’ottimismo economico aumenta i profitti. Gallino entrava sicuramente nella categoria non foltissima dei grandi professori integri, categoria tanto odiata dai giovani arrampicatori renziani formatasi negli spettacoli televisivi. Luciano Gallino era un gufo, saggio, acutissimo, che naturalmente vedeva lontano.
Nel suo ultimo libro, che non sapevamo sarebbe stato il suo testamento, Gallino scrive ai suoi nipoti e descrive la Doppia Crisi, economica ed ecologica del capitalismo. È un messaggio assolutamente radicale quello che manda alle nuovissime generazioni. Ha vinto il capitalismo peggiore, quello raccontato nel Tallone di Ferro di Jack London. Non ci son aggiustamenti possibili all’orizzonte, ma bisogna perseguire cambiamenti radicali nel nome dell’eguaglianza sociale, della vita umana e della natura. L’Unione Europea è una dittatura finanziaria che ha distrutto le costituzioni democratiche e lo stato sociale europeo e l’euro è lo strumento del dominio liberista. Gallino è così diventato NoEuro dopo un’analisi concreta della situazione concreta, grazie alla quale ha concluso che giuste riforme sociali possano realizzarsi solo con una profonda rottura del sistema attuale. Già venti anni fa mi ero scusato con Luciano Gallino per quella mia polemica ingiusta nei suoi confronti. Abbiamo poi avuto un lungo impegno comune e solidale, ma ora voglio scusarmi di nuovo e ringraziare il grande scienziato sociale, sempre integro e per questo assolutamente radicale.
(Giorgio Cremaschi, “Gallino, uno scienziato sociale rigororo e radicale”, da “Micromega” del 10 novembre 2015).
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il manifesto 24.11.15
Povertà, deprivazione, esclusione: ritratto sgomento dell’Italia nel 2014
Istat. Uno su quattro a rischio povertà: il 28% dei residenti. Il presidente dell’Inps Boeri: «Se trovassimo le risorse guarderei con favore a un reddito minimo senza alcun requisito anagrafico»

di Roberto Ciccarelli

ROMA Non c’è tregua per chi vive di annunci sulla crescita, mentre l’ottimismo non riduce le diseguaglianze galoppanti. In Italia la povertà non cala, oltre una persona su quattro, il 28,3% della popolazione, era a rischio povertà o esclusione sociale nel 2014. Il report dell’Istat sul reddito e le condizioni di vita degli italiani conferma un dato stabile nella crisi: il 19,4% è a rischio povertà, l’11,6% vive in famiglie gravemente deprivate e il 12,1% in famiglie a bassa intensità lavorativa. Il dato complessivo (28,3%) è supaeriore di quattro punti percentuali rispetto alla media dell’Unione Europea: il 24,4%. La povertà in Italia è inferiore solo alla Romania (40,2%), alla Bulgaria (40,1%), alla Grecia (36,0%), alla Lettonia (32,7%) e all’Ungheria (31,1%) ed è superato di poco da Spagna (29,2%), Croazia e Portogallo.
Rispetto al 2013 l’indicatore del rischio povertà o esclusione sociale è rimasto stabile. Per il secondo anno consecutivo diminuiscono le persone gravemente deprivate (dal 12,3% del 2013 all’11,6% del 2014, il minimo dal 2011), ma l’istituto nazionale di statistica sostiene che la diminuzione è stata compensata dall’aumento della quota di chi vive in famiglie a bassa intensità lavorativa (dall’11,3% al 12,1%). In altre parole di chi non può permettersi un pasto proteico adeguato ogni due giorni (dal 13,9% al 12,6%), una settimana di ferie all’anno lontano da casa (dal 51,0% al 49,5%), una spesa imprevista da 800 euro (dal 40,2% al 38,8%) e aumenta la quota di chi vive di lavoro povero. Il lavoro — quando esiste — è scarsamente produttivo e, soprattutto, non migliora affatto la condizione sociale ed economica dei nuovi poveri.
Le famiglie dove componenti tra i 18 e i 59 anni hanno lavorato meno di un quinto del tempo salgono infatti dall’11,3% del 2013 al 12,1% nel 2014. L’aumento del lavoro povero a bassa intensità produttiva è una realtà che ha interessato nel 2013–4 le famiglie meridionali: l’Istat stima l’aumento dal 18,9% al 20,9%. Si tratta di famiglie numerose, coppie con figli (dall’8,3% al 9,7%) e figli minori (dal 7,5% all’8,9%); famiglie con membri aggregati (dal 17,8% al 20,5%). Il Mezzogiorno è un paese a parte. Al Sud, infatti, il rischio «povertà-esclusione sociale» è calato leggermente al 46,4% del 2014 dal 48% del 2013. Ma la distanza con il Nord e il Centro è abissale. Qui il rischio cala al 17,3% e al 22,8%. I valori sono praticamente doppi Inoltre il reddito mediano al Sud si attesta a un livello inferiore del 17% al dato nazionale: 20.188 euro l’anno (circa 1.682 euro al mese), mentre esiste una maggiore disuguaglianza perché l’indice di Gini si è attesta a 0,305.
I dati Istat sul rischio di povertà ed esclusione mostrano una situazione «estremamente allarmante», secondo Federconsumatori e Adusbef, che chiedono un piano straordinario per il lavoro. «Peggiora il dato di chi ha arretrati per il mutuo, l’affitto e le bollette, salendo al 14,3%, un record — afferma il segretario dell’Unione nazionale dei consumatori Massimiliano Dona — Il 49,5% non può permettersi di andare in ferie per una settimana, per quanto nel 2013 la percentuale fosse al 51%, vuol dire, comunque, che stiamo peggio rispetto al Dopoguerra, quando anche le famiglie di operai, in agosto, con la chiusura delle fabbriche, potevano tornare nel loro paese d’origine e passare le vacanze con i parenti».
«È necessario — ha sostenuto il capigruppo di Sinistra Italiana Arturo Scotto — introdurre la misura del reddito minimo. Una misura contro la povertà e contro la precarietà è oramai indispensabile per garantire una vita dignitosa a oltre 10 milioni di poveri». Il governo Renzi sta lavorando all’ipotesi, riduttiva, di un sussidio contro le povertà assolute, non un reddito di inclusione sociale o un vero reddito minimo — cioè una misura universalistica rivolta sia ai poveri che non lavorano sia ai lavoratori poveri. Questo dibattito si svolge in un’estrema penuria di risorse, spostate sul taglio delle tasse sulla prima casa, gli 80 euro per i dipendenti e altre misure per i consumi che non ripartono.
“Se esistessero — ha riconosciuto ieri il presidente dell’Inps Tito Boeri — guarderei con favore alla possibilità che il reddito minimo». Per il momento c’è solo la proposta di un sussidio per gli over 55 che hanno perso il lavoro da finanziare con il taglio delle pensioni medio-alte e i vitalizi. Proposta respinta dal governo.
camillobenso
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il manifesto 24.11.15
Non c’è più l’articolo 18, ma la ripresa non si è vista
L'opinione. Tra pochi giorni il Jobs Act compie nove mesi. Ma siamo sicuri che alle imprese sia servita così tanto la cancellazione della giusta causa?

di Stefano Imbruglia

«L’articolo 18 è la zavorra che impedisce alle aziende italiane di crescere, creare sviluppo e occupazione e conquistare nuovi mercati»; questa cantilena, declinata in vare tonalità, l’abbiamo sentita intonare da politici, esponenti delle associazioni imprenditoriali, editorialisti “salottieri”, imprenditori ed economisti da talk show.
Sentendo quelle frasi, l’ascoltatore-lettore immaginava migliaia di imprenditori nelle loro piccole aziende di 15 dipendenti, passeggiare nervosamente, fumare decine di sigarette e maledire i politici che li tenevano incatenati non abrogando l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Un’abolizione che avrebbe permesso alle imprese italiane di assumere nuovi lavoratori, crescere, sconfiggere il nanismo delle aziende e partire alla conquista del mondo.

Da diversi mesi l’articolo 18 non esiste più per i neoassunti. Ci sono invece i generosi incentivi — elargiti senza alcun vincolo — che permettono alle aziende di risparmiare sulle assunzioni, guadagnandoci nel caso decidessero di licenziare il neoassunto alla fine dei tre anni . E c’è anche un inizio di ripresa economica a riaccendere la speranza. Ci sarebbero, insomma, le condizioni per un sostanzioso aumento delle assunzioni. Invece, di nuovi posti di lavoro se ne registrano pochini.
Perché quindi non assistiamo a un boom di assunzioni?
La risposta è semplice: l’articolo 18 non era il problema delle imprese. Per comprenderlo, sarebbe bastato parlare con gli imprenditori; quelli che tutte le mattine vanno nelle loro aziende o sono in giro per il mondo a “vendere” i loro prodotti ; gente che solo con tanta buona volontà e sacrificio trova il tempo per parlare, collegandosi telefonicamente chissà da quale parte del mondo, con i giornalisti e scoprire che dell’articolo 18, a loro, non importava niente e che i loro problemi erano ( sono) altri.
Problemi sicuramente di scarso appeal mediatico, difficili da trasformare in slogan, inadatti a creare un capro espiatorio da dare in pasto all’opinione pubblica.
L’insegnamento che dovremmo trarre dal flop dell’abolizione dell’articolo18 è che non esistono riforme miracolose, da propagandare sui media, che possano far ripartire il Paese. Forse un ritorno alla “politica del cacciavite” gioverebbe di più alle imprese. Servirebbe soprattutto dare alle imprese un quadro certo nel quale muoversi, senza cambiare le regole a ogni cambio di governo.
Le opinioni che esprimo qui sono il frutto di conversazioni sui problemi dell’impresa, realizzate tra dal 2008 al 2014, con circa 400 imprenditori di tutte le regioni d’Italia e operanti in diversi settori, trasmesse da Radio Radicale.
Anche le associazioni imprenditoriali dovrebbero smettere di accusare sempre gli altri e fare un po’ di autocritica.
Potrebbero iniziare a chiedersi perché pur operando tutte con le stesse regole, talvolta lavorando anche nello stesso settore e a pochi chilometri di distanza tra loro, esistono realtà imprenditoriali floride e altre invece che sono in crisi.
Forse nelle risposte che riusciranno a darsi ci potrebbe essere la via della ripartenza.
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Re: IL LAVORO

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Guerra e precariato, le ciniche verità di Luttwak e Poletti

Scritto il 04/12/15 • LIBRE nella Categoria: idee


Chissà perché in questi giorni ho finito per associare Edward Luttwak a Giuliano Poletti. Sono due persone diversissime per storia cultura e esperienze, l’uno intellettuale militante dell’imperialismo Usa, l’altro burocrate un poco rozzo del pentitismo comunista. Sono persone normalmente lontanissime eppure le loro uscite di questi giorni sui mass media italiani me li hanno fatti sembrare assai vicini. Il primo a La7 ha rivendicato con orgoglio il sostegno degli Stati Uniti ai talebani e a ciò che ne è seguito. È stato un buon affare comunque, ha detto, perché in Afghanistan è crollata l’Unione Sovietica è così l’Occidente ha visto sconfitto il suo principale nemico. Il secondo ha dichiarato inutili le lauree con alti voti, magari conseguite in ritardo, e poi ha rivendicato la necessità di superare il concetto stesso di orario di lavoro, sostituendolo con la retribuzione a prestazione. Io trovo che entrambi abbiano brutalmente descritto la verità. Per Luttwak la guerra si fa per conquistare potere e chi la vince, qualsiasi mezzo usi, ha sempre ragione. Non troveremo in lui le ributtanti ipocrisie sulle guerre umanitarie e democratiche. Le guerre servono a tutelare precisi interessi e per questo devono essere astute e spietate.
Le guerre di Luttwak sono quelle del capitalismo liberista e globalizzato di oggi, quello santificato da George Bush padre allorché dichiarò: il nostro sistema di vita non è negoziabile e verrà difeso in tutti i modi. Giuliano Poletti deve esercitare qualche ipocrisia in più, vista la professione, ma alla fine non scarseggia in brutalità. Il suo attacco al 110 e lode corrisponde ad un mercato del lavoro nel quale i giovani laureati vanno a fare le polpette ai McDonald’s, naturalmente nascondendo il titolo di studio altrimenti non verrebbero assunti. A che serve studiare tanto se i lavori che vengono offerti non corrispondono minimamente alla cultura acquisita? Poco tempo fa ho conosciuto un ricercatore universitario che, stufo di fare la fame, aveva rilevato la bancarella del padre ai mercatini. Poletti sta semplicemente cercando di adeguare le aspettative scolastiche alla realtà del mercato del lavoro. Nel quale serve soprattutto una piccola istruzione di base adatta alla nostra società mediatica e consumista. Solo ad una élite rigidamente selezionata, quasi sempre su basi censitarie, sarà consentito di lavorare esercitando le competenze apprese in lunghi studi. Per la maggioranza dei giovani studiare troppo è tempo buttato. Come aveva lamentato Berlusconi, non può essere che anche l’operaio voglia il figlio dottore.
Le controriforme della scuola di Gelmini e Renzi hanno cominciato ad adeguare, con i tagli, il sistema formativo al mercato del lavoro fondato su precariato e disoccupazione di massa. Meglio studiare meno e prepararsi ai lavoretti precari che verranno offerti, piuttosto che accumulare rabbia per una laurea non riconosciuta da nessuno. Anche sull’orario di lavoro Poletti ha in fondo detto la verità. La globalizzazione finanziaria, l’euro, le politiche di austerità hanno progressivamente distrutto le secolari conquiste del mondo del lavoro. Che per avere un orario definito per la propria prestazione e ridotto a dimensioni umane e legato ad una retribuzione dignitosa, ha speso 150 anni di lotte e miriadi di vittime. Oggi tutto è in discussione e non perché il lavoro non abbia più bisogno delle tutele conquistate, ma perché il capitale ha trovato la forza di distruggerle. Consiglierei a Poletti, che non pare persona particolarmente colta, la lettura di Furore di John Steinbeck. È la storia di una famiglia che, durante la crisi degli anni 30 negli Usa, è costretta a migrare e a trovare lavoro a cottimo. E arrivano in una azienda ove si raccolgono le cassette di arance a cinque centesimi l’una, senza orario di lavoro e se non va bene via.
Il New Deal keynesiano di Roosevelt si rivolse anche contro quel sistema di sfruttamento, che oggi non a caso viene invece riproposto nell’Europa in cui, con l’austerità, trionfa il liberismo e si distruggono lo stato sociale e i diritti del lavoro. Luttwak e Poletti sono dei reazionari, la loro visione del mondo fa venire i brividi e fa tornare indietro di secoli, ma non hanno inventato nulla. Ciò che dicono corrisponde a ciò che si fa realmente nelle nostre società malate. Quindi più che per le loro parole conviene mostrare scandalo per la realtà che cinicamente descrivono e difendono. E soprattutto conviene, quella realtà, provare a cambiarla.
(Giorgio Cremaschi, “Guerra e precariato, le ciniche verità di Luttwak e Poletti”, da “Micromega” del 30 novembre 2015).
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Re: IL LAVORO

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Gli italiani se vogliono sopravvivere devono fare così.



Notizia passata anche al Tg7 delle ore 13,30

Io me la cavo

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04/12/2015
massimo gramellini

C’era una volta, ed era appena due anni fa, una multinazionale portoghese che per le solite logiche finanziarie incomprensibili a noi umani chiuse il suo stabilimento napoletano di cavi d’acciaio, nonostante esportasse con profitto in tutto il mondo. Gli operai e gli ingegneri non capirono, si arrampicarono sui tetti, presidiarono giorno e notte i preziosi macchinari. Per un po’ si illusero che qualcuno venisse a salvarli. Poi compresero che ciascuno si salva da solo. Purché non sia solo, e loro per fortuna erano tanti, uniti dallo stesso bisogno e dallo stesso sogno. Così decisero di investire i proventi della liquidazione, venticinquemila euro a testa, nell’acquisto dell’azienda. A dispetto dei luoghi comuni sul fatalismo meridionale, rinunciarono ai soldi con cui avrebbero potuto campare decorosamente almeno qualche mese per comprarsi la possibilità di tornare a lavorare.

Lo stabilimento venne rimesso all’onore del mondo con l’aiuto di tutti: chi ridava il bianco, chi potava gli alberi, chi aggiustava i rubinetti dei bagni. Anche gli antichi clienti si rifecero sotto, un po’ per tenerezza e molto per convenienza, perché alla Wbo Italcables di Caivano sono davvero bravi. E con l’approssimarsi del Natale, come in ogni favola che si rispetti, arrivò il lieto fine. Ieri il primo carico di cavi d’acciaio diretto a Houston ha varcato i cancelli della fabbrica e negli occhi di quegli uomini rotti a tutte le intemperie è spuntata persino qualche lacrima. Li accompagni l’eco dei nostri applausi. Certe favole sono contagiose.
iospero
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Re: IL LAVORO

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Il Jobs Act non funziona, tutti i dati dello studio che lo certifica
Pubblicato il 14 dicembre 2015 da Gianni Balduzzi

Un working paper di tre studiosi dell’Istituto di di Studi Politici di Parigi e della Scuola Superiore San’Anna fa chiarezza, e il Jobs Act non ne esce affatto bene.

Jobs Act, invece di aumentare diminuisce la proporzione di contratti a tempo indeterminato
L’abolizione del reintegro del lavoratore anche nel caso di licenziamento ingiustificato, e l’introduzione della decontribuzione, erano mirati a diminuire il costo, non solo monetario, dell’assunzione di un lavoratore a tempo indeterminato, nella convinzione che fosse questo costo una delle principali cause del basso tasso di occupazione e soprattutto del crescente ricorso al tempo determinato, che possiamo vedere molto bene di seguito, in particolare per i più giovani (scala a destra). In pochi anni l’incidenza del tempo determinato è salito dal 20% al 60% tra i 15 e i 24 anni.

jobs act, curve sul ricorso al tempo determinato



Non solo, in particolare è salito il ricorso a scadenze sempre più brevi, la maggioranza relativa delle assunzioni è per contratti di 1-6 mesi

jobs act , curve diverse per tipologia di tempo determinato

E si pensava quindi che agendo su questi fattori di costo il tempo indeterminato sarebbe stato la prima scelta dell’imprenditore al momento dell’assunzione.

Non è stato così, o meglio, vi è stata una fase iniziale, addirittura precedente all’entrata in vigore del Jobs Act stesso a marzo 2015, in cui effettivamente le assunzioni a tempo indeterminato sono aumentate, anche se si è trattato in gran parte di trasformazioni di contratti a termine in permanenti più che di nuovi posti di lavoro, ma già da maggio, e poi a giugno, e come sappiamo anche dagli ultimi dati, i nuovi contratti permanenti sono andati a diminuire, così come l’occupazione in generale per chi ha meno di 50 anni

jobs act , assunzioni i primi mesi di applicazione, istogrammi grigi

Cosa è successo?

Job Acts, il boom dei voucher e le minori restrizioni al tempo determinato
Tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015 la decontribuzione, assieme al principio della flebile ripresa avevano provocato l’aumento della proporzione di lavoratori a tempo indeterminato tra i dipendenti, ma poi, all’entrata in vigore del Jobs Act, 3 mesi dopo quella della decontribuzione, le cose sono cambiate come si vede di seguito:

jobs act, curve del ricorso al tempo determinato o indeterminato

Il punto è che da un lato la labilissima ripresa (+0,7% nel 2015) non permette realmente, vista anche la bassa produttività del lavoro, di assumere personale, e difatti si assiste anche a un aumento del ricorso al part time, proprio perchè non vi è spazio spesso per un lavoro a tempo pieno, dall’altro ci sono alcuni strumenti, come il voucher per il lavoro temporaneo che hanno avuto un boom di utilizzo negli anni, e non sono stati limitati dal Jobs Act

jobs act , istogrammi sull'aumento del ricorso ai voucher



Soprattutto, tuttavia, con la nuova legge sul lavoro non è obbligatorio assumere il dipendente a tempo determinato che superi la soglia del 20% di assunti che sono legalmente permessi in un’azienda, ma basta pagare un’ammenda.

Quest per gli studiosi che hanno redatto il working paper è un minore ostacolo all’utilizzo del tempo determinato, particolarmente benvenuto in quelle piccole e medie aziende che non hanno anche culturalmente alcuna voglia di “sposare” un dipendente in questi tempi insicuri e turbolenti, nè di farsi impelagare in costose cause di licenziamento, anche se con un esito che non può più includere il reintegro.

Jobs Act, bassa produttività e poca ricerca le vere cause del suo fallimento
Il Jobs Act quindi non funziona? Diciamo che non poteva essere sufficiente, non in un Paese in cui la produttività del lavoro stabilmente è inferiore a quella del resto d’Europa.

jobs act , curve sulla produttività de lavoro

Quando i margini rimangono bassi c’è poco spazio anche per l’elemento lavoro, ed è su questo fronte che si dovrebbe agire, anche se nel dibattito si continua a parlare di tasse sulla proprietà come la TASI di domanda, ma una domanda di beni a basso margine è praticamente inutile, non crea posti di lavoro, o li crea appunto a basso salario e bassa sicurezza.

Direttamente collegato è il problema inerente alla spesa in Ricerca e Sviluppo, strutturalmente basso in Italia, un Paese dominato da piccole e medie imprese, in cui l’importanza della manifattura, tradizionale culla della ricerca, è in diminuzione, mentre non viene sostituita dai servizi ICT come altrove

jobs act , istogrammi neri e grigi

Il Jobs Act insomma non può bastare, e non sembra sia servito neanche a innescare un’inversione di tendenza


Per vedere i grafici vai a
http://www.termometropolitico.it/120016 ... -dati.html
camillobenso
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Re: IL LAVORO

Messaggio da camillobenso »

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Ex avvocato, ora lavapiatti. E chiudono 50 aziende al giorno

Scritto il 16/12/15 • nella Categoria: segnalazioni



Renzi ha appena ieri fatto una dichiarazione delle sue, una di quelle trovate geniali che lo caratterizzano (come quella famosa, secondo cui l’Italia è più ricca perché sono aumentati i risparmi dei depositi in banca, trascurando il non lieve particolare che sono aumentati i depositi, sì, ma di coloro che guadagnano cifre sopra al milione di reddito, e in questi “depositi a risparmio” devono essere considerati anche i depositi effettuati dai multimilionari).

La notiziona è che ci sono 415.000 posti di lavoro in più; un’impresa epica, perché è pari alla metà di quel milione di posti di lavoro che promise Berlusconi, e per cui costui fu criticato e preso in giro da tutti.

Pensate un po’ che meraviglia. Berlusconi promise un milione di posti di lavoro, senza mantenere la promessa.

Renzi, senza aver fatto analoghe promesse, ha realizzato la metà del risultato, senza particolare sforzo.


Che ci siano 415.000 lavoratori in più è senz’altro vero.

Infatti, considerato che dai dati forniti da “Il Sole 24 Ore”, e di quelli che ci danno le varie categorie professionali, risulta che il reddito medio delle categorie dei professionisti (avvocati, notai, ingegneri, geometri, consulenti del lavoro e commercialisti, psicologi) è diminuito del 50% dal 2008 ad oggi.


Nel 2012 sono 9.000 i professionisti che si sono cancellati dall’albo ed erano 6.000 i cassaintegrati dipendenti di studi professionali; nel 2013 e 2014 sono aumentati ancora, e nel 2015 i dati non sono definitivi ma, solo nella categoria professionale degli avvocati, a giugno 2015 se ne erano cancellati 4.000 (quindi presumibilmente ad oggi saranno circa il doppio).


Va ancora peggio il settore imprenditoriale; nel Veneto si registrano migliaia di chiusure all’anno, in tutta Italia falliscono circa 50 imprese al giorno, quindi a fine anno saranno circa 30.000 le aziende che avranno chiuso i battenti.


In altre parole. Si, è vero che ci sono 415.000 posti di lavoro in più.


Ma perchè, tra imprese fallite e professionisti che hanno chiuso l’attività, molti si sono ridotti a fare gli impiegati nei call center, o a diventare rappresentanti di prodotti con pagamento a percentuale, o perchè hanno stipulato contratti di lavoro determinato per 15/20 giorni.


Considerando che nel numero dei nuovi occupati ci sono anche i contratti a tempo, voglio fare un esempio personale: mi sono cancellato dall’albo degli avvocati nel 2014, quindi rientro in quei 9.000 professionisti in meno; in compenso quest’estate ho lavorato 15 giorni come lavapiatti nel ristorante di una mia amica, che mi ha fatto un regolare contratto di assunzione.


Quindi risulto tra i 415.000 nuovi posti di lavoro del 2015, per quei quindici di lavoro nel ristorante. E se fossi stato assunto per due volte in due posti diversi risulterei ben due volte nella statistica.


A me questa cosa non sembra proprio corretta e mi piacerebbe essere tirato fuori dal numero dei nuovi contratti di lavoro. Idem per quel mio amico che, invece, è stato assunto per 15 giorni come guardia privata presso un’abitazione.


E un altro ha fatto ben due giorni di lavoro come falegname ad una festa di paese per montare il palco, anche lui con regolare contratto di due giorni.

Un altro mio collega, anche lui cancellato dall’albo degli avvocati, prenderà invece la somma di 50 euro al giorno per fare il Babbo Natale in un centro commerciale, anche lui con regolare contratto di lavoro.

Invece un mio compagno dei tempi dell’università, detto Black and Decker, che non si è mai laureato, fa il gigolò e guadagna molto di più di quanto guadagnavo io ai tempi d’oro della mia professione.


Ah, ma mentre scrivo rifletto che purtroppo lui non fa statistica, perché il suo è tutto guadagno in nero.


Ecco… mettiamola così: il calcolo esatto io non so farlo, però direi che da una sommaria statistica in mio possesso i posti di lavoro non sono proprio 415.000 ma al massimo 414.996.


Al di là di questo piccolo aggiustamento alla statistica, che certamente non inficia il dato positivo delineato da Renzi, il quadro è comunque positivo (è infatti sempre Renzi che ha detto: «Ma non preoccupiamoci troppo dei dati… 0.8, 0.7, 0.6, non è tanto quello che conta… l’importante è che il segnale positivo c’è»).


Direi che saremo però vicini ai tempi di una ripresa definitiva, appena gli evasori totali, come il mio amico Black and Decker, verranno scovati e consegnati finalmente alla giustizia.


Qualche giorno fa, uscendo di casa, sono andato prima in lavanderia e poi a comprare una bombola di gas; la lavanderia aveva chiuso, e il consorzio agrario pure (pare con un fallimento di qualche milione di euro); andando a lavorare ad


Ancona, quest’anno, come tutti gli anni mi sono recato nella pizzeria dove andavo a mangiare di solito: chiusa.

Idem per il negozio di kebab che era l’altro mio luogo preferito: chiuso anche lui.

Ieri Stefania è uscita di casa e ha trovato il cartello “chiuso” sul bar storico del paese in cui vive; un bar aperto da decenni.

State sereni. L’Italia riparte e avanti tutta!!!
(Paolo Franceschetti, “I nuovi posti di lavoro non sono 415.000 ma 414.996”, dal blog di Franceschetti del 12 dicembre 2015).
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