Diario della caduta di un regime.
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Diario della caduta di un regime.
Pacche, sorrisi, sussurri: i lobbisti rifanno la Stabilità
(GIANLUCA ROSELLI)
12/11/2015 di triskel182
lobbyPERSUASORI Gli autori occulti degli emendamenti alla manovra di bilancio marcano a uomo i parlamentari ogni giorno. Ci sono tutti: Confindustria, Eni, Lottomatica, Anci, ambientalisti.
Quest’anno li hanno relegati in una stanza apposita.
Ma non è servito a molto, perché lì lasciano borse e giacconi e poi vanno in giro come prima, stazionando davanti alla porta della commissione Bilancio.
Parliamo dei lobbisti.
Ovvero i rappresentanti di enti e associazioni chiamati a fare pressione su parlamentari e partiti affinché, nella legge di Stabilità, passino norme che interessano alle diverse categorie professionali.
Davanti alla commissione negli anni passati era una sorta di suq arabo, specie durante le sedute notturne,quando succedeva di tutto di più, con emendamenti che saltavano fuori come funghi alle due del mattino, per poi magari sparire alle prime luci dell’alba.
E i lobbisti fuori a controllare, monitorare, suggerire, sussurrare.
“Senatore, dove siete arrivati con la votazione?”.
“Onorevole, quell’emendamento allora è passato?”.
PER IL TROPPO CAOS lo scorso anno Laura Boldrini ha deciso divietare l’accesso ai lobbisti al piano dove lavora la commissione Bilancio.
“Ma le vie del signore sono infinite. E anche i corridoi di Montecitorio…”, sorride un rappresentante di Terna.
Così ora, anche a Palazzo Madama, Pietro Grasso ha posto delle restrizioni: ma la stanza a loro adibita è a soli trenta passi dalla commissione Bilancio.
In realtà, complice il cortile, i capannelli si sprecano.
Con una variegata fauna composta da giornalisti, portaborse, rappresentanti degli uffici legislativi dei ministeri, commessi e, appunto, lobbisti.
Che qui svolgono solo la parte finale del loro lavoro: verificano il raggiungimento del risultato.
La vera attività di lobby ing inizia molto prima.
“Innanzitutto c’è un lavoro di monitoraggio su tutto quello che esce dal palazzo:dichiarazioni, tweet, proposte e disegni di legge, emendamenti.
Così, quando un cliente ci contatta, noi sappiamo già a chi chiedere”, racconta Andrea Rosiello, rappresentante di una società di“monitoraggio legislativo e relazioni istituzionali”, che qui sta rappresentando notai e Conf professioni.
“Una volta individuati gli interlocutori”, continua,“si chiede un incontro, durante il quale si sottopone la questione.
E lì si vede se il parlamentare è sensibile al tema oppure è meglio cambiare cavallo”.
La regola è quella di avere contatti con tutte le forze politiche.
A volte sono meglio i peone sei piccoli gruppi, altre no.
Andrea è qui, tra le altre cose, per un emendamento che equipara i liberi professionisti alle Pmi, così da poter accedere ai bandi europei e regionali. Fabrizia Sabbatini, invece, rappresenta i tributaristi e sta spingendo affinché l’aliquota d e l l a g e s t i o n e s e p a r a t a dell’Inps scenda dal 27 al 24 per cento entro il 2019.
LA RIUSCITA dell’attività di lobbying, però, non è affatto scontata, gli ostacoli sono mille.
“Il segreto del successo è far combaciare un interesse particolare con quello più generale.
Ma spesso un interesse si scontra con un altro.
In quel caso si cerca un compromesso, che non sempre riesce”, racconta un altro lobbista, del settore sanità, che vuole restare anonimo.
Davanti alla porta della commissione Bilancio c’è un po’ di tutto. Confindustria, Terna, Enel, Eni, Lottomatica, rappresentanti di categorie, professioni.
Tra le lobby più potenti ci sono gli ambientalisti.
Capitale, grandi gruppi, ma anche società civile. L’Anci, per esempio, sta spingendo per l’inserimento di una norma che, se approvata, solleverà cori di proteste:l’abolizione della possibilità di pagare le multe scontate del 30 per cento se saldate entro un tot numero di giorni.
Niente sconto, più soldi nelle casse dei Comuni. “Basta guardare la filiera degli emendamenti per capire chi sono i maggiori gruppi di pressione”, spiega Silvana Comaroli, senatrice della Lega.
E qui siamo sull’altro fronte, quello dei politici.
Spesso sono loro a rendersi disponibili a essere avvicinati.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 12/11/2015
(GIANLUCA ROSELLI)
12/11/2015 di triskel182
lobbyPERSUASORI Gli autori occulti degli emendamenti alla manovra di bilancio marcano a uomo i parlamentari ogni giorno. Ci sono tutti: Confindustria, Eni, Lottomatica, Anci, ambientalisti.
Quest’anno li hanno relegati in una stanza apposita.
Ma non è servito a molto, perché lì lasciano borse e giacconi e poi vanno in giro come prima, stazionando davanti alla porta della commissione Bilancio.
Parliamo dei lobbisti.
Ovvero i rappresentanti di enti e associazioni chiamati a fare pressione su parlamentari e partiti affinché, nella legge di Stabilità, passino norme che interessano alle diverse categorie professionali.
Davanti alla commissione negli anni passati era una sorta di suq arabo, specie durante le sedute notturne,quando succedeva di tutto di più, con emendamenti che saltavano fuori come funghi alle due del mattino, per poi magari sparire alle prime luci dell’alba.
E i lobbisti fuori a controllare, monitorare, suggerire, sussurrare.
“Senatore, dove siete arrivati con la votazione?”.
“Onorevole, quell’emendamento allora è passato?”.
PER IL TROPPO CAOS lo scorso anno Laura Boldrini ha deciso divietare l’accesso ai lobbisti al piano dove lavora la commissione Bilancio.
“Ma le vie del signore sono infinite. E anche i corridoi di Montecitorio…”, sorride un rappresentante di Terna.
Così ora, anche a Palazzo Madama, Pietro Grasso ha posto delle restrizioni: ma la stanza a loro adibita è a soli trenta passi dalla commissione Bilancio.
In realtà, complice il cortile, i capannelli si sprecano.
Con una variegata fauna composta da giornalisti, portaborse, rappresentanti degli uffici legislativi dei ministeri, commessi e, appunto, lobbisti.
Che qui svolgono solo la parte finale del loro lavoro: verificano il raggiungimento del risultato.
La vera attività di lobby ing inizia molto prima.
“Innanzitutto c’è un lavoro di monitoraggio su tutto quello che esce dal palazzo:dichiarazioni, tweet, proposte e disegni di legge, emendamenti.
Così, quando un cliente ci contatta, noi sappiamo già a chi chiedere”, racconta Andrea Rosiello, rappresentante di una società di“monitoraggio legislativo e relazioni istituzionali”, che qui sta rappresentando notai e Conf professioni.
“Una volta individuati gli interlocutori”, continua,“si chiede un incontro, durante il quale si sottopone la questione.
E lì si vede se il parlamentare è sensibile al tema oppure è meglio cambiare cavallo”.
La regola è quella di avere contatti con tutte le forze politiche.
A volte sono meglio i peone sei piccoli gruppi, altre no.
Andrea è qui, tra le altre cose, per un emendamento che equipara i liberi professionisti alle Pmi, così da poter accedere ai bandi europei e regionali. Fabrizia Sabbatini, invece, rappresenta i tributaristi e sta spingendo affinché l’aliquota d e l l a g e s t i o n e s e p a r a t a dell’Inps scenda dal 27 al 24 per cento entro il 2019.
LA RIUSCITA dell’attività di lobbying, però, non è affatto scontata, gli ostacoli sono mille.
“Il segreto del successo è far combaciare un interesse particolare con quello più generale.
Ma spesso un interesse si scontra con un altro.
In quel caso si cerca un compromesso, che non sempre riesce”, racconta un altro lobbista, del settore sanità, che vuole restare anonimo.
Davanti alla porta della commissione Bilancio c’è un po’ di tutto. Confindustria, Terna, Enel, Eni, Lottomatica, rappresentanti di categorie, professioni.
Tra le lobby più potenti ci sono gli ambientalisti.
Capitale, grandi gruppi, ma anche società civile. L’Anci, per esempio, sta spingendo per l’inserimento di una norma che, se approvata, solleverà cori di proteste:l’abolizione della possibilità di pagare le multe scontate del 30 per cento se saldate entro un tot numero di giorni.
Niente sconto, più soldi nelle casse dei Comuni. “Basta guardare la filiera degli emendamenti per capire chi sono i maggiori gruppi di pressione”, spiega Silvana Comaroli, senatrice della Lega.
E qui siamo sull’altro fronte, quello dei politici.
Spesso sono loro a rendersi disponibili a essere avvicinati.
Articolo intero su Il Fatto Quotidiano del 12/11/2015
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Diario della caduta di un regime.
Spesso sono loro a rendersi disponibili a essere avvicinati.
Perchè è appetibile la professione di parlamentare??????
Perchè oltre allo stipendio sicuro (sopratutto in anni di magra dovuti alla crisi)c'è la possibilità di arrotondare.
Mica penserete che le pressioni delle lobby avvengano gratis. Per simpatia?????
Perchè è appetibile la professione di parlamentare??????
Perchè oltre allo stipendio sicuro (sopratutto in anni di magra dovuti alla crisi)c'è la possibilità di arrotondare.
Mica penserete che le pressioni delle lobby avvengano gratis. Per simpatia?????
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Diario della caduta di un regime.
A farci sognare è ancora Lui
(Andrea Scanzi)
12/11/2015 di triskel182
Con foto.
Io ne ho addirittura il poster in camera a grandezza naturale, mentre indica fiero l’orizzonte accanto a un tizio pasciuto con lo sguardo da upupa mesta (volendovi bene, allego foto del poster).
https://triskel182.wordpress.com/2015/1 ... ea-scanzi/
(Andrea Scanzi)
12/11/2015 di triskel182
Con foto.
Io ne ho addirittura il poster in camera a grandezza naturale, mentre indica fiero l’orizzonte accanto a un tizio pasciuto con lo sguardo da upupa mesta (volendovi bene, allego foto del poster).
https://triskel182.wordpress.com/2015/1 ... ea-scanzi/
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Diario della caduta di un regime.
Corriere 16.11.15
Nati con la «camicia nera». Nel Dna italiano l’ombra del Duce
In “Anoi!” (Rizzoli) Tommaso Cerno collega i difetti del Paese agli errori della stagione mussoliniana
di Antonio Carioti
Lasciti
La martellante comunicazione di Renzi, le felpe di Salvini, i diktat digitali di Grillo, i misteri Crimini impuniti
L’eccidio alla Fiera di Milano del 12 aprile 1928 è stato «cancellato dalla memoria collettiva»
«Quelli che... Mussolini è dentro di noi » cantava Enzo Jannacci, esprimendo con l’immediatezza folgorante dell’artista l’idea che il fascismo avesse lasciato un’eredità profonda nella mentalità e nei comportamenti del popolo italiano. La stessa tesi che Tommaso Cerno, studioso di storia e direttore del «Messaggero Veneto», argomenta con ampiezza nel libro A noi! , un tentativo di leggere l’Italia di oggi come una proiezione di quella che si prosternava (anche se non proprio tutta) ai piedi del Duce.
Se gli italiani sono nati con la camicia, afferma l’autore nell’introduzione, si tratta senza dubbio di una camicia nera.
Così il processo di crescente personalizzazione della politica, che si è avviato con la sbrigativa risolutezza di Craxi, poi ha trovato un interprete pirotecnico in Berlusconi e oggi produce la martellante comunicazione social di Matteo Renzi, le felpe colorate di Matteo Salvini e i diktat digitali di Beppe Grillo, viene visto da Cerno come una riproposizione più o meno aggiornata dello stile mussoliniano. Così come l’occupazione partitocratica della Rai richiamerebbe l’uso sapiente della radio e dei filmati Luce da parte del regime.
Tuttavia il problema non riguarda soltanto i vertici politici. Le considerazioni di Cerno chiamano in causa l’intera società e il costume diffuso. Ad esempio l’ossessione maschilista per il sesso, mascherata da una patina di perbenismo bigotto. Oppure il rapporto incestuoso tra la grande industria e uno Stato mangiatoia, con la pratica antica di privatizzare i profitti e socializzare le perdite a discapito dei contribuenti. Ma anche la pervasività della corruzione, da cui il fascismo, contrariamente a certi stereotipi ripetuti non solo in ambienti nostalgici, non era affatto immune: il ventennio mussoliniano fu tra le altre cose, scrive Cerno, «un continuo cantiere di ruberie, truffe ai danni dello Stato, ricatti economici ai cittadini, prebende, mostruosi conflitti d’interesse».
C’è poi il capitolo tragico dei misteri sanguinosi. L’eccidio dinamitardo alla Fiera di Milano del 12 aprile 1928 (venti morti) rimase non solo impunito, ma appare tuttora indecifrabile anche sul piano della ricostruzione storica, molto peggio della strage di piazza Fontana, anche perché oggi risulta del tutto «cancellato dalla memoria collettiva».
Insomma gli elementi di continuità sono ben solidi, anzi si ha l’impressione che i vizi denunciati da Cerno, in primo luogo la tendenza al conformismo e all’opportunismo che caratterizza gli italiani, emergano dal libro non solo come un pesante lascito del regime, che certo per alcuni versi li portò all’esasperazione, ma anche, forse soprattutto, come fenomeni di lunga durata, dei quali affiorano tracce consistenti anche in epoca prefascista e preunitaria. In fondo Giacomo Leopardi scrisse un non meno sconsolato Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani nell’anno di grazia 1823.
Nati con la «camicia nera». Nel Dna italiano l’ombra del Duce
In “Anoi!” (Rizzoli) Tommaso Cerno collega i difetti del Paese agli errori della stagione mussoliniana
di Antonio Carioti
Lasciti
La martellante comunicazione di Renzi, le felpe di Salvini, i diktat digitali di Grillo, i misteri Crimini impuniti
L’eccidio alla Fiera di Milano del 12 aprile 1928 è stato «cancellato dalla memoria collettiva»
«Quelli che... Mussolini è dentro di noi » cantava Enzo Jannacci, esprimendo con l’immediatezza folgorante dell’artista l’idea che il fascismo avesse lasciato un’eredità profonda nella mentalità e nei comportamenti del popolo italiano. La stessa tesi che Tommaso Cerno, studioso di storia e direttore del «Messaggero Veneto», argomenta con ampiezza nel libro A noi! , un tentativo di leggere l’Italia di oggi come una proiezione di quella che si prosternava (anche se non proprio tutta) ai piedi del Duce.
Se gli italiani sono nati con la camicia, afferma l’autore nell’introduzione, si tratta senza dubbio di una camicia nera.
Così il processo di crescente personalizzazione della politica, che si è avviato con la sbrigativa risolutezza di Craxi, poi ha trovato un interprete pirotecnico in Berlusconi e oggi produce la martellante comunicazione social di Matteo Renzi, le felpe colorate di Matteo Salvini e i diktat digitali di Beppe Grillo, viene visto da Cerno come una riproposizione più o meno aggiornata dello stile mussoliniano. Così come l’occupazione partitocratica della Rai richiamerebbe l’uso sapiente della radio e dei filmati Luce da parte del regime.
Tuttavia il problema non riguarda soltanto i vertici politici. Le considerazioni di Cerno chiamano in causa l’intera società e il costume diffuso. Ad esempio l’ossessione maschilista per il sesso, mascherata da una patina di perbenismo bigotto. Oppure il rapporto incestuoso tra la grande industria e uno Stato mangiatoia, con la pratica antica di privatizzare i profitti e socializzare le perdite a discapito dei contribuenti. Ma anche la pervasività della corruzione, da cui il fascismo, contrariamente a certi stereotipi ripetuti non solo in ambienti nostalgici, non era affatto immune: il ventennio mussoliniano fu tra le altre cose, scrive Cerno, «un continuo cantiere di ruberie, truffe ai danni dello Stato, ricatti economici ai cittadini, prebende, mostruosi conflitti d’interesse».
C’è poi il capitolo tragico dei misteri sanguinosi. L’eccidio dinamitardo alla Fiera di Milano del 12 aprile 1928 (venti morti) rimase non solo impunito, ma appare tuttora indecifrabile anche sul piano della ricostruzione storica, molto peggio della strage di piazza Fontana, anche perché oggi risulta del tutto «cancellato dalla memoria collettiva».
Insomma gli elementi di continuità sono ben solidi, anzi si ha l’impressione che i vizi denunciati da Cerno, in primo luogo la tendenza al conformismo e all’opportunismo che caratterizza gli italiani, emergano dal libro non solo come un pesante lascito del regime, che certo per alcuni versi li portò all’esasperazione, ma anche, forse soprattutto, come fenomeni di lunga durata, dei quali affiorano tracce consistenti anche in epoca prefascista e preunitaria. In fondo Giacomo Leopardi scrisse un non meno sconsolato Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani nell’anno di grazia 1823.
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Diario della caduta di un regime.
Repubblica 19.11.15
Dalla tragedia all’operetta così sopravvive l’eterno fascismo italiano
di Filippo Ceccarelli
Tommaso Cerno ricostruisce nel libro “A Noi!” la presenza di lungo periodo dell’ideologia mussoliniana Che, più del passato, spiega le vicende della politica di oggi
Si può pensare alla storia, ha scritto Regis Debray, come una specie di condominio per cui l’ultimo pianerottolo non assomiglia a quello sottostante, ma a quello due piani sotto. Così, per meglio comprendere il potere e i potenti di questi ultimi anni — uomini forti e soli al comando — sembra inutile soffermarsi sui pallidi, esili, sottili e prudenti capi dc della Prima Repubblica, ma tocca riandare diretti e senza indugi al fascismo.
È quanto ha fatto Tommaso Cerno in questo A noi!, impresso su una copertina d’iper grafica pop littoria, sottititolo: Cosa ci resta del fascismo nell’epoca di Berlusconi, Grillo e Renzi (Rizzoli). E per quanto sia evidente che di quel ventennio ci restano diverse cose, la novità è che forse solo un giornalista, scrittore e conduttore televisivo quarantenne — giusto l’età del premier — poteva trarre vantaggio dal tempo lungo per «riscoprire» con occhi distaccati la figura di Mussolini: «Come un biologo al microscopio ».
Perciò soffermandosi, più che sui disastrosi eventi, sui simboli, i miti, i rituali, le coreografie, gli stereotipi e i linguaggi che spesso a suon di metafora quell’esecrato regime ha silenziosamente, forse inconsapevolmente, comunque inesorabilmente trasmesso alla politica e in special modo ai leader della Seconda Repubblica: dal Cinghialone con gli stivali al Cavaliere con il Sole in tasca fino al Rottamatore futurista; senza tralasciare, nell’incalzante disamina, il razzismo e la volgarità del Senatùr o gli insulti del Buffone a cinquestelle, ritenuto alfiere di una sorta di «sansepolcrismo post-moderno».
Nel frattempo, osserva Cerno, il celebre balcone di Piazza Venezia è chiuso con un lucchetto. Ma oggi non c’è chiavistello, tanto meno copyright, che possano bloccare l’eredità del duce quanto a dispositivi di comando, spasmo di comunicazione (iconografia, musica), centralità del corpo, ricadute carismatiche, culto della personalità e indeterminatezza tra ciò che è del capo e ciò che è di tutti.
Non è questione di revisionismo. Tanto meno si tratta di scandalo o iconoclastia a buon mercato. Sia pure talvolta un po’ forzato per la foga dell’autore a tutto comprendere nel meccanismo analogico-comparativo, appare chiaro che antifascista fu l’Italia solo dal 1946 fin verso la metà degli anni 80. Poi basta, e su quella stagione si chiude una parentesi.
Forse c’entrano le morti di Moro e di Berlinguer, entrambe all’altezza del dramma geopolitico della guerra fredda. Forse in questo ignaro mussolinismo ha un peso il carattere nazionale con le sue ineffabili regolarità: a partire dalla figura della mamma (Rosa, per inciso, si chiamavano le mamme di Mussolini e di Berlusconi, oltre a quella di Andreotti) per finire con la vocazione al trasformismo e/o all’intrigo di palazzo e al tradimento. E certo gli esempi non mancano.
Del resto con la personalizzazione verticale della leadership e il revival del decisionismo ecco che la democrazia, almeno come la si intendeva nella Costituzione, tende a farsi optional, seconda scelta, o finzione. Consumata nella vergogna la «Repubblica dei partiti», il potere torna quello di prima e riemerge l’eterno fascismo all’italiana, l’inconfessabile continuità di cui hanno scritto Pier Paolo Pasolini e Giorgio Bocca. Un’attitudine mentale, uno stato latente dell’animo che si riconosce e si misura più nell’opportunismo o nell’obbedienza dei governati che non nelle tecniche di chi, ieri da un balcone con la faccia cattiva e la voce grossa, oggi con le chiacchiere e le smancerie in tv o sui social, si ostina spesso invano a governarli.
In realtà, come ha scritto Bernardo Valli, «la storia, più che ripetersi, ti insegue nella memoria quando gli avvenimenti che la ritmano hanno qualche somiglianza con quelli di un tempo tragico e remoto, rimasto inchiodato nei ricordi. Basta allungare la mano per rianimare fatti di 70-80 anni fa». Sennonché la replica di questo fascismo domestico va in scena secondo modelli sempre più degradati. Come se la storia si riducesse a operetta, eterna commedia,grottesco cinepanettone, farsa terribilmente oscena: ma troppo lontana nei suoi esiti dalla tragedia fascista.
Così fra le ricostruzioni
hard- boiled di Benito, Claretta e donna Rachele che si prendono a spintoni e a sberle a Salò e il racconto di Veronica o delle «cene eleganti» del berlusconismo terminale il congegno forse si riscalda; così come fra lo scempio di Piazzale Loreto e i servizi sociali di Cesano Boscone si frappone un’aggrovigliata disparità di destini che rende insieme più leggero e pesante ogni paragone.
Ma la grande lezione, la migliore scoperta è che l’uomo forte è in realtà assai debole. O almeno: gli stanno addosso la vita privata, la famiglia, le amanti, le brutte figure, i dossier, la malattia, la sua stessa non infrequente follia. E non si capisce mai se tutto questo sia un bene o un male; se per caso il saluto stentoreo che dà titolo al libro di Tommaso Cerno, A noi!, non si possa dirottare in un più consolante congedo: «a loro!», poveri diavoli del potere, sempre diversi e uguali nel comune destino che li aspetta al varco.
IL LIBRO Tommaso Cerno, A noi! ( Rizzoli, pagg. 307, euro 19)
Dalla tragedia all’operetta così sopravvive l’eterno fascismo italiano
di Filippo Ceccarelli
Tommaso Cerno ricostruisce nel libro “A Noi!” la presenza di lungo periodo dell’ideologia mussoliniana Che, più del passato, spiega le vicende della politica di oggi
Si può pensare alla storia, ha scritto Regis Debray, come una specie di condominio per cui l’ultimo pianerottolo non assomiglia a quello sottostante, ma a quello due piani sotto. Così, per meglio comprendere il potere e i potenti di questi ultimi anni — uomini forti e soli al comando — sembra inutile soffermarsi sui pallidi, esili, sottili e prudenti capi dc della Prima Repubblica, ma tocca riandare diretti e senza indugi al fascismo.
È quanto ha fatto Tommaso Cerno in questo A noi!, impresso su una copertina d’iper grafica pop littoria, sottititolo: Cosa ci resta del fascismo nell’epoca di Berlusconi, Grillo e Renzi (Rizzoli). E per quanto sia evidente che di quel ventennio ci restano diverse cose, la novità è che forse solo un giornalista, scrittore e conduttore televisivo quarantenne — giusto l’età del premier — poteva trarre vantaggio dal tempo lungo per «riscoprire» con occhi distaccati la figura di Mussolini: «Come un biologo al microscopio ».
Perciò soffermandosi, più che sui disastrosi eventi, sui simboli, i miti, i rituali, le coreografie, gli stereotipi e i linguaggi che spesso a suon di metafora quell’esecrato regime ha silenziosamente, forse inconsapevolmente, comunque inesorabilmente trasmesso alla politica e in special modo ai leader della Seconda Repubblica: dal Cinghialone con gli stivali al Cavaliere con il Sole in tasca fino al Rottamatore futurista; senza tralasciare, nell’incalzante disamina, il razzismo e la volgarità del Senatùr o gli insulti del Buffone a cinquestelle, ritenuto alfiere di una sorta di «sansepolcrismo post-moderno».
Nel frattempo, osserva Cerno, il celebre balcone di Piazza Venezia è chiuso con un lucchetto. Ma oggi non c’è chiavistello, tanto meno copyright, che possano bloccare l’eredità del duce quanto a dispositivi di comando, spasmo di comunicazione (iconografia, musica), centralità del corpo, ricadute carismatiche, culto della personalità e indeterminatezza tra ciò che è del capo e ciò che è di tutti.
Non è questione di revisionismo. Tanto meno si tratta di scandalo o iconoclastia a buon mercato. Sia pure talvolta un po’ forzato per la foga dell’autore a tutto comprendere nel meccanismo analogico-comparativo, appare chiaro che antifascista fu l’Italia solo dal 1946 fin verso la metà degli anni 80. Poi basta, e su quella stagione si chiude una parentesi.
Forse c’entrano le morti di Moro e di Berlinguer, entrambe all’altezza del dramma geopolitico della guerra fredda. Forse in questo ignaro mussolinismo ha un peso il carattere nazionale con le sue ineffabili regolarità: a partire dalla figura della mamma (Rosa, per inciso, si chiamavano le mamme di Mussolini e di Berlusconi, oltre a quella di Andreotti) per finire con la vocazione al trasformismo e/o all’intrigo di palazzo e al tradimento. E certo gli esempi non mancano.
Del resto con la personalizzazione verticale della leadership e il revival del decisionismo ecco che la democrazia, almeno come la si intendeva nella Costituzione, tende a farsi optional, seconda scelta, o finzione. Consumata nella vergogna la «Repubblica dei partiti», il potere torna quello di prima e riemerge l’eterno fascismo all’italiana, l’inconfessabile continuità di cui hanno scritto Pier Paolo Pasolini e Giorgio Bocca. Un’attitudine mentale, uno stato latente dell’animo che si riconosce e si misura più nell’opportunismo o nell’obbedienza dei governati che non nelle tecniche di chi, ieri da un balcone con la faccia cattiva e la voce grossa, oggi con le chiacchiere e le smancerie in tv o sui social, si ostina spesso invano a governarli.
In realtà, come ha scritto Bernardo Valli, «la storia, più che ripetersi, ti insegue nella memoria quando gli avvenimenti che la ritmano hanno qualche somiglianza con quelli di un tempo tragico e remoto, rimasto inchiodato nei ricordi. Basta allungare la mano per rianimare fatti di 70-80 anni fa». Sennonché la replica di questo fascismo domestico va in scena secondo modelli sempre più degradati. Come se la storia si riducesse a operetta, eterna commedia,grottesco cinepanettone, farsa terribilmente oscena: ma troppo lontana nei suoi esiti dalla tragedia fascista.
Così fra le ricostruzioni
hard- boiled di Benito, Claretta e donna Rachele che si prendono a spintoni e a sberle a Salò e il racconto di Veronica o delle «cene eleganti» del berlusconismo terminale il congegno forse si riscalda; così come fra lo scempio di Piazzale Loreto e i servizi sociali di Cesano Boscone si frappone un’aggrovigliata disparità di destini che rende insieme più leggero e pesante ogni paragone.
Ma la grande lezione, la migliore scoperta è che l’uomo forte è in realtà assai debole. O almeno: gli stanno addosso la vita privata, la famiglia, le amanti, le brutte figure, i dossier, la malattia, la sua stessa non infrequente follia. E non si capisce mai se tutto questo sia un bene o un male; se per caso il saluto stentoreo che dà titolo al libro di Tommaso Cerno, A noi!, non si possa dirottare in un più consolante congedo: «a loro!», poveri diavoli del potere, sempre diversi e uguali nel comune destino che li aspetta al varco.
IL LIBRO Tommaso Cerno, A noi! ( Rizzoli, pagg. 307, euro 19)
-
- Messaggi: 1188
- Iscritto il: 21/02/2012, 22:55
Re: Diario della caduta di un regime.
Terrorismo, il Ministro Alfano rassicura gli italiani "In Italia si può stare tranquilli"
News Italiane - 13 ore fa
Dove si baserà la tranquillità del ministro?
Mi imbatto in una lettera di un agente...
26/01/2015 06:05
LA LETTERA
«Polizia pronta per i terroristi? Bugie»
Un agente della Polfer di Bologna: «Siamo i meno tutelati di tutti
Non abbiamo cani o robot antiesplosivo e neppure i giubbetti antiproiettile»
Cari colleghi, io sono sconcertato. Da qualche giorno non si fa altro che parlare di altissimo rischio attentati da parte di estremisti islamici.
Il Governo dichiara misure eccezionali e qualcuno dice persino che la nostra Polizia è preparata a fronteggiare i terroristi.
Beh io non sopporto più la propaganda politica e le bugie dei nostri vertici (coperti anche da qualche nostro sindacalista).
Nonostante abbia compiuto il mio quindicesimo anno di matrimonio con la divisa non mi sento assolutamente preparato
ad affrontare terroristi. Io lavoro nella stazione che è stata teatro del più vile attentato terroristico della storia italiana eppure
dopo più di un trentennio mi sento vulnerabile come si sentivano i colleghi di allora. Nessuno mi ha mai insegnato come
fronteggiare un uomo con Kalashnikov e giubbetto antimissile (io ho solo una misera beretta e il giubbetto me lo hanno pure tolto).
Nessuno mi affianca un cane o un robot anti esplosivo ogni volta che devo controllare un bagaglio abbandonato.
Nessuno mi permette di utilizzare uno spray urticante se mi trovo di fronte un pazzo con un coltello.
Nessuno mi ha dato un metal detector. Sono anni che dal Ministero promuovono sperimentazioni di divise operative,
nuovi strumenti di difesa e regole di ingaggio ecc. ecc.
Solo propaganda.
La verità? Io, agente della Polizia di Stato, che lavoro in uno dei posti più a rischio attentati in Italia sono il meno tutelato di tutti.
La mia divisa è la meno operativa possibile: pantaloni classici (buoni per la prima comunione), scarpette di gomma nere
(stile usciere comunale) camicia con cravatta (ottima per le foto ricordo), berretto rigido (da banda musicale di paese),
radio portatile (tipo mattone)...può bastare?!? Così conciato non contrasto proprio nessun terrorista. Siccome noi ci teniamo
alla nostra vita e badiamo all'operatività della divisa che indossiamo sborsiamo di tasca nostra diverse centinaia di euro l'anno
per sistemare quello che i burocrati del nostro Ministero non sono capaci di fare. Acquistiamo in proprio fondine operative,
stivaletti militari, pantaloni e camice su misura, maglioni, cappelli...
Tutto questo è normale?
Oggi ho appreso che qualche collega ha deciso persino di comprarsi il giubbetto antiproiettile. Si perché noi della Polfer di Bologna
la sera vogliamo tornare a casa. Voi ci mandate allo sbaraglio senza preparazione, senza mezzi e senza tutele. Finitela di pensare
al mattinale e alle statistiche. Non siamo marionette con la cartella dei nominativi in mano. Noi dobbiamo difendere i cittadini da
minacce e da delinquenti veri!!!
Un saluto
Giulio
Redazione online
http://www.iltempo.it/cronache/2015/01/ ... -1.1372008
...se autentica dice ...più di quel che dice.
News Italiane - 13 ore fa
Dove si baserà la tranquillità del ministro?
Mi imbatto in una lettera di un agente...
26/01/2015 06:05
LA LETTERA
«Polizia pronta per i terroristi? Bugie»
Un agente della Polfer di Bologna: «Siamo i meno tutelati di tutti
Non abbiamo cani o robot antiesplosivo e neppure i giubbetti antiproiettile»
Cari colleghi, io sono sconcertato. Da qualche giorno non si fa altro che parlare di altissimo rischio attentati da parte di estremisti islamici.
Il Governo dichiara misure eccezionali e qualcuno dice persino che la nostra Polizia è preparata a fronteggiare i terroristi.
Beh io non sopporto più la propaganda politica e le bugie dei nostri vertici (coperti anche da qualche nostro sindacalista).
Nonostante abbia compiuto il mio quindicesimo anno di matrimonio con la divisa non mi sento assolutamente preparato
ad affrontare terroristi. Io lavoro nella stazione che è stata teatro del più vile attentato terroristico della storia italiana eppure
dopo più di un trentennio mi sento vulnerabile come si sentivano i colleghi di allora. Nessuno mi ha mai insegnato come
fronteggiare un uomo con Kalashnikov e giubbetto antimissile (io ho solo una misera beretta e il giubbetto me lo hanno pure tolto).
Nessuno mi affianca un cane o un robot anti esplosivo ogni volta che devo controllare un bagaglio abbandonato.
Nessuno mi permette di utilizzare uno spray urticante se mi trovo di fronte un pazzo con un coltello.
Nessuno mi ha dato un metal detector. Sono anni che dal Ministero promuovono sperimentazioni di divise operative,
nuovi strumenti di difesa e regole di ingaggio ecc. ecc.
Solo propaganda.
La verità? Io, agente della Polizia di Stato, che lavoro in uno dei posti più a rischio attentati in Italia sono il meno tutelato di tutti.
La mia divisa è la meno operativa possibile: pantaloni classici (buoni per la prima comunione), scarpette di gomma nere
(stile usciere comunale) camicia con cravatta (ottima per le foto ricordo), berretto rigido (da banda musicale di paese),
radio portatile (tipo mattone)...può bastare?!? Così conciato non contrasto proprio nessun terrorista. Siccome noi ci teniamo
alla nostra vita e badiamo all'operatività della divisa che indossiamo sborsiamo di tasca nostra diverse centinaia di euro l'anno
per sistemare quello che i burocrati del nostro Ministero non sono capaci di fare. Acquistiamo in proprio fondine operative,
stivaletti militari, pantaloni e camice su misura, maglioni, cappelli...
Tutto questo è normale?
Oggi ho appreso che qualche collega ha deciso persino di comprarsi il giubbetto antiproiettile. Si perché noi della Polfer di Bologna
la sera vogliamo tornare a casa. Voi ci mandate allo sbaraglio senza preparazione, senza mezzi e senza tutele. Finitela di pensare
al mattinale e alle statistiche. Non siamo marionette con la cartella dei nominativi in mano. Noi dobbiamo difendere i cittadini da
minacce e da delinquenti veri!!!
Un saluto
Giulio
Redazione online
http://www.iltempo.it/cronache/2015/01/ ... -1.1372008
...se autentica dice ...più di quel che dice.
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Diario della caduta di un regime.
I GIORNI DEL KAOS
IL RITORNO DEL MINCUL POP
A Sky Il ministro: “Che gli agenti siano impreparati lo dicono i professionisti della paura”
Il solito Alfano preferisce non rispondere
e se la prende con il Fatto: gli dà “ansia”
» SILVIA D’ONGHIA
Ci sono cose che un ministro
dell’Interno, nei giorni
in cui il mondo sta vivendo
sotto scacco, non dovrebbe
dire, e forse nemmeno pensare:
non parliamo dell’ammis -
sione di essere stato a un concerto
di Tiziano Ferro, proprio
mentre Bruxelles blindata
dava la caccia ai terroristi.
Parliamo di un’altra dichiarazione:
“Nel nostro Paese si
può stare tranquilli, il sistema
di intelligence funziona”, ha
detto ieri Angelino Alfano durante
“L’intervista” di Maria
Latella su SkyTg24 . Va tutto
bene, abbiamo tutto sotto
controllo, anche se, certo,
“nessun Paese è a rischio zero”.
E allora di cosa dovremmo
preoccuparci? Del Fa tto
Q u ot i d ia n o , “p r of e s si o n is t a
dell’ansia”.
PER IL TITOLARE del Viminale
la colpa è tutta nostra, che ci
permettiamo di denunciare le
gravi carenze in cui versano le
forze di polizia. Maria Latella
gli ha chiesto: “È vero o no che,
come ha scritto Il Fatto Quotidiano,
uno su due dei duemila
agenti che saranno di stanza
a Roma non ha mai sparato?”.
Non potendo rispondere –
perché sarebbe stato costretto
ad ammettere l’amara verità –
Alfano ha pensato bene di
prendersela con “i professionisti
dell’ansia. Sono gli stessi
che facevano i servizi sulla sicurezza
di Expo. Il loro obiettivo
è non farci stare bene. Lo
ricorda cosa combinarono per
Expo? Facevano le finte interviste
lì davanti... Abbiamo avuto
20 milioni di visitatori e
abbiamo avuto poche denunce
per fatterelli locali”. C’è da
augurarsi che #Italiastaitran -
quilla non faccia la fine di #E -
nricostaisereno. Magari però,
nel frattempo, il ministro Alfano
potrebbe rispondere a
quelle che sono le istanze dei
suoi stessi uomini (anche loro,
evidentemente, “professioni -
sti dell’ansia”). Che il personale
della polizia in servizio a Roma
non sia addestrato non lo
diciamo noi, ma i numeri: nel
primo semestre di quest’anno
–secondo quanto evidenziato
dal Silp Cgil il 13 ottobre scorso
– la formazione teorica del
personale si è attestata al 40
per cento, le tecniche operative
al 30,6 per cento e i tiri sono
passati dal 35 al 40 per cento.
Questo significa che il 60
per cento dei poliziotti non ha
imbracciato un’arma.
VENERDÌ scorso, annunciando
il piano per il Giubileo che
entra in vigore oggi, il Prefetto
Gabrielli ha dovuto ammettere
una “cr i ti c it à” n el l ’e qu ipaggiamento:
i giubbotti antiproiettile
in dotazione alla polizia
sono quasi tutti scaduti e
la gara per l’appr ovvigi onamento
dei dieci mila nuovi si è
chiusa 15 giorni fa. Secondo il
Siulp, sarebbe in corso il collaudo.
Tutti i sindacati di polizia
denunciano che il numero
degli agenti sul territorio è
largamente insufficiente. Su
un organico di 260 mila persone
(tra tutte le forze dell’or -
dine), spending review, pensionamenti
e blocco del turn
over hanno provocato, secondo
il Sap, “un taglio di 18 mila
poliziotti e 45 mila tra carabinieri,
finanzieri e altre forze
locali”. Esiste poi un problema
molto serio di sicurezza informatica.
Non è mai stata reintrodotta
–spiega l’Associazio -
ne Funzionari di Polizia – la
norma che, fino al 2011, “im -
poneva agli internet point e a
tutti coloro che offrono il servizio
di connessione ad internet
all’interno della propria
attività l’obbligo di identificare
i fruitori del servizio e di richiedere
la licenza al Questore”.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.ilfattoquotidiano.
IL RITORNO DEL MINCUL POP
A Sky Il ministro: “Che gli agenti siano impreparati lo dicono i professionisti della paura”
Il solito Alfano preferisce non rispondere
e se la prende con il Fatto: gli dà “ansia”
» SILVIA D’ONGHIA
Ci sono cose che un ministro
dell’Interno, nei giorni
in cui il mondo sta vivendo
sotto scacco, non dovrebbe
dire, e forse nemmeno pensare:
non parliamo dell’ammis -
sione di essere stato a un concerto
di Tiziano Ferro, proprio
mentre Bruxelles blindata
dava la caccia ai terroristi.
Parliamo di un’altra dichiarazione:
“Nel nostro Paese si
può stare tranquilli, il sistema
di intelligence funziona”, ha
detto ieri Angelino Alfano durante
“L’intervista” di Maria
Latella su SkyTg24 . Va tutto
bene, abbiamo tutto sotto
controllo, anche se, certo,
“nessun Paese è a rischio zero”.
E allora di cosa dovremmo
preoccuparci? Del Fa tto
Q u ot i d ia n o , “p r of e s si o n is t a
dell’ansia”.
PER IL TITOLARE del Viminale
la colpa è tutta nostra, che ci
permettiamo di denunciare le
gravi carenze in cui versano le
forze di polizia. Maria Latella
gli ha chiesto: “È vero o no che,
come ha scritto Il Fatto Quotidiano,
uno su due dei duemila
agenti che saranno di stanza
a Roma non ha mai sparato?”.
Non potendo rispondere –
perché sarebbe stato costretto
ad ammettere l’amara verità –
Alfano ha pensato bene di
prendersela con “i professionisti
dell’ansia. Sono gli stessi
che facevano i servizi sulla sicurezza
di Expo. Il loro obiettivo
è non farci stare bene. Lo
ricorda cosa combinarono per
Expo? Facevano le finte interviste
lì davanti... Abbiamo avuto
20 milioni di visitatori e
abbiamo avuto poche denunce
per fatterelli locali”. C’è da
augurarsi che #Italiastaitran -
quilla non faccia la fine di #E -
nricostaisereno. Magari però,
nel frattempo, il ministro Alfano
potrebbe rispondere a
quelle che sono le istanze dei
suoi stessi uomini (anche loro,
evidentemente, “professioni -
sti dell’ansia”). Che il personale
della polizia in servizio a Roma
non sia addestrato non lo
diciamo noi, ma i numeri: nel
primo semestre di quest’anno
–secondo quanto evidenziato
dal Silp Cgil il 13 ottobre scorso
– la formazione teorica del
personale si è attestata al 40
per cento, le tecniche operative
al 30,6 per cento e i tiri sono
passati dal 35 al 40 per cento.
Questo significa che il 60
per cento dei poliziotti non ha
imbracciato un’arma.
VENERDÌ scorso, annunciando
il piano per il Giubileo che
entra in vigore oggi, il Prefetto
Gabrielli ha dovuto ammettere
una “cr i ti c it à” n el l ’e qu ipaggiamento:
i giubbotti antiproiettile
in dotazione alla polizia
sono quasi tutti scaduti e
la gara per l’appr ovvigi onamento
dei dieci mila nuovi si è
chiusa 15 giorni fa. Secondo il
Siulp, sarebbe in corso il collaudo.
Tutti i sindacati di polizia
denunciano che il numero
degli agenti sul territorio è
largamente insufficiente. Su
un organico di 260 mila persone
(tra tutte le forze dell’or -
dine), spending review, pensionamenti
e blocco del turn
over hanno provocato, secondo
il Sap, “un taglio di 18 mila
poliziotti e 45 mila tra carabinieri,
finanzieri e altre forze
locali”. Esiste poi un problema
molto serio di sicurezza informatica.
Non è mai stata reintrodotta
–spiega l’Associazio -
ne Funzionari di Polizia – la
norma che, fino al 2011, “im -
poneva agli internet point e a
tutti coloro che offrono il servizio
di connessione ad internet
all’interno della propria
attività l’obbligo di identificare
i fruitori del servizio e di richiedere
la licenza al Questore”.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.ilfattoquotidiano.
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Diario della caduta di un regime.
I GIORNI DEL KAOS
Servizio appena andato in onda a L'aria che tira:
MAFIA E ISIS ALLEATE I SICILIA
^^^^^
Isis e 'ndrangheta, convergenze parallele tra tagliagole | ytali
ytali.com/2015/.../isis-e-ndrangheta-convergenze-parallele-tra-tagliagole/
31 ago 2015 - ALESSANDRO TARSIA* ISIS e 'ndrangheta, a prima vista, sembrano ... Ci sono anche presunti legami diretti, come ha denunciato il procuratore di Reggio Calabria,… ... Per ragioni di Stato o per evidente affezione al proprio capo non .... indagare sull'imprenditore, sul politico, sull'uomo dei servizi segreti, ...
^^^^^
E' per questo che Angelino tre caffè, ci ha detto di stare tranquilli????????????????
Servizio appena andato in onda a L'aria che tira:
MAFIA E ISIS ALLEATE I SICILIA
^^^^^
Isis e 'ndrangheta, convergenze parallele tra tagliagole | ytali
ytali.com/2015/.../isis-e-ndrangheta-convergenze-parallele-tra-tagliagole/
31 ago 2015 - ALESSANDRO TARSIA* ISIS e 'ndrangheta, a prima vista, sembrano ... Ci sono anche presunti legami diretti, come ha denunciato il procuratore di Reggio Calabria,… ... Per ragioni di Stato o per evidente affezione al proprio capo non .... indagare sull'imprenditore, sul politico, sull'uomo dei servizi segreti, ...
^^^^^
E' per questo che Angelino tre caffè, ci ha detto di stare tranquilli????????????????
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Diario della caduta di un regime.
il manifesto 24.15.11
Il ritorno del mostro Marino. E il circolo Pd si schiera con lui
Roma. Un incontro pubblico con l'ex sindaco in una sezione di periferia manda all'aria il diktat renziano. Il commissario Orfini aveva tentato di annullare l'iniziativa ma il marziano viene accolto come una star
di Eleonora Martini
ROMA Rimette piede per la prima volta da ex in una sezione dell’unico partito di cui si sente «nativo» e lo fa in periferia, a San Basilio, borgata di tradizione operaia per eccellenza dell’estremo est della Capitale. E dire che il parterre composto di militanti e iscritti si divide in due, sarebbe fare un regalo alla componente renziana.
«Grande sindaco», «noi Marino lo votiamo come premier»: viene accolto così, Ignazio Marino, quando arriva nella piccola sala del circolo di San Basilio stipata all’inversosimile da almeno duecento persone che non riescono ad entrare tutte e affollano il piazzale antistante incuranti della pioggia e del freddo autunnale calati infine anche su Roma.
Tre quarti dei presenti gli si stringe attorno in un caloroso benvenuto iniziale, lo applaude ad ogni passaggio e interrompe continuamente il giovane segretario del circolo Matteo Sculco, reo ai loro occhi di essersi messo dalla parte sbagliata e costretto più volte a minacciare di sospendere il dibattito. Benvenuti nel nuovo Pd.
Per capire bisogna fare un passo indietro. Decaduto da sindaco, messo all’angolo, rimasto solo anche se ufficialmente ancora non fuori dal partito di cui rivendica la totale e «unica» appartenenza, l’ex “marziano” continua però ancora a far paura nelle stanze del Nazareno. Perfino l’ incontro di ieri sera, organizzato per parlare de «Il futuro del Pd, il futuro di Roma: la fine dell’esperienza in Campidoglio e le prospettive future», si è trasformato in un piccolo psicodramma — più che un caso politico — interno al partito di Renzi. Il quale su Marino aveva imposto il silenzio sperando di ottenerne in breve tempo l’oblio.
Così, non appena divulgata la notizia dell’iniziativa voluta dagli iscritti del circolo di via Corinaldo e inserita in un calendario di tre dibattiti (il 2 dicembre sarà la volta di Fabrizio Barca e l’11 dicembre quella di Roberto Morassut) volti a «promuovere il più ampio confronto possibile» sulla vicenda che ha segnato la fine del governo di centrosinistra della capitale, il presidente/commissario Matteo Orfini è andato su tutte le furie, minacciando fuoco e fiamme e chiedendo che la serata venisse annullata (così riferiscono voci di corridoio rigorosamente sotto anonimato).
Matteo Sculco, il segretario del circolo che nel rapporto di Barca è considerato tra i più «virtuosi», «ponte tra Stato e società», con i suoi 115 iscritti veri del 2014, anche se il tesseramento triennale iniziato a settembre registra un calo notevole fermandosi al momento a 40 tesserati, deve essersi spaventato molto. Tanto da aver subito diramato un comunicato per rettificare che la discussione «non intende rilanciare la figura di Ignazio Marino ma semmai celebrare i funerali della sua fallimentare esperienza amministrativa» e ringraziare «il Commissario Orfini e il Gruppo Capitolino uscente del Pd per il coraggio e la determinazione dimostrati nel chiudere un’esperienza negativa».
«Sia chiaro che noi abbiamo sempre appoggiato le scelte del commissario, non abbiamo alcuna intenzione di porci in contrasto con Orfini o con la sub-commissaria del IV Municipio», scrive Sculco. E lo ripete fischiato dai militanti come ogni volta che eccede negli omaggi al presidente del Pd.
Il segretario del circolo dà comunque «atto all’ex sindaco di essersi impegnato per questo territorio», e di essere stato «presente almeno in campagna elettorale», ma «le promesse sono state disattese», afferma. E insiste su un punto: «La comunità del Pd, da Orfini fino ai circoli e ai segretari, hanno bisogno di unità e di stringersi in solidarietà ma questo tipo di discussioni gettano le basi per la buona politica perché non bisogna avere paura di confrontarsi con nessuno. La mancata analisi della sconfitta elettorale del 2008 – arriva ad osare Sculco — ha portato il Pd ad intrecciare a volte perfino un rapporto quasi consociativo con l’allora sindaco Alemanno».
Marino ribatte punto per punto alle critiche avanzate dal suo giovane compagno di partito, ricostruisce i passaggi del suo governo e tutti gli ostacoli che gli si sono parati dinanzi, soprattutto quelli posti da un partito che «per la prima volta dal 1944 aveva vinto in tutti i municipi». «Quale occasione migliore per lavorare su Roma che quella in cui il Pd governa tutto, dal livello nazionale a quello locale?», chiede Marino. «Eppure – continua — abbiamo assistito solo ad una spospensione della democrazia. Anche la stagione dei commissari e dei subcommissari non è che questo, come di sospensione di democrazia si tratta quando si ricomincia ad evocare la necessità di rinviare le elezioni di primavera».
E mentre il partito di Renzi discute anche di cambiare le regole delle primarie per fermare i candidati scomodi, Marino avverte: «I suicidi avvengono nelle stanze chiuse: della mia sorte si è deciso in una stanza chiusa, così come nel 2008 si scelse la candidatura di Rutelli. Ma io d’ora in poi adrò ovunque sia necessario, per salvare il Pd dal suo suicidio».
Il ritorno del mostro Marino. E il circolo Pd si schiera con lui
Roma. Un incontro pubblico con l'ex sindaco in una sezione di periferia manda all'aria il diktat renziano. Il commissario Orfini aveva tentato di annullare l'iniziativa ma il marziano viene accolto come una star
di Eleonora Martini
ROMA Rimette piede per la prima volta da ex in una sezione dell’unico partito di cui si sente «nativo» e lo fa in periferia, a San Basilio, borgata di tradizione operaia per eccellenza dell’estremo est della Capitale. E dire che il parterre composto di militanti e iscritti si divide in due, sarebbe fare un regalo alla componente renziana.
«Grande sindaco», «noi Marino lo votiamo come premier»: viene accolto così, Ignazio Marino, quando arriva nella piccola sala del circolo di San Basilio stipata all’inversosimile da almeno duecento persone che non riescono ad entrare tutte e affollano il piazzale antistante incuranti della pioggia e del freddo autunnale calati infine anche su Roma.
Tre quarti dei presenti gli si stringe attorno in un caloroso benvenuto iniziale, lo applaude ad ogni passaggio e interrompe continuamente il giovane segretario del circolo Matteo Sculco, reo ai loro occhi di essersi messo dalla parte sbagliata e costretto più volte a minacciare di sospendere il dibattito. Benvenuti nel nuovo Pd.
Per capire bisogna fare un passo indietro. Decaduto da sindaco, messo all’angolo, rimasto solo anche se ufficialmente ancora non fuori dal partito di cui rivendica la totale e «unica» appartenenza, l’ex “marziano” continua però ancora a far paura nelle stanze del Nazareno. Perfino l’ incontro di ieri sera, organizzato per parlare de «Il futuro del Pd, il futuro di Roma: la fine dell’esperienza in Campidoglio e le prospettive future», si è trasformato in un piccolo psicodramma — più che un caso politico — interno al partito di Renzi. Il quale su Marino aveva imposto il silenzio sperando di ottenerne in breve tempo l’oblio.
Così, non appena divulgata la notizia dell’iniziativa voluta dagli iscritti del circolo di via Corinaldo e inserita in un calendario di tre dibattiti (il 2 dicembre sarà la volta di Fabrizio Barca e l’11 dicembre quella di Roberto Morassut) volti a «promuovere il più ampio confronto possibile» sulla vicenda che ha segnato la fine del governo di centrosinistra della capitale, il presidente/commissario Matteo Orfini è andato su tutte le furie, minacciando fuoco e fiamme e chiedendo che la serata venisse annullata (così riferiscono voci di corridoio rigorosamente sotto anonimato).
Matteo Sculco, il segretario del circolo che nel rapporto di Barca è considerato tra i più «virtuosi», «ponte tra Stato e società», con i suoi 115 iscritti veri del 2014, anche se il tesseramento triennale iniziato a settembre registra un calo notevole fermandosi al momento a 40 tesserati, deve essersi spaventato molto. Tanto da aver subito diramato un comunicato per rettificare che la discussione «non intende rilanciare la figura di Ignazio Marino ma semmai celebrare i funerali della sua fallimentare esperienza amministrativa» e ringraziare «il Commissario Orfini e il Gruppo Capitolino uscente del Pd per il coraggio e la determinazione dimostrati nel chiudere un’esperienza negativa».
«Sia chiaro che noi abbiamo sempre appoggiato le scelte del commissario, non abbiamo alcuna intenzione di porci in contrasto con Orfini o con la sub-commissaria del IV Municipio», scrive Sculco. E lo ripete fischiato dai militanti come ogni volta che eccede negli omaggi al presidente del Pd.
Il segretario del circolo dà comunque «atto all’ex sindaco di essersi impegnato per questo territorio», e di essere stato «presente almeno in campagna elettorale», ma «le promesse sono state disattese», afferma. E insiste su un punto: «La comunità del Pd, da Orfini fino ai circoli e ai segretari, hanno bisogno di unità e di stringersi in solidarietà ma questo tipo di discussioni gettano le basi per la buona politica perché non bisogna avere paura di confrontarsi con nessuno. La mancata analisi della sconfitta elettorale del 2008 – arriva ad osare Sculco — ha portato il Pd ad intrecciare a volte perfino un rapporto quasi consociativo con l’allora sindaco Alemanno».
Marino ribatte punto per punto alle critiche avanzate dal suo giovane compagno di partito, ricostruisce i passaggi del suo governo e tutti gli ostacoli che gli si sono parati dinanzi, soprattutto quelli posti da un partito che «per la prima volta dal 1944 aveva vinto in tutti i municipi». «Quale occasione migliore per lavorare su Roma che quella in cui il Pd governa tutto, dal livello nazionale a quello locale?», chiede Marino. «Eppure – continua — abbiamo assistito solo ad una spospensione della democrazia. Anche la stagione dei commissari e dei subcommissari non è che questo, come di sospensione di democrazia si tratta quando si ricomincia ad evocare la necessità di rinviare le elezioni di primavera».
E mentre il partito di Renzi discute anche di cambiare le regole delle primarie per fermare i candidati scomodi, Marino avverte: «I suicidi avvengono nelle stanze chiuse: della mia sorte si è deciso in una stanza chiusa, così come nel 2008 si scelse la candidatura di Rutelli. Ma io d’ora in poi adrò ovunque sia necessario, per salvare il Pd dal suo suicidio».
-
- Messaggi: 17353
- Iscritto il: 06/04/2012, 20:00
Re: Diario della caduta di un regime.
La Stampa 24.11.15
La (perdente) strategia dell’attesa
di Federico Geremicca
Se non fossimo nel pieno di una cupa emergenza-terrorismo, quel che va accadendo nel Pd intorno alle primarie meriterebbe l’attenzione che di solito si riserva a vicende che assumono un valore emblematico.
Infatti, con comunicati anonimamente provenienti da Largo del Nazareno e interviste-fotocopia dei due vicesegretari del Pd, sono stati annunciati slittamenti di consultazioni già fissate (a Napoli e a Milano) e introduzione di nuove regole che hanno aggiunto confusione a confusione e gettato le premesse per nuove e feroci polemiche.
Sintetizziamo i fatti. Novità numero uno: il Pd si accingerebbe a lanciare una sorta di “primarie day” per il 20 di marzo. La notizia non è priva di effetti: se ufficializzata, infatti, confermerebbe l’orientamento del governo di fissare la data delle elezioni amministrative nel lontano prossimo giugno (ipotesi contestata da chi teme un ulteriore aumento dell’astensionismo) e determinerebbe il rinvio di primarie già convocate - e con tanto di candidati - a Milano e a Napoli per il 7 di febbraio.
Novità numero due, la più discussa e sorprendente: dopo l’annuncio della candidatura a Napoli di Antonio Bassolino, si starebbe pensando ad introdurre una nuova regola che vieterebbe a chi è già stato sindaco in passato di partecipare alle primarie. Una sorta di norma apparsa così smaccatamente “ad personam” da far insorgere molti: a cominciare da Umberto Ranieri, pure avversario storico di Bassolino e suo possibile competitor alle primarie.
Le due novità hanno scatenato un piccolo putiferio e ondate di dichiarazioni polemiche. Ne segnaliamo due, per la loro rilevanza e oggettività. La prima è di Giuliano Pisapia, sindaco di Milano, che ieri ha annotato: le nostre primarie di coalizione si terranno il 7 febbraio, se poi il Pd vuol fare le sue in altra data, faccia pure... La seconda è di Antonio Bassolino, resa sventolando un flash di agenzia: le regole delle primarie non si cambiano in corsa, ha ricordato, lo ha detto Matteo Renzi in tv il 21 ottobre scorso...
Che le regole non si cambiano in corsa, in verità, Matteo Renzi l’aveva detto e ripetuto anche molto prima: ad esempio all’epoca delle primarie che ingaggiò - da sfidante - prima per la candidatura a premier e poi per la guida del Pd. Ieri, invece, di fronte al turbinio di polemiche, ha liquidato la questione così: “Propongo una moratoria sulle primarie fino a gennaio, quando la Direzione deciderà... E anche di scegliere il 20 marzo come data nazionale per fare le primarie”. Dunque, se ne dovrebbe riparlare tra due mesi: il che appare - e immaginiamo che anche Renzi ne sia cosciente - più una speranza che una concreta possibilità... L’ipotesi più probabile, infatti, è che il Pd vada avviandosi verso due mesi di caos, con i danni e le tensioni prevedibili.
Come già osservato altre volte, fa sensazione l’incapacità a decidere del Renzi-segretario. L’idea-guida - mentre opera freneticamente e con buon successo come premier - resta quella fin qui nota: attendere, far decantare, sperare che il tempo porti con sè soluzioni per questa o quella grana. Con De Luca non è andata così, però, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Anche con Ignazio Marino non è andata così. E il rischio - ma potremmo dire la certezza - è che anche con Antonio Bassolino non andrà così: e infatti l’ex sindaco ieri ha avviato la sua campagna infischiandosene di “norme ad personam” che sarà comunque difficile far passare.
Il punto vero è che ogni volta che è costretto ad occuparsi del Pd, dei suoi problemi e della sua organizzazione, Renzi appare colto da un insopprimile fastidio. Governa, di fatto, prescindendo dal Partito democratico, visto che ne è il segretario: ma quando deve occuparsene, si imbatte in liturgie, regole e tempi di discussione che proprio non riesce a sopportare. Il risultato è una sorta di anarchia che, soprattutto in periferia, sta trasformando il Pd in una somma di tribù in guerra tra loro.
Può essere - e non è affatto escluso - che il premier-segretario abbia ragione nel considerare i partiti politici così come li conosciamo strumenti obsoleti, non più vitali e non più in grado di far da collante tra il paese reale e le istituzioni. Può essere sia così: ma onestamente, l’ultimo che dovrebbe considerare un partito inutile e quasi una palla al piede, è l’uomo che ne è il segretario...
La (perdente) strategia dell’attesa
di Federico Geremicca
Se non fossimo nel pieno di una cupa emergenza-terrorismo, quel che va accadendo nel Pd intorno alle primarie meriterebbe l’attenzione che di solito si riserva a vicende che assumono un valore emblematico.
Infatti, con comunicati anonimamente provenienti da Largo del Nazareno e interviste-fotocopia dei due vicesegretari del Pd, sono stati annunciati slittamenti di consultazioni già fissate (a Napoli e a Milano) e introduzione di nuove regole che hanno aggiunto confusione a confusione e gettato le premesse per nuove e feroci polemiche.
Sintetizziamo i fatti. Novità numero uno: il Pd si accingerebbe a lanciare una sorta di “primarie day” per il 20 di marzo. La notizia non è priva di effetti: se ufficializzata, infatti, confermerebbe l’orientamento del governo di fissare la data delle elezioni amministrative nel lontano prossimo giugno (ipotesi contestata da chi teme un ulteriore aumento dell’astensionismo) e determinerebbe il rinvio di primarie già convocate - e con tanto di candidati - a Milano e a Napoli per il 7 di febbraio.
Novità numero due, la più discussa e sorprendente: dopo l’annuncio della candidatura a Napoli di Antonio Bassolino, si starebbe pensando ad introdurre una nuova regola che vieterebbe a chi è già stato sindaco in passato di partecipare alle primarie. Una sorta di norma apparsa così smaccatamente “ad personam” da far insorgere molti: a cominciare da Umberto Ranieri, pure avversario storico di Bassolino e suo possibile competitor alle primarie.
Le due novità hanno scatenato un piccolo putiferio e ondate di dichiarazioni polemiche. Ne segnaliamo due, per la loro rilevanza e oggettività. La prima è di Giuliano Pisapia, sindaco di Milano, che ieri ha annotato: le nostre primarie di coalizione si terranno il 7 febbraio, se poi il Pd vuol fare le sue in altra data, faccia pure... La seconda è di Antonio Bassolino, resa sventolando un flash di agenzia: le regole delle primarie non si cambiano in corsa, ha ricordato, lo ha detto Matteo Renzi in tv il 21 ottobre scorso...
Che le regole non si cambiano in corsa, in verità, Matteo Renzi l’aveva detto e ripetuto anche molto prima: ad esempio all’epoca delle primarie che ingaggiò - da sfidante - prima per la candidatura a premier e poi per la guida del Pd. Ieri, invece, di fronte al turbinio di polemiche, ha liquidato la questione così: “Propongo una moratoria sulle primarie fino a gennaio, quando la Direzione deciderà... E anche di scegliere il 20 marzo come data nazionale per fare le primarie”. Dunque, se ne dovrebbe riparlare tra due mesi: il che appare - e immaginiamo che anche Renzi ne sia cosciente - più una speranza che una concreta possibilità... L’ipotesi più probabile, infatti, è che il Pd vada avviandosi verso due mesi di caos, con i danni e le tensioni prevedibili.
Come già osservato altre volte, fa sensazione l’incapacità a decidere del Renzi-segretario. L’idea-guida - mentre opera freneticamente e con buon successo come premier - resta quella fin qui nota: attendere, far decantare, sperare che il tempo porti con sè soluzioni per questa o quella grana. Con De Luca non è andata così, però, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Anche con Ignazio Marino non è andata così. E il rischio - ma potremmo dire la certezza - è che anche con Antonio Bassolino non andrà così: e infatti l’ex sindaco ieri ha avviato la sua campagna infischiandosene di “norme ad personam” che sarà comunque difficile far passare.
Il punto vero è che ogni volta che è costretto ad occuparsi del Pd, dei suoi problemi e della sua organizzazione, Renzi appare colto da un insopprimile fastidio. Governa, di fatto, prescindendo dal Partito democratico, visto che ne è il segretario: ma quando deve occuparsene, si imbatte in liturgie, regole e tempi di discussione che proprio non riesce a sopportare. Il risultato è una sorta di anarchia che, soprattutto in periferia, sta trasformando il Pd in una somma di tribù in guerra tra loro.
Può essere - e non è affatto escluso - che il premier-segretario abbia ragione nel considerare i partiti politici così come li conosciamo strumenti obsoleti, non più vitali e non più in grado di far da collante tra il paese reale e le istituzioni. Può essere sia così: ma onestamente, l’ultimo che dovrebbe considerare un partito inutile e quasi una palla al piede, è l’uomo che ne è il segretario...
Chi c’è in linea
Visitano il forum: Bing [Bot], Google [Bot], Semrush [Bot] e 8 ospiti